mercoledì 8 dicembre 2004

un convegno a Napoli delle donne del Prc
Rosa Luxemburg

Liberazione 8.12.04
L'attualità della teorica rivoluzionaria al centro
di un seminario internazionale a Napoli
Rosa Luxemburg
pensiero in divenire

Ebrea, polacca, migrante, comunista eretica, pacifista radicale. Quando cammina zoppica leggermente ma non indugia, non smette di andare, di interrogare. Rosa Luxemburg, fin dalla sua biografia, è il simbolo di un pensiero e di una pratica politica in movimento, in divenire. Aperti. E' il simbolo di quello che Gramsci chiama la connessione sentimentale col popolo, con quella "massa" che Luxemburg pone al centro della sua riflessione, della sua idea di rivoluzione.
Nata il 5 marzo 1871 a Zamosc, nella Polonia russa, muore a Berlino nel 1919. Con lei viene ucciso, per volere dei socialdemocratici, anche Karl Liebknecht. La loro morte segna la sconfitta della generazione spartachista. Una sconfitta che non vuole dire fine della speranza nella rivoluzione. Rosa Luxemburg può infatti lasciare Berlino, fuggire al destino che le hanno riservato i riformisti di allora. Invece decide di stare. Non per vittimismo o perché non ami la vita. Ma perché così è convinta che l'idea della rivoluzione possa continuare, possa rinascere. «Come Cassandra di Christa Wolf, che può fuggire da Troia in fiamme e invece decide di restare, Rosa diventa testimone per le generazioni future» sottolinea con un accostamento felice Imma Barbarossa a chiusura del convegno - dedicato alla storica figura del movimento operaio - da lei coordinato insieme a Simona Ricciardelli (entrambe esponenti del Forum delle donne del Prc).
Per l'intera giornata di sabato alla Città della scienza di Bagnoli (Napoli) si sono intrecciate le voci di coloro che, in questi anni, hanno custodito la memoria della nota, ma spesso dimenticata, pensatrice. In sala anche una classe del liceo Labriola e la presidente della circoscrizione di Bagnoli Antonella Cammardella.
Promosso dalla Convenzione permanente di donne contro le guerre, dal Forum e Transform Italia il seminario ha il merito di aver riportato alla luce la straordinaria attualità di Luxemburg e di aver messo in connessione associazioni, singoli e singole. Ora si tratta di fare un passo in più, come propone Lidia Menapace, portavoce della Convenzione: «Dobbiamo cogliere l'occasione di questo convegno per costruire una rete nazionale e internazionale». Uno degli obiettivi potrebbe essere quello di dare vita all'edizione critica completa delle opere. Oggi sono introvabili. Non sono sugli scaffali delle librerie. Eppure il suo pensiero è di grande attualità. Spiega Menapace: «Non di filologia si tratta, ma di una occasione per rimettere in moto i cervelli di sinistra».
Il suo e nostro tempo
In quale direzione? Intanto si deve e si può partire dalla grande attualità di Rosa Luxemburg, da quella che Rina Gagliardi definisce la «congruità del suo tempo col nostro tempo». La grande innovazione tecnologica, la convinzione delle sorti progressive che si imbatte contro la guerra come "necessità" per tentare di uscire dalla crisi del capitalismo, la sconfitta del riformismo. Tutti elementi che rimbalzano da quei giorni ai nostri giorni, fino alla crisi della globalizzazione capitalistica, alla guerra permanente. Luxemburg vede giusto fin da allora. E per questo viene osteggiata sia dai socialdemocratici che dalla ortodossia comunista. A noi restano i suoi scritti non sistematici, non dogmatici, ma aperti come germogli, come un pensiero da continuare. Una sorta di mappa, di cartografia dell'azione politica presente, con almeno tre coordinate, bene sintetizzate dalla giornalista di Liberazione. Primo: «L'idea cruciale di "Socialismo o barbarie"»; secondo: «L'originale concezione del processo rivoluzionario, concepito come "rivoluzionamento" di tutto l'ordine esistente, non come sola conquista del potere politico»; terzo: «La centralità della lotta contro la guerra e il militarismo, dunque la fondazione di un pacifismo strategico».
Socialismo o barbarie
Lidia Cirillo dei Quaderni Viola chiede: «Mentre possiamo dire, a cuor leggero, che cosa sia la barbarie, non abbiamo forse perso la nozione di che cosa sia il socialismo?». Il segretario di Rifondazione comunista, Fausto Bertinotti, rilancia: «"Socialismo o barbarie" continuo ad usarlo sapendo bene che cosa è la barbarie e non sapendo più con esattezza cosa è il socialismo. Il socialismo, come insegna Luxemburg, è uno strumento di ricerca, è un pensiero aperto. E' il discorso zapatista di camminare domandando». Apertura che vale anche per la forma partito. Un partito che, sottolinea Domenico Jervolino dell'Università di Napoli, ha messo la sua innovazione al primo posto. Si tratta allora di salvare l'appartenenza come elemento laico e di rimettere in discussione il partito come guida unica della rivoluzione. In questo Luxemburg è un lume ancora acceso. Profondamente critica dell'apparato burocratico, è però protagonista della nascita di tre partiti. Sottolinea Bertinotti: «Il partito come il sindacato non sono assoluti. Sono gli strumenti che in una certa fase interpretano il conflitto di massa, sono parte di un tutto, dentro una necessità storica».
Riscoperta nel '68
Nel '68 il movimento studentesco e operaio riscoprono Luxemburg su cui era caduto l'anatema di Stalin. La riscoprono come esempio di un pensiero antidogmatico, di una idea della rivoluzione opposta alla presa del potere. Grazie all'edizione curata da Lelio Basso degli Scritti politici un'intera generazione si confronta con la sua idea dell'autonomia dei movimenti di massa e della rivoluzione come «rivoluzionamento», come processo aperto. Oggi, spiega Aldo Tortorella dell'Associazione per il rinnovamento della sinistra con un contributo scritto, questo pensiero è l'occasione per ripensare criticamente la propria storia e andare avanti. Con un punto fisso: il pacifismo, l'antimilitarismo. La pensatrice polacca resta in carcere due anni per i suoi discorsi contro la guerra. E' convinta che, qualsiasi sia il suo esito, rappresenti una sconfitta per il movimento operaio. E' la vittoria del capitalismo. «Rosa - spiega Menapace - non ha un pensiero sistematico né sul pacifismo, né sul femminismo. Ma la sua opposizione alla guerra è feroce. E' per noi importante averla come punto di riferimento: si tratta di trovare direttamente nella nostra storia esempi che oggi guidino il nostro pacifismo». Così è. Almeno per le "Donne in nero" che con Nadia Nappo raccontano il loro incontro con Luxemburg.
Genealogie
L'autrice della Accumulazione del capitale è al centro di un intreccio di storie, di persone, uomini e donne. Il suo sentire incontra quello di tante altre e altri. E' così per Hanna Arendt. In un bel intervento Maria Letizia Pelosi (Università di Napoli) traccia le fila di questo dialogo a distanza, che a volte emerge in maniera esplicita, altre volte si può ricostruire in filigrana come orizzonte comune in cui pensiero e azione sono tutt'uno. E' così anche per Vera Lombardi, la socialista eretica scomparsa da circa un decennio e ricordata da Guido D'Agostino (Istituto campano della storia della resistenza): napoletana, iscritta negli ultimi anni della sua vita a Rifondazione, è un altro esempio di una ricerca aperta e radicale. La lista è lunga. Arriva fino a Gramsci, alla Scuola di Francoforte. Non è un caso. «Luxemburg - sottolinea Gabriella Bonacchi della Fondazione "Lelio Basso" - non ha dato vita a scuole, ma a genealogie». Il suo pensiero - precisa Scipione Semeraro (Transform Italia) - è antipedagogico, non autoritario, come si vede dall'esperienza che fa nella scuola di partito dei socialdemocratici dove insegna teoria politica in maniera innovativa.
Le rose e le spine
Il pensiero di Luxemburg vive. Si diffonde. L'8 gennaio a Berlino sulla sua tomba si recano in tanti e tante. Con mazzi di rose. Lo racconta Christiane Reymann (Fondazione Rosa Luxemburg). E' un appuntamento della Pds subito assunto dal partito della Sinistra europea che, fin dalla sua nascita, ha detto no allo stalinismo e nella teorica ha trovato un punto di riferimento forte. E' la scelta di una radicalità che non si fa dogma, ma partecipazione. Come le sculture di Ingeborg Hunziger, ospite del convegno: lavori dedicati all'ebrea polacca rivoluzionaria che non sono esposti nei musei, ma vivono per le strade, per le piazze, tra la gente.

Angela Azzaro
angela. azzaro@liberazione. it

Oms:
allarme depressione

www.corriere.it 8.12.04
Le malattie mentali si apprestano a superare le cardiovascolari
Oms: malattie disabilitanti, è allarme depressione
Passerà dal 4° al 2° posto mondiale entro 15 anni. Soffrono del «male oscuro» oltre 150 milioni di persone

GINEVRA (SVIZZERA) - Il «male di vivere» si appresta a diventare una delle malattie più pericolose del ventunesimo secolo. La depressione infatti fa oltre 150 milioni di «vittime» al mondo e dal quarto posto attuale passerà al secondo nel 2020 tra le malattie che provocano maggiore disabilità e giorni persi di lavoro, più del diabete, dell'ipertensione, dell'artrite.
ALLARME
A lanciare l'ennesimo allarme sulla depressione, il ben noto «male oscuro» che spegne la gioia di vivere, è l'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) secondo cui le malattie mentali sono quelle che procurano i maggiori danni all'individuo e alla stessa collettività: il 12% dei dayl (ossia disabilità, carico sociale e mortalità) relativi a tutte le malattie è dovuto proprio alle malattie mentali contro un 10% delle malattie cardiovascolari ed un 5% di tutte le forme tumorali e neoplasie. «La situazione è critica ma non per questo va sottovalutata ed occultata: tutti siamo chiamati a farci i conti - dice Michele Tansella, direttore del Centro di Ricerca Oms dell'Università di Verona - c'è bisogno di migliorare le conoscenze per migliorare le cure: per farlo occorrono risorse per la ricerca scientifica e psicosociale».
MALATTIE MENTALI: COLPITE 45O MILIONI DI PERSONE
Per l'Oms a fronte dei 450 milioni di persone che, almeno una volta nella vita, si imbattono in un disturbo mentale c'è bisogno di risorse nettamente superiori al 2% destinato dal fondo sanitario ai servizi di salute mentale: in Italia è sotto il 5%, lontana dal 12% dei dayl. «Occorrono più risorse per la ricerca, per la cura e assistenza dei pazienti, direi il doppio di quelle dedicate ai tumori - avverte Tansella - ma anche più informazione sulla materia». Accanto alla depressione c'è poi la schizofrenia (25 milioni di vittime) l'abuso di alcool e droga (90 milioni) e ansia e stress (che coinvolgono centinaia di milioni di persone). «Molti progressi si sono fatti per la cura di queste malattie invalidanti - conclude Tansella - ma ancora non basta per prevenire l'insorgenza della cronicità».

(la stessa notizia appare anche su molti altri quotidiani nazionali)

sinistra
un'intervista del Corsera a Fausto Bertinotti

Corriere della Sera 8.12.04
BERTINOTTI
«Si torni al proporzionale per motivi di igiene politica»
«Una testa, un voto. Il maggioritario porta a una semplificazione tipo Coppi-Bartali»
di Daria Gorodisky

ROMA - Fausto Bertinotti, il suo partito, Rifondazione comunista, come accoglie la proposta «più maggioritario» lanciata da Massimo D’Alema?
«Per me bisogna fare l’opposto: andare verso il proporzionale. È una questione di igiene politica, di garanzia di pluralismo, di verifica dei reali rapporti fra partiti e società. Ognuno deve contare per il voto che esprime. Una testa, un voto; tot voti, tot rappresentanza… Il resto è del demonio».
Però torna alla ribalta un altro elemento di divisione nell’alleanza.
«È un argomento importante, ma non è la questione principale. Certo, bisogna vedere come può vivere il pluralismo politico nella Gad, o come vogliamo chiamarla. La riduzione di grandi aggregazioni politiche a una sola è estranea alla cultura di questo Paese e crea forte conflitto per la sopravvivenza. Inoltre, in Italia abbiamo visto che il sistema maggioritario ha solo peggiorato la qualità della politica».
In che modo?
«Abbiamo più personalizzazione, il che significa un presidenzialismo di fatto, un’americanizzazione della politica italiana che non auspichiamo. Più spettacolarizzazione, fondata su due personaggi, su una semplificazione binaria del tipo Coppi-Bartali. Più partiti. Infine, ma non per importanza, più potere di ricatto delle piccole formazioni sulla coalizione: è sotto gli occhi di tutti che chi raccoglie consensi da prefisso elettorale può avere un numero di parlamentari alto».
E il doppio turno? Per alcuni, favorirebbe i Ds e voi.
«È una proposta che va in senso maggioritario. E poi di che cosa si parla esattamente? Di modello francese? Dunque di una strada presidenzialista? Ritengo persino inutile addentrarsi in dettagli tecnici».
Ancora D’Alema sostiene che sarebbe una bella idea accorpare regionali e politiche, in aprile.
«Solo se fosse la conseguenza di una battaglia che fa cadere il governo. Come ipotesi istituzionale no, sarebbe inaccettabile oltre che di impossibile realizzazione».
Molti pareri diversi, in politica interna, estera, fiscale, però per ora nella corsa elettorale il patto tra voi e il centrosinistra tiene. La futura prospettiva di governo invece spacca Rifondazione. Che cosa succederà al Congresso?
«Sì, ci sono molti problemi veri da noi. Ci saranno 5 mozioni di cui una sola guidata dal segretario, da me; ma è la prova che si tratta di un partito democratico. Non ritengo che la questione se partecipare o meno a un futuro governo di centrosinistra sia è una delle principali: per me pari son, dipende da quale terreno in quel momento sarebbe più efficace. Però domando a tutti: come si fa a pensare di cacciare Berlusconi senza assumersi responsabilità nel provarci?»
In fatto di politica estera, il presidente della Repubblica Ciampi si è dichiarato favorevole ad abolire l’embargo sull'esportazione delle armi alla Cina. Voi invece siete contrari.
«Noi crediamo che questa globalizzazione produca una vera crisi di civiltà. In politica economica il capo dello Stato pensa sostanzialmente che l’innovazione porti necessariamente il progresso. Io, invece, credo che possa portare una crisi di civiltà. Con tutto il rispetto, direi che Ciampi non vede il carattere distruttivo di questa situazione. Si continua sulla via degli anni 80 e 90, mentre secondo me dovrebbero proprio cambiare le categorie politiche economiche».

sinistra
Pietro Ingrao

il Tempo 8.12.04
Ingrao: «Anche il Pci pagava i suoi uomini»
Il leader storico della sinistra operaia bacchetta Prodi: «Non accetto il termine mercenari»
L'ex presidente della Camera attacca anche l’Ulivo: «Macchè regime: il fascismo non consentiva neanche l’opposizione»
di LUIGI FRASCA
anche il Corriere della Sera, più in breve, pubblica la medesima dichiarazione
«NON accetto il termine "mercenari". Mercenario è chi fa una cosa solo per soldi. Che siano professionisti o volontari, entrambi agiscono per convinzione. Non ci trovo nulla di male se un partito paga i propri militanti. Il Pci pagava molti dei suoi giovani sostenitori, anche se la maggior parte di loro agiva da volontario». Per Romano Prodi arriva anche la scomunica di un grande vecchio della sinistra italia, Pietro Ingrao. L’ex leader dell’ala operaista del Pci si concede anche una battuta scherzosa contro il Professore: «Io non sono rientrato nella schiera dei mercenari perché sono diventato deputato parlamentare molto presto, nel ’48. Venivo remunerato dignitosamente anche se una bella fetta se la prendeva il partito».
L’ex presidente della Camera [...] ha preso di mira anche altre dichiarazioni fatte da esponenti del centrosinistra: «Quello di Berlusconi è un regime? Esiterei sulla parola regime. Ho vissuto sotto il fascismo, l’ho conosciuto ed era un’organizzazione più complicata. Se regime vuol dire che ci non ci sono forze che si oppongono, allora non è vero che oggi in Italia esista un regime. Il vantaggio di Silvio Berlusconi sono i suoi soldi. Ma questo lui non lo nasconde». Per Ingrao la discriminante che può ricondurre il dialogo tra i poli a una dimensione di convivenza civile è un’altra: «Il confronto è l’unico metodo che consente la legittimazione tra gli avversari. Per me è meglio un giovane di An o di Forza Italia, di chi non va a votare, o lo fa solo sulla base dell’ultima parola che ha sentito. Preferisco il dibattito, anche acceso, di chi ha idee diverse dalle mie, al silenzio che è la cosa peggiore. Io preferire che Berlusconi, però, dimostrasse il suo rispetto per l’avversario, accettando subito il confronto politico con Romano Prodi».
[...]

sinistra
chiude “la Rivista del manifesto”

Aprileonline.info 8.12.04
SINISTRA. ULTIMO NUMERO PER “LA RIVISTA DEL MANIFESTO”
''il manifesto'' spiazza un’altra volta
Mentre il quotidiano prepara un’assemblea con Asor Rosa, il mensile annuncia la chiusura. ''Contenitori'' e ''contenuti'' non si incontrano?

Ogni giornale di sinistra che chiude, è banale dirlo, è una voce in meno che ci aiuta a pensare. Quando ad annunciare la chiusura, dopo 57 numeri, è “la Rivista del manifesto” il dispiacere si acutizza. Firme autorevoli – da Lucio Magri a Pietro Ingrao, da Rossana Rossanda a Aldo Tortorella, da Giuseppe Chiarante a Fausto Bertinotti – ci hanno accompagnato per cinque anni rinverdendo (anche nella grafica e nel formato) “il manifesto” delle origini, quello nato nel giugno del 1969.
La chiusura è motivata politicamente in modo trasparente, come vuole una buona tradizione: c’è un contrasto nel comitato di direzione sull’analisi e sulle prospettive. Lucio Magri, il direttore, con un lungo articolo ne ricostruisce le dinamiche e annuncia di ritenere esaurito il suo ruolo insieme alla “spinta propulsiva” che aveva generato l’idea progettuale della rivista.
La sconfitta è cocente. Erano tornati a lavorare insieme gli esponenti più autorevoli della “sinistra comunista”, quella nata nell’XI Congresso del Pci del 1966, quando Pietro Ingrao sollevò dubbi sul centralismo democratico e sulla strategia del partito. Da quel Congresso presero le mosse gli ingraiani, alcuni dei quali finirono poi radiati dal Pci nel 1969 con un voto dello stesso Ingrao, il quale sarebbe arrivato nelle stanze di via Tomacelli con venticinque anni di ritardo. Quel ritrovarsi lasciava ben sperare sulla ricerca da condurre insieme e dava perfino un sapore sentimentale al ricongiungimento.
Sulle ragioni delle divisioni politiche i lettori avranno di che farsi un’opinione leggendo l’ultimo numero in edicola del mensile. Il punto dirimente resta però il giudizio sulla storia del comunismo italiano e sulla recente “svolta” di Rifondazione, da alcuni ritenuta eccessiva per le conclusioni che trae in merito sia alla nonviolenza come metodo e strategia sia alla ricollocazione del Prc che gira le spalle alla tradizione comunista. Ci sono poi giudizi diversi sull’urgenza di un “nuovo contenitore” dove raccogliere la sinistra critica e alternativa.
C’è chi – come ha fatto recentemente Alberto Asor Rosa sul “manifesto quotidiano” – si pone il problema di unificare il più possibile quel 13 per cento che non si riconosce nei Ds e chi individua in Rifondazione, proprio grazie alla sua “svolta”, il punto di partenza di un eventuale rimescolamento politico e organizzativo. E c’è chi, come Magri e Rossanda, ricostruisce pure le occasioni perdute e che non ritorneranno, come la fase seguita alla sconfitta elettorale del centrosinistra nel 2001, quando Luigi Pintor si impegnò a lanciare inascoltato un dibattito sulla stessa prospettiva che oggi si vuole attualizzare.
A sconcertare, a dire la verità, è che il mensile annunci il suo ultimo numero lo stesso giorno in cui Gabriele Polo, direttore del quotidiano, in prima pagina scrive un editoriale per dire che il 15 gennaio (forse al Teatro Brancaccio, dove nacque nel 1991 Rifondazione comunista, dove “il manifesto” aprì la sua sfortunata campagna elettorale nel 1972, dove Palmiro Togliatti tenne uno dei suoi primi discorsi nell’Italia del dopoguerra) “il manifesto” chiamerà a discutere della proposta di Alberto Asor Rosa forze sociali, partiti, movimenti, sindacati e associazioni. E’ come se ci sia stato un cortocircuito tra chi vuole lavorare al nuovo “contenitore” ripoliticizzandosi in questo percorso e chi a quel contenitore dovrebbe fornire i “contenuti”.
Tra i tanti misteri della sinistra italiana, ora se ne è aggiunto un altro. E noi, che abbiamo bisogno di contenitori e contenuti come l’aria, ci sentiamo più poveri perché ci mancherà un luogo da ascoltare e leggere con la curiosità di chi dalle generazioni maggiori spera sempre di avere un’illuminazione.
Ci auguriamo che abbia ragione Alessandro Vannini, il disegnatore del mensile, che nella vignetta sulla copertina della “Rivista del manifesto” in edicola schizza un omino fuori dalla porta intento ad affiggere il cartello “Torno subito”. Sì, se è possibile, tornate subito.


Liberazione 8.12.04
La "Rivista del manifesto" chiude. Magri: abbiamo esaurito "la spinta propulsiva"
Dibattito a sinistra

A cinque anni dalla sua nascita, con 56 numeri alle spalle, una diffusione di ottomila copie e 2000 abbonati, la Rivista del manifesto chiude. A comunicarlo ai lettori un ampio primo piano della rivista stessa in cui il direttore, Lucio Magri, ma anche numerosi componenti del comitato di direzione (Chiarante, Cremaschi, Ingrao, Parlato, Rossanda, Santostasi, Serafini, Tortorella) spiegano le motivazioni che hanno portato a una scelta così impegnativa. «Abbiamo esaurito la spinta propulsiva» dice Magri nel suo editoriale di saluto, rammaricandosi per un esito che è comunque il frutto della difficoltà a «ricostruire una sinistra politica» in cui si intrecciassero un nuovo pensiero e nuove esperienze. A rendere praticamente impossibile questo percorso, dice Magri, è la difficoltà a evitare in un percorso di «rifondazione» della sinistra sia «la patetica nostalgia» che la «liquidazione sommaria» dei riferimenti storici e teorici. «C'è chi - scrive ancora Magri - ha sentito l'esigenza di una rottura e di un'autocritica molto più esplicita e radicale rispetto al passato (...) Cito solo Pietro Ingrao per il peso che ha avuto e la crudezza del suo recente libro-intervista». «Altri -aggiunge Magri - e paradossalmente io, sentono l'esigenza di andare controcorrente, di non varcare la soglia che divide anche la critica più dura dalla secca rimozione e tanto più dalla liquidazione». Nel resoconto del dibattito redazionale è Pietro Ingrao a proporre «una nuova fase» in cui siano presenti un dialogo più impegnativo con Rifondazione comunista e anche l'opportunità di un'intesa di lavoro fra gli organi di stampa della sinistra ("manifesto" e "Liberazione" prima di tutto)».

una grande rivoluzione finanziaria:
la Cina ha comprato oggi l'IBM computer!

Agi.it 8.12.2004 - 10:58
CINA: LENOVO ACQUISTA PC IBM PER 1,25 MILIARDI DI DOLLARI

(AGI) - Pechino, 8 dic. - Lenovo, la principale compagnia cinese produttrice di personal computer, annuncia di aver acquistato per 1,25 miliardi di dollari dal colosso informatico Usa Ibm, la sua divisione di pc. Si tratta di una svolta storica, poichè una società cinese si affaccia sul mercato mondiale dei personal computer comprando quello che è stato il pioniere del settore e diventando il terzo principale gruppo mondiale, dietro Dell ed HP, con un giro d'affari da 10 miliardi di dollari. La Lenovo, quotata alla borsa di Hong Kong pagherà all'Ibm 650 milioni di dollari in contanti e 600 milioni di dollari in azioni. L'accordo, che è stato negoziato in 13 mesi, si chiuderà nel secondo trimestre del 2005. Ibm controllerà il 18,9% di Lenovo diventandone il secondo maggior azionista. La società cinese verrà quotata a Wall Street e userà per 5 anni il marchio Ibm. Inoltre Stephan Ward, vice presidente senior Ibm diventerà amministratore delegato della Lenovo. La società cinese passa dall'ottavo al terzo posto mondiale del settore.

brevi dal web
disturbo bipolare e radiologia; Mario Galzigna: la musica e la SPI

Yahoo! Salute martedì 7 dicembre 2004
Disturbo bipolare, una questione di chimica
Il Pensiero Scientifico Editore

Il disturbo bipolare potrebbe essere diagnosticabile da anomalie chimiche visibili nel cervello dei pazienti. Lo sostiene una ricerca presentata al meeting annuale della Radiological Society of North America.
Dettagliati esami radiologici del cervello eseguiti su 42 pazienti, metà dei quali con diagnosi di disturbo bipolare, hanno mostrato consistenti differenze nei livelli di cinque distinte sostanze chimiche nelle aree del cervello che controllano il comportamento, il movimento, la visione, la lettura e la percezione sensoriale.
Lo studio del team di ricercatori della Mayo Clinic guidato dal radiologo John Port è stato condotto con una tecnica di neuroimaging all’avanguardia, due volte più potente delle risonanze magnetiche utilizzate di solito per la diagnostica nei casi di disturbo bipolare.
“Il disturbo bipolare è sempre una sfida per chi cerca di diagnosticarlo perché i pazienti possono nascondere i sintomi della patologia, o riconoscere soltanto la fase depressiva del disturbo, non quella maniacale. La comunità degli psichiatri ha chiaramente bisogno di un mezzo per diagnosticare con maggiore sicurezza il disturbo bipolare”, spiega Port. Fino a questo momento le diagnosi di disturbo bipolare sono essenzialmente basate sul dialogo con il paziente.

Martedì, 7 Dicembre 2004
gazzettino.it
Docenti universitari, psichiatri ...

Docenti universitari, psichiatri e musicisti daranno vita sabato ad un convegno sul tema "Malinconia e Musica" dalle 9 alle 18.30 nell'Aula Magna dell'Università per proseguire dalle 21 nella Sala Livio Paladin a Palazzo Moroni con un concerto dei pianisti Riccardo Zadra e Federica Righini su musiche di Schumann. Il convegno è stato promosso da Mario Galzigna, epistemologo dell'Università di Venezia e storico delle scienze e della cultura, con il patrocinio del Comune e dell'Università di Padova e la collaborazione della Sezione Veneta della Società Italiana di Psichiatria con la volontà di rompere gli steccati interdisciplinari creando nuovi collegamenti fra le istituzioni.
«Affrontare la musica cercando di scoprire e approfondire le emozioni legate all'esecuzione e all'ascolto è uno spunto trasversale per coinvolgere con rinnovato stile il pubblico - spiega Mario Galzigna, organizzatore e uno dei moderatori del pomeriggio - Insieme con lo psichiatra Ludovico Cappellari, Andrea Angelozzi, Antonio Di Benedetto, Fausto Petrella, lo psicoanalista Alberto Schön e i musicologi Brenno Boccadoro, Giovanni Morelli e Mario Richter ci addentreremo in un mondo di emozioni che con la musica ha un legame molto profondo». Nell'intento degli organizzatori c'è anche di creare un trait d'union fra Comune e Università per proporre iniziative culturali di un certo livello che coinvolgano più possibile tutta la cittadinanza, come sottolinea il sindaco Flavio Zanonato: «L'Università di Padova è uno dei simboli più importanti dell'identità della nostra città e come tale l'amministrazione vuole allacciare rapporti sempre più concreti per sfruttare al massimo le risorse economiche e culturali in nostro possesso». Il concerto nella nuova sala Livio Paladin vedrà esibirsi due concertisti come Riccardo Zadra e Federica Righini molto attenti all'interazione tra gli aspetti psicologici, fisiologici e creativi dell'interpretazione musicale, un lavoro di ricerca e didattica che conducono dal 1998 nell'Accademia Pianistica Internazionale di Padova da loro fondata e presieduta dal maestro Aldo Ciccolini.

autismo

Le Scienze 07.12.2004
L'autismo e la forma delle lettere
Il disturbo dipenderebbe dalla mancata collaborazione di alcune aree cerebrali

Al contrario dei soggetti di controllo, i pazienti autistici ricordano le lettere dell'alfabeto usando una regione del cervello che normalmente si occupa delle forme degli oggetti. Lo sostiene uno studio curato dal National Institute of Child Health and Human Development degli Stati Uniti.
I risultati confermerebbero una teoria secondo la quale l'autismo è il risultato della mancata collaborazione fra diverse parti del cervello. Nell'autismo, afferma la teoria, queste distinte aree cerebrali tendono a funzionare indipendentemente l'una dall'altra. Le osservazioni dicono infatti che molti pazienti autistici eccellono in compiti che coinvolgono i dettagli, mentre hanno difficoltà con informazioni più complesse.
Lo studio e la teoria, descritti in un articolo pubblicato online il 29 novembre 2004 sulla rivista "NeuroImage", sono opera dello psicologo Marcel Just della Carnegie Mellon University di Pittsburgh, del neurologo Nancy Minshew dell'Università di Pittsburgh, e colleghi.
Gli autori hanno usato la tecnica della risonanza magnetica funzionale (fMRI) per misurare l'attività cerebrale di alcuni individui autistici mentre eseguivano esercizi di memoria che riguardavano le lettere dell'alfabeto. A differenza dei soggetti di controllo, i pazienti hanno presentato maggiore attivazione nell'emisfero destro (che gestisce le forme e le informazioni visive) e minore nell'emisfero sinistro (che normalmente si occupa dell'elaborazione delle lettere).

© 1999 - 2004 Le Scienze S.p.A.

creazionismo

La Stampa 8.12.04
L’ANIMA ANTISCIENTIFICA
Ambientalista creazionista?
No, grazie
di Roberto Della Seta
presidente nazionale Legambiente

SECONDO un recente sondaggio, il 44% degli americani ritiene più verosimile il racconto biblico della creazione che non la teoria evoluzionistica di Darwin. Ma se il credo creazionista attecchisce soprattutto negli Stati Uniti, anche in Europa crescono sensibilità antiscientifiche, sebbene meno connotate in senso religioso.
È di pochi mesi fa la decisione del ministro italiano dell'Istruzione Letizia Moratti, poi «rimangiata», di cancellare il nome di Darwin dai programmi della scuola media. Prendendo spunto da quella vicenda, Legambiente ha raccolto in un libro, in uscita dall'editore Le Balze, alcuni saggi sul tema dei rapporti tra scienza e ambientalismo. Il titolo scelto - Dalla parte di Darwin - dice da subito come noi la pensiamo sul punto: crediamo che per affrontare al meglio i problemi ambientali non si possa prescindere da un approccio evoluzionistico, e serva più scienza.
Questa «dichiarazione di voto» non è scontata, venendo da una grande associazione ambientalista. Da sempre infatti nell'ambientalismo convivono due anime. Una a forte impronta scientifica, ben visibile nella stessa biografia di molti dei protagonisti antichi e recenti dell'impegno per la difesa dell'ambiente: dai botanici americani che all'inizio del Novecento fondarono le prime associazioni conservazioniste, fino ai biologi e ai fisici che trent'anni fa teorizzarono la necessità di una riforma radicale dei meccanismi dello sviluppo come antidoto all'aumento di entropia provocato dalla crisi ecologica. Una seconda anima reca invece il segno dell'utopia antimoderna e antiscientifica: vede negli scienziati degli «apprendisti stregoni», fa leva su paure irrazionali e ancestrali - il timore della «intrusione» nel nostro corpo e nella nostra mente e della perdita d'identità - e sul «mito del ricordo» che identifica il passato con un Eden immaginario.
L'ambientalismo che crede nella scienza ha il dovere e tutto l'interesse ad aprire un «fronte interno» contro queste impostazioni. Senza cedere d'un passo nella critica radicale verso la crescente sottomissione della ricerca scientifica agli interessi economici, nonché verso il mito di una suprema purezza e neutralità degli scienziati, ma dicendo con forza e chiarezza due semplici cose: che l'ambiente concreto da tutelare, da valorizzare, non è natura originaria e incontaminata ma intreccio con la presenza e l'azione dell'uomo; e che un nesso indissolubile lega il progresso della scienza all'obiettivo di contrastare il degrado ambientale.
Questa necessità è tanto più urgente in Italia, dove il sistema della ricerca gode di pessima salute e dove sopravvive l'idea gentiliana che la cultura vada «scissa» tra saperi teoretici e saperi tecnici. Gli ambientalisti italiani devono stare dalla parte della scienza, devono reclamare un sostegno pubblico molto più forte alla ricerca di base, devono battersi perché la retorica delle tre «I» - inglese, Internet, impresa - non cancelli definitivamente dal vocabolario le tre «E» almeno altrettanto essenziali di evoluzione, Einstein, ecologia.

un convegno dell'Istituto Gramsci
Villari e Liberazione a proposito di Palmiro Togliatti

Repubblica 8.12.04
PALMIRO TOGLIATTI
Quell'idea incompiuta di democrazia
un convegno del Gramsci
Collaborò intensamente alla stesura della Costituzione
Educazione sentimentale all'ombra dell'Urss
Elogio di Mazzini alla Normale di Pisa
Da domani a Roma tre giornate dedicate al leader comunista a quarant'anni dalla morte. L'idea è completarne il ritratto grazie alle nuove carte disponibili dopo il 1989
di LUCIO VILLARI

Come pensatore e come organizzatore politico Togliatti diede il meglio di sé nei venti anni, dal 1944 al 1964, nei quali fu tra i protagonisti della costruzione della democrazia in Italia. O, meglio, di una contraddittoria costruzione sulla quale sono ricadute anche le scelte da lui compiute nell'altro ventennio, quello conclusosi nel '44, quando le sua educazione ideologica e culturale (ma si potrebbe anche dire, sentimentale) si completò all'ombra dell'Unione Sovietica e dello stalinismo nella sua fase suprema: la fase degli «elementi di tirannide» e degli «atti delittuosi e moralmente ripugnanti» come egli fu costretto ad ammettere nell'intervista a Nuovi Argomenti del 1956. «Elementi» e «atti» che non hanno però impedito al Togliatti costruttore di identificare questo modello italiano di democrazia come una fase di transizione verso un più alto sistema politico, quello socialista scaturito dalla rivoluzione leninista del 1917: l'orizzonte storico avanzato e insormontabile della civiltà del Novecento.
Da questa contaminazione storica e teoretica tra una democrazia di tipo occidentale (da elaborare e sperimentare anche alla luce degli antichi ideali egualitari e riformatori del socialismo) e una democrazia da ritenere compiuta soltanto nel momento in cui la classe operaia e il partito comunista, svolgendo fino in fondo la loro «funzione nazionale», prendono il potere, è nata la maggiore difficoltà, per Togliatti, di dare un senso o una reale e pragmatica consistenza all'idea della democrazia da fondare in Italia.
Vedo questa difficoltà non soltanto nel programmatico rifiuto della teoria e della pratica della socialdemocrazia europea (dai dibattiti della Seconda Internazionale fino alle esperienze riformatrici della socialdemocrazia scandinava degli anni Trenta), ma anche nella insufficiente percezione culturale delle straordinarie potenzialità di un pensiero democratico, come allora si diceva, «borghese».
Questa duplice interdizione costrinse Togliatti, il Togliatti dell'ultimo ventennio, a pensare, scrivere, regolare l'azione del partito da lui guidata intorno a un concetto di democrazia che a tratti appariva chiaro e dai contorni definiti, ma più spesso dileguava e sfumava in dichiarazioni di principio e in aggettivazioni la cui legittimazione era solo nel ricorso al linguaggio del razionale «ragionamento» marxistico. Raramente Togliatti usava la parola democrazia senza aggiungervi termini definitori («avanzata», «progressiva», «di tipo nuovo») che, invece di ancorarlo alla realtà sociale e storica dell'Italia, la rendevano appunto indefinita, spostata in avanti, o, meglio, «calata nel profondo» (era questa una sua espressione ricorrente) di un presente slittante però verso un futuro non ben precisato. Intendiamoci, grande è stato il contributo personale di Togliatti (con l'aiuto, non dimentichiamolo, dei Quaderni del carcere di Gramsci) per fare di un partito dove gran parte dei dirigenti aveva, al momento della caduta del fascismo, scarsa dimestichezza con una idea concreta di democrazia, una forza nazionale ancorata anche alle tradizioni storiche dell'Italia risorgimentale. Ma il disegno politico di un socialismo la cui intuizione formale e sostanziale era il comunismo sovietico (con le varianti mondiali: movimenti di liberazione, la Cina, il Terzo mondo, le «democrazie popolari» - anche qui una aggettivazione - dell'Europa dell'Est, e così via) finiva col sovrapporsi ad una ricerca teorica che da molti segni, scritture e testimonianze appare un vero e proprio rovello intellettuale di Togliatti, con scarsa possibilità di soluzione o di superamento.
Togliatti sapeva, fin dall'arrivo in Italia nel 1944, che l'Italia del post-fascismo doveva essere riformata, cioè rinnovarsi attraverso decise riforme istituzionali e sociali. Infatti, la Costituzione repubblicana, alla cui stesura Togliatti collaborò intensamente (al contrario del suo antagonista De Gasperi che, a suo dire, «si astenne deliberatamente e ostentatamente da qualsiasi partecipazione ai lavori dell'Assemblea costituente per la formazione della nuova Costituzione») porta numerosi segni della presenza togliattiana, compreso l´articolo 7 al cui voto, invece, De Gasperi prese parte. Ma, a ben guardare, nel testo della Costituzione la parola «democrazia» non esiste. C'è l'aggettivo «democratica» nell'art. 1 e poi le espressioni «metodo democratico», a proposito dei partiti, e «spirito democratico» a proposito delle forze armate.
Eppure, se si ripensano quegli anni, fu proprio la parola democrazia, alla pari della parola libertà, a vincere ideologicamente la seconda guerra mondiale. Anzi, a vincerla culturalmente e politicamente perché erano state le riforme sociali dell'America di Roosevelt e del New Deal a mostrare quali fossero le differenze tra una democrazia e i regimi dittatoriali della Germania e dell'Italia; quella democrazia americana, il cui spirito rooseveltiano aleggiava sui nostri costituenti (ma per Togliatti e il suo partito pareva essere una pallida e insidiosa meteora), così come aleggiava lo spirito del keynesismo riformatore anche se non si posò mai né sui liberali conservatori né sui democratici «progressisti» dello schieramento politico italiano di quel tempo; con qualche inascoltata eccezione.
Togliatti, agli esempi come questi, più ravvicinati e, forse, decisivi come modelli di riferimento nell'azione politica da condurre ai livelli più diversi dell´organizzazione economica capitalistica pubblica e privata, e ai sistemi sociali da cambiare, preferì riaprire pagine più antiche della nostra storia delle idee politiche. Erano le pagine scritte da Mazzini e da Antonio Labriola (quest'ultimo, alla fine, un marxista dall'intelligenza democratica, ma misterioso e indecifrabile, al punto che Togliatti non riuscì a completare uno studio che a lui aveva dedicato sulle pagine della sua rivista Rinascita). C'è comunque un elogio di Mazzini che Togliatti fece nel 1946 agli allievi della Normale di Pisa, le cui parole entusiaste superano perfino quelle che in varie occasioni aveva dedicato a Marx o a Lenin.
La figura di Mazzini «giganteggia perché la sua intuizione riformatrice e le sue idee riformatrici sono inserite in una concezione generale del mondo e della vita dalla quale egli ricava una direttiva per l'azione. Per questo egli è grande e lo riconoscono grande tutti gli italiani, anche noi che non siamo d'accordo con la sua posizione ideologica di partenza. Lo riconoscono grande tutti gli italiani, i quali sanno come, con la sua azione, con il suo sforzo di lotta, egli abbia dato un valido contributo alla redenzione del nostro paese». A questo elogio si poteva obiettare che proprio «la posizione ideologica di partenza» di Mazzini era stata la condizione del suo «giganteggiare» come ideale riformatore sociale; ma qui scattava il lapsus anti-riformista e anti-socialdemocratico dell'internazionalista Togliatti, ed evidentemente si svelava la sua difficoltà a percepire le linee, storicamente recuperabili, di una reale democrazia non necessariamente transitabile al socialismo, ma «borghese» nel significato più nobile del termine. E infatti, quando nel 1948 Togliatti volle dedicare un numero speciale di Rinascita al centenario del 1848, il Mazzini riformatore e democratico era sparito dall'orizzonte, la ricostruzione di quell´anno era prevalentemente nell'ottica italiana (e dunque gli albori della democrazia borghese europea erano quasi inesistenti) e il suo articolo di apertura era dedicato ai cento anni del Manifesto di Marx o Engels.
Scelta legittima, ma risposta polemica e politica a Benedetto Croce che sul finire del 1947 aveva paventato l'uso strumentale del 1848 e la possibile commemorazione del Manifesto comunista, per il motivo che «in Italia non penetrò punto e pochissimo, del resto, altrove».
D'altro canto, fino a qualche anno prima della morte, Togliatti restò convinto che «soltanto per il politico ogni storia è veramente e sempre contemporanea», mentre gli storici spesso danno risposte «parziali e inadeguate».

Liberazione 8.12.04
Da domani a Roma un convegno della Fondazione Gramsci. Parla lo storico Aldo Agosti
«Togliatti, il critico della socialdemocrazia»
di Tonino Bucci

Togliatti vive la fase di nascita del movimento comunista internazionale, all'indomani della Rivoluzione d'Ottobre, partecipa alla fucina teorica e politica del Comintern - nel quale ricopre ruoli autorevoli - e nel dopoguerra è l'artefice principale della costruzione del più grande partito comunista di massa dell'Occidente. A questi due momenti della sua biografia politica - la collocazione nel movimento comunista internazionale e il ruolo nella storia italiana - è dedicato il convegno internazionale di studi "Togliatti e il suo tempo", organizzato dalla Fondazione Istituto Gramsci (da domani fino a sabato all'Aula magna dell'Università degli studi Roma Tre, dove sono in mostra anche dei volumi della biblioteca personale del dirigente acquistati dall'ateneo. Interverranno, tra gli altri, Giuseppe Vacca, Angelo d'Orsi, Lucio Villari, Silvio Pons, Gaetano Arfè, Gabriele De Rosa, Giulio Andreotti e Giorgio Napolitano. Ma è, in particolare, nella sessione di lavoro di domani pomeriggio, che sarà affrontato con la relazione dello storico Aldo Agosti il lungo periodo trascorso da Togliatti come dirigente dell'Internazionale comunista. Si tratta, anzitutto, di affrontare due letture prevalenti: nell'una, Togliatti appare un politico dotato di scarsa autonomia nei confronti di Mosca; nell'altra, invece, come dirigente di un partito che fu socialdemocratico senza saperlo, costretto solo per opportunità a collocarsi nel movimento comunista internazionale.

La politica nazionale e la collocazione nel comunismo internazionale: come coesistono questi due momenti in Togliatti?
Penso che sia sbagliato contrapporre o giustapporre questi due momenti della biografia togliattiana che sono tutto sommato inestricabilmente uniti. E' abbastanza ovvio che il suo percorso biografico lo porta per un periodo lungo 18 anni a essere lontano dall'Italia, più legato alla dimensione del movimento comunista internazionale. Nel periodo successivo, invece, con il ritorno in Italia nel '44, c'è un maggiore sviluppo di una linea politica nazionale - pur tra arretramenti e incertezze. Ma io credo che Togliatti sia dall'inizio alla fine un uomo di quella stagione in cui la dimensione internazionale del comunismo è comunque decisiva.

Togliatti è tra i protagonisti della Terza Internazionale, ne attraversa varie fasi. Possiamo sostenere che i suoi contributi più originali al dibattito interno del Comintern riguardino l'analisi del fascismo?
Sono d'accordo. Il problema è quanto sia stata recepita questa forte originalità e profondità dell'analisi togliattiana del fascismo. Non c'è dubbio che la sua analisi sia più avanzata - fatta eccezione per alcune intuizioni acute nella prima fase del Comintern, più libero da una disciplina rigida, per esempio Clara Zetkin, Radek, lucidi interpreti dei fascismi italiano e tedesco. Ma sarà Togliatti, dopo, a recare il maggiore contributo. Ha il merito d'aver sottolineato che il fascismo italiano ha comunque una specificità legata alla situazione nazionale e non può essere usato come passepartout, come categoria interpretativa sotto la quale ricondurre tutte le altre forme di fascismo. Fin dall'inizio - e almeno fino a una certa fase - fa dei tentativi molto sottili per distinguere opportunatamente le caratteristiche del fascismo italiano da quello tedesco prima e da quello spagnolo poi. Tuttavia, non saprei dire quanto di queste analisi sia diventato parte integrante dell'arsenale interpretativo dell'Internazionale nel suo complesso. Certo, qualcosa è passata, ma in forma più semplificata. Lo stesso Togliatti, almeno in una fase della sua esperienza politica, si è anche uniformato a queste interpretazioni più riduttive del fascismo.

Quando nel '26 Togliatti si trasferisce a Mosca come rappresentante del partito nell'Esecutivo dell'Internazionale trova in Bucharin un interlocutore che apprezza le sue analisi...
Togliatti è stato un dirigente che ha visto crescere il suo prestigio e la sua autorevolezza internazionale all'ombra e sotto la "protezione" di Bucharin. E naturalmente ha risentito poi della disgrazia politica di quest'ultimo. Questo lo ha portato a essere molto prudente in seguito.

Dal '29, sotto la guida di Molotov, prevale nel Comintern la tesi del "socialfascismo", secondo cui fascismo e socialdemocrazia sono entrambi espressioni della reazione capitalistica. Togliatti anticipa quella che nel '34 sarà la svolta dei fronti popolari?
Sono convinto che nonostante tutto Togliatti nel '34 non sia un precursore della svolta dell'Internazionale: è stato troppo scottato in precedenza, si muove con estrema lentezza, si riconverte con una certa gradualità. Questo non ha a che fare con l'analisi del fascismo ma con la tattica. Nel giudizio sulla socialdemocrazia, sui socialisti italiani e sulla galassia dell'antifascismo democratico in Italia, Togliatti si muove con prudenza. Matura una presa di posizione più netta e precisa solo alla fine del '34 dopo essere stato in missione per conto dell'Internazionale in Francia e in Belgio. E comunque mantiene qualche piccola riserva. Tra l'altro, esistono altre due lezioni delle cosiddette Lezioni sul fascismo che non sono mai state pubblicate dato lo stato dei microfilm. L'una è dedicata alla socialdemocrazia italiana, l'altra alla socialdemocrazia internazionale e risalgono al gennaio del '35. Entrambe denotano una posizione molto critica. Insomma, Togliatti seguirà la svolta di Dimitrov di cui ha molta stima, ma non la precede.

Questo non significa che venga meno la convinzione togliattiana di dover ingaggiare con i socialisti una lotta per l'egemonia. O no?
Bisogna distinguere la tesi della socialdemocrazia come nemico principale - che Togliatti abbandona ben prima - dalla consapevolezza di un progetto politico autonomo e diverso da quello dei socialisti. Alla migliore cultura comunista appartiene l'idea della lotta per l'egemonia con la socialdemocrazia, sia sul terreno delle opzioni generali sia su quello delle rivendicazioni pratiche. Anche nella politica del fronte unico c'è quest'intento di misurarsi con i socialisti e dimostrare la superiorità dei partiti comunisti.

Con i fronti popolari si coniano nuove parole d'ordine per rivendicazioni immediate e obiettivi transitori, ad esempio la «democrazia di nuovo tipo». Ma non sarebbe fuorviante desumere da qui un Togliatti socialdemocratico che rinuncia alla prospettiva del socialismo in Occidente?
Mai si trova un giudizio positivo sulla socialdemocrazia. Altro conto è dire che dopo il '44 Togliatti accetta come orizzonte dell'azione politica dei partiti comunisti il sistema democratico-borghese. Lo accetta però come orizzonte dentro il quale organizzare l'organizzazione politica di classe e far accumulare dei cambiamenti quantitativi fino al punto in cui la quantità si muta in qualità.

La lotta per la democrazia progressiva sul terreno nazionale, la lotta per il socialismo nel movimento comunista internazionale. Come si tengono assieme i due momenti?
C'è senz'altro un rapporto coerente e questo è vero fino all'ultimo giorno della vita di Togliatti. Non c'è mai il dubbio che quel sistema socialista di cui pure vede tutte le contraddizioni, non sia in sé intrinsecamente superiore al sistema della democrazia borghese.

effetto placebo

La Stampa Tutto Scienze 8.12.04
Effetto placebo
Provami, ti piacerò
di Antonio Tripodina


PER "effetto placebo" si intende un beneficio, percepito o anche reale, determinato dal sapere di ricevere una cura, piuttosto che dalla cura stessa. Sostanze prive di qualsiasi attività farmacologia possono infatti giovare al paziente se autorevolmente presentate come efficaci.
L'effetto benefico può iniziare addirittura prima dell'assunzione del preparato, dal momento in cui l'incontro con il "curante", inteso in senso lato, dispone emotivamente il paziente ad attendere i vantaggi della cura che sta per ricevere. Da qui l'importanza che il rapporto medico-paziente non sia frettoloso e impersonale.
Il termine "placebo" deriva dal verbo latino "placere", piacerò, intendendo con questo un rimedio dato più per compiacere il paziente, che per fornirgli un vero beneficio. E non è esagerato dire che gran parte delle medicine prescritti fino a non molti decenni fa dai medici dovevano la loro efficacia più all'effetto placebo, che alla loro effettiva attività farmacologia.
L'esistenza dell'effetto placebo è riconosciuta dalla medicina ufficiale, tanto è vero che tutte le sperimentazioni cliniche dei nuovi farmaci vengono condotte contro un placebo, in una condizione definita di "doppio cieco", nel senso né i medici né i pazienti sanno se stanno somministrando o ricevendo una sostanza attiva o inerte; e soltanto se i risultati del confronto risultano significativamente migliori di quelli dati dal placebo il farmaco è considerato efficace. Infatti, sembrerà strano, anche il "gruppo placebo" può ottenere dei benefici, a volte fino al 30-40 per cento dei soggetti. Questo fenomeno spiega forse l'apparente efficacia di molte terapie alternative (omeopatia, agopuntura, pranoterapia, medicina ayurvedica) e del credito che riescono ad ottenere medici-stregoni e i santoni.
Punto d'incontro tra scienza e irrazionale, da sempre l'effetto placebo ha fatto discutere: è solo suggestione psicologica indotta dal desiderio di guarigione, oppure è il risultato di una cascata di eventi biologici che partendo dalla psiche è in grado di incidere sul soma? In questo caso, quali meccanismi entrano in azione?
Pian piano il mistero va diradandosi. Alcuni anni fa è nata una nuova disciplina, la psico-neuro-endocrino-immunologia (termine sinetizzato nella sigla PNEI), che spiega come durante l'attività psichica, conscia e inconscia, la corteccia cerebrale produca stimoli elettrici che, traducendosi in messaggi biochimici, agiscono sul sistema endocrino e sul sistema immunitario (apparato fondamentale per la difesa dell'organismo), dando ragione di come situazioni psicologiche particolari possano incidere sulle difese organiche.
Numerosi studi sull'effetto di sostanze inerti sul dolore hanno fatto ipotizzare che l'analgesia effettivamente prodotta da queste sostanze passi attraverso il coinvolgimento del sistema endogeno degli oppioidi, cioè attraverso la produzione di endorfine, le "droghe interne", sostanze che l'organismo spontaneamente produce per lenire il dolore. Di recente ricercatori californiani hanno dimostrato in pazienti con malattia di Parkinson che la somministrazione di un placebo produce a livello del nucleo striato, la regione cerebrale coinvolta nell'esecuzione del movimento, un aumento della concentrazione di dopamina, proprio il neurotrasmettitore in essi carente. Queste ricerche dimostrano in modo plausibile che la mente è in grado di agire sul corpo attraverso delle modificazioni biologiche.
Nessuno, tuttavia, era riuscito finora a mettere in evidenza tali modificazioni, addirittura a registrarle. Ciò è riuscito ad un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Neuroscienze dell'Università di Torino (I Divisione Universitaria di Neurologia, Bruno Bergamasco e Leonardo Lopiano; Sezione di Neurofisiologia, Fabrizio Benedetti) e della Divisione di Neurochirurgia dell'Ospedale C.T.O. di Torino (Michele Lanotte e Antonio Melcarne) che per la prima volta nell'uomo ha registrato con microelettrodi le modificazioni elettriche che avvengono a livello di cellule nervose coinvolte nella fisiopatologia dei sintomi parkinsoniani indotte dall'aspettativa di un miglioramento del quadro clinico in seguito alla somministrazione di una sostanza inerte (semplice soluzione fisiologica) accompagnata da una suggestione verbale.
Questa ricerca è stata pubblicata nel giugno del 2004 sulla rivista «Nature Neuroscience» (volume 7, numero 6), meritando la copertina per il suo valore innovativo e per le ripercussioni cliniche che si prevede possa avere.
In 23 pazienti affetti da malattia di Parkinson durante la procedura chirurgica di stimolazione bilaterale del nucleo subtalamico (struttura che svolge un ruolo determinante nella fisiopatologia dei sintomi parkinsoniani), svegli e collaboranti, è stata registrata con microelettrodi l'attività elettrica di ogni singolo neurone. A 11 di questi pazienti, prima della stimolazione del nucleo subtalamico del secondo lato, è stata somministrata una iniezione sottocutanea di soluzione fisiologica accompagnata dalla suggestione verbale di un sicuro miglioramento. Subito dopo veniva richiesto al paziente un suo giudizio sull'eventuale miglioramento e ad un neurologo ignaro dell'esperimento (doppio cieco) una valutazione sulla rigidità del polso prima e dopo l'iniezione.
Attraverso l'analisi delle micro-registrazioni dell'attività elettrica dei neuroni dei nuclei subtalamici sono stati individuati 6 soggetti nel "gruppo placebo" che hanno presentato una differenza altamente significativa della frequenza di scariche elettriche dei neuroni rispetto ai 5 pazienti "non responders" e al gruppo di controllo, con una netta correlazione tra le modificazioni elettriche registrate, il giudizio soggettivo di miglioramento del paziente e la valutazione clinica della diminuita rigidità dell'articolazione del polso da parte del neurologo.
Questo esperimento dimostra per la prima volta in modo oggettivo che l'aspettativa di un miglioramento clinico è in grado di produrre un'attivazione delle cellule nervose, "primum movens" della successiva cascata di eventi neuro-endocrini-immunologici che produrrà l'effetto placebo.

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Può far bene anche un intervento chirurgico simulato

UNA decina di anni fa Frank Lanza, gastroenterologo di Houston, mise alla prova due farmaci contro l’ulcera. Il primo guarì il 66 per cento dei pazienti, il secondo l’88 per cento. Ma la cosa interessante è che guarirono anche 19 pazienti sui 44 di un terzo gruppo che aveva ricevuto soltanto una sostanza inerte. Un placebo. Il test, come di solito avviene in questo tipo di ricerche, era fatto «in doppio cieco»: né i pazienti né i medici che somministravano il farmaco (o il placebo) sapevano chi ricevesse che cosa. In media, il 25-30 per cento del gruppo che riceve il placebo ne trae giovamento. Miracolo dell’acqua fresca?
Daniel E. Moerman, etnofarmacologo e professore di antropologia all’Università del Michigan-Dearborn (Usa), risponde a questa domanda nel suo libro «Placebo. Medicina, biologia, significato» (Vita & Pensiero, 260 pagine, 16 euro). Ed è una risposta più complessa di quanto si possa immaginare. In molti casi la guarigione interviene spontaneamente: la maggior parte delle malattie più comuni (raffreddore, cefalea, disturbi intestinali) regredisce da sé. Anche nel caso di cure con farmaci efficaci, in un paziente su tre non è tanto il contenuto della cura ad agire quanto il fatto di sentirsi curati. Succede persino in chirurgia. A Kansas City, tra due gruppi di malati di angina pectoris, Grey Dimond ottenne un miglioramento nel 67% degli operati e addirittura nell’82% dei pazienti sui quali l’intervento era stato solo simulato. Analoghi risultati ha dato uno studio svedese su cardiopatici che avevano ricevuto un pacemaker a confronto con altri che credevano di averlo ricevuto. Sulla base di questi dati, Moerman va oltre il concetto tradizionale di placebo e parla di «risposta al significato»: i placebo sono inerti e quindi per definizione non fanno niente «ma possono essere significativi» e «i significati possono attivare processi biologici». È la parola, l’atteggiamento del medico a curare. In fondo, psicologi e psicoanalisti lo sapevano già.

week end
«i gelidi inverni di Ludovico Ariosto»

La Stampa Tuttolibri 4.12.04
CASTELNUOVO DI GARFAGNANA TRA MEMORIA E BELLEZZA
I gelidi inverni di Ludovico Ariosto
di Enzo Gaiotto

AI nostri giorni è facile raggiungere Castelnuovo di Garfagnana: il suo cuore è la Rocca più volte passata di mano tra Lucca, lo Stato Pontificio e gli Estensi, dopo cruente battaglie ed estenuanti assedi. Sfogliando gli annali il personaggio più famoso che visse a Castelnuovo è Ludovico Ariosto. Un salto a ritroso nel tempo ci porta al febbraio del 1522, quando l'insigne letterato giunse suo malgrado a Castelnuovo, nominato Commissario della Garfagnana da Alfonso Duca I d'Este. L'inverno innevato e gelido rendeva inospitale quel posto sperduto tra i monti, pieno di insidie e pericoli, tanto che il poeta, prima di congedarsi da Ferrara, stese addirittura il testamento. Il Duca prese la decisione di inviare l'Ariosto in Garfagnana nel tentativo di riassestare le sue condizioni economiche, gravate da notevoli spese per la seconda ristampa dell' Orlando Furioso. Ulteriori studi formularono anche l'ipotesi che il soggiorno garfagnino «facesse assegnamento sul prestigio personale di quell'uomo grande, sulla fama di lui, ormai indiscutibilmente affermata».
La nostalgia di Ferrara intristiva Ludovico Ariosto: a Castelnuovo mancavano la vita e gli agi della corte, ma era soprattutto amareggiato dal rimpianto di non aver accanto a sé la bella Alessandra Benucci, vedova del mercante fiorentino Tito Strozzi, con la quale il poeta aveva una relazione, che regolarizzerà qualche anno dopo con un matrimonio segreto, dettato da motivi economici e di tutela legale dei figli.
L'incarico estense, anche se tra infinite difficoltà, fu assolto dall'Ariosto nel migliore dei modi: le sue capacità diplomatiche, acquisite in precedenti incarichi di ambasciatore, lo portarono ad amministrare il territorio con determinazione e spiccato senso di giustizia. Al termine del primo anno di governo l'Ariosto scrisse alcune polemiche terzine che evidenziavano la gravosità del proprio lavoro:
«O stiami in Rocca o voglia all'aria uscire
accuse e liti sempre e gridi ascolto,
furti, omicidi, odi, vendette ed ire;
sì che or con chiaro or con turbato volto
convien che alcuno prieghi, alcun minacci,
altri condanni, altri ne mandi assolto…».
Dalla minuscola finestra del suo modesto alloggio nel torrione della Rocca, il poeta scorgeva il lento scorrere delle stagioni. Le nevicate invernali acuivano il disagio e lo facevano sentire segregato, lontano dal suo ideale di trovarsi altrove, in quiete, fantasticando e componendo versi. Oppresso dalle difficoltà del suo incarico, si lamentava col Duca per l'esiguo numero di balestrieri e di armati indispensabili a mantenere l'ordine pubblico ed a far rispettare la legge.
«Le donne, i cavalieri, l'arme, gli amori
le cortesie, l'audaci imprese io canto…»
diventavano versi lontani, scritti in giorni felici e pieni di quell'ingegno creativo che ora sembrava perduto per il continuo assillo nello svolgere il proprio dovere.
Nel gennaio del 1525, ultimo anno di permanenza in Garfagnana, l'Ariosto vide sfilare davanti la Rocca, provenienti da nord e diretti a Napoli, seimila soldati francesi a cavallo, comandati dal Duca d'Albania, Giovanni Stuart, generale di Francesco I, Re di Francia. Le truppe di passaggio depredavano le case e i campi dei garfagnini che avevano la sfortuna di trovarsi lungo il cammino delle milizie. Il Commissario Ludovico Ariosto venne incontro ai malcapitati annullando le loro gabelle ed inveendo contro i francesi. Il poeta fece ritorno a Ferrara nel giugno dello stesso anno, atteso dalla sua amata Alessandra, con la quale non convisse mai, anche se dal loro amore nacque un figlio, Virginio.
Oggi a Castelnuovo di Garfagnana il ricordo del loro personaggio più illustre è sempre vivo, alimentato da continue iniziative che ne rievocano la figura e le gesta. Per i turisti una visita alla Rocca, un giro nelle strade e piazze della cittadina è un'escursione piacevole per fare shopping e, all'ora giusta, gustare i piatti della cucina locale nelle accoglienti e convenienti trattorie e ristoranti. Per un eventuale soggiorno sono molto confortevoli gli alberghi e gli agriturismi della zona.
Numerose sono le specialità tipiche della Garfagnana: la farina di castagne, i saporitissimi formaggi pecorini e vaccini, i superbi insaccati lavorati a mano, tra cui il celebre "biroldo", l'insuperabile farro e il granturco ad otto file, (che qui chiamano "Formenton") dai chicchi rotondi e molto grossi, insuperabile per ottime polente. Informazioni presso la Pro Loco di Castelnuovo, tel. 0583-641007.

una mostra a Lugano
Les enfants terribles

La Stampa Tuttolibri 4.12.04
RAGAZZI TERRIBILI
I linguaggi infantili nell’arte del ‘900
di Lea Mattarella
La fanciullezza come tempo di una libertà che si vorrebbe ritrovare o come periodo di paure ed inquietudini: a Lugano
un itinerario variegato da Klee a Pistoletto

per ulteriori informazioni, clicca QUI
CHE l'artista sia un eterno bambino è quasi un luogo comune. Ma non è affatto detto che in ogni attempato Peter Pan si nasconda un pittore, un musicista, uno scrittore di talento. Anzi.
Questa affascinante mostra intitolata Les enfants terribles, curata con un pizzico di genialità e molta competenza da Marco Franciolli, Helmut Friedel e Giovanni Iovane, analizza il rapporto tra l'arte e l'infanzia dal 1909 ad oggi, conducendoci attraverso un variegato itinerario in cui la fanciullezza assume molti significati, spesso ambivalenti. Qualcuno la percepisce come l'epoca della vita a cui si vorrebbe continuamente tornare. Ma c'è anche chi la interpreta come una fase piena di incertezze e di inquietudini. Per molti artisti è l'età della paura, dei pericoli più che della libertà espressiva. La cosa che fa riflettere è che questi ultimi sono soprattutto gli artisti di oggi. Quasi che ormai non ci sia più spazio neanche per la fuga nei miti di un passato perduto. Altro che Peter Pan e l'isola che non c'è! Qui ci sono giocattoli trasformati in terribili trappole mortali, come nell'installazione di Carsten Höller intitolata Killing children. Oppure c'è una bambina che legge Wittgenstein ad alta voce: succede nel video di Gary Hill. E, addirittura, nelle foto di Christian Boltansky ecco l'infanzia cancellata e reinventata su quella degli altri: un falso, l'opera sofferta di un impostore di talento.
Eppure l'inizio di questo viaggio nell'universo infantile è pieno di speranza, addirittura rassicurante. C'è un fanciullo sorridente che mostra con fierezza il suo disegno. Lo ha dipinto Giovanni Francesco Caroto nel 1520. E' l'unica testimonianza del passato in mostra e rivela come un bambino del Cinquecento disegnasse esattamente come i nostri figli. Bella scoperta, dirà qualcuno. E invece c'è qualcosa di magico in questo segno acerbo che resta immutato nei secoli. Sono poche e tutte fondamentali, quasi fisiologiche, le cose che si fanno sempre (e per sempre) nello stesso modo.
E poi eccoci nel Novecento, nel secolo dell'avanguardia. E il punto è proprio questo: qui tutto cambia. Mentre per secoli l'arte occidentale è stata profondamente distaccata dall'elemento infantile e noi, del passato, abbiamo mitizzato pittori che fin da giovanissimi restituivano una figura, un paesaggio, o semplicemente una O, nel modo più perfetto possibile, nel XX secolo il discorso si complica. Perché gli artisti, adesso, è come se volessero ricominciare da capo: tabula rasa, grado zero. Così si riconnettono all'infanzia, ai primi vagiti dell'espressività. Un'opera non rappresenta più la realtà ma una propria verità, diventa l'espressione di ciò che Kandinskij chiama «il suono interiore».
E chi meglio di un bambino sa raccontare l'interiorità senza mediazioni e sovrastrutture culturali? Il legame tra l'espressione creativa infantile e la coppia Wasilji Kandinskji e Gabriele Münter è dimostrato dalla loro collezione di disegni di bambini esposti in mostra accanto ai loro meravigliosi dipinti. La Münter addirittura utilizza alcune di queste carte come modelli; per lei è fondamentale recuperare quei tratti incerti e nello stesso tempo liberi da condizionamenti delle sue nipoti, dei figli dei suoi amici, dei piccoli alunni della scuola accanto. Anche nell'Almanacco del Blaue Reiter accanto alle opere di Kandinskij, Münter, Rousseau, Picasso, Matisse, Delaunay, Macke, Marc, Jawlenskij, compaiono immagini di arte popolare e primitiva, disegni di malati di mente e creazioni dei bambini. Un modo per riconoscere che quelle sono le loro fonti perché, per dirla con il grande pioniere dell'astrattismo, «c'è nel bambino un’immensa forza inconscia, che si manifesta nei suoi disegni e li pone sullo stesso piano (e spesso più in alto) delle opere degli adulti».
Riflettere sull'espressione infantile significa rinnovare completamente il proprio linguaggio creativo. Ne sa qualcosa Paul Klee che nel 1902 ritrova i disegni che aveva fatto da piccolo e riconosce questi «primordi artistici» come «la cosa più significativa fatta fin'ora». Quando nasce il figlio Felix, lo trasforma affettuosamente in una specie cavia da cui trarre spunti e suggestioni. Insieme alle marionette di Klee e alle sue bellissime carte, in mostra c'è anche un acquarello del piccolo Felix. E viene comunque da chiedersi: se non fosse stato il figlio di Klee, Felix avrebbe disegnato così kleeianamente? Chi influenza chi in questi casi? Tra gli artisti che hanno giocato seriamente con l'infanzia ci sono anche Picasso, Dubuffet, Melotti, Pistoletto, Paolini, Miró. E poi Warhol, Koons, Zoe Leonard, Beuys… In tutto 120 opere: segni, colori, oggetti di «grandi bambini» dell'arte contemporanea.

storia antica
«al massacro dei gladiatori»

La Stampa Tuttolibri 4.12.04
Al macello dei gladiatori
di Giuseppe Cassieri

Lo storico americano Fik Meier immagina di rivivere «Un giorno al Colosseo» e racconta i combattimenti mattutini tra animali, che predisponevano la folla ai duelli pomeridiani di schiavi e liberti e alle sfide dei volontari di «buona famiglia» o di giovinastri perseguiti dalla giustizia, nonché di imperatori bramosi di mostrare i muscoli, come Caligola e Commodo
FIK Meijer, ordinario di storia antica all’università di Amsterdam, autore di Un giorno al Colosseo, appartiene alla benemerita famiglia di accademici portati a «narrare» con levità, spesso con molte delizie, ciò che osservano, senza alterare le discipline d’origine.
In un recente viaggio a Roma, il professor Meijer si accoda a un gruppo di turisti diretti al Colosseo, siede sulle alte gradinate dell’anfiteatro quando la luce di aprile cede lentamente a un crepuscolo rossastro, e si chiede: «Cosa avrei fatto se mi fossi trovato qui per ore, in mezzo a cinquantamila Romani esultanti, mentre nell’arena i gladiatori si esibivano in un sanguinoso gioco con la morte? Mi sarei goduto lo spettacolo, mi sarei lasciato trascinare dall’euforia collettiva, oppure il disprezzo per quelle crudeltà avrebbe smorzato qualsiasi entusiasmo?». Da questo coscienzioso interrogativo scatta il bisogno di aggiungere un personale contributo alle minute analisi che gli storici, specie nel Novecento, hanno dedicato alla «macelleria» circense nelle sue macabre modalità: combattimenti mattutini tra animali (possibile combinazione, orso e toro legati con una catena e una corda), lotta di uomini e animali con i venatores che si dilettavano in battute di caccia a struzzi e antilopi, gazzelle, cervi e asini; quindi la caccia ai «signori delle foreste» e relativi massacri che predisponevano la platea ai fasti maggiori della giornata.
Dopo l’intervallo del mezzodì, una pausa-pranzo che i tifosi più accesi solevano disertare (l’imperatore Claudio era uno di essi), avevano luogo le esecuzioni dei condannati. Una cerimonia piuttosto veloce ma ricca di varianti. Almeno quattro: ucciderli con la spada, crocifiggerli, bruciarli vivi, darli in pasto alle fiere.
Esauriti i numeri dell’avanspettacolo, i vertici delle istituzioni e il popolo minuto erano pronti a gustare il piatto forte del programma, ossia i duelli pomeridiani dei gladiatori.
A questo punto l’indagine di Meijer si acuisce, diventa capillare all’interno del cerchio tematico e ci aiuta a penetrare nella condizione esistenziale dei protagonisti. Ora schiavi ora liberti, ora corpi giganteschi da sacrificare a indispettite divinità, ora simboli intercambiabili della romana fortitudo. Giustapposta alla sfida coatta è la richiesta dei volontari di «buona famiglia» o di giovinastri perseguiti dalla giustizia, nonché imperatori bramosi di mostrare i muscoli, di eccitare la folla, di esibirsi. Ad esempio Caligola, Tito, Adriano e soprattutto Commodo che si compiaceva dell’appellativo Ercole e, a gloria di Ercole, munito di clava e pelle di leone, lo vediamo nel busto esposto ai Musei Capitolini. Anche Settimio Severo avrebbe voluto battersi in un luminoso pomeriggio primaverile, ma fu costretto a desistere perché, meschino, «aveva i piedi deboli». In ogni caso, gli spettacoli gladiatorii - da Cesare a Nerone a Vespasiano e oltre - rappresentavano una formidabile cassa di risonanza, un’esaltazione della propria immagine, un’accentuazione del potere. Non meraviglia perciò che Augusto, nelle Res gestae, decanti i diecimila uomini impegnati a giostrare e a eliminarsi in suo nome e in nome dei figli e dei nipoti. Né meraviglia la costante assistenza medica di cui fruivano i campioni in sede di addestramento. Lo stesso Galeno, prima di approdare alla corte di Marco Aurelio, aveva operato in una scuola, diciamo di avviamento professionale, a Pergamo.
Coccolati e sferzati, sedotti e abbandonati, quali rapporti avevano con le gladiatrici (giacché anche le donne occupavano un discreto spazio) e con le generiche ammiratrici?
Alle avventure erotiche Fik Meijer riserva pagine argute, confortate dai lazzi di Giovenale e dalle scritte vulcaniche emerse a Pompei. Signore di ogni ceto spasimavano per quei fustoni scolpiti dai duri allenamenti: un modello di virilità sigillata dal priapeo gladius che nel linguaggio popolare stava per fallo. Non soltanto le facili Messaline incalzavano gli atleti, ma castigate mogli di senatori, come Eppia innamorata di un tal Sergio, o come Faustina, figlia di Antonino Pio.
La carrellata dei giudizi etici e filosofici coevi è lodevolmente parca: tiepide o ambigue le reazioni di Cicerone e Seneca, secco il pollice verso di Tacito, prevedibile l’accorato diniego di Tertulliano.
All’inizio e alla fine del saggio ricorre il nome di Alipio, un allievo nordafricano di Agostino, sospinto al circo da amici e condiscepoli spregiudicati. Dapprima il ragazzo s’indigna, denuncia orrore e ribrezzo per quel teatro mostruoso; poi di colpo subentra la metamorfosi demoniaca. Alipio s’immerge nel fascino perverso dello spettacolo e si trasforma in un frenetico adoratore della lotta cruenta, «trovando gusto nell’efferatezza della gara e inebriandosi sempre più della vista del sangue».
Le Confessioni ci dicono che il giovane si ravvederà grazie alla fede che poneva in Dio. Ma il segnale è ormai lanciato e cavalca tragicamente i secoli: attenti a non enfatizzare le conquiste della civiltà. Ancora troppo lenta e tortuosa appare l’evoluzione umana, per correggere il mondo interiore e stroncare la violenza alle radici.