La Repubblica 8.12.03
"Ti spiace se bacio mamma?" del regista toscano non ha avuto il tempo materiale di farsi strada. Ma non è il solo.
Tolte le eccezioni di Bertolucci, Bellocchio e Virzì, i film italiani mandati allo sbaraglio
Alessandro Benvenuti è grato per l´interessamento, ma non lo avrebbe mai sollecitato lui («non sono uno che si piange addosso»). Ma non c´è quasi bisogno di fargli domande, ha chiari in mente i sassi da togliersi dalle scarpe. Il suo Ti spiace se bacio mamma? non ha avuto il tempo materiale di farsi strada. Come dalla ripresa autunnale è capitato a tutti i film italiani tranne tre eccezioni: Bellocchio, Bertolucci e Virzì. Ecco la lista (parziale) dei sacrificati: Scacco pazzo di Haber e Il fuggiasco sulla storia di Massimo Carlotto, Prendimi e portami via con Valeria Golino e Ora o mai più di Pellegrini sul G8 di Genova, Segreti di Stato di Paolo Benvenuti, Gli indesiderabili di Pasquale Scimeca, Liberi di Tavarelli e Prima dammi un bacio con Stefania Rocca, Io no di Tognazzi-Izzo e Mio cognato con Rubini e Lo Cascio, Per sempre con Francesca Neri, Il miracolo di Winspeare, Al cuore si comanda con Gerini e Favino. Ma perfino ai maestri Olmi e Scola non è andata bene. La grande espansione del numero di schermi non ha portato nuovo pubblico ed ha aggravato la sperequazione tra campioni d'incasso e tutto il resto, non ha portato diversificazione e maggior protezione per le opere bisognose di passaparola, ha spinto al limite la logica del tutto subito.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
martedì 9 dicembre 2003
Marco Bellocchio
premiato dalla critica sabato sera a Berlino
con l'Oscar Europeo
premiato dalla critica sabato sera a Berlino
con l'Oscar Europeo
Inoltre:
www.LoSpettacolo.it [News] - 7 dicembre 2003 (h.10:40)
BUONGIORNO NOTTE VENDUTO IN 12 PAESI
Continua il successo per il film di Marco Bellocchio
citato al Lunedì
Aumentano i paesi stranieri che manifestano il loro interesse nei confronti di Buongiorno, Notte.
Dopo la delusione per la mancata vittoria a Venezia, Marco Bellocchio può ritenersi soddisfatto: il film è stato infatti venduto attraverso la “Celluloid Dreams”, in ben 12 Paesi.
Dopo gli apprezzamenti ricevuti a Toronto, New York, Villerupt, Annecy, "Buongiorno, notte" e' stato venduto in Spagna, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Russia, Portogallo, Polonia, Francia e Svizzera.
Particolarmente significative le vendite fuori dai confini europei in Israele, Messico e persino in Giappone.
ansa.it
Cinema: Bellocchio tra vincitori Valentino d'oro
07/12/2003 - 19:07
(ANSA) - LECCE, 7 DIC - [...] Marco Bellocchio [...] riceverà a Lecce il premio 'Valentino d'oro'. [...] Realizzato in Puglia nel 1972, il premio "Valentino d'oro" e' giunto alla sua XXIX edizione. Nel 1982 fu trasferito a Los Angeles, dove si e' svolto sino al 1995. Dal 1996 e' ritornato in Europa con edizioni a Berlino, Parigi, Londra, Madrid e Roma.
copyright @ 2003 ANSA
La Repubblica 8.12.03
L'OSCAR EUROPEO
Nessun trofeo a Giordana, i critici scelgono "Buongiorno, notte"
Rivincita di Bellocchio "Film non solo italiano"
Wenders: negli ultimi anni le opere europee sono note e vendute in tutto il mondo
di MARIA PIA FUSCO
citato al Lunedì
BERLINO - «Ha vinto un film che parla di riunificazione e di pacificazione, sentimenti che sono alla base dell'Accademia europea». È Wim Wenders, che dell'Accademia è presidente, a tracciare un primo bilancio della 16ma edizione del premio del cinema europeo, al temine di una piacevole serata svoltasi nell'Arena, una sede - voluta da Wenders - decisamente in tema, una gigantesca struttura industriale nel cuore dell´ex Berlino est, un tempo officina e garage per i vagoni della metropolitana, oggi spazio per concerti ed eventi artistici. «Sedici anni fa l'Accademia e il premio nacquero per l'entusiasmo europeistico di quaranta cineasti, guidati da Ingmar Bergman, oggi i membri sono 1600, in rappresentanza di 47 paesi e di 64 lingue diverse, una molteplicità che crea problemi di comunicazione, ma è anche una ricchezza culturale preziosa e insostituibile», dice ancora Wenders e, dopo aver ricordato che «se agli inizi i titoli premiati spesso erano poco conosciuti, i film degli ultimi anni sono noti e venduti nel mondo, anche grazie al lavoro dell'Academy», conclude annunciando l'appuntamento a Barcellona per il 2004.
Con i quattro premi al suo "Good bye, Lenin!", Wolfgang Becker è il trionfatore della serata: «Nessuno di noi si aspettava il successo del film, che abbiamo girato tra mille difficoltà economiche. Secondo me è andato bene perché oltre all'ironia sulla riunificazione, che ha attratto il pubblico tedesco, c'è il rapporto forte tra madre e figlio, un tema universale. Quando il film fu presentato alla Berlinale, Bush preparava la guerra in Iraq con le giustificazioni di molti media internazionali e anche le bugie e le mistificazioni dei media, altro elemento del film, sono un tema universale».
Quattro premi a un film tedesco hanno un sapore decisamente nazionalistico, ma la serata non ha avuto contestazioni né polemiche. Qualche delusione tra gli italiani, si sperava in almeno una delle tre candidature per "La meglio gioventù" - la regia di Giordana, la sceneggiatura di Rulli e Petraglia, l'interpretazione di Luigi Lo Cascio - ma la presenza del nostro cinema è stata di tutto rispetto, con la standing ovation per Carlo Di Palma (premio alla carriera) salutato in video da Woody Allen e il lungo applauso a Marco Bellocchio, per il quale il riconoscimento della critica internazionale è stata una piccola rivincita: «A Venezia molti intellettuali dicevano che "Buongiorno, notte" non avrebbe superato la barriera delle Alpi. Invece è stato venduto in 15 paesi, tra i quali Russia e Giappone, e questo premio significa che il film non racconta una storia che solo gli italiani possono capire», dice il regista.
Per il premio del cinema d'Europa è inevitabile il raffronto con la sontuosità mediatica dell'Oscar. «Una differenza è che qui si beve e si fuma», scherza il produttore inglese Nick Powell, vicepresidente dell'Academy, che aveva aperto la serata raccontando una barzelletta su Berlusconi. «L'avevo preparata per l'edizione dello scorso anno a Roma, ma il discorso del ministro della cultura italiana fu così lungo che fui costretto a tagliare i miei interventi», dice.
I soldi sono uno spunto importante per Claude Chabrol, altro premio alla carriera. Arguto e vitale come sempre, il maestro francese, convinto europeista, ricorda «il tempo degli "europudding", quando con i soldi di diversi paesi mettevano un po' di soldi ciascuno, si scriveva una storia adatta ad attori di varie nazionalità e veniva fuori un pudding che nessuno gustava. Il mio sogno invece è una grande banca europea per finanziare il cinema a prescindere dalla nazionalità dell´autore, libero di girare il suo film».
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www.LoSpettacolo.it [News] - 7 dicembre 2003 (h.10:40)
BUONGIORNO NOTTE VENDUTO IN 12 PAESI
Continua il successo per il film di Marco Bellocchio
citato al Lunedì
Aumentano i paesi stranieri che manifestano il loro interesse nei confronti di Buongiorno, Notte.
Dopo la delusione per la mancata vittoria a Venezia, Marco Bellocchio può ritenersi soddisfatto: il film è stato infatti venduto attraverso la “Celluloid Dreams”, in ben 12 Paesi.
Dopo gli apprezzamenti ricevuti a Toronto, New York, Villerupt, Annecy, "Buongiorno, notte" e' stato venduto in Spagna, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Russia, Portogallo, Polonia, Francia e Svizzera.
Particolarmente significative le vendite fuori dai confini europei in Israele, Messico e persino in Giappone.
ansa.it
Cinema: Bellocchio tra vincitori Valentino d'oro
07/12/2003 - 19:07
(ANSA) - LECCE, 7 DIC - [...] Marco Bellocchio [...] riceverà a Lecce il premio 'Valentino d'oro'. [...] Realizzato in Puglia nel 1972, il premio "Valentino d'oro" e' giunto alla sua XXIX edizione. Nel 1982 fu trasferito a Los Angeles, dove si e' svolto sino al 1995. Dal 1996 e' ritornato in Europa con edizioni a Berlino, Parigi, Londra, Madrid e Roma.
copyright @ 2003 ANSA
La Repubblica 8.12.03
L'OSCAR EUROPEO
Nessun trofeo a Giordana, i critici scelgono "Buongiorno, notte"
Rivincita di Bellocchio "Film non solo italiano"
Wenders: negli ultimi anni le opere europee sono note e vendute in tutto il mondo
di MARIA PIA FUSCO
citato al Lunedì
BERLINO - «Ha vinto un film che parla di riunificazione e di pacificazione, sentimenti che sono alla base dell'Accademia europea». È Wim Wenders, che dell'Accademia è presidente, a tracciare un primo bilancio della 16ma edizione del premio del cinema europeo, al temine di una piacevole serata svoltasi nell'Arena, una sede - voluta da Wenders - decisamente in tema, una gigantesca struttura industriale nel cuore dell´ex Berlino est, un tempo officina e garage per i vagoni della metropolitana, oggi spazio per concerti ed eventi artistici. «Sedici anni fa l'Accademia e il premio nacquero per l'entusiasmo europeistico di quaranta cineasti, guidati da Ingmar Bergman, oggi i membri sono 1600, in rappresentanza di 47 paesi e di 64 lingue diverse, una molteplicità che crea problemi di comunicazione, ma è anche una ricchezza culturale preziosa e insostituibile», dice ancora Wenders e, dopo aver ricordato che «se agli inizi i titoli premiati spesso erano poco conosciuti, i film degli ultimi anni sono noti e venduti nel mondo, anche grazie al lavoro dell'Academy», conclude annunciando l'appuntamento a Barcellona per il 2004.
Con i quattro premi al suo "Good bye, Lenin!", Wolfgang Becker è il trionfatore della serata: «Nessuno di noi si aspettava il successo del film, che abbiamo girato tra mille difficoltà economiche. Secondo me è andato bene perché oltre all'ironia sulla riunificazione, che ha attratto il pubblico tedesco, c'è il rapporto forte tra madre e figlio, un tema universale. Quando il film fu presentato alla Berlinale, Bush preparava la guerra in Iraq con le giustificazioni di molti media internazionali e anche le bugie e le mistificazioni dei media, altro elemento del film, sono un tema universale».
Quattro premi a un film tedesco hanno un sapore decisamente nazionalistico, ma la serata non ha avuto contestazioni né polemiche. Qualche delusione tra gli italiani, si sperava in almeno una delle tre candidature per "La meglio gioventù" - la regia di Giordana, la sceneggiatura di Rulli e Petraglia, l'interpretazione di Luigi Lo Cascio - ma la presenza del nostro cinema è stata di tutto rispetto, con la standing ovation per Carlo Di Palma (premio alla carriera) salutato in video da Woody Allen e il lungo applauso a Marco Bellocchio, per il quale il riconoscimento della critica internazionale è stata una piccola rivincita: «A Venezia molti intellettuali dicevano che "Buongiorno, notte" non avrebbe superato la barriera delle Alpi. Invece è stato venduto in 15 paesi, tra i quali Russia e Giappone, e questo premio significa che il film non racconta una storia che solo gli italiani possono capire», dice il regista.
Per il premio del cinema d'Europa è inevitabile il raffronto con la sontuosità mediatica dell'Oscar. «Una differenza è che qui si beve e si fuma», scherza il produttore inglese Nick Powell, vicepresidente dell'Academy, che aveva aperto la serata raccontando una barzelletta su Berlusconi. «L'avevo preparata per l'edizione dello scorso anno a Roma, ma il discorso del ministro della cultura italiana fu così lungo che fui costretto a tagliare i miei interventi», dice.
I soldi sono uno spunto importante per Claude Chabrol, altro premio alla carriera. Arguto e vitale come sempre, il maestro francese, convinto europeista, ricorda «il tempo degli "europudding", quando con i soldi di diversi paesi mettevano un po' di soldi ciascuno, si scriveva una storia adatta ad attori di varie nazionalità e veniva fuori un pudding che nessuno gustava. Il mio sogno invece è una grande banca europea per finanziare il cinema a prescindere dalla nazionalità dell´autore, libero di girare il suo film».
dal Corsera, sulla schizofrenia: Paolo Pancheri
citato al Lunedì
segnalato da Sergio Grom
Corriere della Sera 8.12.03
Primi dati di una ricerca su 10 mila pazienti
Schizofrenia, maxi studio per la cura che offre la migliore qualità di vita
di Mario Pappagallo
La cura della schizofrenia in Italia sembra migliore che in altri Paesi occidentali. È uno dei risultati parziali di un ampio studio su tollerabilità ed efficacia dei diversi farmaci a disposizione degli specialisti. Uno studio internazionale coordinato da Paolo Pancheri, docente di psichiatria alla Sapienza di Roma e presidente della Fondazione italiana per lo studio della schizofrenia (Fis) che coinvolge centinaia di centri in 10 Paesi per un totale di 10 mila pazienti, tremila nella sola Italia con 130 centri impegnati. «Abbiamo analizzato i risultati dopo i primi dodici mesi (lo studio ha una durata di due anni, ndr) - spiega Pancheri - e abbiamo visto con sorpresa che da noi, a distanza di un anno, un elevatissimo numero di pazienti continua a partecipare alla ricerca. All’estero, invece, si sono registrate più defezioni. Questo è un dato importante perché la filosofia di questo lavoro è molto diversa da quella che si pratica quando un nuovo farmaco deve essere registrato. Il nostro è uno studio naturalistico in cui sono arruolati pazienti di ogni tipo, con situazioni diverse e che stanno attuando terapie diverse. Il medico prescrive il farmaco che ritiene migliore e la valutazione riguarda tollerabilità ed efficacia nel tempo, minimo due anni. Soprattutto rispetto alla qualità della vita del paziente schizofrenico. Non scordiamo infatti che i vecchi farmaci, quelli in uso dagli anni ’60 agli anni ’80, pur efficaci, erano mal tollerati: davano effetti collaterali pesanti, e spesso per i familiari di un malato di schizofrenia era una lotta riuscire a fargli prendere il medicinale. Poi negli anni ’80 è nata una nuova classe di molecole, i cosiddetti farmaci atipici, molto più tollerabili e senza effetti indesiderati. E’ stata una svolta, parallela ai cambiamenti nella cura delle malattie mentali a cominciare dalla chiusura degli ospedali psichiatrici». Lo studio «naturalistico» va oltre i confronti di efficacia e tollerabilità di un farmaco rispetto a un non farmaco (placebo): cerca di analizzare le differenze da malato a malato, l’influenza dell’ambiente sulla terapia, la qualità della vita. «Gli italiani malati o a rischio schizofrenia sono circa 500 mila, ma questa malattia di per sé coinvolge molte più persone: dai familiari agli amici - dice Pancheri -. Una cura efficace deve tener conto di tutto questo, del fatto che il farmaco va preso per anni e anni, che l’obiettivo è reinserire il malato nella società, nel mondo del lavoro».
Ma quali sono i farmaci che sembrano funzionare meglio anche nell’ottica dello studio in chiave naturalistica? «Ad un anno dall’inizio dello studio - risponde Pancheri - due molecole sembrano dare risultati migliori: la clozapina e la olanzapina. Prima di trarre conclusioni aspettiamo la fine dello studio».
Come agiscono i farmaci? «Oggi si ritiene che la schizofrenia abbia una componente genetica di base e che il disturbo possa manifestarsi anche precocemente. Senz’altro nella prima giovinezza. C’è una sostanza nel cervello, la dopamina, i cui livelli si sregolano: in certe aree va in eccesso, in altre in deficit. I farmaci riportano i suoi livelli nella normalità. Allucinazioni e deliri derivano da un eccesso, mentre l’apatia da un deficit».
E i timori che si hanno nei confronti di questi malati?
«Infondati. L’opinione pubblica dovrebbe informare meglio. E’ più violento un soggetto normale di uno schizofrenico. Il malato di solito reagisce quando ha paura, quando gli altri sono violenti o aggressivi con lui».
Corriere della Sera 8.12.03
Primi dati di una ricerca su 10 mila pazienti
Schizofrenia, maxi studio per la cura che offre la migliore qualità di vita
di Mario Pappagallo
La cura della schizofrenia in Italia sembra migliore che in altri Paesi occidentali. È uno dei risultati parziali di un ampio studio su tollerabilità ed efficacia dei diversi farmaci a disposizione degli specialisti. Uno studio internazionale coordinato da Paolo Pancheri, docente di psichiatria alla Sapienza di Roma e presidente della Fondazione italiana per lo studio della schizofrenia (Fis) che coinvolge centinaia di centri in 10 Paesi per un totale di 10 mila pazienti, tremila nella sola Italia con 130 centri impegnati. «Abbiamo analizzato i risultati dopo i primi dodici mesi (lo studio ha una durata di due anni, ndr) - spiega Pancheri - e abbiamo visto con sorpresa che da noi, a distanza di un anno, un elevatissimo numero di pazienti continua a partecipare alla ricerca. All’estero, invece, si sono registrate più defezioni. Questo è un dato importante perché la filosofia di questo lavoro è molto diversa da quella che si pratica quando un nuovo farmaco deve essere registrato. Il nostro è uno studio naturalistico in cui sono arruolati pazienti di ogni tipo, con situazioni diverse e che stanno attuando terapie diverse. Il medico prescrive il farmaco che ritiene migliore e la valutazione riguarda tollerabilità ed efficacia nel tempo, minimo due anni. Soprattutto rispetto alla qualità della vita del paziente schizofrenico. Non scordiamo infatti che i vecchi farmaci, quelli in uso dagli anni ’60 agli anni ’80, pur efficaci, erano mal tollerati: davano effetti collaterali pesanti, e spesso per i familiari di un malato di schizofrenia era una lotta riuscire a fargli prendere il medicinale. Poi negli anni ’80 è nata una nuova classe di molecole, i cosiddetti farmaci atipici, molto più tollerabili e senza effetti indesiderati. E’ stata una svolta, parallela ai cambiamenti nella cura delle malattie mentali a cominciare dalla chiusura degli ospedali psichiatrici». Lo studio «naturalistico» va oltre i confronti di efficacia e tollerabilità di un farmaco rispetto a un non farmaco (placebo): cerca di analizzare le differenze da malato a malato, l’influenza dell’ambiente sulla terapia, la qualità della vita. «Gli italiani malati o a rischio schizofrenia sono circa 500 mila, ma questa malattia di per sé coinvolge molte più persone: dai familiari agli amici - dice Pancheri -. Una cura efficace deve tener conto di tutto questo, del fatto che il farmaco va preso per anni e anni, che l’obiettivo è reinserire il malato nella società, nel mondo del lavoro».
Ma quali sono i farmaci che sembrano funzionare meglio anche nell’ottica dello studio in chiave naturalistica? «Ad un anno dall’inizio dello studio - risponde Pancheri - due molecole sembrano dare risultati migliori: la clozapina e la olanzapina. Prima di trarre conclusioni aspettiamo la fine dello studio».
Come agiscono i farmaci? «Oggi si ritiene che la schizofrenia abbia una componente genetica di base e che il disturbo possa manifestarsi anche precocemente. Senz’altro nella prima giovinezza. C’è una sostanza nel cervello, la dopamina, i cui livelli si sregolano: in certe aree va in eccesso, in altre in deficit. I farmaci riportano i suoi livelli nella normalità. Allucinazioni e deliri derivano da un eccesso, mentre l’apatia da un deficit».
E i timori che si hanno nei confronti di questi malati?
«Infondati. L’opinione pubblica dovrebbe informare meglio. E’ più violento un soggetto normale di uno schizofrenico. Il malato di solito reagisce quando ha paura, quando gli altri sono violenti o aggressivi con lui».
storie dell'uomo:
l'ideologia di Michel Foucault
negli anni del terrorismo e dell'anti-psichiatria
ma indovina qual'è l'ideologia di Repubblica nel riproporla oggi?
citato al Lunedì
Così negli anni Settanta
INEDITI/ "Le pouvoir psychiatrique" di Michel Foucault, omosessuale e morto di AIDS nel 1984
Assai negativo il giudizio sulla psicoanalisi, a suo avviso fondata su una relazione di potere
Lo studioso guarda con interesse all'antipsichiatria di Basaglia, Laing e Cooper
Pubblicate in Francia le lezioni tenute nel '73 al Collège de France: una sorta di prosieguo della sua celebre opera "Storia della follia"
di FABIO GAMBARO
PARIGI Quando, nel 1970, Michel Foucault entrò al Collège de France, aveva solo quarantatré anni. Nelle aule della prestigiosa istituzione, dove sarebbe rimasto fino al 1984, l'anno della sua scomparsa, egli insegnava «Storia dei sistemi di pensiero» e le sue lezioni erano sempre seguite da un foltissimo pubblico attento e partecipe. All'epoca, infatti, egli era uno degli intellettuali di punta della cultura francese e opere come "Le parole e le cose" o "L'archeologia del sapere" avevano conosciuto un grandissimo successo anche al di fuori della cerchia ristretta degli addetti ai lavori. Nelle aule del Collège de France, dove il pubblico assisteva dal vivo all'elaborazione di un pensiero in divenire, il filosofo ritornò ad occuparsi delle tematiche da cui, nel corso degli anni Cinquanta, erano nati i suoi primi libri: "Malattia mentale e personalità" e, soprattutto, "Storia della follia nell'età classica", che ancora oggi è probabilmente la sua opera più famosa. In particolare, le lezioni che egli tenne tra il 1973 e il 1974, dedicate al «potere psichiatrico», volevano essere la continuazione ideale di quella sua fondamentale «archeologia della follia» che, dopo aver ricostruito il «contesto sociale, morale e immaginario» in cui il folle era stato progressivamente emarginato e bandito dalla società, si era però interrotta all'inizio del XIX secolo, proprio quando la pazzia viene medicalizzata e rinchiusa nei manicomi. Foucault ripartì da lì per far luce sulla nascita della moderna istituzione psichiatrica, una realtà di cui egli sottolinea la presenza diffusa di un potere che si esercita e si definisce attraverso il sapere specifico dei primi medici psichiatri.
Di quel corso fondamentale, delle ricerche dello studioso sullo sfondo dei primi anni Settanta segnati dal successo dell'antipsichiatria, si trova oggi un'eccezionale testimonianza nel volume "Le pouvoir psychiatrique" (Gallimard/Seuil, pagg. 396), che per la prima volta presenta la trascrizione di quelle lezioni, il cui programma è annunciato a chiare lettere fin dalle prime pagine: «Il problema che si pone», dice Fouacault, «è di fare l'analisi di quei rapporti di potere propri della pratica psichiatrica, in quanto essi sono produttori di un certo numero di enunciati che si danno come enunciati legittimi. Così piuttosto che parlare di violenza, preferirei parlare di microfisica del potere; piuttosto che parlare d'istituzione preferirei provare a vedere quali sono le tattiche messe in opera dalle forze che vi si affrontano; piuttosto che parlare di modello familiare o di "apparato di stato", vorrei provare a vedere la strategia dei rapporti e degli scontri che si svolgono all'interno della pratica psichiatrica».
Lo studioso, dunque, più che fare l'analisi dell'istituzione dall'esterno, preferisce indagare dall'interno le "scene" e i "rituali" dell'ospedale psichiatrico, le procedure giuridiche e le pratiche mediche, nel tentativo di far emergere i contorni e la sostanza di quella «pratica disciplinare» che a suo avviso darà luogo agli elementi costitutivi «su cui si costruiranno la teoria e l'istituzione psichiatrica».
A vent'anni di distanza, la parola di Foucault affascina ancora, apre prospettive interessanti e pone interrogativi che fanno molto discutere. Nelle lezioni oggi pubblicate egli s'interroga sulla natura del manicomio, considerato «un luogo di diagnosi e di classificazione», ma anche «uno spazio chiuso per uno scontro dove è questione di vittoria e sottomissione». Tra le sue mura, «la follia, volontà perturbata, passione pervertita, deve incontrarvi una volontà retta e delle passioni ortodosse». Il fine è quello del ritorno alla normalità. Di conseguenza, tutte le tecniche e le procedure utilizzate hanno «lo scopo di fare del personaggio medico il "signore della follia": colui che la fa apparire nella sua verità (quando essa è nascosta, sepolta e silenziosa) e colui che la domina, la calma e la riassorbe, dopo averla sapientemente scatenata». Ecco perché l'autore di Pouvoir psychiatrique considera il manicomio un'istituzione di potere, il cui funzionamento necessita assolutamente del «potere medico», il quale «trova le sue garanzie e le sue giustificazioni nei privilegi della conoscenza». Al suo interno, infatti, «la parola del medico acquista un potere più grande della parola di qualsiasi altro» e la legge dell'identità pesa sul malato che è obbligato di riconoscerla in tutto ciò che si dice di lui e in tutta l'anamnesi che si fa della sua vita».
Il potere psichiatrico, dice Foucault, «è una tattica di assoggettamento dei corpi all'interno di una certa fisica del potere, come potere d'intensificazione della realtà, come costituzione d'individui che al contempo ricevono e portano quella realtà». Non a caso, aggiunge, esso si ritrova «ovunque sia necessario far funzionare la realtà come un potere». Così, se si sono visti arrivare «gli psicologi a scuola, in fabbrica, nelle prigioni, nell'esercito», è solo perché essi sono intervenuti «quando queste istituzioni erano obbligate a far funzionare la realtà come un potere o a far valere come realtà il potere che si esercitava al loro interno». Va da sé che simili posizioni, soprattutto in una società come la nostra dove la presenza della psicologia è sempre più diffusa, alimenteranno innumerevoli discussioni dentro e fuori il mondo della psichiatria.
In ogni caso, indagando la nascita del moderno manicomio, Foucault sviluppa e approfondisce una riflessione più ampia sul «sapere-potere» e sulla «società disciplinare», riflessione da cui più tardi nascerà "Sorvegliare e punire", il suo celebre libro sulle prigioni. Non stupisce allora che, all'interno di tale prospettiva, egli si avvicini con interesse al discorso dell'antipsichiatria, di cui parla apertamente nella presentazione scritta del corso (sebbene poi nelle lezioni l'argomento non venga mai affrontato direttamente). Del lavoro di Basaglia, Laing, Cooper e Bernheim, egli sottolinea soprattutto «la lotta dentro e contro l'istituzione». E se la psichiatria classica è caratterizzata da «un rapporto di potere che dà luogo a una conoscenza, la quale di ritorno fonda i diritti di tale potere», l'antipsichiatria, rimettendo in discussione l'istituzione psichiatrica e, demedicalizzando la follia, mina alla base proprio la relazione di sottomissione che lega il paziente al medico e «rimette in discussione il potere del medico di decidere dello stato di salute mentale di un individuo».
Agli occhi di Foucault, la pratica dell'antipsichiatria appare così assai più radicale della psicanalisi, la quale in fin dei conti non farebbe altro che confermare la relazione di potere più volte denunciata. Esprimendo a chiare lettere un giudizio molto negativo sulla disciplina fondata da Freud, l'autore della "Volontà di sapere" e dell'"Uso dei piaceri" sostiene che, sottraendo il pazzo al manicomio, la psicanalisi si limita solo a ricreare uno nuovo spazio più in sintonia coi tempi e più consono alla riproduzione delle relazioni di potere. Affermazioni che naturalmente non piacciono ai molti psicanalisti francesi, i quali, pur riconoscendo l´importanza della "Storia della follia", oggi guardano con grande sospetto il suo autore.
Jacques Lagrange, che ha curato Le pouvoir psychiatrique, fa notare che il corso risente molto del clima teorico-politico dei primi anni Settanta, quando, sulla scorta dei movimenti antiautoritari nati dal '68, in Francia, come nel resto dell´Occidente, veniva rimessa in discussione ogni forma di potere. Ai quei movimenti il filosofo del Collège de France partecipò sempre più spesso, anche a costo di abbandonare alcuni dei suoi progetti di ricerca. Come appunto fu il caso del corso sul potere psichiatrico, con il quale egli «intendeva dare un seguito, su nuove basi, alla "Storia della follia"», un seguito che sarebbe dovuto arrivare fino ai giorni nostri. Il progetto però non si concretizzò mai, giacché in quella fase il filosofo preferì privilegiare le battaglie sul campo. Un motivo in più per apprezzare oggi la pubblicazione di queste lezioni, che Didier Eribon, autore di un'eccellente biografia di Foucault, sulle pagine del Nouvel Observateur, ha definito «d'importanza capitale».
citato al Lunedì
Così negli anni Settanta
INEDITI/ "Le pouvoir psychiatrique" di Michel Foucault, omosessuale e morto di AIDS nel 1984
Assai negativo il giudizio sulla psicoanalisi, a suo avviso fondata su una relazione di potere
Lo studioso guarda con interesse all'antipsichiatria di Basaglia, Laing e Cooper
Pubblicate in Francia le lezioni tenute nel '73 al Collège de France: una sorta di prosieguo della sua celebre opera "Storia della follia"
di FABIO GAMBARO
PARIGI Quando, nel 1970, Michel Foucault entrò al Collège de France, aveva solo quarantatré anni. Nelle aule della prestigiosa istituzione, dove sarebbe rimasto fino al 1984, l'anno della sua scomparsa, egli insegnava «Storia dei sistemi di pensiero» e le sue lezioni erano sempre seguite da un foltissimo pubblico attento e partecipe. All'epoca, infatti, egli era uno degli intellettuali di punta della cultura francese e opere come "Le parole e le cose" o "L'archeologia del sapere" avevano conosciuto un grandissimo successo anche al di fuori della cerchia ristretta degli addetti ai lavori. Nelle aule del Collège de France, dove il pubblico assisteva dal vivo all'elaborazione di un pensiero in divenire, il filosofo ritornò ad occuparsi delle tematiche da cui, nel corso degli anni Cinquanta, erano nati i suoi primi libri: "Malattia mentale e personalità" e, soprattutto, "Storia della follia nell'età classica", che ancora oggi è probabilmente la sua opera più famosa. In particolare, le lezioni che egli tenne tra il 1973 e il 1974, dedicate al «potere psichiatrico», volevano essere la continuazione ideale di quella sua fondamentale «archeologia della follia» che, dopo aver ricostruito il «contesto sociale, morale e immaginario» in cui il folle era stato progressivamente emarginato e bandito dalla società, si era però interrotta all'inizio del XIX secolo, proprio quando la pazzia viene medicalizzata e rinchiusa nei manicomi. Foucault ripartì da lì per far luce sulla nascita della moderna istituzione psichiatrica, una realtà di cui egli sottolinea la presenza diffusa di un potere che si esercita e si definisce attraverso il sapere specifico dei primi medici psichiatri.
Di quel corso fondamentale, delle ricerche dello studioso sullo sfondo dei primi anni Settanta segnati dal successo dell'antipsichiatria, si trova oggi un'eccezionale testimonianza nel volume "Le pouvoir psychiatrique" (Gallimard/Seuil, pagg. 396), che per la prima volta presenta la trascrizione di quelle lezioni, il cui programma è annunciato a chiare lettere fin dalle prime pagine: «Il problema che si pone», dice Fouacault, «è di fare l'analisi di quei rapporti di potere propri della pratica psichiatrica, in quanto essi sono produttori di un certo numero di enunciati che si danno come enunciati legittimi. Così piuttosto che parlare di violenza, preferirei parlare di microfisica del potere; piuttosto che parlare d'istituzione preferirei provare a vedere quali sono le tattiche messe in opera dalle forze che vi si affrontano; piuttosto che parlare di modello familiare o di "apparato di stato", vorrei provare a vedere la strategia dei rapporti e degli scontri che si svolgono all'interno della pratica psichiatrica».
Lo studioso, dunque, più che fare l'analisi dell'istituzione dall'esterno, preferisce indagare dall'interno le "scene" e i "rituali" dell'ospedale psichiatrico, le procedure giuridiche e le pratiche mediche, nel tentativo di far emergere i contorni e la sostanza di quella «pratica disciplinare» che a suo avviso darà luogo agli elementi costitutivi «su cui si costruiranno la teoria e l'istituzione psichiatrica».
A vent'anni di distanza, la parola di Foucault affascina ancora, apre prospettive interessanti e pone interrogativi che fanno molto discutere. Nelle lezioni oggi pubblicate egli s'interroga sulla natura del manicomio, considerato «un luogo di diagnosi e di classificazione», ma anche «uno spazio chiuso per uno scontro dove è questione di vittoria e sottomissione». Tra le sue mura, «la follia, volontà perturbata, passione pervertita, deve incontrarvi una volontà retta e delle passioni ortodosse». Il fine è quello del ritorno alla normalità. Di conseguenza, tutte le tecniche e le procedure utilizzate hanno «lo scopo di fare del personaggio medico il "signore della follia": colui che la fa apparire nella sua verità (quando essa è nascosta, sepolta e silenziosa) e colui che la domina, la calma e la riassorbe, dopo averla sapientemente scatenata». Ecco perché l'autore di Pouvoir psychiatrique considera il manicomio un'istituzione di potere, il cui funzionamento necessita assolutamente del «potere medico», il quale «trova le sue garanzie e le sue giustificazioni nei privilegi della conoscenza». Al suo interno, infatti, «la parola del medico acquista un potere più grande della parola di qualsiasi altro» e la legge dell'identità pesa sul malato che è obbligato di riconoscerla in tutto ciò che si dice di lui e in tutta l'anamnesi che si fa della sua vita».
Il potere psichiatrico, dice Foucault, «è una tattica di assoggettamento dei corpi all'interno di una certa fisica del potere, come potere d'intensificazione della realtà, come costituzione d'individui che al contempo ricevono e portano quella realtà». Non a caso, aggiunge, esso si ritrova «ovunque sia necessario far funzionare la realtà come un potere». Così, se si sono visti arrivare «gli psicologi a scuola, in fabbrica, nelle prigioni, nell'esercito», è solo perché essi sono intervenuti «quando queste istituzioni erano obbligate a far funzionare la realtà come un potere o a far valere come realtà il potere che si esercitava al loro interno». Va da sé che simili posizioni, soprattutto in una società come la nostra dove la presenza della psicologia è sempre più diffusa, alimenteranno innumerevoli discussioni dentro e fuori il mondo della psichiatria.
In ogni caso, indagando la nascita del moderno manicomio, Foucault sviluppa e approfondisce una riflessione più ampia sul «sapere-potere» e sulla «società disciplinare», riflessione da cui più tardi nascerà "Sorvegliare e punire", il suo celebre libro sulle prigioni. Non stupisce allora che, all'interno di tale prospettiva, egli si avvicini con interesse al discorso dell'antipsichiatria, di cui parla apertamente nella presentazione scritta del corso (sebbene poi nelle lezioni l'argomento non venga mai affrontato direttamente). Del lavoro di Basaglia, Laing, Cooper e Bernheim, egli sottolinea soprattutto «la lotta dentro e contro l'istituzione». E se la psichiatria classica è caratterizzata da «un rapporto di potere che dà luogo a una conoscenza, la quale di ritorno fonda i diritti di tale potere», l'antipsichiatria, rimettendo in discussione l'istituzione psichiatrica e, demedicalizzando la follia, mina alla base proprio la relazione di sottomissione che lega il paziente al medico e «rimette in discussione il potere del medico di decidere dello stato di salute mentale di un individuo».
Agli occhi di Foucault, la pratica dell'antipsichiatria appare così assai più radicale della psicanalisi, la quale in fin dei conti non farebbe altro che confermare la relazione di potere più volte denunciata. Esprimendo a chiare lettere un giudizio molto negativo sulla disciplina fondata da Freud, l'autore della "Volontà di sapere" e dell'"Uso dei piaceri" sostiene che, sottraendo il pazzo al manicomio, la psicanalisi si limita solo a ricreare uno nuovo spazio più in sintonia coi tempi e più consono alla riproduzione delle relazioni di potere. Affermazioni che naturalmente non piacciono ai molti psicanalisti francesi, i quali, pur riconoscendo l´importanza della "Storia della follia", oggi guardano con grande sospetto il suo autore.
Jacques Lagrange, che ha curato Le pouvoir psychiatrique, fa notare che il corso risente molto del clima teorico-politico dei primi anni Settanta, quando, sulla scorta dei movimenti antiautoritari nati dal '68, in Francia, come nel resto dell´Occidente, veniva rimessa in discussione ogni forma di potere. Ai quei movimenti il filosofo del Collège de France partecipò sempre più spesso, anche a costo di abbandonare alcuni dei suoi progetti di ricerca. Come appunto fu il caso del corso sul potere psichiatrico, con il quale egli «intendeva dare un seguito, su nuove basi, alla "Storia della follia"», un seguito che sarebbe dovuto arrivare fino ai giorni nostri. Il progetto però non si concretizzò mai, giacché in quella fase il filosofo preferì privilegiare le battaglie sul campo. Un motivo in più per apprezzare oggi la pubblicazione di queste lezioni, che Didier Eribon, autore di un'eccellente biografia di Foucault, sulle pagine del Nouvel Observateur, ha definito «d'importanza capitale».
a proposito de "La danza del drago giallo":
un'intervista a Domenico Fargnoli
una segnalazione di Mentore Riccio
Il Cittadino Oggi (di Siena) venerdì 5 dicembre 2003
Psichiatria e Arte, la realtà non consapevole dell'uomo
di Rosa Franca Cigliano
Questa sera alle 21.30 la Sala degli Specchi dell’Accademia dei Rozzi ospiterà la presentazione del libro “La danza del drago giallo” che Domenico Fargnoli, psichiatra, ha realizzato in collaborazione con la Liit (Lega Italiana di Improvvisazione Teatrale) e l’Associazione culturale “Senza Ragione” di Siena (www.senzaragione.it).
L’evento assumerà un carattere multimediale (saranno infatti esposte alcune delle sculture realizzate da Fargnoli e alla presentazione del libro seguirà la proiezione di un video sceneggiato dallo stesso autore) e si parlerà di una ricerca che ha come filo conduttore la relazione e le possibili interazioni fra due discipline, Arte e Psichiatria, entrambe connesse all’irrazionale, alla realtà non consapevole dell’uomo.
Fargnoli, come è nata “La danza del drago giallo”?
Il libro riassume una lunga ricerca che ha avuto una svolta nel 1998, quando su ‘istigazione’ dell’attrice Daniela Morozzi scrissi un testo teatrale intitolato “Una notte d’amore”. La ricerca è quindi scaturita dalla risposta alla richiesta di una donna che ha portato alla nascita di una forma di collaborazione artistica.
Si tratta quindi di un’esigenza narrativa che in qualche modo è scaturita da rapporti nati nell’ambito della sua professione?
Sono psichiatra e mi occupo in particolare di psicoterapia di gruppo. Nell’ambito di questo lavoro si è verificata un’evoluzione psichica delle persone con cui sono venuto in contatto e forse una trasformazione del rapporto che ha portato, in tempi recenti, anche a forme di collaborazione artistica. D’altra parte, l’interesse per la realtà psichica dell’uomo e la mia stessa formazione professionale -nell’ambito dell’analisi collettiva dello psichiatra Massimo Fagioli- mi hanno portato, nel corso del tempo, a considerare l’inevitabilità di stabilire un nesso fra Psichiatria ed Arte. Le esigenze della clinica nella cura della malattia mentale inducono a ritenere insufficienti le letture e le conoscenze di tipo solo specialistico, poiché nel rapporto con i pazienti interviene un elemento intuitivo, di fantasia che si può pensare possa essere affine ad una capacità artistica. Lo psichiatra è continuamente cimentato a cogliere nella relazione con i pazienti qualcosa di nuovo. E’ stato così che l’esigenza narrativa si è manifestata, quasi una richiesta di trasformare quell’elemento di creatività che la cura implica in un vero e proprio linguaggio artistico che raccontasse la storia di un rapporto attraverso immagini e parole più adatte ad esprimere una comunicazione emozionale.
Nel suo libro si leggono molte riflessioni critiche rispetto a quello che sembra essere ormai un canone della nostra cultura, ossia la coppia “genio e follia”…
La storia del rapporto fra Psichiatria e Arte è molto complessa. Intorno agli anni Venti del 900 la riflessione si incentra sul rapporto fra arte e schizofrenia, stabilendo l’equivoco di una possibile funzione positiva della malattia. Fu addirittura coniato il concetto di creatività dello schizofrenico, un concetto del tutto fuorviante perché lo schizofrenico al massimo tende ad una produttività generica. La creatività è invece l’emergere di una immagine nuova, originale, che all’inizio può destare sconcerto e anche scandalo – come le Demoiselles d’Avignon di Picasso –ma che presto o tardi è riconosciuta socialmente perché corrisponde ad una ricerca che si inserisce in un processo storico. La produttività schizofrenica è al contrario un rituale masturbatorio, un isolamento, come quello del pittore-parricida Richard Dadd che, verso la metà dell’800, trascorse nove lunghi anni a perfezionare un piccolo dipinto di fate. Psichiatria ed Arte hanno spesso tentato di dialogare ma si è trattato di un dialogo fra sordi: da una parte c’era l’incapacità a teorizzare la sanità dell’inconscio e dall’altra c’era l’artista che entrava intuitivamente nel mondo irrazionale senza averne conoscenza rischiando talvolta sino alla malattia e alla distruzione fisica. Il fatto che oggi esista una Psichiatria capace di penetrare l’irrazionale consente la nascita di un’arte nuova nei contenuti, nelle modalità di collaborazione e nelle forme espressive. Definendo l’identità dello psichiatra si delinea anche la possibilità di definire un’identità artistica storicamente nuova.
Ma l’arte è in grado di curare?
Per la cura è necessaria una teoria, una conoscenza esatta della fisiopatologia della mente ed un setting rigoroso che prevede l’interpretazione verbale e la frustrazione degli elementi di negatività del soggetto.
In conclusione, vorrei chiederle del titolo del suo libro.
L’immagine del drago giallo è l’immagine di una folla che si snoda come un grande serpente ed in questo senso rimanda, attraverso una serie di nessi che sarebbe complesso esplicitare, alla storia della mia formazione professionale.
Nella tradizione cinese la danza del drago è una danza collettiva in cui acrobati animano la figura di un drago, conferendo a questa maschera gigantesca una parvenza di vita. Ma la danza del drago giallo fa anche riferimento ad una leggenda cinese che narra dell’invenzione della scrittura datata a circa 4500 ani fa: un drago uscendo dal Fiume Giallo fece all’imperatore il dono della scrittura. Anche se espresso nei caratteri dell’alfabeto alfabeto fonetico il titolo è come un ideogramma in cui si uniscono più immagini e significati.
Il Cittadino Oggi (di Siena) venerdì 5 dicembre 2003
Psichiatria e Arte, la realtà non consapevole dell'uomo
di Rosa Franca Cigliano
Questa sera alle 21.30 la Sala degli Specchi dell’Accademia dei Rozzi ospiterà la presentazione del libro “La danza del drago giallo” che Domenico Fargnoli, psichiatra, ha realizzato in collaborazione con la Liit (Lega Italiana di Improvvisazione Teatrale) e l’Associazione culturale “Senza Ragione” di Siena (www.senzaragione.it).
L’evento assumerà un carattere multimediale (saranno infatti esposte alcune delle sculture realizzate da Fargnoli e alla presentazione del libro seguirà la proiezione di un video sceneggiato dallo stesso autore) e si parlerà di una ricerca che ha come filo conduttore la relazione e le possibili interazioni fra due discipline, Arte e Psichiatria, entrambe connesse all’irrazionale, alla realtà non consapevole dell’uomo.
Fargnoli, come è nata “La danza del drago giallo”?
Il libro riassume una lunga ricerca che ha avuto una svolta nel 1998, quando su ‘istigazione’ dell’attrice Daniela Morozzi scrissi un testo teatrale intitolato “Una notte d’amore”. La ricerca è quindi scaturita dalla risposta alla richiesta di una donna che ha portato alla nascita di una forma di collaborazione artistica.
Si tratta quindi di un’esigenza narrativa che in qualche modo è scaturita da rapporti nati nell’ambito della sua professione?
Sono psichiatra e mi occupo in particolare di psicoterapia di gruppo. Nell’ambito di questo lavoro si è verificata un’evoluzione psichica delle persone con cui sono venuto in contatto e forse una trasformazione del rapporto che ha portato, in tempi recenti, anche a forme di collaborazione artistica. D’altra parte, l’interesse per la realtà psichica dell’uomo e la mia stessa formazione professionale -nell’ambito dell’analisi collettiva dello psichiatra Massimo Fagioli- mi hanno portato, nel corso del tempo, a considerare l’inevitabilità di stabilire un nesso fra Psichiatria ed Arte. Le esigenze della clinica nella cura della malattia mentale inducono a ritenere insufficienti le letture e le conoscenze di tipo solo specialistico, poiché nel rapporto con i pazienti interviene un elemento intuitivo, di fantasia che si può pensare possa essere affine ad una capacità artistica. Lo psichiatra è continuamente cimentato a cogliere nella relazione con i pazienti qualcosa di nuovo. E’ stato così che l’esigenza narrativa si è manifestata, quasi una richiesta di trasformare quell’elemento di creatività che la cura implica in un vero e proprio linguaggio artistico che raccontasse la storia di un rapporto attraverso immagini e parole più adatte ad esprimere una comunicazione emozionale.
Nel suo libro si leggono molte riflessioni critiche rispetto a quello che sembra essere ormai un canone della nostra cultura, ossia la coppia “genio e follia”…
La storia del rapporto fra Psichiatria e Arte è molto complessa. Intorno agli anni Venti del 900 la riflessione si incentra sul rapporto fra arte e schizofrenia, stabilendo l’equivoco di una possibile funzione positiva della malattia. Fu addirittura coniato il concetto di creatività dello schizofrenico, un concetto del tutto fuorviante perché lo schizofrenico al massimo tende ad una produttività generica. La creatività è invece l’emergere di una immagine nuova, originale, che all’inizio può destare sconcerto e anche scandalo – come le Demoiselles d’Avignon di Picasso –ma che presto o tardi è riconosciuta socialmente perché corrisponde ad una ricerca che si inserisce in un processo storico. La produttività schizofrenica è al contrario un rituale masturbatorio, un isolamento, come quello del pittore-parricida Richard Dadd che, verso la metà dell’800, trascorse nove lunghi anni a perfezionare un piccolo dipinto di fate. Psichiatria ed Arte hanno spesso tentato di dialogare ma si è trattato di un dialogo fra sordi: da una parte c’era l’incapacità a teorizzare la sanità dell’inconscio e dall’altra c’era l’artista che entrava intuitivamente nel mondo irrazionale senza averne conoscenza rischiando talvolta sino alla malattia e alla distruzione fisica. Il fatto che oggi esista una Psichiatria capace di penetrare l’irrazionale consente la nascita di un’arte nuova nei contenuti, nelle modalità di collaborazione e nelle forme espressive. Definendo l’identità dello psichiatra si delinea anche la possibilità di definire un’identità artistica storicamente nuova.
Ma l’arte è in grado di curare?
Per la cura è necessaria una teoria, una conoscenza esatta della fisiopatologia della mente ed un setting rigoroso che prevede l’interpretazione verbale e la frustrazione degli elementi di negatività del soggetto.
In conclusione, vorrei chiederle del titolo del suo libro.
L’immagine del drago giallo è l’immagine di una folla che si snoda come un grande serpente ed in questo senso rimanda, attraverso una serie di nessi che sarebbe complesso esplicitare, alla storia della mia formazione professionale.
Nella tradizione cinese la danza del drago è una danza collettiva in cui acrobati animano la figura di un drago, conferendo a questa maschera gigantesca una parvenza di vita. Ma la danza del drago giallo fa anche riferimento ad una leggenda cinese che narra dell’invenzione della scrittura datata a circa 4500 ani fa: un drago uscendo dal Fiume Giallo fece all’imperatore il dono della scrittura. Anche se espresso nei caratteri dell’alfabeto alfabeto fonetico il titolo è come un ideogramma in cui si uniscono più immagini e significati.
Piero Fassino continua a fare interessanti rivelazioni sul proprio pensiero
Dopo aver comunicato a tutti in una intervista a Repubblica pochi giorni fa (inserita in questo blog alla data del 6.12.03) di aver studiato dai gesuiti e di essere un credente ("non sono né ateo, né agnostico"), il segretario dei Democratici di Sinistra, con una lettera aperta sulla prima pagina de L'Unità di oggi, 9 dicembre, dichiara la propria fede anche nella neuropsichiatria di impostazione freudiana del Prof. Giovanni Bollea, autore, fra l'altro, del celebre "Le madri non sbagliano mai" edito da Feltrinelli, ringraziandolo caldamente per il suo lavoro teorico, nell'occasione degli auguri per il suo novantesimo compleanno... ai quali, comunque, pur privi di quella fede, naturalmente ci associamo...
Il Prof. Giovanni Bollea, nato a Cigliano nel 1913 è considerato l'innovatore della neuropsichiatria infantile italiana del dopoguerra: formatosi a Losanna, Parigi e Londra, è professore emerito presso l'Università "La Sapienza" di Roma, dove tuttora vive e lavora. Fondatore e direttore dell'Istituto di neuropsichiatria infantile di via dei Sabelli, primo presidente della società italiana di neuropsichiatria infantile (Sinpi), ha inoltre ricoperto i più prestigiosi incarichi della specialità in campo internazionale
Giovanni Bollea, Le madri non sbagliano mai Editore: Feltrinelli 1999
Lit.12586 Eur. 6,50 Universale Economica Feltrinelli, in commercio
L'Unità 8.12.03
Ci ha insegnato a prendere sul serio i nostri figli.
Ai 90 anni di Giovanni Bollea
di Piero Fassino
Caro Giovanni,
scrivere una lettera di auguri per i tuoi 90 anni è per me motivo di gioia: per le nostre comune radici di piemontesi trapiantati a Roma, per i comuni ideali politici in cui entrambi crediamo, per quel comune modo di essere schivo e un po' ritroso, a cui persino il nostro fisico, alto magro e secco, allude.
Ma soprattutto mi piace scriverti per esprimere la gratitudine immensa che tutti ti dobbiamo per la straordinaria lezione di umanità e di amore che hai trasmesso alle generazioni che ti hanno seguito; a tanti papà, mamme, nonne, zie che grazie a te hanno amato meglio i piccoli; a educatori, insegnanti, operatori che tutti hanno imparato da te a guardare i bambini non solo con gli occhi degli adulti.
Grazie per averci insegato che non c'è foresta più indispensabili al respiro del pianeta di quella costituita dai bambini, piccoli alberi che debbono crescere, sostenuti e protetti, all'ombra dei grandi vecchi alberi, per ereditarne la forza, l'esperienza, la testimonianza, il senso della storia e la voglia di continuare Grazie per averci educato a considerare un bambino come una persona fin dalla più tenera età e, soprattutto ad, ad ascoltare i bambini, le loro domande, le loro sofferenze, i loro bisogni; a «prenderli sul serio» e da lì partire per assicurare anche ai più piccoli diritti. E grazie per averci insegnato che si è adulti più maturi se si è stati bambini amati e che non spegnere il sorriso di un bambino, è il modo più concreto con cui noi adulti possiamo batterci perché il mondo sia più giusto, più libero, più umano.
Auguri, caro professor Bollea, maestro dei bambini, maestro di tutti noi!
Con affetto, un grande abbraccio
Piero Fassino
Il Prof. Giovanni Bollea, nato a Cigliano nel 1913 è considerato l'innovatore della neuropsichiatria infantile italiana del dopoguerra: formatosi a Losanna, Parigi e Londra, è professore emerito presso l'Università "La Sapienza" di Roma, dove tuttora vive e lavora. Fondatore e direttore dell'Istituto di neuropsichiatria infantile di via dei Sabelli, primo presidente della società italiana di neuropsichiatria infantile (Sinpi), ha inoltre ricoperto i più prestigiosi incarichi della specialità in campo internazionale
Giovanni Bollea, Le madri non sbagliano mai Editore: Feltrinelli 1999
Lit.12586 Eur. 6,50 Universale Economica Feltrinelli, in commercio
L'Unità 8.12.03
Ci ha insegnato a prendere sul serio i nostri figli.
Ai 90 anni di Giovanni Bollea
di Piero Fassino
Caro Giovanni,
scrivere una lettera di auguri per i tuoi 90 anni è per me motivo di gioia: per le nostre comune radici di piemontesi trapiantati a Roma, per i comuni ideali politici in cui entrambi crediamo, per quel comune modo di essere schivo e un po' ritroso, a cui persino il nostro fisico, alto magro e secco, allude.
Ma soprattutto mi piace scriverti per esprimere la gratitudine immensa che tutti ti dobbiamo per la straordinaria lezione di umanità e di amore che hai trasmesso alle generazioni che ti hanno seguito; a tanti papà, mamme, nonne, zie che grazie a te hanno amato meglio i piccoli; a educatori, insegnanti, operatori che tutti hanno imparato da te a guardare i bambini non solo con gli occhi degli adulti.
Grazie per averci insegato che non c'è foresta più indispensabili al respiro del pianeta di quella costituita dai bambini, piccoli alberi che debbono crescere, sostenuti e protetti, all'ombra dei grandi vecchi alberi, per ereditarne la forza, l'esperienza, la testimonianza, il senso della storia e la voglia di continuare Grazie per averci educato a considerare un bambino come una persona fin dalla più tenera età e, soprattutto ad, ad ascoltare i bambini, le loro domande, le loro sofferenze, i loro bisogni; a «prenderli sul serio» e da lì partire per assicurare anche ai più piccoli diritti. E grazie per averci insegnato che si è adulti più maturi se si è stati bambini amati e che non spegnere il sorriso di un bambino, è il modo più concreto con cui noi adulti possiamo batterci perché il mondo sia più giusto, più libero, più umano.
Auguri, caro professor Bollea, maestro dei bambini, maestro di tutti noi!
Con affetto, un grande abbraccio
Piero Fassino
un appello contro la nuova legge
in materia di procreazione assistita
La Repubblica 9 dicembre 2003
L'APPELLO
Intellettuali contro la legge
"E' inaccettabile e immorale"
Pubblichiamo l'appello rivolto da una serie di personalità della scienza e della cultura, contrarie alla nuova legge in materia di procreazione assistita.
"Riteniamo doveroso affermare che la normativa in discussione al Senato sulla procreazione medicalmente assistita è inaccettabile e immorale: se approvata, violerebbe il diritto delle cittadine e dei cittadini di formare una famiglia secondo i loro valori e le loro più profonde convinzioni, nonché il diritto di essere liberi di scegliere se avere o non avere figli, quanti averne, quando averli e come averli, anche ricorrendo all'assistenza medica.
La libertà riproduttiva è un valore definitivamente consolidato dalla crescita civile di un'Italia che, anche grazie ai referendum sul divorzio e sull'aborto, ha raggiunto nuova maturità.
Siamo a dir poco stupefatti nel constatare che il progetto di legge in discussione al Senato costituisce un radicale attacco alla crescita civile del nostro paese: anziché affidare le scelte sulla prole alla responsabilità delle persone, impone divieti e forti limitazioni prevedendo sanzioni ispirate spesso a una concezione inutilmente crudele della pena.
Alcuni di questi divieti (come quello di diagnosi pre-impianto con l'obbligo di reinserimento in utero di tutti gli embrioni formati), stupefacenti dal punto di vista scientifico e ripugnanti dal punto di vista morale, verrebbero ad incidere sulla salute e sul benessere dei bambini che nasceranno per mezzo della fecondazione assistita. Alcune delle restrizioni poste renderebbero di fatto le donne fruitrici della cura della sterilità cittadine di secondo ordine.
L'approvazione del progetto di legge costituirebbe una sconfitta per tutti: per i cattolici che, richiedendo e approvando una legge che ammette la fecondazione artificiale, ne riconoscerebbero implicitamente la legittimità tradendo il principio d'inscindibilità tra vita sessuale e vita riproduttiva; per i laici, che vedrebbero fortemente limitata la libertà personale dalla volontà di una maggioranza parlamentare; per lo Stato che verrebbe ferito nel principio fondante della laicità e che, approvando la legge cattolica auspicata dallo stesso Pontefice, ricostruirebbe antichi steccati alimentando vecchie e nuove tensioni.
Auspichiamo che - dopo matura e libera riflessione - anche i senatori giungano a queste stesse conclusioni: noi rispettiamo la loro libertà di coscienza, ma chiediamo loro di non usarla per coartare quella di milioni di italiani approvando una legge che, invece di garantire pace e convivenza fra le diverse componenti della nostra società, verrebbe ad espropriare le cittadine e i cittadini della libertà di procreare, mutilandone i progetti di vita".
Firmatari: Gilda Ferrando, Carlo Flamigni (membro del Comitato nazionale di bioetica), Antonino Forabosco, Eugenio Lecaldano, Rita Levi Montalcini (membro Cnb), Maurizio Mori, Piero Musiani, Demetrio Neri (membro Cnb), Alberto Piazza (membro Cnb), Valerio Pocar (presidente della Consulta di bioetica), Annalisa Silvestro (membro Cnb), Tullia Zevi (membro Cnb).
L'APPELLO
Intellettuali contro la legge
"E' inaccettabile e immorale"
Pubblichiamo l'appello rivolto da una serie di personalità della scienza e della cultura, contrarie alla nuova legge in materia di procreazione assistita.
"Riteniamo doveroso affermare che la normativa in discussione al Senato sulla procreazione medicalmente assistita è inaccettabile e immorale: se approvata, violerebbe il diritto delle cittadine e dei cittadini di formare una famiglia secondo i loro valori e le loro più profonde convinzioni, nonché il diritto di essere liberi di scegliere se avere o non avere figli, quanti averne, quando averli e come averli, anche ricorrendo all'assistenza medica.
La libertà riproduttiva è un valore definitivamente consolidato dalla crescita civile di un'Italia che, anche grazie ai referendum sul divorzio e sull'aborto, ha raggiunto nuova maturità.
Siamo a dir poco stupefatti nel constatare che il progetto di legge in discussione al Senato costituisce un radicale attacco alla crescita civile del nostro paese: anziché affidare le scelte sulla prole alla responsabilità delle persone, impone divieti e forti limitazioni prevedendo sanzioni ispirate spesso a una concezione inutilmente crudele della pena.
Alcuni di questi divieti (come quello di diagnosi pre-impianto con l'obbligo di reinserimento in utero di tutti gli embrioni formati), stupefacenti dal punto di vista scientifico e ripugnanti dal punto di vista morale, verrebbero ad incidere sulla salute e sul benessere dei bambini che nasceranno per mezzo della fecondazione assistita. Alcune delle restrizioni poste renderebbero di fatto le donne fruitrici della cura della sterilità cittadine di secondo ordine.
L'approvazione del progetto di legge costituirebbe una sconfitta per tutti: per i cattolici che, richiedendo e approvando una legge che ammette la fecondazione artificiale, ne riconoscerebbero implicitamente la legittimità tradendo il principio d'inscindibilità tra vita sessuale e vita riproduttiva; per i laici, che vedrebbero fortemente limitata la libertà personale dalla volontà di una maggioranza parlamentare; per lo Stato che verrebbe ferito nel principio fondante della laicità e che, approvando la legge cattolica auspicata dallo stesso Pontefice, ricostruirebbe antichi steccati alimentando vecchie e nuove tensioni.
Auspichiamo che - dopo matura e libera riflessione - anche i senatori giungano a queste stesse conclusioni: noi rispettiamo la loro libertà di coscienza, ma chiediamo loro di non usarla per coartare quella di milioni di italiani approvando una legge che, invece di garantire pace e convivenza fra le diverse componenti della nostra società, verrebbe ad espropriare le cittadine e i cittadini della libertà di procreare, mutilandone i progetti di vita".
Firmatari: Gilda Ferrando, Carlo Flamigni (membro del Comitato nazionale di bioetica), Antonino Forabosco, Eugenio Lecaldano, Rita Levi Montalcini (membro Cnb), Maurizio Mori, Piero Musiani, Demetrio Neri (membro Cnb), Alberto Piazza (membro Cnb), Valerio Pocar (presidente della Consulta di bioetica), Annalisa Silvestro (membro Cnb), Tullia Zevi (membro Cnb).
religione e Stato: Europa e Islam
www.cafebabel.com 09.12.03
"L’Europa sta confondendo Stato e Chiesa"
Intervista al professor Mahmoud Salem Elsheikh, studioso dell’Islam, che spiega perché è l'Europa, e non l'Islam, ad aver dimenticato l'importanza della separazione tra religione e politica.
(Mahmoud Salem Elsheikh è studioso dell’Islam, docente di Filologia all’Università di Firenze e responsabile di ricerca del C.N.R.)
Professore Elsheikh, che cosa sta succedendo in Europa tra Stato e religione?
E’ evidente una sovrapposizione di poteri. Prendiamo l’Italia. Monsignor Ruini, durante l’omelia nella chiesa di San Paolo per i morti italiani di Nassiriya, si è permesso di parlare in nome del Parlamento del popolo italiano; poco tempo prima il Presidente della Repubblica Ciampi ha indicato nel crocifisso un simbolo della nazione. Ma il crocifisso non dovrebbe rappresentare la Salvezza dell’uomo? Tutto ciò non fa chiarezza. Nel mondo occidentale c’è molta confusione, più che in quello arabo. Del resto basti pensare che il capo della Chiesa anglicana rimane il Re d’Inghilterra, o che in Danimarca i monarchi sono ancora i capi della Chiesa.
E l’Islam?
L’Islam è accusato di sovrapporre i due elementi (stato e religione). Si dimentica però che nella religione musulmana non esiste una chiesa, non esiste una struttura gerarchica tipo quella ecclesiastica che presenti persone rivestite di carattere sacro al cui vertice sta un capo supremo, “il Papa infallibile” con la funzione di moderatore del corpo ecclesiastico ed autorità che decide in ultima istanza. Nell’Islam non ci sono sacramenti, chiunque può attendere alla pratica rituale, basta abbia dimestichezza con il rito. Non ci sono ministri del culto. Durante le cerimonie, ad esempio la preghiera del Venerdì, può presiedere un credente qualsiasi, basta che sappia come si fa. Un clero distinto dal laicato, come nelle chiese cristiane, non esiste.
E come si pone allora la religione musulmana di fronte alla laicità?
Non esiste laicità. Spesso si parla di Islam “laico” da opporre ad un Islam religioso. Ma siccome non c’è un aspetto religioso distinto non c’è neanche opposizione. A cosa si dovrebbe opporre? Quello che erroneamente si definisce “clero islamico” non è altro che l’insieme delle persone incaricate, anche in modo permanente, in funzione puramente amministrativa e di manutenzione delle moschee dove esercitano questa professione come dipendenti dell’ente moschea.
Chi è allora l’Imam di Carmagnola?
Il sedicente Imam di Carmagnola, da poco espulso dal governo italiano (per turbativa dell’ordine pubblico e pericolo per la sicurezza dello stato ndr) con il plauso dell’opposizione, non è che un’invenzione. Dal momento che nell’Islam non esiste clero, non esistono guide, mi pare di ravvisare che dietro la pretesa di qualcuno di autonominarsi “Imam” si nasconde in realtà la volontà, da parte di convertiti all’Islam, di crearsi una struttura analoga alla struttura della religione di provenienza (il cristianesimo). Vogliono cristianizzare l’Islam creando così un “Islam sui generis”, quello che appunto chiamano “Islam italiano”.
Quanto è incisiva la strumentalizzazione di questi episodi da parte dei mass-media?
In questa situazione di incertezza dell’identità europea, sviluppatasi in seguito alla scomparsa del pericolo numero uno, il nemico comunista, l’occidente rispolvera il vecchio nemico, l’Islam. In questo momento di timore per la minaccia islamica, entrano in azione i media a difesa della cristianità, indicata come radice e valore dell’occidente; media che non fanno fatica ad ospitare nei talk-show personaggi inventati, costruiti, tipo Adel Smith (colui che ha chiesto la rimozione del crocifisso da un’aula scolastica ndr) o il sedicente Imam di Carmagnola, pur di mostrare all’opinione pubblica il volto fondamentalista dell’Islam. E questo è un disegno volto a dimostrare l’assurda tesi dell’incompatibilità dell’Islam con la modernità.
Alcuni Stati, come Italia, Spagna e Polonia, vorrebbero inserire il riferimento alle “radici cristiano-giudaiche” nella futura costituzione europea. Cosa ne pensa?
E’ soprattutto l’Italia che le vuole inserire. Comunque bisogna fare una distinzione tra radici e cultura perché le tre religioni monoteiste, piuttosto contese dalla sfera pubblica europea, affondano le proprie radici nel martoriato Medio Oriente, non in Europa. Così come, dal punto di vista culturale, ignora il ruolo della cultura greca nella costruzione europea, cultura greca diffusasi anche attraverso la presenza arabo-islamica in Europa, basti pensare che Aristotele è conosciuto dagli europei grazie agli arabi.
Professore, negli ultimi giorni la Turchia è stata presa d’assalto dai terroristi. Come vede la situazione dell’unico paese “laico” del mondo arabo e soprattutto, crede che la Turchia aderirà un giorno all’Unione Europea?
A me pare che non la vogliano far entrare. Questo perché si rendono completamente conto della situazione anomala della Turchia. Lo hanno detto già a chiare lettere Francia, Germania e Svezia. Non è solo per motivi demografici o economici ma anche per la sua organizzazione dello Stato e della società. Io non sono contrario all’ingresso della Turchia, gli europei lo sono. Si decanta il laicismo della Turchia dimenticando però che questa “democrazia” attraverso l’art.5 della costituzione consegna nelle mani dell’esercito, di una dittatura militare, il proprio destino democratico. In ogni caso non è l’elemento religioso che ostacola l’adesione turca, ci sono difficoltà di altro genere, non basta proibire la pena di morte o impedire alle donne di portare in testa il foulard, non previsto del resto da nessuna regola islamica, per veder “promossa” la Turchia.
Una domanda che credo in molti le vorrebbero porre, ma l’Islam può coincidere con la democrazia?
L’Islam è nato per la democrazia! Bisogna gridarlo ad alta voce. La prima scissione politica del partito di Alì, il genero del Profeta, segna proprio il momento cruciale della democrazia islamica. Alì pretendeva la continuità della famiglia del Profeta, mentre la maggioranza ha preteso ed ottenuto che la nomina del Califfo debba avvenire per libere elezioni. Che poi nei paesi a maggioranza musulmana la pratica della democrazia è sconosciuta non è certo colpa dell’Islam. Quasi la totalità dei paesi a maggioranza islamica, dopo la caduta dell’impero ottomano nel 1924, hanno conosciuto un’occupazione militare delle potenze coloniali durata fino a mezzo secolo fa. Potenze coloniali che continuano, per il loro dominio economico, culturale e militare, ad insediare in questi paesi dittature militari che garantiscono i loro interessi. L’Islam non c’entra nulla. Forse non sarebbe male che l’Europa si facesse un esame di coscienza e si chiedesse cosa ha fatto negli ultimi cinquant’anni oltre ad aprirsi i mercati delle armi e di ogni altro genere di merce, impedendo ogni via di sviluppo e soffocando ogni tentativo di rivendicazione di indipendenza che avrebbe portato ad una vera democrazia nei paesi dell’altra linea del mediterraneo.
Marco Sabatini - Roma - 8.12.2003
"L’Europa sta confondendo Stato e Chiesa"
Intervista al professor Mahmoud Salem Elsheikh, studioso dell’Islam, che spiega perché è l'Europa, e non l'Islam, ad aver dimenticato l'importanza della separazione tra religione e politica.
(Mahmoud Salem Elsheikh è studioso dell’Islam, docente di Filologia all’Università di Firenze e responsabile di ricerca del C.N.R.)
Professore Elsheikh, che cosa sta succedendo in Europa tra Stato e religione?
E’ evidente una sovrapposizione di poteri. Prendiamo l’Italia. Monsignor Ruini, durante l’omelia nella chiesa di San Paolo per i morti italiani di Nassiriya, si è permesso di parlare in nome del Parlamento del popolo italiano; poco tempo prima il Presidente della Repubblica Ciampi ha indicato nel crocifisso un simbolo della nazione. Ma il crocifisso non dovrebbe rappresentare la Salvezza dell’uomo? Tutto ciò non fa chiarezza. Nel mondo occidentale c’è molta confusione, più che in quello arabo. Del resto basti pensare che il capo della Chiesa anglicana rimane il Re d’Inghilterra, o che in Danimarca i monarchi sono ancora i capi della Chiesa.
E l’Islam?
L’Islam è accusato di sovrapporre i due elementi (stato e religione). Si dimentica però che nella religione musulmana non esiste una chiesa, non esiste una struttura gerarchica tipo quella ecclesiastica che presenti persone rivestite di carattere sacro al cui vertice sta un capo supremo, “il Papa infallibile” con la funzione di moderatore del corpo ecclesiastico ed autorità che decide in ultima istanza. Nell’Islam non ci sono sacramenti, chiunque può attendere alla pratica rituale, basta abbia dimestichezza con il rito. Non ci sono ministri del culto. Durante le cerimonie, ad esempio la preghiera del Venerdì, può presiedere un credente qualsiasi, basta che sappia come si fa. Un clero distinto dal laicato, come nelle chiese cristiane, non esiste.
E come si pone allora la religione musulmana di fronte alla laicità?
Non esiste laicità. Spesso si parla di Islam “laico” da opporre ad un Islam religioso. Ma siccome non c’è un aspetto religioso distinto non c’è neanche opposizione. A cosa si dovrebbe opporre? Quello che erroneamente si definisce “clero islamico” non è altro che l’insieme delle persone incaricate, anche in modo permanente, in funzione puramente amministrativa e di manutenzione delle moschee dove esercitano questa professione come dipendenti dell’ente moschea.
Chi è allora l’Imam di Carmagnola?
Il sedicente Imam di Carmagnola, da poco espulso dal governo italiano (per turbativa dell’ordine pubblico e pericolo per la sicurezza dello stato ndr) con il plauso dell’opposizione, non è che un’invenzione. Dal momento che nell’Islam non esiste clero, non esistono guide, mi pare di ravvisare che dietro la pretesa di qualcuno di autonominarsi “Imam” si nasconde in realtà la volontà, da parte di convertiti all’Islam, di crearsi una struttura analoga alla struttura della religione di provenienza (il cristianesimo). Vogliono cristianizzare l’Islam creando così un “Islam sui generis”, quello che appunto chiamano “Islam italiano”.
Quanto è incisiva la strumentalizzazione di questi episodi da parte dei mass-media?
In questa situazione di incertezza dell’identità europea, sviluppatasi in seguito alla scomparsa del pericolo numero uno, il nemico comunista, l’occidente rispolvera il vecchio nemico, l’Islam. In questo momento di timore per la minaccia islamica, entrano in azione i media a difesa della cristianità, indicata come radice e valore dell’occidente; media che non fanno fatica ad ospitare nei talk-show personaggi inventati, costruiti, tipo Adel Smith (colui che ha chiesto la rimozione del crocifisso da un’aula scolastica ndr) o il sedicente Imam di Carmagnola, pur di mostrare all’opinione pubblica il volto fondamentalista dell’Islam. E questo è un disegno volto a dimostrare l’assurda tesi dell’incompatibilità dell’Islam con la modernità.
Alcuni Stati, come Italia, Spagna e Polonia, vorrebbero inserire il riferimento alle “radici cristiano-giudaiche” nella futura costituzione europea. Cosa ne pensa?
E’ soprattutto l’Italia che le vuole inserire. Comunque bisogna fare una distinzione tra radici e cultura perché le tre religioni monoteiste, piuttosto contese dalla sfera pubblica europea, affondano le proprie radici nel martoriato Medio Oriente, non in Europa. Così come, dal punto di vista culturale, ignora il ruolo della cultura greca nella costruzione europea, cultura greca diffusasi anche attraverso la presenza arabo-islamica in Europa, basti pensare che Aristotele è conosciuto dagli europei grazie agli arabi.
Professore, negli ultimi giorni la Turchia è stata presa d’assalto dai terroristi. Come vede la situazione dell’unico paese “laico” del mondo arabo e soprattutto, crede che la Turchia aderirà un giorno all’Unione Europea?
A me pare che non la vogliano far entrare. Questo perché si rendono completamente conto della situazione anomala della Turchia. Lo hanno detto già a chiare lettere Francia, Germania e Svezia. Non è solo per motivi demografici o economici ma anche per la sua organizzazione dello Stato e della società. Io non sono contrario all’ingresso della Turchia, gli europei lo sono. Si decanta il laicismo della Turchia dimenticando però che questa “democrazia” attraverso l’art.5 della costituzione consegna nelle mani dell’esercito, di una dittatura militare, il proprio destino democratico. In ogni caso non è l’elemento religioso che ostacola l’adesione turca, ci sono difficoltà di altro genere, non basta proibire la pena di morte o impedire alle donne di portare in testa il foulard, non previsto del resto da nessuna regola islamica, per veder “promossa” la Turchia.
Una domanda che credo in molti le vorrebbero porre, ma l’Islam può coincidere con la democrazia?
L’Islam è nato per la democrazia! Bisogna gridarlo ad alta voce. La prima scissione politica del partito di Alì, il genero del Profeta, segna proprio il momento cruciale della democrazia islamica. Alì pretendeva la continuità della famiglia del Profeta, mentre la maggioranza ha preteso ed ottenuto che la nomina del Califfo debba avvenire per libere elezioni. Che poi nei paesi a maggioranza musulmana la pratica della democrazia è sconosciuta non è certo colpa dell’Islam. Quasi la totalità dei paesi a maggioranza islamica, dopo la caduta dell’impero ottomano nel 1924, hanno conosciuto un’occupazione militare delle potenze coloniali durata fino a mezzo secolo fa. Potenze coloniali che continuano, per il loro dominio economico, culturale e militare, ad insediare in questi paesi dittature militari che garantiscono i loro interessi. L’Islam non c’entra nulla. Forse non sarebbe male che l’Europa si facesse un esame di coscienza e si chiedesse cosa ha fatto negli ultimi cinquant’anni oltre ad aprirsi i mercati delle armi e di ogni altro genere di merce, impedendo ogni via di sviluppo e soffocando ogni tentativo di rivendicazione di indipendenza che avrebbe portato ad una vera democrazia nei paesi dell’altra linea del mediterraneo.
Marco Sabatini - Roma - 8.12.2003
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