venerdì 20 maggio 2005

il Corriere: «clonate cellule staminali su misura»
...ma per Unità e Repubblica non è cosa da prima pagina...

Corriere della Sera 20.5.05 PRIMA PAGINA, titolo principale d'apertura
SCIENZA PIU’ VELOCE DEL REFERENDUM
Edoardo Boncinelli

Potrebbe essere una data storica. I ricercatori hanno prodotto 11 linee stabilizzate di cellule staminali embrionali umane dotate di un’identità genetica predeterminata. Potrebbe essere l'inizio dell'era della produzione di tessuti ed organi «su ordinazione» con la garanzia di poterli trapiantare con successo su specifici individui che ne hanno bisogno. Da qualche anno si parla di questa opportunità. La via da percorrere è relativamente chiara. Si prende una cellula-uovo fecondata e se ne elimina il nucleo, che viene sostituito con un altro nucleo prelevato da cellule adulte dell'individuo che dovrà usufruire del trapianto. Si fa sviluppare fino ad un certo stadio l'embrione precoce derivante dalla cellula così ottenuta, fino a che se ne può prelevare una quantità sufficiente di cellule staminali che vengono messe a crescere in coltura.
Per definizione queste avranno la stessa identità genetica dell’individuo che deve ricevere il trapianto, così che i tessuti e gli organi formati con queste cellule staminali non potranno non essere accettati dall’individuo stesso, senza pericoli di rigetto. A parte le obiezioni di natura etica e sociale che alcuni sollevano verso questa procedura, però, esistono molti problemi tecnici, primo fra tutti quello che riguarda la possibilità di produrre prontamente cellule staminali ogni volta che lo si desidera partendo da nuclei prelevati da individui di ogni tipo, magari malati, come saranno coloro che in futuro potranno usufruire di tale opportunità terapeutica. Un anno fa un gruppo di ricerca formato di coreani e statunitensi aveva comunicato di essere riuscito per la prima volta a produrre cellule staminali embrionali umane usando questa procedura. Si trattava di un solo caso e l’efficienza non era troppo alta. Quello che è stato annunciato oggi dagli stessi ricercatori è un risultato molto più consistente e promettente. Sono state prodotte linee di cellule staminali embrionali con una discreta efficienza e partendo dai nuclei prelevati da persone diverse, portatrici di patologie diverse, alcune di natura congenita, altre acquisite per incidenti o malattie sopraggiunte durante la loro vita. Le prospettive per la medicina di domani sono a dir poco esaltanti, come ho già detto altre volte. Ma come ho già puntualizzato in ogni circostanza, questo è solo l’inizio. Occorre infatti garantire una elevata efficienza e affidabilità del processo e soprattutto occorre lavorare ancora molto per trovare tutte le sostanze e le procedure necessarie per indirizzare le cellule staminali che vengono prodotte di volta in volta verso la formazione di tutti quei tessuti e organi di cui abbiamo e avremo bisogno. Occorre in sostanza ancora tanta ricerca, ma la via è segnata. Le obiezioni di natura etica rimangono intatte, almeno per ora, ma il raggiungimento dell’obiettivo terapeutico si avvicina e diviene sempre più concreto. Il mondo insomma va avanti e quando l’applicazione pratica di queste scoperte diverrà una realtà sarà piuttosto difficile non tenerne conto e impedire ai potenziali utenti di andare a farsi curare dove questo è possibile. Anche in Paesi stranieri. Ed è bene tenere conto che anche l’Italia non è sospesa nel vuoto ma fa parte di una comunità internazionale sempre più integrata. Le decisioni prese all’interno del nostro Paese sono destinate dunque a essere annacquate e messe in secondo piano da quelle degli altri Paesi. Con buona pace dei referendum.

di cosa si parla:

Clonazione, staminali sane da pazienti malati

L’annuncio di una équipe coreana: per la prima volta creata una scorta genetica.
In Italia la tecnica è vietata

ROMA - «Se qualcosa è possibile, è certo che prima o poi la scienza la realizzerà». Così diceva ieri mattina Umberto Veronesi nel presentare il convegno organizzato a settembre dalla sua Fondazione a Venezia. Mentre l’oncologo parlava, a Londra e negli Stati Uniti, in contemporanea, un gruppo di sudcoreani annunciavano di aver concretizzato uno di quei progetti dati solo per «possibili» pochi anni fa. Hanno prodotto le prime linee di cellule staminali, in tutto undici, tratte da embrioni clonati.
SU MISURA - Due le particolarità. La pubblicazione del lavoro su Science-express. E, soprattutto, il fatto che la clonazione terapeutica ha riguardato pazienti colpiti da malattie gravi e attualmente senza cura, diabete giovanile, lesioni del midollo e immunodeficienze. Se l’esperimento continuasse (ma per ora le nuove linee resteranno nel chiuso dei laboratori) le cellule madri, pluripotenti, capaci di differenziarsi nei tessuti che compongono l’organismo umano, potrebbero essere trapiantate nel paziente dal quale sono state generate per andare in teoria a moltiplicarsi e ricostituire le parti distrutte. In pratica per la prima volta si sono create cellule staminali tagliate su misura e pronte ad essere trapiantate in pazienti malati. Prospettiva lontana per l’Italia che si appresta a sottoporre al giudizio dei cittadini, con il referendum, la legge sulla fecondazione artificiale dove tutte le tecniche concernenti la manipolazione dell’embrione, e tanto più la clonazione per fini terapeutici, sono vietate.
WOO SUK HWANG - Primo autore dello studio di Science il coreano ormai abbonato alle scoperte rivoluzionarie, Woo Suk Hwang, veterinario all’università di Seul. Già nel 2004 aveva clonato l’embrione, facendolo fino allo stadio di blastocisti, ma a donare cellule e ovociti erano state donne sane. Tra i firmatari, dopo numerosi nomi coreani, chiude la lista l’americano Gerald Schatten, dipartimento di ginecologia e riproduzione a Pittsburgh. La clonazione è avvenuta col metodo utilizzato in Scozia da Ian Wilmut per duplicare la pecora Dolly nel ’97. In questi anni la tecnica si è raffinata, ha raggiunto un’efficienza maggiore.
I ricercatori hanno prelevato cellule adulte dalla pelle di malati tra 2 e 56 anni. Il nucleo è stato trasferito in ovociti, 185 in tutto, donati da 18 volontarie, a loro volta svuotati. In coltura l’ovocita, rimaneggiato ma non fecondato, ha dato vita a blastocisti, embrioni di poche cellule che sono risultate «pluripotenti, normali dal punto di vista cromosomico e conformi al Dna» dei rispettivi proprietari oltre che istocompatibili. Acrobazie simili in Europa sarebbero possibili solo in Inghilterra dove lo stesso Wilmut ha chiesto e ottenuto l’autorizzazione di procedere alla clonazione terapeutica.
COMMENTI - Una vera svolta? Sta diventando sul serio realtà il sogno di curare molte di quelle malattie che assillano l’uomo come Parkinson e Alzheimer? Non tutti sono d’accordo. Commenti ottimisti si alternano a prese di posizione più caute. «Nulla di nuovo, la ricerca ha un valore simbolico perché è la somma di esperimenti già fatti», la sminuisce Claudio Bordignon, direttore scientifico del San Raffaele di Milano.
Entusiasta invece Carlo Alberto Redi, direttore del laboratorio Biologia dello sviluppo all’università di Pavia: «Lavoro fondamentale: è la prima volta che si ottengono staminali così pulite, ora bisognerà vedere come differenziarle per arrivare alla terapia». Marco Cappato, presidente dell’Associazione Luca Coscioni, non perde occasione per denunciare l’«arretratezza» dell’Italia «dove i coreani finirebbero in carcere. Invece c’è da felicitarsi».
CAUTELA - Veronesi commenta favorevolmente ma avverte: «Una strada da battere, però occorre usare cautela». Angelo Vescovi, San Raffaele, esprime scetticismo sulla clonazione terapeutica: «Un progresso che lascia ancora molti dubbi etici. Per ottenere questo risultato sono stati distrutti blastocisti».

...e i cattolici , ovviamente, "rosicano":

La protesta dei cattolici: «E’ abominevole e inutile»
Monsignor Sgreccia: così si sopprimono gli embrioni. Bobba delle Acli: assurdo uccidere una vita per salvarne altre

MILANO - «Abominevole». «E ancora più grave perché inutile». Il giudizio del mondo cattolico sul nuovo esperimento di Seul non lascia margini di interpretazione possibili. E anche se interlocutori e parole cambiano, il concetto è molto chiaro e costante: «È sempre una clonazione, seguita dalla soppressione di uno o più embrioni». E a chi sostiene le ragioni «terapeutiche» dell’esperimento rispondono con ragioni non solo etiche ma pratiche: «Le staminali adulte hanno già dimostrato un’efficacia che qui comunque non si intravede. E fare a pezzi una vita per salvarne un’altra resterà sempre un’aberrazione inaccettabile». Monsignor Elio Sgreccia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, non si scompone né si sorprende: «Stando alle sintetiche notizie riportate dalle agenzie, mi pare che ancora una volta siamo di fronte a quella che viene chiamata clonazione terapeutica multipla. È una tecnica che in fin dei conti consiste sempre nel trasferimento di nucleo di cellule somatiche in ovuli, e che poi comporta la soppressione di questi embrioni clonati allo stadio di blastocisti per poterne prelevare le cellule. In altre parole la soppressione di un essere umano si può esprimere solo un giudizio: inaccettabile».
E non a caso, sottolinea Sgreccia, anche questo esperimento è avvenuto in Corea e non negli Usa: «Quel che hanno fatto è una cosa che l’Onu ha dichiarato illecita da tempo e con grande fermezza. Purtroppo quella dell’Onu resta, da un punto di vista concreto, solo una dichiarazione di principio. Il che è già importantissimo, ci mancherebbe: quel che manca sono le sanzioni per i trasgressori, e la conseguenza è che chi vuol fare esperimenti di questo tipo li fa».
Roberto Colombo, direttore del Laboratorio di Biologia Molecolare e Genetica Umana dell'Università Cattolica di Milano, è ancora più duro: «L'esperimento condotto a Seul in collaborazione con ricercatori americani di Pittsburgh è umanamente abominevole, e nessuna ragione scientifica o clinica può giustificarlo». Spiega perché: «Sono stati sacrificati oltre un centinaio di embrioni umani, ottenuti intenzionalmente per questo scopo da 185 ovociti di donna, al fine di produrre 11 linee di cellule staminali embrionali da destinare alla sperimentazione». E conclude: «L'uomo all'inizio della sua vita è stato strumentalizzato e distrutto sull'altare di certa scienza biomedica che pretende di possedere e manipolare la vita umana. Come anche altri e numerosi studiosi di genetica e di biologia molecolare non mi riconosco in questo modo irresponsabile e disumano di fare ricerca, e mi auguro che nel nostro Paese ciò non sia mai consentito».
Come rispondere però ai malati che anche da ricerche come questa si attendono comunque una speranza? «Per esempio Dicendo loro con chiarezza - afferma Luigi Bobba, presidente delle Acli - che una speranza vera qui non c’è. Questo è lo stesso gruppo che un anno fa aveva clonato l’uomo: ma il fatto è che allo stato, con le staminali embrionali, gli scienziati non sono in grado di far niente. diverso il discorso per le staminali adulte, o tratte dai cordoni ombelicali, con cui si possono già curare decine di malattie: perché non investire tutto su questo? La scienza ha come obiettivo di proteggere la vita, se decide di farne a pezzi una per salvarne altre non è scienza ma scientismo. E infine: siamo già diffidenti sugli Ogm per un chicco di grano, possibile che si ritenga accettabile toccare un embrione?».
Francesco D’Agostino, presidente del Comitato nazionale di Bioetica, ribadisce che «sulla clonazione terapeutica il Comitato ha già espresso la sua contrarietà. L'unico paese in Europa che ha autorizzato questa pratica e che, conseguentemente non ha firmato la convenzione, è l'Inghilterra di Tony Blair».


ANSA Venerdì 20 Maggio 2005, 12:29
STAMINALI:
COREA DEL SUD, HWANG DIFENDE LA SUA RICERCA


(ANSA) - SEUL, 20 MAG - Hwang Woo Suk, il capo del team di ricercatori sudcoreani sulla bocca di tutto il mondo per aver realizzato le prime linee di cellule staminali embrionali 'su misura', prelevate da embrioni clonati a partire da cellule adulte di 11 pazienti colpiti da diabete giovanile, lesioni del midollo spinale e immunodeficienza, difende a spada tratta oggi la sua ricerca.
"Non abbiamo violato alcuna legge del nostro paese - ha detto in un'intervista all'agenzia di stampa sudcoreana 'Yohnap' in risposta a chi lo accusa di aver ottenuto embrioni umani clonati, sacrificati in nome della scienza - Abbiamo anzi ritardato di molto l'annuncio per essere sicuri di essere nella piena legalità. Ci siamo consultati con esponenti del governo, ricevendo il via libera. Capisco le perplessità di chi considera gli embrioni già essere umani. Ma in questo campo la competizione è tremenda e allora e meglio affrontare il problema con regole certe e condivise".
Il governo sudcoreano è stato uno dei primi al mondo a far approvare una legge che consente agli scienziati di condurre ricerche a scopi terapeutici sugli embrioni umani, mettendo al bando però transazioni commerciali su spermatozoi e ovociti.
Hwang ha messo in guardia, nello stesso tempo, dai facili entusiasmi di chi crede che ora sia vicinissimo il giorno in cui si potranno guarire, con le cellule staminali, malattie finora incurabili. "Ci sono ancora ostacoli formidabili da superare - ha spiegato - prima di riuscire a far crescere le cellule staminali così ottenute in cellule e tessuti specifici da sostituire a quelli malati".
"Ma ora la strada è aperta - ha concluso - Aver creato cellule staminali su misura per persone di entrambi i sessi e di tutte le età è un passo avanti da giganti. Occorre adesso una collaborazione a livello internazionale per scambio di informazioni e tecniche. Noi siamo pronti ad aprire i nostri laboratori e sono certo che il governo sudcoreano fornirà l'assistenza necessaria. Un grande servizio per l'intera umanità".(ANSA).

ricevuto da Franco Pantalei

Agi Roma, 14:34

PANNELLA, SE L'EMBRIONE E' VITA, MASTURBARSI E' OMICIDIO

"Se gli embrioni sono figli, fratelli, persone vive, allora hanno una mamma e un papà che sono gli spermatozoi e gli ovuli. Quindi la masturbazione è l'omicidio di milioni di possibili genitori". E' quanto ha affermato Marco Pannella durante un dibattito sulla fecondazione assistita al liceo Mamiani di Roma, a cui ha partecipato insieme al giornalista Giuliano Ferrara.
"La masturbazione - ha aggiunto Pannella - in questa logica altro non è che uno spreco di spermatozoi, quindi lo sterminio di genitori degli embrioni. Bisognerà farsi carico anche di questo", ha concluso il leader radicale.

storia
Ilaliani brava gente?

Liberazione 19.5.05
Italiani brava gente,
lo stereotipo che inganna

In nome di questo falso mito sono stati cancellati dalla memoria collettiva i crimini peggiori compiuti dal colonialismo nostrano. Come quelli commessi in Jugoslavia ricostruiti dallo storico Costantino Di Sante
Tonino Bucci

Per un paese come l'Italia che ha avuto una costruzione nazionale debole e un'unificazione tardiva, la parola identità ha rappresentato spesso un campo vuoto da riempire, di volta in volta, con contenuti artificiosi. Non solo la storia passata del nostro paese non presenta esperienze collettive condivise - non lo è stata certo il Risorgimento - ma ogni volta che sono state presentate letture concilianti, queste hanno avuto segno conservatore e regressivo. Immagini unificanti come quella di patria o di "italiani in fondo brava gente" sono state utilizzate per rimuovere pagine imbarazzanti della nostra storia come il colonialismo e il fascismo; oppure per sminuire i conflitti sociali e politici, la Resistenza in primo luogo, da cui è nata l'Italia repubblicana.
Queste visioni concilianti a dispetto di ogni memoria antagonista si sono, non a caso, intrecciate, negli ultimi anni, con il revisionismo storico. Ogni volta che il ceto politico della destra italiana ha provato ad azzerare le ragioni politiche dell'antifascismo, si è fatta strada nel dibattito storiografico - o presunto tale - una visione relativizzante delle differenze tra Salò e la Resistenza, equiparando ambedue a opera di minoranze contrapposte. Il concetto di patria - o di identità nazionale condivisa - è stato invocato come orizzonte ulteriore all'interno del quale far sparire qualsiasi opposizione tra fascismo e antifascismo, ormai considerati come retaggi storici superati. Mai come al momento della nascita della cosiddetta Seconda Repubblica lo slogan della riconciliazione ha trovato così tanto credito, quando dare per superata la contrapposizione fascismo-antifascismo significava dare il via libera allo smantellamento della costituzione resistenziale e della democrazia dei partiti di massa. Più i processi materiali andavano in direzione del maggioritario, del rafforzamento dell'esecutivo, del presidenzialismo, del federalismo e del primato del mercato; più nella cultura si faceva strada l'immagine conciliante degli "italiani brava gente", rimasti immuni a grande maggioranza dagli odii degli opposti estremismi, dal fascismo e dall'antifascismo, considerati opera di minoranze esigue da rigettare senz'altro tra gli anacronismi superati dalla storia.
Ma di quale pasta sono fatti gli stereotipi che dovrebbero spazzare il terreno da ogni residuo di memorie inconciliate e antagoniste? Qual è il "materiale" rimosso dalle letture pacificatrici della storia italiana? Quali pagine del colonialismo nostrano sono state cancellate in nome del bravo italiano, sempre generoso e dotato di gran cuore, modesto eppure capace di piccoli atti eroici? Non si può negare che, nonostante il lavoro meritorio di alcuni storici come Angelo Del Boca, il mito della brava gente abbia rimosso molti dei crimini commessi dall'esercito italiano in Libia e in Etiopia, ma anche nei territori dei Balcani occupati durante la Seconda guerra mondiale. «Come tutti gli stereotipi, il mito del "bravo italiano" si è fondato su un nucleo di verità (ad esempio, l'aiuto prestato su larga scala agli ebrei) e al contempo su una radicale rimozione di altri aspetti della realtà imbarazzanti per la coscienza nazionale» che potrebbero mettere in crisi una lettura conciliante della nostra storia: come questo dispositivo abbia cancellato dalla memoria collettiva i crimini delle avventure coloniali e belliche, lo analizza Costantino Di Sante, un ricercatore dell'istituto regionale per la storia del movimento di Liberazione delle Marche e autore del volume Italiani senza onore. I crimini in Jugoslavia e i processi negati (1941-1951) (edizioni Ombre Corte, pref. di Filippo Focardi, pp. 272, euro 18,00).
Se non fosse per lavori sporadici come questo ci sarebbe un silenzio assoluto sul passato colonialista dell'Italia in Africa. Ancor meno si potrebbero affrontare domande imbarazzanti sul reale consenso che c'era, ad esempio, nel nostro paese al momento dell'ingresso nel secondo conflitto mondiale al fianco della Germania nazista. E, senza dubbio, nessuna traccia rimarrebbe dei crimini commessi soprattutto durante l'occupazione militare nei Balcani, elusa completamente negli attuali dibattiti collettivi - impegnati perlopiù a rimestare nelle foibe, nella riabilitazione più o meno esplicita della Repubblica di Salò, di cui si celebra il sangue versato, e finanche nella criminalizzazione di alcuni settori della Resistenza.
«La politica italiana di espansione nei Balcani - scrive Di Sante - come ormai documentato dalla ricerca storica più avvertita, venne contraddistinta da inaudite violenze, che non furono episodi isolati o eccessi di singoli, ma componenti essenziali della strategia di dominio territoriale dell'Italia». Dopo la capitolazione della Jugoslavia - l'attacco contro di essa era scattato il 6 aprile 1941- gli italiani parteciparono alla spartizione dei territori insieme a Germania, Bulgaria, Ungheria e Albania, mentre Croazia e Montenegro (quest'ultimo un protettorato di Roma) divennero due stati indipendenti. Gli italiani si annessero le città di Spalato e di Cattaro, allargarono il governatorato di Dalmazia ad alcuni comuni dell'interno. A Fiume si aggiunsero dei territori tra la Slovenia e la Croazia, mentre venne creata la provincia di Lubiana in Slovenia. L'esercito occupò anche altre zone della Bosnia, l'intera Erzegovina, il Sangiacatto e parte della Croazia.
Le zone occupate furono teatro di violenze, repressioni antipartigiane, crimini contro la popolazione civile, «eppure a partire dal 1945, terminate le ostilità, quei crimini, come altri analoghi di cui si erano rese responsabili truppe italiane nei territori via via invasi, sarebbero stati destinati a svanire, corroborando lo stereotipo del "bravo italiano" che, alimentato dall'oblio, si è depositato in una memoria parziale ed edulcorata degli eventi. Una memoria che, riprodotta ampiamente dalla memorialistica e dal cinema, restituisce un'immagine degli italiani come esclusivamente vittime e mai agenti di violenza». Nonostante nell'immediato dopoguerra la Jugoslavia di Tito avesse istituito appositamente una commissione d'inchiesta sui misfatti compiuti dalle truppe italiane, nessuna delle richieste di estradizione dei criminali per poterli processare trovò risposta positiva da parte delle autorità italiane. Quest'ultime riuscirono a evitare che si svolgessero i processi per quei crimini grazie a una «intensa attività diplomatica» e ad alcuni dossier approntati dallo Stato maggiore del nostro esercito - raccolti tra la documentazione allegata al volume di Di Sante. Proprio quei dossier - dati alla mano - offrirono il mezzo per contrastare le accuse jugoslave, ricorrendo spesso alle «inattendibili testimonianze rilasciate da molti protagonisti di quei crimini». Generali, ufficiali, semplici soldati, poliziotti, carabinieri e funzionari civili italiani che si erano macchiati di gravi misfatti non furono mai puniti, «evitando così quella che è stata chiamata la possibile "Norimberga italiana"». E va sottolineato che «la loro protezione venne ottenuta con l'importante complicità degli Alleati impegnati a difendere i propri interessi strategici». Non solo: anche coloro che collaborarono con le autorità fasciste sfuggirono a qualsiasi processo. «Diversi criminali (ustascia, cetnici soprattutto), che avevano prestato la loro opera di collaborazione con i regimi fascisti, trovarono un sicuro rifugio in Italia».

"Diavolo in Corpo" all'Accademia di Francia di Roma

L'Unità 20 Maggio 2005
DAL 6 GIUGNO I FILM DELLA CROISETTE
CON UN PROLOGO D’AUTORE DAL 24 MAGGIO
Silvia Galieti

Aprirà i battenti il 24 maggio la decima retrospettiva del Festival di Cannes che proporrà i «vecchi» film proiettati negli anni durante il celebre appuntamento cinematografico francese. Mentre il 6 giugno sarà la volta delle anteprime nazionali provenienti dalle diverse sezioni del festival. Da martedì a venerdì l’appuntamento è con i dodici film italiani tra i più noti della storia della «Quinzaine des Réalisatures» e de «La Semaine internationale de la Critique», le due principali iniziative cinematografiche parallele del festival. Verranno proiettati nella splendida cornice dell'Accademia di Francia a Villa Medici «I nuovi angeli» di Ugo Gregoretti, «Pelle viva» di G. Fina, «I Cannibali» di L. Cavani, «Diavolo in corpo» di Bellocchio e tanti altri. La retrospettiva mira a consacrare i dieci anni di «Le Vie Cinema da Cannes a Roma», anni densi di proiezioni, anteprime e cortometraggi provenienti da tutte le sezioni del festival.
Inizierà invece il 6 giugno «Le Vie del Cinema da Cannes a Roma», che presenterà in anteprima nazionale i film più prestigiosi provenienti dalla selezione ufficiale della 58ma edizione del festival francese. I film, in versione originale con sottotitoli in italiano, regaleranno alle notti romane un po’ di quella magica atmosfera che regna sulla Croisette, avvicinando il pubblico al grande cinema. Le rassegne si preannunciano interessanti: presenteranno opere di straordinario spessore artistico e coinvolgeranno lo spettatore in incontri con registi e attori.

Inoltre Libertà pubblica oggi la notizia che a Marco Bellocchio è stato assegnato il Lion's d'Oro.
Non ne sappiamo di più perché, non essendo abbonati, non abbiamo accesso tramite Internet all'edizione di oggi di questo quotidiano

una davvero curiosa recensione americana di «L'ora di religione» uscita oggi sul "Philadelphia Inquirer"

philly.com - Philadelphia,PA,USA
Faith comes knocking on atheist's door
Carrie Rickey
Philadelphia Inquirer
Published: Friday, May 20, 2005


Though Marco Bellocchio's My Mother's Smile announces itself as critical of the pieties of the Vatican and motherhood, it is a riveting, rich portrait of an atheist who thinks he's resistant to faith but may be in the throes of a feverish conversion.
The movie centers on Ernesto (the marvelous Sergio Castellitto, an actor with the face of John Turturro and the force of Al Pacino). Ernesto is a celebrated Roman artist estranged from his wife and from his family of origin.
It might be said that God reconnects Ernesto with his son and his siblings. But not in the ways you might guess. In this film, deemed blasphemous by the Roman Catholic Church, Ernesto is Doubting Thomas as reimagined by Kafka.
On the same day that Ernesto learns that his 10-year-old son has been talking to God, the painter also receives news that his mother is a candidate for canonization. Clearly, someone is trying to tell him something.
Employing light and shadow in old-masterly arrangements, Bellocchio frames Ernesto in vaulted interiors, like the Virgin Mary in an Annunciation. The film's painterly light and sacred music are weapons in a holy war for Ernesto's hardened heart.
His wry smile and skeptical eyes don't completely armor Ernesto from his son's comely religion instructor and a Vatican emissary.
Castellitto, writer-director of the recent film Don't Move, is an actor of enormous resources. He proceeds through the film in a state of slack-jawed incredulity that makes his Ernesto equally comic and dramatic.
When he hears his wife suggest that it might be useful for their son to have a saint for a grandmother, it confirms Ernesto's religious cynicism. But when he encounters the man who claims that his mother miraculously healed him, who is Ernesto to say it isn't so? Still, thinks the son who didn't much like the mother whose smirk he has inherited, how could a dumb cow of a creature manifest miraculous powers?
Throughout the film, Bellocchio maintains a quizzical tone. It is possible to see Ernesto as a petulant man in denial, a nonbeliever with good reason, and a postulant about to affirm belief.
In the end, Bellocchio suggests in this spiritual thriller that perhaps faith is the dream from which we do not awaken.

le riviste di medicina sono veramente indipendenti?

Le Scienze 18.05.2005
Riviste di medicina sotto accusa
Dipenderebbero in modo eccessivo da inserzionisti e finanziatori

"Le riviste di medicina costituiscono un estensione del braccio del marketing delle compagnie farmaceutiche": lo sostiene Richard Smith, ex curatore del British Medical Journal e ora direttore generale di UnitedHealth Europe, in un provocatorio editoriale pubblicato sulla rivista "PLoS Medicine".
L'esempio più evidente della dipendenza delle riviste mediche dall'industria farmaceutica è la quantità di denaro che ricevono dalle pubblicità di farmaci, ma secondo Smith si tratterebbe della "forma meno corrotta di dipendenza", in quanto le inserzioni "possono essere viste e criticate da tutti".
Il problema maggiore, invece, è quello della pubblicazione di trail clinici finanziati dall'industria. "Per una compagnia farmaceutica - spiega - uno studio favorevole vale più di migliaia di pagine di inserzioni pubblicitarie. Ecco perché le aziende spendono a volte milioni di dollari per ristampare e diffondere in tutto il mondo i risultati delle ricerche". A differenza delle pubblicità, l'affidabilità degli studi viene percepita dai lettori in maniera più positiva.
"Fortunatamente per le compagnie farmaceutiche che hanno finanziato questi studi, ma non altrettanto per la credibilità delle riviste che li pubblicano, i trial raramente producono risultati sfavorevoli per i prodotti della compagnia stessa". Citando esempi da 86 diversi studi, Smith dimostra che i risultati dei trial sono influenzati da chi li finanzia.

© 1999 - 2005 Le Scienze S.p.A.

un riferimento al "Fu Mattia Pascal"

una segnalazione di Dina Battioni

Repubblica 19.5.05
L´AMANTE DI LADY PRIVACY
Un libro-intervista di Paolo Conti a Stefano Rodotà
Nuovi diritti in un mondo che cambia di continuo
la sordità della sinistra a questi temi
L'Italia esibizionista del grande fratello
Un bilancio e insieme un'analisi di una disciplina in gran parte da esplorare del Garante "per la protezione dei dati personali"
NELLO AJELLO

UNA PICCOLA SCHIERA DI PERSONAGGI MEMORABILI - da Greta Garbo a William Faulkner, da Jean Jacques Rousseau, quello delle Fantasticherie del passeggero solitario, al Balzac del romanzo Modesta Mignon - abitano il Pantheon di ciò che oggi chiamiamo la «privacy». Ne sono gli antenati. I missionari. Gli eroi. Ne hanno suggerito lo spirito, pur senza addentrarsi in una normativa giuridica. Ad essi rende onore il giurista Stefano Rodotà nell'Intervista su privacy e libertà che pubblica da Laterza, a cura di Paolo Conti (pagg. 154, 10 euro), nell'atto di lasciare la carica di Garante per la protezione dei dati personali. Aveva inaugurato quest'ufficio nel 1997, vi si era identificato con una foga spinta fino alla dedizione.
Ancora in anni recenti, questa nuova disciplina, la «privacy», era un terreno da esplorare non senza difficoltà. Venivano esaltati, nel concetto che la designa, una serie di Valori (sia consentito ricorrere, una volta tanto con ragione, a questo abusato termine maiuscolo) non ancora largamente sentiti come tali. Spesso, anzi, negletti fino a farne una parodia. Il diritto all´oblio, la libertà di essere lasciati soli, l´istinto a sottrarsi alle ossessive sorveglianze - burocratiche ed elettroniche, ormai gemellate - l´aspirazione a preservare qualche zona d´ombra nell´identità e nei comportamenti personali erano considerati poco meno che bizzarrie. Nell´emergere «in piena luce» dell´uomo moderno non si scorgevano, come sarebbe stato opportuno, dei precedenti quanto meno angosciosi: né l´insidia totalitaria che era stata dispiegata sia dal nazismo - l´«uomo di vetro» era il suddito ideale del III Reich - né quel sistema poliziesco che s´era incardinato nei gulag sovietici. Per distrazione o ignoranza storica s´immaginava che la tutela del proprio «privato» fosse un appannaggio di raffinate minoranze, una richiesta avanzata da ristrette cerchie di Vip (uso con disagio l´invadente acronimo) oppresse dalla curiosità pubblica. La difesa della propria intimità sembrava un rito praticato in esclusiva nel salotto di Lady Privacy. L´ansia di apparire, la coltivazione di quella «Velina» o di quella «Letterina» che sonnecchia ormai nell´inconscio di ogni essere vivente, predisponeva i più a esecrare la sola idea che il privato delle persone venisse tutelato magari per legge. Sembrava - ripeto - che il ricorrere a simili cautele fosse un espediente usato dalla gente già nota per impedire, magari, che si allargasse la propria cerchia: una rivalsa sociale a tutela dei ricchi e dei potenti. Un lusso giuridico. Un elegante diritto.
L´emergere del narcisismo di massa - l´Italia del Grande Fratello non è incline a privilegiare una psicologia che ricordi Il fu Mattia Pascal di Pirandello - congiurava contro la privacy. L´ostentazione del proprio io, anche se minimo, appariva un modo di partecipazione alto e ambito. Quel diritto al clamore che è una distorsione della modernità veniva presentata come un portato ultra-legittimo della democrazia. Ogni invito alla discrezione nel rappresentarsi in pubblico era interpretato come censura, o almeno istigazione alla reticenza. Per tutto questo, l´attività cui Rodotà si è dedicato dal 1997 in poi appare - e così egli la descrive - una battaglia.
Il terreno dello scontro era tuttavia in parte dissodato. La sordità delle sinistre rispetto agli imperativi della privacy aveva trovato un primo rimedio nella proverbiale vicenda delle schedature cui gli operai della Fiat vennero sottoposti a fini politicamente discriminatorii nei decenni infuocati della guerra fredda. Certi slogan risalenti alla fase eroica del femminismo - «Il privato è politico», prima di tutti - avevano contribuito, dal canto loto, a far riflettere sulla natura non necessariamente classista dei tentativi di riappropiazione della vita personale di cui l´Ufficio del Garante era il prodotto e lo strumento. Da utensile statuale indebito, chiamato a preservare il cittadino da un genere di attentati che egli non riconosceva come tali, quell´ufficio cominciò ad apparire come uno scudo contro l´invadenza del Potere.
L´ostracismo decretato dai «media» - Rodotà parla di capannelli di giornalisti davanti alla sede dell´Autorità, considerata una minaccia alla libertà di stampa - e l´inimicizia professata dalle banche, che si sentivano memomate nella loro azione ispettiva nei riguardi della clientela, andarono ridimensionandosi, anche perché l´ufficio preposto alla privacy alternava sforzi di convinzione a più energici interventi a termini di legge.
Nelle redazioni, benché scottate da un passato in cui la censura si ammantava di artificiose preoccupazioni sociali, l´inopportunità di certi titoli di cronaca - Rodotà ne indica uno: «Architetto omosessuale ferito in un incidente d´auto», in cui le preferenze affettive del malcapitato sono una chiosa indifendibile - la privacy venne vista sempre meno come un´avversaria professionale, una rompiscatole o una Cassandra con la faccia da Cerbero. In questo quadro, vanno giustamente moltiplicandosi le apparizioni di imputati con il volto «sfumato», o visti di nuca, e sui quotidiani o settimanali i protagonisti dei fatti di cronaca meno lusinghieri sono indicati con le semplici iniziali anagrafiche. E suscitano sempre più scandalo gli espedienti per aggirare sia la legge che il codice deontologico dell´informazione. Rodotà e Conti citano il caso di una ragazza siciliana affetta del morbo della «mucca pazza»: di lei i giornali parlarono, tenendone bensì nascoste le generalità ma descrivendola con particolari così lampanti - paese d´origine, attività commerciale svolta dalla famiglia, università in cui studiava, luogo da lei scelto per le vacanze - da renderla pienamente riconoscibile ed esporla alla discriminazione. L´Autorità della privacy intervenne, in quel caso, con molta fermezza.
Se numerosi successi vanno registrati, non si tratta di una battaglia vinta per sempre. La tecnologia, procedendo senza sosta sulla sua legittima strada, accoppia in sé ovvi vantaggi sociali e molteplici insidie. Telefonini, portali elettronici, carte di credito, sistemi di video-sorveglianza, cartelle cliniche non sufficientemente «segretate» a tutela dei pazienti di cui esplorano il Dna: ecco soltanto un assaggio delle casistiche in cui può configurarsi, ai danni di chiunque, un «furto d´identità» o un´indebita sottrazione di notizie. Ecco lacerata quella cultura del rispetto che risale, per grandi linee, all´«Habeas corpus» del 1215. Ma - insistendo giustamente nello spaventarci - Rodotà fa notare che oggi il nostro «corpo fisico» è assai meglio tuletato del nostro «corpo elettronico», cioè dell´enorme massa di informazioni che esistono su di noi e possono contro di noi essere utilizzate. Per cui a quell´antico e benemerito «Habeas corpus» andrebbe accompagnato un nuovissimo «Habeas data». La promessa della Magna Charta - non metteremo mano su di te - dev´essere estesa e aggiornata. Ciascuno di noi deve poter controllare tutto ciò che su di lui si scrive e si conserva.
Sempre in bilico sul palcoscenico della Storia, lady Privacy è indifesa di fronte agli imprevisti. La realtà può attentare ai suoi danni. Fra le vittime dell´11 settembre americano figura anche lei, nella sua essenza incorporea ma tutt´altro che trascurabile. L´imperativo della sicurezza generale, che è risuonato nel paese ha indubbiamente giocato contro la difesa dei singoli e del loro «vissuto». Al pari di ogni legislazione di emergenza, il Patriot Act rischia di considerare miope ogni preoccupazione individuale, e di farne giustizia rimandando a un indefinibile «dopo» il ritorno alla normalità costituzionale. A partire dall´11 settembre di quattro anni fa, «tutto sembra lecito a gran parte degli americani».
Ma il libro di Rodotà e Conti non si limita a questa denuncia. Si addentra anche nella sproporzione tra sforzi e risultati cui è approdata l´azione degli investigatori. Su otto milioni e mezzo di persone che sono state controllate negli Stati Uniti in seguito all´attentato delle Twin Towers, i veri sospettati sono in tutto 281, e nessuno lo è per reati di terrorismo. Nella grande democrazia americana la Privacy, oggi depressa, aspetta di sgranchirsi. E di riprendere la sua marcia.