martedì 8 marzo 2005

citato al Lunedì
Michel Gribinski

Questo è il Gribinski citato al Lunedì, questo articolo era usito domenica

ilmanifesto.it 6 marzo 2005-03-08

L'interpretazione tra la veglia e il sonno
Lo psicoanalista francesce Michel Gribinski ha parlato ieri a Firenze del suo ultimo libro, Le separazioni imperfette, edito da Borla. Tra queste pagine ci propone di seguire l'evoluzione del suo pensiero mentre lavora con i pazienti
ALBERTO LUCHETTI

Si comincia con concessioni sulle parole per finire a poco a poco con concessioni sulle cose. Così ammoniva Freud, nella fattispecie circa l'edulcorare la sessualità cominciando col rinunciare a chiamarla col suo nome. Gli faceva eco Winnicott: «Come gli esseri umani, le parole talvolta devono battersi per affermare e conservare la loro identità». Eppure, per non cedere sulle parole e affinché queste non smarriscano la loro identità, è necessario che le nostre parole cedano un po' e si smarriscano, e noi con esse, accettando di separarcene sia pure imperfettamente. E cedendo e smarrendosi, ritrovino il contatto con le percezioni, con le immagini, con quell'intelligenza segreta del nostro rapporto col mondo da cui le parole sono generate e che al tempo stesso generano, velandolo fino talvolta a nasconderlo. È attraverso questo delicato eppure densissimo varco - con il quale ha, perlatro, qualcosa a che fare la poesia - che ci conduce Michel Gribinski nel suo ultimo libro Le separazioni imperfette, la cui traduzione è da poco uscita in libreria da Borla. Psicoanalista parigino da tempo appassionatamente impegnato in una intensa attività editoriale, Gribinski ha affiancato, nell'ultimo decennio, Jean-Bertrand Pontalis nella avventura della Nouvelle revue de psychanalyse; poi ne ha rilevato il testimone con la rivista Le fait de l'analyse, e ora dirige penser/rêver, sempre alla ricerca di ciò che, pur estraniandolo e disarticolandolo, è tuttavia alla fonte del pensiero: quello dell'essere umano in generale, e quello che si addensa o talvolta si irrigidisce nella teoria psicoanalitica.
Gribinski ci propone di scrutare insieme a lui quel che gli accade quando lavora in analisi. Di seguirlo, più che nei suoi pensieri, nel suo pensare, come nota giustamente nella introduzione Maria Lucia Mascagni che ne ha anche curato la traduzione, «perché Gribinski non sopporta di imprigionarsi in una costruzione teorica rigida e chiusa», mostrandoci come il pensiero attinga ad altri registri ed esiga perciò soglie permeabili. Perciò ci conduce ad osservare con lui fenomeni del lavoro dell'analista meno consueti o meno abitualmente oggetto di attenzione, e talvolta anche di non facile ammissione: immagini improvvise, momenti di sparizione sia nel silenzio che dietro parole inadeguate, complesse costruzioni che risultano inefficaci e banalità che hanno invece effetti sorprendenti in quella lingua intermedia parlata da paziente e analista, nonché nodi problematici della teoria presentati e affrontati in modo originale. Gustando anche le sue letture (oltre quelle psicoanalitiche, il Diario del Pontormo, Il signor Ouine di Bernanos e tante altre) i cui frutti sono sparsi un po' ovunque nella sua scrittura, o attingendo al suo lavoro di traduttore, per di più alle prese con un Winnicott che lottava violentemente contro le parole-tappo e gli slogan, perché «niente è peggio di un linguaggio morto». Lavoro di traduzione che ha qualcosa di quello dell'analista, ci dice, poiché consiste nel «cogliere le relazioni che il tempo presente intrattiene con il tempo passato, cioè separare passato e presente rinunciando a sapere cosa siano questi tempi», dal momento che «portare in sé un passato sul quale non si può più costruire può essere banalmente il motivo di ogni analisi». Infine ci invita a seguirlo anche in quelle che sembra quasi volerci presentare come «briciole» di teoria, ma che in realtà sono parte di una ampia teorizzazione niente affatto «debole». Come nella sua indagine sull'«indovinare» di cui parla Freud e sull'interpretazione in analisi: l'alba dell'interpretazione è nello stato intermedio tra veglia e sonno, nasce da ciò che la coscienza ama di meno, il turbamento dei tempi mescolati, l'alone di oscurità creato regressivamente dall'immagine nel pensiero, scaturisce dal pensiero che, separandosi da sé, si trasforma in una immagine visiva o acustica, che non è inconscia ma immediatamente disponibile alla superficie della coscienza, per poi distaccarsene e tornare a una rappresentazione. Scopriamo così, con Gribinski, che separarsi da sé, dai propri pensieri occupa gran parte del tempo necessario a pensare, ma che senza questa separazione il pensiero degli altri, un pensiero altro, talvolta con qualcosa di nuovo, resterebbe estraneo, irriconosciuto. E che apprendere a parlare, in seduta, è ripartire da un'immagine, prenderle quello che essa impedisce di pensare, giacché non è tanto o non è affatto con la lingua che si ascolta un paziente, ma con il tempo e con le immagini. «La lingua è per dopo».
Michel Gribinski ne ha parlato ieri a Firenze in una giornata dedicata a «Ricordarsi di sé. Le due scene e i due copioni della seduta psicoanalitica», organizzata dalla rivista Psicoterapia psicoanalitica e dall'Azienda sanitaria di Firenze, insieme a Maria Lucia Mascagni e a Antonio Alberto Semi, la cui relazione ha riguardato l'utilità dell'attenzione liberamente fluttuante, ovvero il corrispettivo per l'analista della libera associazione per l'analizzando: le due facce della regola fondamentale nel lavoro analitico. Un modo di pensare e di lasciarsi pensare dell'analista indirizzato verso quella meta realistica che consiste nel capire, nel condividere delle esperienze, nel vivere altre vite.

schizofrenia

Yahoo!notizie Martedì 8 Marzo 2005, 12:49
SCHIZOFRENIA: CERVELLO COME "ORCHESTRA SENZA MAESTRO"

(ANSA) - SYDNEY, 8 MAR - I network cerebrali dei sofferenti di schizofrenia sono talmente fuori sincronia da funzionare ''come un'orchestra senza maestro''. Lo rivela una ricerca australiana, la prima al mondo a studiare la sincronizzazione del cervello nel suo insieme, nei pazienti di schizofrenia da poco diagnosticati.
L'equipe del Brain Dynamics Center dell' Universita' di Sydney, la cui ricerca e' pubblicata nell'ultimo numero dell' American Journal Psychiatry, ha scoperto che i network neurali delle persone affette da schizofrenia funzionano come i musicisti di un'orchestra che suonano fuori tempo. gli studiosi hanno esaminato con elettroencefalogrammi le funzioni cerebrali di 40 persone diagnosticate di recente come schizofreniche, di eta' fra 13 e 25 anni, comparandole con quelle di un gruppo di controllo in buona salute.
E' stata esaminata in particolare la sincronizzazione delle cellule di rapida attivazione - un processo noto come sincronia gamma - mentre i soggetti eseguivano compiti designati. Mentre i neuroni si attivavano insieme negli individui sani, si rivelavano invece significativamente fuori ritmo nei soggetti affetti da schizofrenia. E' stato osservato inoltre che l'attivita' neurale fuori sincronia e' piu' evidente nella sezione frontale del cervello.
''Possiamo pensare ai sintomi della schizofrenia - sentire voci o vedere cose che altri non vedono - come un'orchestra che non riesce a lavorare insieme'', ha spiegato alla radio ABC la prof. Lea Williams, che ha guidato la ricerca, in collaborazione con il Brain Resource International Database, di base negli Stati Uniti.
''Finora i ricercatori in questo campo si sono concentrati nel localizzare un problema in una parte specifica del cervello, cioe' in un singolo 'orchestrale''', spiega la Williams. ''Quello che abbiamo dimostrato e' che il problema risiede nella connettivita' delle diverse parti del cervello, cioe' nella maniera in cui suonano insieme i vari musicisti dell' orchestra''.
Lo studio - ritengono gli autori - offre la speranza di sviluppare terapie contro la schizofrenia, che in Australia colpisce una persona su 100 ed e' il fattore piu' significativo di suicidio fra i giovani. Attualmente, alla maggioranza dei pazienti, vengono prescritti farmaci antipsicotici, che hanno severi effetti collaterali come fatica cronica, tremito, rigidita' e aumento di peso.
La ricercatrice ha menzionato uno studio precedente su schizofrenici diagnosticati come tali da piu' di 10 anni, il quale indica una perdita estrema di sincronia neurale nelle aree del cervello collegate ai sintomi dell'individuo, come un musicista fuori tempo assai piu' dei suoi colleghi. ''Se i sintomi di una persona si aggravano in una particolare maniera, vuol dire che la perdita di sincronia e' peggiorata nella stessa misura... sembra seguire il percorso che segue la schizofrenia nel suo evolversi'', spiega ancora Williams. (ANSA).

LAURA LOMBARDO RADICE INGRAO

Sull'Unità di lunedì 7 marzo, per l'uscita del libro di CHIARA INGRAO
"Soltanto una vita", c'è una bella pagina dedicata a LAURA LOMBARDO RADICE
INGRAO moglie di PIETRO scomparsa nel 2003 (l'Unità pag.22 - Orizzonti)
una segnalazione di Dina Battioni


L'Unità 07 Marzo 2005

Laura Lombardo Radice
Soltanto una comunista

Un padre e un marito celebri
un’identità, a cominciare dai nomi
«errante», ma una donna salda
e fortissima. In un libro
il percorso e la scelta di vita
di una protagonista
Chiara Ingrao

«Le donne della Resistenza»: subito si pensa alle partigiane del Nord, sulle montagne - o alle «gappiste» di città, che nei Gruppi di Azione Patriottica (i GAP, appunto), affrontarono i nazisti in prima persona. Donne combattenti, spesso arrestate, torturate, fucilate…
Martiri, ma non solo. Donne che spararono, e uccisero (...). Donne come Carla Capponi, dunque, messe su un piatto della bilancia (in nome della «riconciliazione nazionale», si dice); mentre sull’altro si mettono, tranquillamente, i «ragazzi di Salò», che combatterono per Hitler. Due scelte che si vorrebbero in equilibrio, dello stesso peso. E una parola sanguinosa, guerra civile, a dare il nome a quella bilancia: a cancellare per sempre, si spera, l’orgoglio di quella parola fondante, per la nostra identità e la nostra storia - Resistenza.
Ma che cosa fu, questa Resistenza, di diverso da una guerra civile? Gli uomini e le donne della Resistenza, chi furono? «In base al Decreto Legge luogotenenziale 21/08/1945 n. 518», scrive Giorgio Giannini, «è considerato “partigiano combattente” solo chi ha fatto parte di una formazione partigiana ed ha partecipato ad almeno tre operazioni armate. (…) Pertanto, non è considerata “vera Resistenza” l’attività non armata svolta, sia a livello individuale che collettivo, al di fuori delle formazioni partigiane. Questa distinzione (…) ha comportato una vera e propria “militarizzazione della Resistenza”».
(...) Forse, dovremmo raccontare anche altre storie, per spiegare il nesso inscindibile fra Resistenza e Costituzione: storie non di scontri a fuoco, ma di disubbidienza civile e di boicottaggio, di stampa clandestina e di scioperi, di assistenza ai perseguitati, di quella che mia madre ha chiamato «una funzione di legalità reale contro l’illegalità imperante».
Ma non è semplice, e non solo perché viviamo assordati da una cultura di guerra. Non è semplice perché loro stessi - loro stesse - che di quella Resistenza nonviolenta erano state protagoniste, ce l’hanno raccontata solo raramente, con voce sommessa; mentre coltivavano come un dovere indelebile la memoria di altri eroismi, di altre scelte.
Per mia madre (...) fu soprattutto Giaime. La sua morte, saltato su una mina nel tentativo di varcare le linee del fronte. Il suo messaggio, l’ultimo - un imperativo etico, più che politico.
È uno dei documenti più noti della Resistenza, quella lettera di Giaime al fratello minore (...) Solo oggi, ora che lei non c’è più, ho scoperto in mia madre un altro ricordo, ben più intimo e bruciante, sull’amico perduto… «Giaime era venuto a salutarci a casa nostra, la sera prima di partire: sarà stato il 9 o il 10 settembre. Lucio era ammalato, non lo incontrò; ma io sì, e ricordo che gli dissi: «Ah! vai a Napoli, incontrerai gli alleati e a noi ci dimentichi! Ricordati di noi!» Poi mi è rimasta l'angoscia di dire: è morto per tornare da noi…»
(...) Ancora oggi, giorno dopo giorno, sullo stesso comò della camera di mia madre, dove è sempre stata, ritroviamo la stessa foto: Giaime in divisa, Giaime che aveva vent’anni. Giaime immobile, in posa; mentre è in movimento, e continua a inseguirci da allora, quell’altra immagine in bianco e nero, straziante, che fu l’icona di quella guerra, di tutte le guerre. Una donna corre, con il braccio alzato, tesa a inseguire inutilmente una camionetta di armati. Grida forte, più volte. Poi cade a terra, falciata da una raffica.
È Anna Magnani, naturalmente. È Roma città aperta, di Rossellini; ma non è solo un film, per noi. Perché mia madre era lì. Lei la vide cadere, quella donna. Si chiamava Teresa Gullace, ed era madre di cinque figli. Non inseguiva una camionetta; stava cercando di passare un pacchetto (uno «sfilatino», come si dice a Roma, di pane e formaggio), al marito rinchiuso nella caserma di viale Giulio Cesare, insieme ad altri 2000 uomini rastrellati dai tedeschi. O forse no. (...) Di quella giornata, il 3 marzo del 1944, circolano tante versioni diverse, e non tutte coincidono: nella folla che premeva, ognuno ha visto solo pochi fotogrammi, di quel film. Ognuno, da allora, ha filtrato il ricordo con il suo carico di emozioni, di paura.
Laura non poteva permetterselo, di avere paura. Era lì non come parente di un «rastrellato», ma per lavoro politico. Come responsabile di zona del lavoro fra le donne, aveva raccolto più compagne possibili, per unirsi alla protesta: alcune anche giovanissime, come la diciottenne Adele Maria Jemolo, fidanzata di Lucio. Furono loro, Laura e Adele Maria, insieme a Marcella Lapiccirella che era incinta, e dopo pochi giorni perse il bambino, a deporre per prime i fiori sulla macchia di sangue; loro a contattare per prime la famiglia, a portare aiuti; loro a organizzare una nuova manifestazione nel pomeriggio, a far circolare le informazioni in città.
«Avevo appuntamento con Pietro», scriverà Laura a Giorgio Amendola nel 1972, «in una trattoria a via Lucrezio Caro, per dare il resoconto della manifestazione. Quando raccontai quel che era successo, Pietro mi fece scrivere un manifestino (ricordo che andammo su una panchina a piazza Cavour per buttarlo giù) e poi lo portò a stampare mentre io tornavo a viale G. Cesare. Questo manifestino esiste, l’ho visto a una mostra su Le donne e la Resistenza alla vecchia Casa della cultura, in via Colonna Antonina, alcuni anni fa. Ebbe molta diffusione. Una mia conoscente, abitante oltre la Piramide, mi disse alcuni giorni dopo: “Sai che questi alleati sanno proprio tutto di noi? Hanno buttato con gli aerei un manifestino col nome della donna ammazzata e tutta la storia!”».
Noi lo sappiamo, che non erano gli alleati, a sapere. Erano loro, Laura e Marcella e Adele Maria, e con loro le donne e gli uomini inermi, pressati fra mani che si protendono, fra corpi affannati che si accalcano uno sull’altro, nel tentativo di far sentire una voce, o di raggiungere le sbarre per far passare uno sfilatino… Loro la conoscevano, la verità di quel 3 marzo: che non si può, non si potrà mai definire «guerra civile», quella in cui da una parte si impugna il mitra, e dall’altra uno sfilatino.

in sintesi
Maria Serena Palieri

«La firma di mia madre è cambiata più volte, nel corso del tempo. Per anni, dopo il matrimonio, ha scelto di chiamarsi Laura Ingrao; poi, a partire dagli anni ’80, di nuovo spesso Lombardo Radice, o Lombardo Ingrao, o persino Laura Ingrao (Lombardo Radice). Come se, al momento di definirsi, le riuscisse davvero difficile, scegliere tra il cognome del marito e quello del padre. Nei cognomi, a noi donne non è data altra scelta». Scrive così Chiara, figlia terzogenita di Pietro e Laura Ingrao, nell’introdurre «Soltanto una vita», il libro (in uscita domani per Baldini Castoldi Dalai, pagg. 371, euro 18) nel quale, assemblando scritti della madre morta novantenne nel 2003 ricostruisce la sua fortissima figura. La Laura che ci racconta la figlia Chiara è stata la figlia di due pedagogisti, Giuseppe Lombardo Radice e Gemma Harasim, e soggetto in vitro, nell’Italia fascista, con la sorella Giuseppina e il fratello Lucio (il futuro matematico) dei loro esperimenti libertari; membro, nella Roma degli anni Trenta, di un gruppo di amici che stavano convertendosi al comunismo, Aldo Natoli, Paolo Bufalini, Mirella De Carolis, Giaime e Luigi Pintor, Mischa Kamenetzky (Ugo Stille); giovanissima insegnante a Chieti; dal ’39 attiva in prima persona nella cospirazione clandestina; dal ’42 compagna, oltreché di cospirazione, di affetti, di Pietro Ingrao - e l’amore durerà sessant’anni; dal ’45 madre di una teoria di figli (Celeste, Bruna, Chiara, Renata e Guido); dal dopoguerra militante del Pci alla luce del sole, con un marito che cresce come leader; professoressa democraticamente appassionata, tra le poche e i pochi a sfilare in corteo coi suoi studenti nel Sessantotto; donna cresciuta nell’idea - lineare - di emancipazione e messa in qualche tormento dal femminismo degli anni Settanta; poi moglie del primo presidente comunista della Camera; dagli anni Ottanta approdata al suo ultimo amoroso impegno con quelli che chiamava «i miei assassinetti», insegnante volontaria nel carcere di Rebibbia; dai Novanta malata (e la figlia ci racconta la malattia e il declino come capitoli di una vita). Questo volume - che è un forziere di spunti - ci sembra - l’idea a chi c’era non sembrerà macabra - una ideale prosecuzione del rito laico col quale nel 2003 nel Tempietto Egizio a Roma si disse addio a Laura. Figli e nipoti, lì, ce la raccontarono, in una specie di struggente ricordo polifonico. Questo è il seguito. Con una scoperta: che meravigliosa penna avesse, Laura Lombardo Radice Ingrao. Come nell’inedito che pubblichiamo, cronaca di una tragica giornata del 1944 che è diventata cinema, ed è diventata l’emblema di quella guerra. Cronaca dal vivo: perché Laura, lì, c’era.

Cronaca di una tragedia diventata cinema
Laura Lombardo Radice

Senza un grido, solo alzando un po’ il braccio, goffamente, la donna cadde in avanti sul selciato. Il viso sul selciato, il ventre informe schiacciato sul selciato, il cappotto consunto, le calze strappate, il viso, i capelli colore del selciato. Una cosa. Un pezzo di quella terra cittadina opaca nel mattino nuvoloso. Un rigo di sangue le scivolava dalla bocca al mento; gli occhi erano rimasti aperti, fissavano come per interrogare.
La caserma piena, gonfia di uomini razziati, che pareva trasudare, dalle crepe verdastre dell’intonaco, il loro inquieto ansare di bestie in gabbia; gli alberi nudi del viale, le facce torve dei militi, rigidi e impacciati nelle uniformi nuove, gialle come pus; la folla di donne mal vestite, già spettinate, arrochite, sfatte nella esasperata attesa - tutto restò per un attimo immobile, come uno scenario, intorno alla donna morta. Poi subito, tutto si squassò, tutto fu solo un grande urlo, una convulsione d’orrore.
L’orrore correva dalle finestre della caserma, dove gli ingabbiati si pigiavano frenetici, al marciapiede affollato, di fronte; e si torceva in gridi sempre più alti.
Il marciapiede dal lato della caserma, tenuto sgombro, come il centro della via, dai militi stravolti, segnava una pausa esterrefatta fra le due immani desolazioni.
In quella pausa passò il tedesco. Aveva i capelli e le ciglia di un biondo quasi bianco, bianchissime le guance e il collo che usciva sottile dalla divisa nera. Saettò, era in motocicletta, due volte su e giù per il viale, la pistola alzata, puntata contro la folla femminile. Magro, lungo, aguzzo, con quella sua ostentata indifferenza, aveva qualcosa di astratto, di fantomatico. Era il tedesco, il massacratore, il criminale di guerra. Sottolineava, con quel suo aggirarsi sul luogo dove la donna italiana era stata uccisa dal fascista italiano, il perché di tutto quel male. Era un oscuro simbolo, il nero vessillo dell’occupazione.
Non così i fascisti. La folla femminile premeva su di loro, pugni di donne si alzavano contro i loro visi, contro le mostrine lucide, nuove, contro gli «Emme» lampeggianti.
Voci di donne, dopo il primo grido inarticolato, urlavano ora accuse martellate; voci di donne li inchiodavano al giudizio inesorabile del popolo. Qualcuno tentò di puntare il fucile sul petto delle più accese; smise subito, gli tremava la canna fra le mani.
La morta era ancora lì. Le donne cominciarono a comunicarsi quel che sapevano di lei, dei suoi cinque figli, del marito che era lì anche lui, alla finestra della caserma, e guardava. Le lamentazioni si levavano alte, insieme alle esecrazioni; era un coro violento, a strappi, intriso di lagrime. Arrivò un camioncino, caricò il cadavere: il marito fu portato giù, caricato anche lui.
Sull’angolo del marciapiede era restato un gran grumo di sangue. Le donne si misero tutte intorno, come a difenderlo; sangue di madre, sangue santo! Gridavano col dito teso, verso la macchia, minacciose.
E quasi subito, ci furono i fiori. La prima fu una ragazza: non aveva nessuno nella caserma, era venuta sul viale con qualche compagna, per unire la sua alla protesta delle donne romane; per vedere se si poteva fare qualcosa per salvare quegli uomini schiavi. Corse via un momento, tornò con un gran ramo roseo di mandorlo, lo posò sul grumo, in silenzio. Molte altre fecero lo stesso.
Sul grigio dell’asfalto, sotto il nuvolo insistente, quei fiori, mimose, anemoni, garofani, furono l’unica cosa viva, squillarono di rosso, di violetto, di giallo.
Un altare alla martire, sotto gli occhi dei carnefici; era una promessa e una sfida.
Più tardi - durava nell’aria del pomeriggio quella luce uguale, sfocata - Francesco il Gap, facendosi largo con un suo gestire spicciativo tra la folla femminile, che continuava a urlare, stendeva a terra, con tre colpi di revolver, tre militi della squadra di rinforzo. Cominciò la sarabanda degli spari e gli urli ebbero altro suono, di vendetta e di vittoria: il tumulo straripò nelle traverse, riempì il quartiere, dilagò nella città ignara. Nel viale, improvvisamente vuoto, scalpitarono i grossi cavalli degli agenti, sferragliarono velocissimi i tram, senza fermare.
Sulla pietra livida, immobili nella raffica, i tre corpi dei giustiziati, accanto al gran mazzo primaverile raccontavano la storia essenziale di quella giornata di lotta.

(probabilmente inedito, 1944)

le donne in Turchia

una segnalazione di Sandra Mellone

RaiNews24

Turchia. Ue "scioccata" dai pestaggi delle manifestanti a Istanbul. E Ankara promette un'inchiesta

Dopo la dura repressione da parte della polizia turca di una manifestazione tenutasi ieri a Istanbul per ricordare la giornata internazionale delle donne, l'Unione Europea torna a porsi interrogativi sul livello di democraticità della Turchia, e chiede al governo di Ankara di aprire un'inchiesta sull'episodio.
La Commissione Europea è rimasta impressionata dalle immagini che mostrano come la polizia abbia colpito i gruppi di manifestanti intervenuti ad un corteo pacifico nel quartiere europeo della metropoli turca. Le forze dell'ordine hanno arrestato circa sessanta persone con l'accusa di aver preso parte ad una manifestazione non autorizzata dalle autorità.
"Siamo rimasti scioccati dalle immagini della polizia che colpiva le donne e da quelle di giovani dimostranti ad Istanbul, che preparavano cortei in vista della giornata internazionale della Donna", scrivono in un comunicato congiunto il presidente di turno dell'Unione, il ministro degli Esteri del Lussemburgo, Jean Asselborn, il commissario all'Allargamento Olli Rehen e il ministro britannico per l'Europa, Denis MacShane in partenza proprio per Ankara per partecipare alla Troika Ue-Turchia in programma.
"Alla vigilia di una visita dell'Ue, durante la quale i diritti delle donne saranno un tema importante, siamo preoccupati di vedere un tale uso sproporzionato della forza contro dei dimostranti", si legge nella nota dei tre responsabili europei.
La portavoce della Commissione Europea, Francoise Le Bail, ha definito "non normale " il comportamento della polizia turca, e ha ricordato che il commissario all'allargamento, Olli Rehn, ha dichiarato oggi che "la Turchia non deve fare pause sulla strada delle riforme e che questo include anche e soprattutto i diritti delle donne, delle comunità religiose non musulmane e le minoranze".
Il ministro turco degli Affari Esteri, Abdullah Gul, sembra intanto aver raccolto l'invito dell'Unione Europea annunciando l'apertura di un'inchiesta sull'accaduto
a Roma:
L'Unità 8.3.05
Villa Doria Pamphili CINEMA

Ennio Concini day

La Casa del Cinema dedica una giornata ad Ennio Concini, sceneggiatore e regista, in collaborazione con il Centro Sperimentale di Cinematografia - Cineteca Nazionale.
Alle ore 15 proiezione del film “Il diavolo in corpo”, di Marco Bellocchio (Italia 1985). Alle 17 “Un fallito di successo” di Franco Brogi Tavani a cui seguirà un incontro con lo stesso Ennio Concini. Alle 21 “Mio caro dottor Grasler” di Roberto Faenza, (Italia 1989). Ingresso libero fino ad esaurimento posti.

oggi, l'8 marzo

L'Unità 8 Marzo 2005
Quello che le donne dicono
Barbara Pollastrini

Per molte il ricordo di questo 8 marzo sarà l’abbraccio straziato e annichilito di due donne, Giuliana Sgrena e Rosa Maria Calipari. La gioia spezzata da un dolore immenso, ingiusto. Vogliamo la verità, senza sconto alcuno. Non è il cinico destino che lascia affranti Silvia e Filippo. «È l’assurdità di una guerra voluta» sussurravano in tanti in quel corteo interminabile e dolente che rendeva omaggio a un uomo perbene, un civil servant bravo, schivo. Una guerra illegale, terribile, contro cui si è levata una mobilitazione mondiale delle coscienze, in particolare femminili.
E il pensiero va alle sorelle del pianeta, a quei visi, quei nomi simbolo di coraggi femminili, dolci e fortissimi. Ingrid Betancourt è prigioniera in Colombia, Aung San Suu Kyi, la pasionaria dell’opposizione birmana è agli arresti, Florence Aubenas è nelle mani dei terroristi iracheni. Sono grandi le differenze tra donne: in più di 40 Paesi resistono leggi discriminatorie.
Per questo il colpo d'occhio della buona politica deve saper guardare all'essenziale, a ciò che unisce le donne, a quella portentosa energia morale e sociale che può produrre avanzamento.
A New York, a dieci anni dalla dichiarazione di Pechino, i potenti e le potenti della terra non hanno potuto nascondere la realtà: nessun passo in avanti sostanziale. Come hanno scritto, fra le altre, Hillary Clinton e i premi Nobel Shirin Ebadi e Wangari Maathari, i dati inchiodano: le donne sono le più violate, le più sterminate, come le sudanesi del Darfur, nelle oltre cinquanta guerre in corso. Schiacciate dal terrorismo, dai fondamentalismi. Le più sfruttate, coi bimbi, da tratte e schiavitù. Le più toccate da fame, disastri ambientali, malattie. In Africa, l'Aids ha mietuto più di quindici milioni di vittime, soprattutto tra donne e giovanissime. Le più povere, proprietarie del 2% di terra, producono il 50% del cibo.
Dal Summit è venuta la conferma di quanto sia aperta, nello stesso mondo occidentale, una contesa tra conservatori e progressisti sui diritti e la libertà delle donne.
Ne è esempio il tentativo dei Repubblicani di Bush di introdurre nella risoluzione la limitazione all'autodeterminazione femminile sulla maternità. Non una parola sul fatto che più di venti milioni di donne nel mondo ricorrano all'aborto in assenza di garanzie sanitarie e di campagne efficaci per la prevenzione. Si riafferma una volta di più la qualità della legge 194, che ha prodotto la significativa diminuzione degli aborti in Italia.
La prima passione per la politica, a sinistra, è dunque quella per un nuovo ordine mondiale: la costruzione di pace, non violenza, dialogo, redistribuzione delle risorse, dell'uguaglianza a partire dal riconoscimento pieno dei diritti umani delle donne, della loro dignità.
La forza che ci viene dalle donne nel mondo è straordinaria. Scalano montagne, riescono. Sono le alleate privilegiate, la leadership, coi giovani, di un nuovo riformismo concreto e trascinante, saggio e utopico. Un nuovo riformismo che sappia unire non solo storie autorevoli, ma appartenenze, culture, esperienze di liberazione, soggettività politiche, movimenti del presente per il futuro.
In Italia le donne possono fare la differenza dell'Ulivo, dell'Unione alle prossime elezioni amministrative e politiche. Le donne sono le più disincantate dal Governo e con quante ragioni: carovita, precarietà, svuotamento del welfare, calo dell'occupazione, insicurezza, aumento della differenza salariale. E la lista potrebbe continuare. Sta a noi offrire un New deal delle donne come New deal del Paese e manifestare coerenze con la presenza di donne fino ai punti più alti, dei governi, delle istituzioni e della politica. Abbiamo iniziato a praticare questa scelta con quel 40% simbolico, voluto anche dalle ragazze della Sinistra giovanile. Ora ci attendono nuovi traguardi.
Il secondo pensiero è dunque per le donne italiane.
Spira un'altra aria. Quella di una nuova consapevolezza femminile, ricca di fierezza e di memoria. Non permetteremo di riscrivere la Resistenza, storia di libertà, percorsa da donne eccezionali.
C'è un racconto. La lavoratrici, che al suono della sirena uscirono dalle fabbriche per scioperare nel '43 e nel '44, scelsero un fiore per distinguersi: la mimosa. Ho sempre voluto credere che quella leggenda tenerissima e viva nella mia città, fosse vera. Sarebbe bello che tra i senatori a vita venisse nominata una rappresentante di quella storia di riscatto civile, come hanno sostenuto numerose raccolte di firme. I nomi non mancano: sono quelli di Tina Anselmi, Marisa Rodano, Lidia menapace, Maria Eletta martini e altri ancora.
Una consapevolezza frutto della tenacia, dell'osare della generazione del femminismo, dei movimenti, delle conquiste legislative, della stagione delle differenze e delle pari opportunità.
Una consapevolezza fatta oggi dai talenti di giovani donne. Studiano e leggono più e meglio dei loro coetanei. Vogliono realizzarsi. Ambiscono a una società regolata, dell'inclusione e della valorizzazione dei meriti. Desiderano avere figli, ma si scontrano con la sordità dell'organizzazione sociale. Sognano un lavoro nei diritti. Città e Regioni accoglienti nei servizi pubblici, nella scuola, nei nidi, nell'appoggio ad anziani non autosufficienti ed ai disabili.
Sono la risorsa più fresca da spendere per la riscossa economica e civile del Paese.
Ora una missione accomuna generazioni di donne. Fare votare e votare sì ai referendum sulla fecondazione assistita. Sono sì di speranza, sì di amore, sì di vita. Sì a una laicità non indifferente. Sì per unire in una modernità umana.
Il terzo pensiero è per gli uomini lungimiranti. Con noi sta la parte migliore del mondo e, insieme, possiamo vincere. In una società dove le donne stanno bene, tutti - davvero tutti - stanno meglio.

PTSD, disturbi post-traumatici da stress
malati di guerra

peacereporter.net - 3 e 4 marzo 2005
Stati Uniti d'America
La guerra dentro
Decine di migliaia di soldati Usa tornano dall'Iraq con gravi problemi mentali

Fino a 100mila morti iracheni, ormai 1.500 caduti e 11mila feriti tra le fila dell’esercito statunitense. La triste contabilità del conflitto in Iraq è aggiornata in continuazione, ma c’è un numero che nessuno può ancora quantificare con precisione eppure si teme sia enorme: quello dei soldati che ritornano a casa con seri problemi mentali.
Secondo uno studio dell’esercito Usa pubblicato nel luglio 2004 sul New England Journal of Medicine, il 17 per cento dei militari impegnati in Iraq e in Afghanistan potrebbero soffrire di “disturbo post-traumatico da stress” (PTSD). Psicologi, psichiatri, ex soldati sono però convinti che questa cifra sia da rivedere verso l’alto, e che alla fine si raggiungerà quota 30 per cento, come per i veterani di ritorno dal Vietnam. Considerando che finora il Pentagono ha ruotato in Iraq e in Afghanistan circa un milione di soldati, significa che fino a 300mila militari potrebbero avere urgente bisogno di cure psicologiche e psichiatriche.
Un problema in crescita.
“Stiamo ricevendo un flusso crescente di soldati con problemi mentali – riconosce lo psichiatra Jeffrey Fine, direttore del programma di cura del PTSD al New York Harbor Healthcare System –, e sono convinto che il numero di soldati che soffrono di PTSD aumenterà ancora. Al momento stiamo curando una cinquantina di veterani dall’Iraq e dall’Afghanistan. Ma per molti i primi sintomi si presenteranno con mesi o anni di ritardo: qui riceviamo ancora centinaia di militari che hanno combattuto in Vietnam e nella Seconda guerra mondiale”.
I sintomi.
Il PTSD si può manifestare in vari modi, dalla depressione agli incubi notturni, dalla mancanza di emozioni agli sbalzi improvvisi di umore. Molti sperimentano improvvisi attacchi di panico, piangono a dirotto senza un motivo apparente, rivivono ad occhi aperti i momenti più terrificanti. Alcuni soldati si sentono colpevoli perché sono sopravvissuti mentre i loro compagni sono morti, altri si isolano dalla famiglia e dagli amici. “Come fai a raccontare a tuo padre di quando hai visto quell’iracheno sanguinante che ha perso metà del corpo per l’esplosione di una bomba? – scrive un soldato che soffre di PTSD sul sito dell’associazione di veterani Operation Truth – Come fai a raccontargli delle notti in cui hai dormito con un’arma carica sotto il cuscino? E’ difficile trovare le parole per il puro terrore e la sensazione di impotenza e rabbia che provi quando sei sotto il fuoco dei mortai o dei razzi da 127 millimetri. I cadaveri, i civili feriti, quel maledetto odore e i canti delle moschee alla sera sono sempre nella mia testa”.
Lo stress del conflitto.
L’elevata incidenza del PTSD in Iraq e in Afghanistan si spiega – concordano gli esperti – con le particolare condizioni del conflitto. In una guerra tradizionale il nemico è dall’altra parte del fronte e nella retroguardia esistono dei rifugi sicuri; nella prima guerra del Golfo gli Usa fecero largo uso di attacchi aerei e i soldati iracheni si arrendevano in massa davanti ai carri armati. In Iraq le caserme dei militari Usa sono attaccate ogni giorno a colpi di mortaio, i soldati possono morire – come è successo in dicembre a Mosul, con 20 vittime – anche mentre mangiano in mensa. Stavolta “il nemico è ovunque: dall’altro lato della strada, nascosto dietro una finestra, in un vicolo. Non ti senti mai al sicuro, non ti rilassi mai”, dice Paul Rieckhoff, che ha servito in Iraq per dieci mesi e al ritorno ha fondato Operation Truth.
La responsabilità di salvare gli altri.
Lo stress può essere particolarmente elevato per chi ha decine di uomini ai suoi ordini. Il tenente J. Phillip Goodrum, 34 anni, nei sei mesi in cui ha prestato servizio in Iraq ha comandato 32 soldati, perdendone uno. La sua unità, addetta al rifornimento delle truppe, percorreva in lungo e in largo il territorio iracheno. “Viaggiavamo sempre – racconta – su convogli completamente insicuri. Non avevamo né mappe, né protezioni, né scorta. La manutenzione dei veicoli era pessima ed eravamo sempre a corto di carburante. Non c’è peggiore sensazione di avere poca benzina quando sei in campo aperto e ti sparano addosso, mentre sei responsabile della vita di decine di ragazzi”. Ora Goodrum è in cura al Walter Reed Army Medical Center di Washington, il più grande ospedale militare negli Usa. Tornato dall’Iraq nel novembre 2003, ha cominciato a soffrire di attacchi di panico, ansia, continuo stress. Gli hanno diagnosticato il PTSD, e da più di un anno si sottopone a colloqui bisettimanali con psichiatri, lo imbottiscono di pillole e parla a scatti, con una leggera balbuzie. “Non ho fatto i progressi che avrei dovuto”, dice. “Ancora oggi, se sento l’odore del carburante mi ritorna tutto in mente. E ho attacchi di panico quando mi trovo in una folla, o in mezzo al traffico”.
Con il protrarsi del conflitto, la questione del PTSD sta diventando sempre più grave. Pochi giorni fa il Pentagono ha reso noto che nel 2004 il tasso di suicidi tra i soli Marines è aumentato del 29 per cento: i 31 registrati costituiscono il picco dell’ultimo decennio. Fino allo scorso novembre, in Iraq si erano tolti la vita 40 soldati. Le storie di militari che si uccidono spuntano una dietro l’altra dalle cronache dei giornali locali: l’ultima è quella del sergente Curtis Greene, un 31enne della Florida con moglie e figli, che per la paura di essere richiamato in servizio in Iraq si è impiccato in caserma. Come molti altri che scelgono di togliersi la vita perché inseguiti dagli incubi dell’Iraq, ufficialmente Greene non soffriva di PTSD. Non aveva mai cercato aiuto psicologico, e nessuno nell’esercito aveva capito che qualcosa non andava. Casi come il suo rafforzano negli esperti la convinzione che i veterani dell’Iraq afflitti da PTSD siano ben più di quel 17 per cento riportato nel New England Journal of Medicine. “Quella ricerca aveva due limiti fondamentali – spiega Steven Robinson, direttore del National Gulf War Resource Center – che non vanno dimenticati. Non comprendeva i soldati feriti in combattimento, ed essendo stata fatta nella seconda metà del 2003 non ha potuto tenere conto dello scoppio ritardato del PTSD: molti soldati cominciano ad avere problemi solo una volta ritornati a casa”.
La paura di mostrarsi deboli.
A questo bisogna aggiungere la paura di mostrarsi deboli davanti ai propri commilitoni e alla società, o il timore – per chi vuole rimanere nell’esercito – di vedersi pregiudicata la carriera militare. E’ celebre il caso del sergente Georg-Andreas Pogany, inizialmente accusato di “codardia” (un crimine punibile con la pena di morte, e scomparso dai tempi del Vietnam) per aver avuto un grave attacco di panico al suo secondo giorno in Iraq, dopo aver visto i resti del cadavere di un soldato iracheno. Di fronte al clamore provocato dalla vicenda, in seguito l’esercito trasformò l’accusa di codardia in quella di “inadempienza dei propri doveri”, e poi depennò anche quest’ultima. Ma il caso confermò che l’esercito non vede di buon occhio chi si tira indietro per problemi psicologici, e per questo molti soldati preferiscono rinchiudersi in sé stessi piuttosto che condividere le proprie sofferenze con gli altri. “Nessuno vuole vedersi troncata la carriera sentendosi dire che non può gestire lo stress”, dice Robinson.
Una cura incerta.
Gli psichiatri non hanno ancora capito se dal PTSD si può guarire. “Su questo aspetto il dibattito è ancora in corso – spiega Fine –. Il nostro approccio è quello di trattare il PTSD come una malattia cronica, con cui bisogna imparare a convivere. Altri psichiatri pensano invece che ci sia la possibilità di arrivare il più vicino possibile a una cura. Esistono comunque soldati che cercano aiuto da noi e poi ritornano a combattere: molti veterani del Vietnam con problemi di PTSD hanno poi servito durante la prima guerra del Golfo, altri hanno combattuto in quella e poi nell’operazione Iraqi Freedom”.
La gestione dell'emergenza.
Sebbene sul terreno esistano circa un centinaio di cliniche del dipartimento per i Veterani – e vari ospedali militari – che offrono aiuto psicologico e psichiatrico, la gestione dell’emergenza PTSD da parte di Washington sta scontentando un po’ tutti. Lo scorso settembre Steve Robinson scrisse un rapporto intitolato The Hidden Toll (“Il tributo di vite nascosto”), in cui puntava il dito contro il dipartimento della Difesa per lo scarso aiuto offerto ai militari con problemi psicologici, specialmente sul campo. “Da quel momento la situazione è addirittura peggiorata – si sfoga Charles Sheehan-Miles, direttore dell’associazione Veterans for Common Sense –. Ci sono valanghe di soldati che tornano a casa e soffrono di PTSD, aumentando la pressione sul sistema. E allo stesso tempo l’amministrazione sta tagliando il budget sanitario per i crescenti costi della guerra e i tagli alle tasse. Noi cerchiamo di farci sentire, ma la storia dimostra che non possiamo fare molto”.
Meglio prevenire.
Robinson è meno pessimista, ma riconosce che la situazione rimane critica. “L’approccio del dipartimento della Difesa è sempre quello, ma in questo momento il Congresso sta lavorando su nuove misure che potrebbero migliorare le cose. Tra qualche settimana presenterò una proposta di legge per garantire a ogni soldato che torna dalla guerra un colloquio con uno psicologo. E’ meglio combattere il PTSD sul nascere, piuttosto che aspettare che i soldati si presentino in ospedale già con seri sintomi”.

i bambini autistici

Yahoo! notizie - Lunedì 7 Marzo 2005, 11:56
Autismo:
Scoperto il perché i bambini malati non guardano negli occhi


Madison, 7 mar. (Adnkronos Salute) - I bambini autistici non guardano negli occhi le altre persone, comprese quelle a loro piu vicine, come la mamma perche percepiscono gli sguardi come una minaccia. E tutto questo accade a causa di una particolare alterazione cerebrale. A descriverla e uno studio statunitense pubblicato sulla rivista Nature Neuroscience. La ricerca conferma dal punto di vista neurologico quanto era già stato suggerito da numerosi psicologi, cioè che per i bambini autistici guardare gli altri in maniera diretta crea uno stato di tensione e di paura, talmente intenso da essere insostenibile. Due diversi studi, condotti da Kim M. Dalton e Richard J. Davidson dell'University of Wisconsin (Madison), hanno esaminato l'attività cerebrale dei piccoli pazienti con la risonanza magnetica funzionale (fMRI), scoprendo che la visione dei volti umani produce un'iperattivazione dell'amigdala, l'area del cervello che controlla le emozioni "negative", come rabbia e paura. Inoltre, i dati hanno rivelato che "sfuggire" gli sguardi aiuta i bambini autistici a normalizzare l'attività dell'amigdala. ''Dunque - suggeriscono gli autori - le difficoltà sociali potrebbero, in parte, derivare proprio dal fatto che i bambini non riescono a osservare i volti umani e, quindi, non possono imparare ad interpretare gli stati d'animo altrui''. Le due diverse indagini, che hanno coinvolto 11 bambini autistici di circa 16 anni d'età e 12 coetanei sani di controllo, hanno utilizzato la fMRI per osservare l'attivazione cerebrale mentre veniva chiesto loro di riconoscere dei volti umani e la risposta a fotografie di persone che esprimevano diversi tipi di emozioni. I risultati hanno indicato che nei bambini autistici l'attività dell'amigdala era molto più intensa, sia se osservavano volti familiari che volti sconosciuti e a prescindere dal contenuto della foto. Invece, un'area chiamata "giro fusiforme", che serve ad analizzare e a riconoscere le facce delle persone, rispondeva molto più "debolmente" del normale. Ulteriori analisi hanno permesso di determinare che l'ipoattività di quest'area non è una delle cause dell'autismo, come suggerito da precedenti studi che avevano individuato quest'anomalia, ma ne è una conseguenza. Infatti, poiché le emozioni negative dovute all'amigdala impediscono al bambino di guardare i volti, il giro fusiforme non ha, semplicemente, motivi di attivarsi.

dal Corsera di oggi
Munch

Corriere della Sera 8.3.05
Dipinse l'assurdità del'esistenza
Nato nel 1893, si formò in Norvegia e a Parigi. La sua vita fu segnata dalla malattia e dalla morte dei familiari Dipinse l’assurdità dell’esistenza Ibsen, Strindberg e la filosofia di Nietzsche gli fecero scoprire una nuova dimensione
Arturo Carlo Quintavalle

La vita di Munch è segnata duramente dalla malattia e dalla morte, quella della sorella, quella della madre, quella prematura del padre: la tubercolosi, il male che aveva ucciso tanti dei suoi e che lo stringeva da vicino, lo induce a scegliere fra l'amore e l'arte, fra una vita da Monk-monaco, quasi prefigurata dal suo stesso nome, e una vita come quella di tanti. No, Munch è diverso, dialoga con chi sente simile a lui, prima di tutto con un altro norvegese, Henrich Ibsen, che col suo teatro trasforma il senso del racconto borghese: così in «Spettri» (1881) l'ereditarietà del male chiude angosciosamente la storia del rapporto fra la madre e il figlio; sarà proprio Munch a disegnare le scene per l'opera teatrale. In Germania Munch trova una dimensione nuova del fare arte: lo stimola e gli è amico August Strindberg, lo svedese rivoluzionario che dissolve la realtà del racconto e la continuità di ogni possibile trama e che in «Inferno» (1897) rappresenta l'angoscia di morte, l'ossessione di una lettura del mondo consapevole e distruttiva. Ecco, è questo il nodo per comprendere l'arte di Munch, l'idea che dipingere vuol dire rappresentare non il reale ma l'inconscio, come suggeriva Argan analizzando «Pubertà» (1893), o come risulta evidente nel ciclo più volte ricomposto con dipinti più antichi e intitolato «Il fregio della vita». Il ciclo è stato distinto da Munch stesso in quattro racconti-guida: Nascita dell'amore, Sviluppo e fine dell'amore, Angoscia di vivere, Morte, ed è stato esposto a la Secessione di Berlino nel 1902. Angoscia? Certo, come in «La danza della vita» (1899-1900) che propone un ballo in riva al mare con figure che segnano le fasi della esistenza, fino a una sconsolata, solitaria vecchiaia.
Importantissimo è poi l'incontro con la filosofia di Nietzsche: l'arte di Munch infatti esprime l'assurdità dell'esistere e l'impossibilità del comunicare. Non basta. Il pittore norvegese ha usato fin dagli inizi degli anni '90 la fotografia, non certo per costruire ritratti somiglianti ma per cogliere nella sospensione delle immagini quella essenza delle cose che fa scoprire l'angoscia. La fotografia è dunque scrittura di ombre, lo sfuocato della immagine determina una analoga, sfatta trascrizione pittorica.
Munch dipinge dunque l'angoscia dell'esistere, la crisi del vivere per l'arte in un mondo che l'arte, di fatto, esclude. Scoperta nei drammi di Ibsen la distruzione del senso positivo del vivere borghese, e in Strindberg lo scrivere come pratica schizofrenica, Munch, alla fine della esistenza, vive come ossessione lo scorrere del tempo. Lo prova un quadro importante: «Autoritratto tra l'orologio e il letto» (1943) dove l'artista si presenta solo nella stanza; alla sinistra un orologio a pendolo scuro non ha lancette sul quadrante; a destra un nudo dipinto appare come pittura sul muro; taglia la scena il letto; Munch diritto, al centro, immobile, ci guarda. Il pittore dunque guarda un mondo senza tempo, non sa capire la ragione dell'esistere. Ancora Nietzsche, dunque. Poi la Norvegia viene occupata dai nazisti: Munch morirà solo, ancora senza capire.

Corriere della Sera 8.3.05
Mentre si apre la mostra al Vittoriano, rubati e subito ritrovati altri tre lavori dell’artista in un albergo della Norvegia
Il gigante Munch in cento opere
Esposti anche «Morte nella camera della malata» e una versione della «Madonna»
Lauretta Colonnelli

È considerato il pittore della disperazione eppure è il più amato perfino dai ladri. Mentre si sta per inaugurare una sua mostra a Roma, i giornali tornano a parlare di Edvard Munch per il furto di tre quadri avvenuto nella notte di domenica scorsa (e per fortuna subito ritrovati) in un albergo della Norvegia del sud, che possiede una collezione di circa 400 lavori dell’artista. Si tratta di un acquerello del 1915 intitolato «Vestito blu» e due litografie: un autoritratto e un ritratto del commediografo August Strindberg, al quale Munch era legato da un forte sodalizio artistico dopo averlo conosciuto a Berlino nel 1893. Ma già nell’agosto scorso erano scomparse due importanti opere dell’artista norvegese, il celeberrimo «L’urlo» e l’altrettanto famosa «Madonna», sottratte dal Munch-museet di Oslo da uomini armati di pistola. Ora il museo è chiuso per permettere l’installazione di un nuovo e più sofisticato impianto di sicurezza, ma dei due capolavori è scomparsa ogni traccia. Per fortuna Munch eseguiva sempre più versioni dei suoi soggetti e i visitatori della mostra al Vittoriano potranno ammirare sia la «Madonna», in un olio (dei cinque realizzati) proveniente da una collezione privata, sia «L’urlo», ma in litografia. L’esposizione, che aprirà al pubblico giovedì prossimo, si annuncia tra le più ricche: oltre cento lavori, tra cui una sessantina di olii e una cinquantina di opere grafiche tra acqueforti, litografie e xilografie, oltre a una serie di autoritratti fotografici. Tutti realizzati in un arco di tempo che va dai primi anni del 1880 al 1944, l’anno della morte.
Seguendo il percorso della mostra è quindi possibile ricostruire anche l’intera esistenza dell’artista, che in linea con il suo amico, lo scrittore anarchico e animatore della «bohème di Christiania» (il nome di Oslo fino al 1925), aveva teorizzato di raccontare la propria vita attraverso la pittura. «La mia arte - ha lasciato scritto Munch - è un’autoconfessione. Con essa cerco di chiarire il mio rapporto col mondo. Ciò potrebbe anche essere definito egotismo. Eppure ho sempre pensato e sentito che la mia arte potrebbe essere d’aiuto agli altri per chiarire la loro stessa ricerca di verità».
Tra i suoi quadri-diari si può ammirare «Morte nella camera della malata», in cui è raffigurata la morte per tubercolosi della sorellina Sophie quando lui aveva 14 anni, uno degli episodi che, insieme con la scomparsa prematura dei genitori, spanderanno un’ombra scura sul resto della sua vita e su tutta la sua produzione. È questa infelicità germogliata nell’infanzia che gli farà anche maturare un linguaggio pittorico diverso da quello allora imperante degli impressionisti, che pure aveva frequentato a Parigi e nel sud della Francia. In opere che hanno titoli come «Melanconia», «Disperazione», «Paura», le vibrazioni luminose dell’Impressionismo si trasformano in onde di colore che avvolgono le figure umane come fitte di sofferenza nella carne palpitante. Mettendo insieme le suggestioni dei drammi di Ibsen e Strindberg, la filosofia esistenzialista di Kierkegaard e le teorie di Freud, Munch crea un’arte che abbandona il naturalismo per un viaggio introspettivo nella condizione umana.

sinistra
Fausto Bertinotti, dopo il Congresso

Corriere della Sera 7 marzo 2005
Bertinotti doma il partito
«Non regalo Palazzo Chigi ai padroni»
«Non è da me alzare la voce ma ci voleva Dovevo frenare la deriva militarista di una parte di Rifondazione»
Aldo Cazzullo


VENEZIA - Segretario, guardi che ha le vene del collo molto gonfie. «Lo so, non mi succede mai. Però ci voleva». È ancora tutto rosso, più della bandiera sul palco. «Non è da me alzare la voce, è vero. Ma ne valeva la pena». «Sono trent’anni che conosco Fausto Bertinotti e non l’ho mai visto così arrabbiato» dice Ritanna Armeni, ex portavoce. «Un discorso di altissimo livello politico, culturale e morale» si incanta Elettra Deiana, parlamentare spesso critica. «No, per una volta non ha volato alto, è sceso al livello dei suoi avversari, e ha fatto benissimo» si sfoga Lella Bertinotti, moglie. Era proprio il caso? «Ci ho pensato per tutta la giornata di ieri - risponde lui, ancora accaldato, quasi inelegante, in camicia, le maniche arrotolate, le macchie sotto le ascelle -. Ho deciso ieri notte, prima di addormentarmi. Concludere il congresso con un intervento solo politico sarebbe stato inutile e pericoloso. Bisognava frenare la deriva militarista di una frazione del partito. Ho avvertito il rischio drammatico di una corruzione delle coscienze. Qualcuno doveva dire alla maggioranza di Rifondazione di sottrarsi a tutto questo; e toccava a me farlo».
Dopo tre giorni di attacchi, critiche, sarcasmi, in cui gli oppositori hanno fatto a gara nel dirla ogni volta più greve, più aggressiva, più sprezzante, Bertinotti si è ripreso il partito. Per due ore ha picchiato sulle due cose che gli stavano più a cuore: la scelta della nonviolenza e l’accordo con l’Ulivo. Ha usato scientemente un linguaggio a tratti estremo, spingendosi a bordolinea, sino ai limiti delle sue convinzioni, pur di far passare una strategia che quasi metà partito considera moderata, imbelle, destrorsa. Si è giocato la partita nei passaggi decisivi su Iraq, Palestina, Prodi. Prima la concessione alla platea: «La resistenza è accettata in tutti i codici di guerra». Poi la svolta, gridata con il volto purpureo: «Ma io mi rifiuto di accostare Giovanni Pesce, la medaglia d’oro partigiana, che è come fosse mio padre, a chi voleva assassinare Giuliana Sgrena in quanto imperialista!». Quanto a Sharon, «io non dimentico Sabra e Chatila. Rispetto il sacrificio dei martiri che si fanno esplodere». Poi la virata, in un vortice di erre: «Ma è la trattativa con Sharon che farà nascere la Palestina!». Governista, gli hanno detto. «Governista a chi? Vi ricordo che sono stato io a rompere con Prodi». Ma «stare con gli operai non significa regalare sempre il governo ai padroni!».
Al Lido di Venezia Bertinotti ha concluso il percorso iniziato a Genova, dopo la morte di Carlo Giuliani. Quel giorno, al tramonto, aveva arringato una folla furibonda, nella spianata tra il Palasport e il mare. L’aveva blandita, anche allora in maniche di camicia, ne aveva assecondato la rabbia, ma l’aveva riportata dentro i confini (che quel giorno erano stati ampiamente violati) della legalità e della ragionevolezza. A Genova Bertinotti vide un rischio e si mosse per evitare guai peggiori. A Venezia ha preso il più rozzo tra gli interventi in dissenso, quello di Gianluigi Pegolo, con la sua apologia della violenza, e l’ha smontato in un crescendo di indignazione che strideva con le parole ireniche - campagna, pace, danza, amore, ballo, mutamento, canto, poesia, filosofia - proiettate sul maxischermo alle sue spalle. «Ho sorpreso un po’ tutti, forse anche me stesso - sorride alla fine -. Ramon Mantovani, che mi conosce quasi come mia moglie, mi ha detto che non credeva alle sue orecchie. È stato faticoso, ma è andata bene». Bene, relativamente a Rifondazione. I concetti che Bertinotti ha dovuto imporre con le urla e con le lacrime sono nel resto dell’Occidente patrimonio acquisito ai limiti dell’ovvietà. Lui invece deve confrontarsi con ben tre correnti trotzkiste, una classica, una di ascendenza britannica, una filofrancese, e non tutti hanno la signorilità di Marco Ferrando, che lamenta con qualche ragione come gli oppositori con il 40% non abbiano un posto in segreteria e in prospettiva neppure in Parlamento. Alcuni passaggi del segretario danzano tra ottimismo e populismo, come quando saluta il risveglio del conflitto sociale a Scanzano e Acerra, che difficilmente sarebbero insorte se la discarica e l’inceneritore fossero stati progettati un poco più in là. Non ci è stata negata neppure «la liberazione di acqua terra e cielo dall’oppressione capitalista». «Però insomma - si sfoga Bertinotti - se parlo di intervento pubblico nell’economia, di salario sociale, di critica radicale al capitalismo non mi possono liquidare come se parlassi di noccioline». Il segretario è convinto che rispetto alla rottura del ’98 sia cambiato tutto. «Allora c’era l’Ulivo mondiale da Clinton a D’Alema. Ora le cose si sono fatte serie. Ci sono i movimenti. E c’è la guerra. Le politiche liberiste sono fallite, l’intervento americano in Iraq è in crisi. Ma questo non significa che abbiamo vinto noi. I nostri avversari possono incrudelire. Il liberismo, la guerra possono avere un’escalation». Aggrapparsi ai mausolei così come rinchiudersi nelle fabbriche, rimpiangere il passato tanto quanto accontentarsi delle piazze gli pare nello stesso tempo una rinuncia e un lusso, un’occasione perduta e un azzardo. «Si può vincere e si può perdere rovinosamente, si può andare al governo, non io ma altri, e si può restare schiacciati dalle macerie del turbocapitalismo. A cosa serve cacciare Berlusconi se l’esito è il neocentrismo, la moderazione, l’eclissi della sinistra?». Sfilano i delegati a baciarlo, un’anziana signora insiste per regalargli la radio di famiglia con cui sentiva Radio Londra e Radio Praga. Passa Giovanni Pesce: «Capitano, mio capitano!» lo saluta Bertinotti. Vorrebbe proseguire ma non riesce, è ormai senza voce e senza erre.

aprileonline.info
Rifondazione, un Congresso che prelude a un big bang?
L'aspro scontro interno sui rapporti con il centrosinistra e sulle culture di una moderna critica al capitalismo.
La sfida di Bertinotti è rinnovare un soggetto politico

Aldo Garzia

Proviamo a prendere le misure alle conclusioni del Congresso di Rifondazione che ha vissuto prima l'emozione per l'adesione di Pietro Ingrao, poi momenti di gioia spezzata a metà per la liberazione di Giuliana Sgrena e l'uccisione di Nicola Calipari, poi ancora le fasi di un aspro dibattito interno.
C'è innanzitutto la conferma, seppure molto sofferta, di una scelta politica di fondo: perseverare nella ricerca di un possibile accordo di programma con l'Unione di centrosinistra. Sia nella relazione di Fausto Bertinotti sia nell'intervento molto applaudito di Nichi Vendola, la metafora più riuscita è stata quella del "viaggio": un cammino da fare con altri, anche su itinerari inesplorati e mettendo a repentaglio parte delle proprie certezze come avviene quando si diventa curiosi viaggiatori, per liberarci dal governo delle destre e provare a metter mano a riforme su diritti e welfare (per esempio, una decisa inversione di tendenza rispetto all'eccesso di precarizzazione del lavoro). Questi obiettivi implicano una assunzione di responsabilità. Non più un "appoggio esterno" (come avvenne nel 1996 nei confronti del governo Prodi), bensì un pieno coinvolgimento di governo. La maggioranza di Rifondazione vuole portare in dote al resto del centrosinistra la sua peculiare reattività a contenuti e culture di movimento che possono concorrere a definire il profilo di un'alternativa di governo.
Tutto questo costituisce indubbiamente una "svolta", se la si raffronta con la "desistenza" elettorale del 1996 o la presentazione solo sulla quota proporzionale del 2001. A questa innovazione il Prc arriva sull'onda dei movimenti degli ultimi tre-quattro anni: quello sulla pace, quello no-global, quello sull'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, quello dei girotondi che in un primo momento lo stesso Bertinotti aveva sottovalutato nella sua carica rinnovatrice.
Altro punto importante: Rifondazione non si ritiene autosufficiente. Ha intenzione di continuare la sua azione con altri soggetti politici e di movimento. Di qui l'idea – ribadita con convinzione soprattutto dal segretario del Prc – di proseguire il proficuo confronto promosso da alcune riviste ("Aprile", "Carta", "Quaderni laburisti", "Alternative", "Nuova Ecologia", "Ecoradio") per giungere a proposte programmatiche da offrire in autonomia alla "fabbrica del programma" di Romano Prodi.
Tutte le innovazioni introdotte nel corpo di Rifondazione (nonviolenza, distacco dalla parte buia della storia del movimento comunista, riscoperta di una moderna critica al capitalismo e ai suoi modelli sociali sulla scia del movimento dei movimenti) hanno prodotto un salutare scossone nel partito. E' il riconoscimento che l'identità di una forza di sinistra deve guardare più al presente e al futuro che al passato. Ecco spiegato anche il rinnovamento generazionale che Bertinotti sembra intenzionato a promuovere nei prossimi mesi, mettendo a disposizione pure la sua carica di segretario.
Ma la questione irrisolta dal Congresso resta la "forma partito" e il rapporto tra le diverse aree politiche che convivono in Rifondazione. Bertinotti è stato impietoso nella sua analisi, pur annunciando una prossima Conferenza di organizzazione per analizzare meglio ciò che va corretto: il Prc deve diventare accogliente e attrattivo, mentre oggi non lo è.
Lo scontro tra la maggioranza e le minoranze è stato senza esclusione di colpi. Nella replica finale, Bertinotti ha confermato la sua scelta di puntare a una segreteria omogenea per perseguire con audacia e a briglia sciolta la linea politica che ha ottenuto il 60 per cento dei delegati del Congresso. Le quattro mozioni di minoranza potrebbero reagire rimanendo fuori anche dalla Direzione del partito. Ieri, infatti, hanno diffuso un comunicato congiunto in cui definiscono "molto gravi e senza precedenti in tutta la storia di Rifondazione" le modifiche apportate allo Statuto con la logica della maggioranza.
Tra maggioranza e minoranze c'è una incomunicabilità che assomiglia ai migliori film di Michelangelo Antonioni. Questa incomunicabilità riguarda il futuro immediato del Prc. Tra le diverse opzioni c'è una divaricazione profonda. Mentre Bertinotti è parso far balenare in prospettiva perfino un big bang capace di fornire una risposta di rinnovamento sul versante di sinistra dell'Unione, le minoranze puntano alla conservazione oculata del proprio bagaglio (più interessante, rispetto alle altre, è comunque la posizione dell'area che si raccoglie intorno alla rivista "l'Ernesto" e che ha avuto all'incirca il 26 per cento dei delegati).
Dietro questo conflitto, si cela la sfida alla Federazione Uniti nell'Ulivo e all'ipotetico "partito riformista". Questa competizione su idee, programmi e riferimenti culturali non riguarda solo Rifondazione. Per questo, il Congresso del Prc che si è svolto a Venezia – con Bertinotti – è riuscito a parlare con ascolto più all'esterno che all'interno del partito.