domenica 16 maggio 2004


intervista a Ludovica Costantino

«E' stata testè pubblicata su Nuova Agenzia Radicale una intervista di Paolo Izzo a Ludovica Costantino sull'anoressia.
La trovate qui:

 http://www.quaderniradicali.it/agenzia/index.php?op=read&nid=919»



 

donne dell'Islam

Le Monde Diplomatique
Confronto tra donne all'interno dell'Islam

Accesso all'istruzione, in particolare a quella superiore, presenza nel mercato del lavoro, controllo delle nascite: nel corso di pochi decenni la condizione delle donne è profondamente cambiata nei paesi islamici. D'altro canto ogni conquista incontra resistenze e le mentalità sono più difficili da cambiare che le leggi. Divisi in molte correnti, laiche, liberali, islamiste, i movimenti di donne, dal Marocco all'Iran contestano tradizioni ancestrali, rivendicano più diritti, rileggono il Corano e la storia musulmana, a volte nella dispersione, a volte in una stupefacente unità.
di Wendy Kristianasen


Il premio Nobel per la pace assegnato a Shirin Ebadi - il primo a una donna musulmana - potendo essere considerato come il simbolo di un certo progresso in Iran, ha richiamato l'attenzione mondiale sulla lotta delle iraniane per l'uguaglianza dei diritti. Ma il presidente Mohammad Khatami ha ridimensionato l'assegnazione del premio definendolo «non molto importante» e aumentando così la delusione degli iraniani, già scontenti dell'incapacità dei riformatori di promuovere una società più democratica. Del resto, le elezioni legislative del 20 febbraio 2004 hanno confermato il fallimento del tentativo, durato sette anni, di riformare la rivoluzione teocratico - islamica (1).
Anche il Marocco all'inizio dell'anno, ha adottato una nuova legge sulla famiglia (moudawana). Una riforma storica, perché l'uguaglianza tra uomini e donne entra a far parte della legislazione. Il Marocco è il secondo paese arabo musulmano, dopo la Tunisia, a compiere questo passo. Tuttavia, dietro un'apertura di facciata, il re Mohamed VI, salito al trono nel 1999, esercita un potere assoluto e, a parte questa legge sulla famiglia, le concessioni democratiche sono limitate.
La popolazione marocchina ha un atteggiamento simile a quello degli iraniani: spoliticizzato e sfiduciato nei confronti del potere. Non è il solo punto in comune. Come l'Iran, anche il Marocco è uno stato islamico. Il re è insieme capo dello stato e capo religioso, «protettore dei credenti» (Amir al-Mouminin). L'osservanza dei riti islamici è obbligatoria per i musulmani, anche se l'anno scorso il mancato rispetto del ramadan è costato un semplice avvertimento, invece della multa prevista. Il paese resta profondamente conservatore, perché tradizioni e islam si rafforzano a vicenda.
In Iran come in Marocco, il rinnovamento nasce all'interno stesso del contesto islamico attraverso l'ijtihad (studio individuale delle fonti religiose) e il tafsir (esegesi del Corano). In entrambi i paesi le donne hanno svolto un ruolo attivo. Si definiscono militanti dei diritti delle donne: la maggior parte di loro, soprattutto in Marocco, rifiuta il termine «femminista» che considera limitativo in quanto legato a un tempo e un luogo non loro; queste donne rappresentano un ampio ventaglio della società che va dal polo islamico a quello laico - altra parola che mette a disagio molte di loro in tutti e due i paesi.
La legge sulla famiglia La riforma della legge marocchina sulla famiglia è il frutto di un lungo processo, incentivato soprattutto dal re e da un movimento di donne molto forte e combattivo, condotto all'interno stesso della sharia (legge islamica). Le donne ormai dispongono di uno statuto legale identico a quello degli uomini; possono iniziare una pratica di divorzio, condividono i diritti all'interno della famiglia e non sono più sotto la tutela di uno dei parenti (padre, fratello o marito); sono libere e indipendenti. Ma hanno dovuto accettare dei compromessi.
La poligamia, ad esempio, esplicitamente autorizzata dal Corano, non ha potuto essere abolita, anche se praticarla è diventato pressoché impossibile.
Tuttavia, tradurre i principi della riforma in articoli di legge si è rivelato arduo. Un precedente progetto di riforma, il «Piano per l'integrazione delle donne nello sviluppo», era stato proposto, nel 1999, dal primo ministro socialista Abderrahman Youssoufi che lo aveva poi presentato alla Banca mondiale. L'iniziativa aveva suscitato le critiche del ministro degli affari islamici, Abdelkebir Alaoui M'Dghari. Il dibattito era poi diventato pubblico, il governo aveva fatto marcia indietro e si erano così formati due schieramenti: da un lato, le militanti dei diritti della donna riunitesi nella Primavera dell'eguaglianza, dall'altro, gli islamisti e i loro alleati conservatori.
A Rabat, il 12 marzo 2000, alla vigilia della Giornata internazionale delle donne, le manifestazioni di sostegno al Piano hanno richiamato dalle 100.000 alle 200.000 persone, con la partecipazione di gruppi di donne, movimenti dei diritti umani e partiti politici (e almeno sei ministri in carica). Alcuni chiedevano addirittura una riforma più audace. Ma a Casablanca, una contro - manifestazione islamista, che denunciava il Piano come pro - occidentale e anti - musulmano, ha mobilitato una folla nettamente più numerosa.
A questo punto il re ha nominato una commissione di quindici membri per rivedere il progetto e renderlo conforme alla legge islamica.
Una delle tre donne della commissione è Nouzha Guessous, non schierata politicamente, 50 anni, professore alla facoltà di medicina e farmacologia di Casablanca e tra i fondatori dell'Organizzazione marocchina per i diritti umani (Omdh). Si dichiara femminista, «ma, precisa, in senso ampio: considero il mio percorso personale inserito in un contesto universale, e non credo che ciò sia in contraddizione con i principi fondanti dell'islam». A suo giudizio, la denuncia del preteso carattere anti - musulmano del Piano ha obbligato «gli intellettuali marocchini e le organizzazioni delle donne a elaborare argomenti molto solidi, basati sulla cultura musulmana, proprio per dimostrare che le loro proposte non sono dettate dalle organizzazioni internazionali o dalle culture occidentali, ma sono invece ben ancorate nel patrimonio arabo-musulmano.
E questo, secondo me, è il cambiamento tattico più importante nelle lotta delle donne». La lettura del discorso con cui il re ha annunciato la nuova legge è esemplare: il contenuto è identico a quello proposto nel 2000, ma ogni singola riforma è legittimata da un riferimento al Corano e alle tradizioni profetiche.
In qualche modo, i cinque attentati - suicidi che il 16 maggio 2003 hanno ucciso 45 persone a Casablanca hanno accelerato la decisione.
Il fatto senza precedenti ha profondamente traumatizzato la popolazione.
Se i terroristi appartengono alla jihad salafista, legata ad al Qaeda, allora molti marocchini addossano la responsabilità degli attentati al movimento islamista originario, il cui referente parlamentare è il Partito per la Giustizia e lo sviluppo (Pjd). In conseguenza, quest'ultimo si è affrettato ad approvare il nuovo progetto.
Come spiega la Guessous, «i fatti del 16 maggio sono stati un campanello d'allarme circa il rischio di derive estremiste e hanno costretto tutti a prendere posizione, compreso lo stato marocchino. Che lo ha fatto, affermando solennemente che il Marocco non intende rimettere in discussione la scelta di costruire uno stato democratico, aperto, tollerante. Gli avvenimenti hanno dimostrato che il potere deve tener conto della situazione generale del paese, in particolare sul piano socioeconomico, e hanno confermato la necessità di ribadire che siamo in perfetta sintonia con i principi dell'islam».
Il politologo marocchino Mohamed Tozy considera rivoluzionaria la riforma del codice di famiglia. Ma pensa che dovrà essere accompagnata da un grande lavoro di educazione e da profondi cambiamenti sociali.
Della stessa opinione è Leila Rhiwi, insegnante di comunicazione all'università di Rabat e coordinatrice del movimento Primavera dell'uguaglianza, la quale esprime una preoccupazione molto diffusa nel paese: «Questa legge è di capitale importanza; mette l'uguaglianza al posto della sottomissione. Ma ho paura che nella pratica, nei vari tribunali sparsi per il Marocco, non venga applicata. I magistrati hanno una libertà eccessiva. C'è ancora molto lavoro da fare». E aggiunge: «Sono musulmana dal punto di vista dell'apporto culturale dell'islam, ma scelgo la laicità. Non rifiuto di essere considerata una "femminista laica". Soprattutto dopo il 16 maggio, si è cominciato a mettere insieme laicità e democrazia...».
Consulente di management e segretaria generale del Forum verità e giustizia, un'organizzazione che difende i diritti umani, Khadija Rouissi, 40 anni, si definisce una femminista assolutamente laica.
Anche lei è preoccupata del fatto che «giudici e magistrati non rispettino la nuova riforma; sono tutti uomini, non conoscono altro che la discriminazione».
Vediamo cosa ne pensano le donne islamiste, come Nadia Yassin, portavoce di Jama'a al-Adl wal-Ishan (Giustizia e carità), il cui padre, lo sceicco Ahmad Yassin, 76 anni, fondatore del movimento, ha scritto in un libro, intitolato La Révolution à l'heure de l'Islam, che bisogna «islamizzare la modernità e non modernizzare l'Islam». Nadia Yassin si considera una «militante sociale neo-sufista» e rifiuta il termine di femminista, a suo avviso «troppo revanscista». Ammette che la decisione di manifestare contro la riforma, nel 2000, è stato «un errore tattico. Era un gesto politico, destinato a mostrare la forza degli islamisti. Ma ci opponevamo alla riforma anche perché era emersa dalla conferenza di Pechino (2), ed era imposta dall'esterno. Forse la nostra società è malata, ma siamo noi a dover trovare i rimedi.
Le donne occidentali, che non avevano alcun diritto, hanno dovuto lottare per conquistarli. Da noi, è successo esattamente l'opposto: poco a poco ne siamo state private».
Ma al di là di tutto, pensa che «il nostro mondo è spirituale per natura. Per noi, i diritti delle donne comportano tre poli: gli uomini, le donne e Dio. Leggiamo e rileggiamo i testi sacri: nella nostra società il periodo nero per le donne è stata l'epoca del califfo Mou'awiya (3) quando diventarono schiave. Rivendichiamo nuovi diritti, ma solo per una migliore armonia tra tutti i membri della famiglia.
I diritti delle donne possono diventare deleteri e portare alla disgregazione della famiglia, e questo va evitato». Critica poi le insufficienze della riforma: «La nuova legge dovrebbe offrire di più e accordare alle donne il diritto di decidere in prima persona a quali condizioni accettare la poligamia e il ripudio. Inoltre non viene toccato per niente il problema dell'eredità delle donne».
Il suo movimento, Al-Adl wal-Ihsan, ha una notevole influenza, in particolare nelle città e nelle università (4): comunica una speranza di cambiamento a tutti i livelli spirituale, politico, culturale.
Contesta lo status quo del re e trae la sua legittimità da un reale sostegno popolare. Poiché rifiuta di transigere sui suoi principi, resta fuori dal sistema politico. La maggior parte dei suoi sostenitori vota Pjd, partito religioso conservatore che piace ai marocchini più legati alla tradizione. Secondo Hakima Mukatry, una delle responsabili di al-Adl wal-Ihsan a Rabat: «Le nostre idee sono molto diverse da quelle del Pjd. Loro accettano il gioco politico, noi no».
Molte donne che hanno sofferto sotto la vecchia moudawana sono attratte da Al-Adl wal-ihsan, ad esempio Najia Rahman, 44 anni, che viene da Oujda, nell'est del paese. Era una ribelle: rifiutava di coprirsi i capelli o di pregare. Si è sposata. Pessima scelta. Dopo anni di maltrattamenti, consacrati unicamente ai figli e al lavoro, scopre gli scritti dello sceicco Ahmad Yassin: «Mi sono detta: questi sono concetti nuovi; non come Hassan al-Banna o Sayyid Qotb (5). Subito è scattata in me una molla e ho aderito. Questo avveniva 18 anni fa. I militanti mi hanno incoraggiata a divorziare, a riprendere la mia carriera, ma soprattutto a riflettere. Ora preparo il dottorato in psicologia». La legge sulla famiglia ? «Non mi aiuterà a ottenere gli alimenti. Il problema non sta nella legge, ma nella mentalità, nella corruzione, nella scarsa preparazione di chi siede nei tribunali di prima istanza».
Riuniti in casa di uno di loro a Casablanca, i membri del movimento si scambiano liberamente le proprie opinioni sui più vari argomenti in presenza di una o due donne (Al-Adl wal-Ihsan è favorevole alla promiscuità) e sotto la presidenza di Nadia Yassin. Sono convinti che sia necessario «demistificare la storia musulmana, reinterpretarla, cambiare la gente rieducandola dalla A alla Z». Si dicono «pronti a entrare nella politica, ma solo se non è truccata, cosa che il palazzo non è in grado di garantire». E aggiungono di «non volere soltanto una riforma elettorale, ma una reale riforma costituzionale.
Il potere sa che ne contestiamo la legittimità. Ma contestiamo anche i privilegi del movimento delle donne laiche: sono delle élite francofone».
Le donne marocchine sono dunque divise in due fazioni monolitiche, che si detestano e non si incontrano quasi mai.
In Iran, la situazione è completamente diversa e le alleanze sono sorprendenti (6). Per definirsi, le militanti usano un numero straordinario di categorie: da tradizionali a moderne, da islamiste a laiche, da conservatrici a di sinistra, passando per le centriste liberali con infinite varianti. Tuttavia, molte di loro, almeno all'inizio, si identificavano col movimento riformatore guidato da Mohammad Khatami, con il suo discorso sulla società civile, la libertà di espressione e l'importanza del diritto, contrapposto all'opposizione forte, talvolta violenta, dei «duri» della teocrazia conservatrice. Di fatto, le donne e la loro richiesta di uguaglianza sono una delle chiavi di volta del movimento per le riforme democratiche.
I successi sono però modesti, dal momento che le leggi votate dal parlamento possono essere annullate dal consiglio dei Guardiani, che ha diritto di veto. Per esempio, dal 29 novembre 2003, le madri iraniane divorziate possono mantenere la custodia dei figli maschi fino all'età di sette anni (contro i due anni della legge precedente).
Avevano già quella delle figlie fino ai sette anni, grazie ai tenaci sforzi di Shirin Ebadi che nel 1997 aveva richiamato l'attenzione su questo problema, difendendo la madre divorziata di una bambina di sei anni, Aryan, morta a causa dei maltrattamenti che le infliggevano la matrigna e il fratello nella casa paterna. Dopo vent'anni di oscurantismo, questa piccola apertura è sembrata un notevole progresso.
Nel giugno 2002, alla fine di un cammino altrettanto lungo, l'età minima per sposarsi è passata a tredici anni per le ragazze e a quindici per i ragazzi. Un compromesso. La legge votata dal parlamento, nell'agosto 2000, prevedeva infatti rispettivamente quindici e diciotto anni.
Dal 2001, ogni donna che abbia più di diciotto anni ha il diritto di andare all'estero senza autorizzazione, a meno che non sia sposata, nel qual caso deve ottenere il permesso del marito (7). Ma altre leggi votate dopo il 2000 dal parlamento (nel corso della Sesta majlis) sono state annullate: la riforma delle leggi su stampa e divorzio, il divieto di tortura nelle prigioni, l'adesione alla Convenzione sull'eliminazione di qualsiasi forma di discriminazione contro le donne (Cedaw). Il dato di base resta identico: la vita di una donna vale comunque meno di quella di un uomo. Così il «prezzo del sangue» (la compensazione pagata in caso di incidente o di morte) continua ad essere la metà di quello pagato per un uomo (allo stesso modo, il seguace di una religione minoritaria vale la metà di un musulmano).
Educare gli uomini C'è poi la questione della hidjab, il codice dell'abbigliamento obbligatorio per un musulmano (non rispettarlo può comportare fino a 74 frustate).
Dopo anni di silenzio, la questione è stata finalmente sollevata, sotto Khatami, da vari religiosi riformatori che hanno espresso il loro pensiero in diverse pubblicazioni. Il più noto fra loro è l'ex ministro dell'interno, Abdollah Nuri, il quale è stato condannato a cinque anni di carcere per avere spiegato che la sharia obbliga la donna credente a coprirsi la testa e il corpo, ma non dice niente in relazione alle non credenti (8).
I nuovi argomenti in discussione circolano grazie alla rivista mensile Zanan (Donne), fondata nel 1992 da Shahla Sherkat, resa celebre dal suo femminismo impegnato, ma non troppo lontano dall'islam. Zanan rappresenta di gran lunga la maggiore tiratura della stampa femminile, vende infatti fino a 40.000 copie, contro le sole 5.000 della sua concorrente diretta. «Quando ho lanciato Zanan, racconta Shahla Sherkat, volevo solo rendermi utile con i mei dieci anni di esperienza sui problemi delle donne. C'è voluto un certo coraggio. La parola "femminista" era un'ingiuria. Non volevo passare per una sostenitrice del femminismo, volevo solo parlarne. Il femminismo da noi è un fenomeno del tutto nuovo: può dare alle donne il coraggio di mettersi insieme per protestare contro le diseguaglianze tra sessi. È per questo che rifiuto di aggiungervi un qualsiasi aggettivo, come "islamico" o "laico". Non mi preoccupo molto delle etichette. Sono semplicemente femminista».
Durante un dibattito a Berlino, nel 2000, Shahla Sherkat ha pubblicamente criticato le regole della hidjab. Erano presenti altri noti riformatori e tutti sono stati puniti, Shahla Sherkat ha avuto sei mesi di carcere con la condizionale, Shahla Lahiji, militante dei diritti umani e da vent'anni direttrice delle edizioni Roshangran (premiate con il Pen International negli Stati uniti e con il Pandora Prize nel Regno unito) si è invece presa quattro anni e mezzo di carcere duro (pena ridotta a sei mesi) per aver parlato della censura.
«La questione femminile è un tema ancora molto scottante, spiega Shahla Lahiji. L'espressione "femminista islamica" pone dei problemi: la gente pensa che tu ti senta superiore agli uomini e che te ne vada in giro tutta nuda. Il problema è che la religione si è mescolata alla vita privata: abbiamo bisogno di separare la religione dallo stato. Loro [i mullah] vorrebbero approfondire la segregazione con giardini pubblici e autobus riservati alle donne, ecc.. Ma quello di cui abbiamo veramente bisogno è educare gli uomini». A Lahiji è proibito parlare in pubblico. Accetta la regola, come tutti in Iran. Rispetta la hidjab «perché così vuole la legge. Anche se non amo quel che c'è dietro, cioè "Voi donne, siete l'essenza del peccato"».
Ma non è amareggiata. Al contrario è molto ottimista. E ricorda gli effetti della guerra contro l'Iraq negli anni '80: «Ci sono state donne che sono diventate capofamiglia, e questo ha dato loro fiducia.
Era l'inizio. Oggi, la nuova generazione fa cose straordinarie. Ci sono così tanti talenti nel nostro paese. Guardi il cinema ! Non ci sono molti ruoli femminili e non ci può essere contatto fisico tra i sessi, ma tanti registi di primo piano sono donne! E tutte le laureate: ragazze sui banchi delle facoltà a studiare matematica o tecnologia dell'informazione. L'anno scorso, oltre il 62% degli studenti del primo anno erano donne. Con tutti i limiti che ci vengono imposti, è semplicemente un miracolo».
Islam e democrazia Noushin Ahmadi Khorasani, 35 anni, è un'altra personalità aperta e laica. Pubblica un trimestrale, Fasl Zanan (La Stagione delle donne) ed è una militante dei diritti umani. Dirige, con Parvin Ardalan, il Centro culturale delle donne. Dal 1999, nonostante la guerra di logoramento a cui sono sottoposte da parte delle autorità, allestiscono spettacoli in pubblico. Dopo due anni di fatiche sono riuscite a creare un'associazione non governativa, ma non hanno alcuno dei vantaggi o finanziamenti ai quali hanno diritto le associazioni non laiche.
Ahmadi Khorasani e Ardalan si definiscono esplicitamente femministe: «E siamo laiche. Non abbiamo bisogno di dirlo. In Iran, questo è implicito nell'espressione "diritti umani", che sottintende la separazione tra religione e stato. Fino a due anni fa, anche la parola femminista era sinonimo di laicità. All'epoca la stessa Shirin Ebadi non si dichiarava femminista».
Dal canto suo, Azam Taleqani, direttrice della rivista riformatrice Payam-e-Hajer (Il Messaggio di Hajer) attualmente proibita, è una militante della vecchia scuola, iscritta alla corrente nazional-religiosa.
Figlia di un celebre ayatollah, è anziana e malata, ma sempre circondata da grande rispetto. «Gli uomini dovrebbero rivalutare la condizione delle donne, ma io mi preoccupo dell'insieme della società, non solo del mondo femminile». Malgrado le sue precarie condizioni di salute, si è candidata alle ultime elezioni presidenziali, «per mettere alla prova la costituzione: non c'è alcuna ragione per cui una donna non possa presentarsi». Nell'estate 2003, ha protestato da sola, esponendosi per tutto il giorno ad un caldo soffocante, contro la morte in prigione, avvenuta il 12 luglio, della giornalista irano-canadese Zahra Kazami arrestata per aver fotografato la prigione di Evin. Come si definisce questa donna indomabile? Sorride: «Se lo sapessi, sarei senza dubbio più efficace. Spero di scoprirlo prima di morire».
Mahboubeh Ommi Abbasqolizadeh, 44 anni, dirige dal 1993 il trimestrale Farzaneh (Saggio), prima rivista iraniana dedicata a studi femministi (women's studies). Dirige anche varie organizzazioni, alcune governative, altre no. Il suo successo, si dice, dipenderebbe dal fatto che ha saputo restare vicina all'establishment islamico. Racconta il suo percorso: «Ero islamista all'epoca della rivoluzione. Poi, negli anni '80, ho studiato in Egitto, anche le problematiche di genere.
Sono diventata femminista islamista, il che significa militare a favore di rinnovamenti particolarmente importanti attraverso quello che chiamiamo lo "djihad dinamico". Ma oggi sono cambiata ancora, mi definisco femminista musulmana e faccio riferimento al movimento degli intellettuali religiosi».
Tra questi ultimi (9), una delle personalità più rispettate, Hamidreza Jalaeipour, professore di sociologia all'università di Tehran, spiega: «Sono musulmano, ma non islamista. Non credo all'islam in quanto ideologia. Noi intellettuali religiosi crediamo in una "laicità obiettiva", alla separazione tra religione e stato in quanto istituzioni, ma non in termini culturali». Afferma che, «l'Iran è passato attraverso una fase fondamentalista: molti di noi sono diventati dei "post-fondamentalisti" e ci auguriamo un islam minimale». Un esempio di «laicità obiettiva»?
«Forse quella che si avvicina più di tutti è la Turchia, sotto l'attuale governo di Giustizia e sviluppo».
Mahboubeh Abbasqolizadeh osserva: «Poiché manchiamo di laicità, essa rappresenta per noi la democrazia. Credo sia possibile riconciliare islam e democrazia. La difficoltà nasce quando si tratta di applicare questo principio alle donne. È un'idea del tutto nuova».
Donne come Shirin Ebadi hanno un compito importante da svolgere.
Nella sua modesta abitazione a Tehran, foulard di un blu sgargiante sui capelli, questo avvocato di 56 anni, militante dei diritti delle donne e dei bambini, continua a credere che riforme e islam siano compatibili. «In ogni caso, la costituzione prevede di poter essere rivista, quando se ne avverta la necessità: è infatti indicata una procedura referendaria con possibilità di modifica della legge. Dunque, le riforme non sono impossibili». Per quanto riguarda le donne, afferma: «Il movimento delle donne è ogni giorno meglio organizzato e più solidale. Le donne iraniane sono sufficientemente istruite, non hanno bisogno di capi. Sono unite, coraggiose, consapevoli. E continueranno a lottare per l'uguaglianza dei diritti».
Shirin Ebadi si dice musulmana. Come Nouzha Guessous, in Marocco, sa che bisogna cercare un punto di intesa in cui l'islam possa coesistere con i diritti universali e la democrazia.

note:

(1) È vero che il consiglio dei Guardiani della rivoluzione ha bocciato 2.500 candidati riformatori. Altri si sono ritirati. Alla fine i riformatori, che nel 2000 avevano ottenuto il 70% dei seggi, ne hanno totalizzati solo 43 su 289, mentre al secondo turno verranno attribuiti 64 seggi contesi da 128 candidati. La partecipazione alle elezioni è stata solo del 28% a Tehran e ha raggiunto il 50,6% nell'insieme del paese. Si legga Bernard Hourcade «Iran, il lungo risveglio della repubblica islamica», Le Monde diplomatique/il manifesto, febbraio 2004.

(2) Conferenza internazionale sui diritti delle donne sotto l'egida dell'organizzazione delle nazioni unite che si è svolta a Pechino nel 1995.

(3) Primo califfo della dinastia degli Ommeyadi (657-680).

(4) Nadia Yassine afferma che il movimento conta centinaia di migliaia di simpatizzanti, mentre l'islamista marocchino Mohamed Tozy ritiene si tratti di diecimila, massimo ventimila persone.

(5) Rispettivamente fondatore dei Fratelli musulmani nel 1928 e uno dei loro teorici giustiziato da Nasser nel 1965.

(6) Si legga, in particolare, Azadeh Kian, «Le donne iraniane contro il clero», Le Monde diplomatique/il manifesto, novembre 1996.

(7) Tra il 1980 e il 1990 sono state introdotte alcune riforme: le donne sono state autorizzate a studiare argomenti in precedenza proibiti, l'acceso al planning famigliare e alla contraccezione sono stati liberalizzati, le leggi sul divorzio sono state emendate e alcune donne sono state nominate magistrati consulenti (la Ebadi aveva perso la carica di magistrato nel 1979).

(8) Si legga: Ziba Mir-Hosseini, «The Conservative-Reformist Conflict over Women's Rights in Islam», International Journal of Politics, Culture and Society, n° 16
(1), Boston, autunno 2002; «Debating Women: Gender and the Public Sphere in Post-Revolutionary Iran», in Amyn Sajoo (ed.), Civil Society in Comparative Muslim Contexts., I. B.
Tauris & Institute of Ismaili Studies, Londra, 2002; Islam and Gender: the Religious Debate in Contemporary Iran, Princeton University Press, 1999 e I. B. Tauris, Londra, 2000.

(9) Tra i quali si contano anche Abdolkarim Sorush e Alireza Alavitabar.

(Traduzione di G.P.)

donne e uomini:
«a ciascuno il suo lobo»

La Gazzetta del Mezzogiorno 16.5.04
Al maschio il sinistro alle femmine il destro
di e. ann.


In genere nell'uomo prevale il cervello sinistro, mentre nella donna c'è più equilibrio o addirittura prevale quello destro. Il lobo parietale inferiore nell'uomo è più grande del 5%. Quest'area sarebbe fortemente correlata con le abilità matematiche, le relazioni spaziali e la percezione del tempo e della velocità. Nella donna, due aree dei lobi frontale e parietale collegate al linguaggio hanno un volume maggiore fino al 23% rispetto all'uomo. Finora queste caratteristiche sembrano avere influenze generali, più predisposizioni che veri talenti innati.
L'evoluzione sarebbe la responsabile dello sviluppo delle capacità empatiche nelle donne e sistematizzanti negli uomini per garantirsi maggiore possibilità di riproduzione e di sopravvivenza. Il maschio poco empatico e molto sistematico si costruisce utensili, si sa orientare nella foresta, caccia, combatte, capisce qual è il suo posto nella gerarchia sociale e sa scalarla senza scrupoli nei confronti dei suoi simili. Una donna più empatica è maggiormente in grado di soddisfare i bisogni della prole perché ha molti amici su cui contare ed è in grado di intuire e capire i bisogni dei piccoli finché essi non sono in grado di esprimersi. Finché è durata la vita primitiva, maschi sistematici e femmine empatiche avrebbero avuto maggiori possibilità di trasmettere i primi geni rispetto ad individui più «equilibrati» (e perciò meno competitivi).

Gregory Bateson

La Stampa 15.5.04
A CENTO ANNI DALLA NASCITA, UNA LEZIONE DI RIGORE E IMMAGINAZIONE, ATTUALE E PREZIOSA

BIOLOGO, ANTROPOLOGO MARITO DELLA MEAD, ECOLOGO, HA RIPENSATO LA CONDIZIONE UMANA NELL’ERA PLANETARIA, IL NOSTRO ESSER PARTI DI PIÙ AMPI SISTEMI NATURALI E SOCIALI, HA INSEGNATO A VEDERE «LA STRUTTURA CHE CONNETTE», A CONOSCERE QUEL CHE GIÀ SIAMO, A COLTIVARE «LE DANZE INTERATTIVE» DELLA VITA
di Sergio Manghi

Non cesseremo di esplorare
E il fine di ogni nostra esplorazione
Sarà là dove siamo partiti
E sapremo il luogo per la prima volta.
T.S. Eliot

NELL’AUTUNNO del 1979, lo stesso anno in cui uscì Mente e natura, Gregory Bateson fu invitato a tenere una conferenza all'Institute of Contemporary Arts di Londra. Era nato 75 anni prima a Grantchester, nei pressi di Cambridge, UK. Dagli Anni 30 viveva negli Stati Uniti, dov'era approdato nel momento più intenso delle sue esplorazioni antropologiche, dopo l'incontro intellettuale e sentimentale con Margaret Mead. Non era la prima volta che rimetteva piede sulla sua terra natale, ma questa era un'occasione del tutto particolare. Gli avevano chiesto di pronunciare quella che gli sarebbe piaciuto definire la sua last lecture. Bateson decise di rispondere a questa richiesta con un excursus autobiografico e insieme (ovviamente, per lui) metabiografico. L'incipit del testo preparatorio, pubblicato solo vari anni dopo, ripete quasi alla lettera alcuni versi dei Quattro quartetti di Eliot: «Torno al luogo da cui sono partito e conosco il luogo per la prima volta». L'anno precedente aveva dovuto interrompere il lavoro su Mente e natura a causa di un grave cancro al polmone. Aveva potuto portarlo a termine solo grazie all'aiuto della figlia, Mary Catherine. Sarebbe morto nell'estate del 1980. Nella sua last lecture, Bateson ripercorreva l'avventura straordinaria della propria vita in chiave circolare: partito dalle scienze biologiche, vi ritornava; partito dalla Gran Bretagna, vi ritornava. Ma le scienze biologiche e la Gran Bretagna a cui ritornava apparivano diverse ai suoi occhi - conosceva il luogo per la prima volta. In mezzo, tra la partenza e il ritorno, i viaggi e gli spaesamenti antropologici, l'impresa esaltante della cibernetica, gli studi sulla natura relazionale della schizofrenia e più in generale della comunicazione animale e umana, le riflessioni epistemologico-ecologiche culminate in quella "svolta" dei tardi Anni Sessanta in cui maturò il progetto del celebre Verso un’ecologia della mente (1972). La biologia dalla quale - per raffinata e devota cultura familiare - era partito (il padre, William, era stato tra i precursori della genetica), appariva ora ai suoi occhi una porzione di una più ampia biologia: l'ecologia della mente, appunto, dove la ragione non era più separata dal cuore, dove l'io non era più separato dagli altri e dal contesto, dove l'universo antropologico non era più separato dal più ampio universo creaturale in evoluzione incessante, imprevedibile, creativa.
E la Gran Bretagna che aveva lasciato - così racconta - per sottrarsi al frustrante disinteresse che essa nutriva riguardo ai presupposti del suo stesso sistema sociale e riguardo all'estetica dei suoi rituali costitutivi, era ora una porzione di un mondo sociale molto più grande. Un mondo globalizzato, diremmo oggi. Un mondo, soprattutto, chiamato con urgenza a saper guardare a se stesso con occhi nuovi - a conoscere il luogo per la prima volta. Il linguaggio "ecologico" creato da Bateson, in particolare a partire dagli Anni Sessanta, va annoverato fra i tentativi più alti compiuti nel XX secolo per ripensare la condizione umana nell'era planetaria. Ovvero, per interrogare in profondità il nostro esser parte di più ampi sistemi, interpersonali, sociali e naturali, in un tempo di impetuosa unificazione dell'umanità e di crescente fiducia mitologica nelle virtù salvifiche della Tecnica: fede nel primato della finalità cosciente, per dirla con la felice formula contenuta nelle due cruciali conferenze del 1968. Mente e natura si proponeva di dare all'ecologia della mente una forma più esplicita, coerente e articolata di quella elaborata in Verso un'ecologia della mente. In sede teorica, la "mossa-chiave" di Bateson consiste nel porre la mente - una sua precisa quanto inusuale idea "sistemica" di "mente" - nel cuore stesso della storia naturale, nella grammatica autogenerativa dei processi viventi e delle loro incessanti, stupefacenti metamorfosi: «Se volete comprendere il processo mentale, guardate l'evoluzione biologica, e viceversa, se volete comprendere l'evoluzione biologia, guardate il processo mentale», ammonisce nel memorandum per i Regents della University of California, dei quali faceva parte, posto in appendice a Mente e natura. Con questo spiazzante ossimoro, Bateson immette nello stesso campo del sapere fenomeni che siamo abituati a pensare come eterogenei e distanti (l'anatomia dell'ameba, i rituali del sacro, la comunicazione tra le focene, l'apprendimento a "disabituarsi", la corsa agli armamenti, la crisi ecologica...). Le sue "domande impertinenti" (Rieber 1989) ci inducono a osservare con occhi nuovi, capaci di stupirsi di se stessi, la nostra stessa idea di "mente". Ci invitano, in altri termini, a vedere in wider perspective - in una prospettiva più vasta, come amava ripetere - quelle nostre inerziali abitudini di pensiero che ci spingono a descrivere la mente come un apparato logico-cognitivo per l'elaborazione di informazioni (input-elaborazione-output), o all'opposto, vitalisticamente, come un ineffabile quid soprannaturale - secondo il codice binario, illuministico-romantico, che disciplina ancor oggi, del resto, tanta parte del nostro moderno immaginario, anche nella più fluida variante postmoderna. Il libro, sappiamo, non ebbe l'accoglienza sperata, e Bateson ne fu amareggiato. Nel mondo scientifico, del quale non cessava di sentirsi coerentemente parte (in quanto "manovale impegnato nelle scienze occidentali"), incontrò scarso interesse, o addirittura diffidenza. E l'entusiasmo suscitato, all'opposto, in numerosi esponenti della controcultura "californiana", gli appariva dettato da disinvolte trasfigurazioni "soprannaturalistiche" delle sue parole.
E tuttavia, è proprio nel cuore di questa "doppia incomprensione", e cioè nel cuore della sua irriducibile, creativa resistenza bifronte verso il rigore privo di immaginazione e verso l'immaginazione priva di rigore, che risiede la fecondità della lezione batesoniana. A maggior ragione dopo che gli sviluppi, negli ultimi decenni, delle riflessioni sulla biologia della conoscenza, sui sistemi complessi, sull'evoluzionismo post-darwiniano, sul carattere relazionale della natura umana, sulle escalation comportamentali che innescano violenze e follìe, sulle svolte epistemologiche dell'antropologia, sul posto centrale della metafora nella nostra comunicazione, e di molte altre riflessioni ancora, hanno ampiamente confortato le idiosincratiche esplorazioni, suggestioni e costruzioni batesoniane. Il "metodo della descrizione doppia", come lo chiama Bateson (proprio in Mente e natura, parte V), continua a lanciare alle nostre obsolete abitudini di pensiero una sfida radicale. La sfida a riconoscere il "profondo panico epistemologico" (Dove gli angeli esitano) che cova sotto il nostro bisogno di certezze, di quelle scientiste come di quelle antiscientiste. La poesia Il manoscritto, che Bateson scrisse dopo aver consegnato all'editore il manoscritto, appunto, di Mente e natura, si conclude così:
«Queste son cose da predicatori
da ipnotisti, terapeuti e missionari.
Essi verranno dopo di me
e useranno quel po' che ho detto
per tendere altre trappole
a quanti non sanno sopportare
il solitario
scheletro
della verità».
Quella di Bateson non è solo una lezione di teoria: è anche, inseparabilmente, una lezione di stile. Di estetica del conoscere. Per questo, anche nel proporci un'opera relativamente sistematica come Mente e natura, Bateson non ci invita a far nostre, letteralmente, le sue formule teoriche, per diventare finalmente "batesoniani". Ci invita a coltivare, nell'ambito dei contesti piccoli e grandi in cui viviamo, la nostra personale sensibilità alle concrete "danze interattive", meravigliose e terribili, cui prendiamo parte per vie comunicative in ogni caso largamente inconsapevoli.
Lezione ancor più preziosa oggi, XXI secolo, dopo che la rapida mondializzazione dell'economia liberista e i travolgenti progressi nelle tecnologie della vita, degli armamenti e della comunicazione hanno così potentemente accelerato, nel bene come nel male, la necessità di una coscienza dell'esser parte di contesti relazionali in ogni caso grandi e misteriosi: in quanto persone, in quanto gruppi, in quanto popolazioni, in quanto generi, in quanto specie. È la necessità di prenderci cura della nostra sensibilità alla struttura cui connette (responsiveness to the pattern which connects), come recita la bella espressione di Mente e natura. Necessità, suggerisce Bateson nel "metalogo" con Mary Catherine che conclude il volume, inseparabilmente razionale, estetica e religiosa. Necessità vitale, che l'avrebbe condotto a dedicare gli ultimi mesi della sua vita a quell'epistemologia del sacro, anticipata nel "metalogo", che vedrà la luce soltanto dopo la sua morte, in forma di frammenti ricostruiti e integrati dalla figlia (Dove gli angeli esitano, 1987). In quell'autunno londinese che sarebbe stato l'ultimo della sua vita, Bateson faceva balenare con eleganza, attraverso le parole di Eliot, quel che di più prezioso, e insieme di più difficile, possiamo apprendere dall'incontro con la sua opera: non a conoscere di più - più di prima, più degli altri - le presunte leggi nascoste delle "danze" che veniamo danzando, piccole e grandi, effimere e durevoli, sociali e naturali. Ma a conoscere noi stessi e il mondo in cui viviamo in un altro modo. Un modo autoriflessivo e partecipe, che possa rivelarci - ponendola di continuo in wider perspective - la straordinaria vicenda di quel che già sappiamo, di quel che già siamo, nel bene come nel male, e insieme la sua inesauribile, sorprendente novità.

la biblioteca di Alessandria

Repubblica 16.5.04
INDIVIDUATO IL SITO
RITROVATA LA BIBLIOTECA DI ALESSANDRIA


IL CAIRO - Il sito dell´antica biblioteca di Alessandria, risalente a sedici secoli fa e forse il più antico centro di studi del mondo, è stato riportato alla luce da un´equipe di archeologi egiziani e polacchi. Lo ha annunciato il ministero egiziano del Turismo. Gli studiosi hanno ritrovato 13 sale attrezzate per ricevere 5.000 studenti, ha detto il segretario del Consiglio superiore del mondo antico, Zahi Hawwas. Le sale, che avevano dimensioni e sistemazioni interne simili, si trovano in prossimità di un teatro che era stato già riportato alla luce e che si ritiene sia appartenuto al complesso della biblioteca. Un auditorium a forma di U, costruito su un piano sopraelevato, era utilizzato per le conferenze. Tra i frequentatori del leggendario centro di studi anche Archimede ed Euclide. La nuova biblioteca di Alessandria è stata inaugurata nel 2002 non lontano dall´area di quella antica.

il potere dei papi

La Stampa Tuttolibri 15.5.04
Il potere temporale dei papi: la leggenda e la propaganda
Lo storico Vian ripercorre la donazione di Costantino e i rapporti fra il Trono e l'Altare, fino al '900
di Silvia Ronchey


L’influenza politica del papato di Roma non ha eguale nelle altre confessioni cristiane. Prova ne sia che catalizza l'ostilità musulmana più di ogni altra. Tre anni dopo la caduta di Costantinopoli, nel 1461, Enea Silvio Piccolomini, un avventuroso, disincantato, coltissimo intellettuale prestato alla politica ecclesiastica, propose al sultano Mehmet II «di convertirsi e di ricevere da lui la corona di Costantino». Enea Silvio era deluso dall'imperatore Federico III, di cui pure era stato segretario e al quale doveva la folgorante carriera che lo aveva portato al soglio pontificio con il nome di Pio II. L'impero tedesco era in quel periodo riottoso ad assecondare il suo progetto militare di salvataggio o parziale recupero nel seno di Pietro della civiltà cristiano-bizantina, dettato da una prospettiva geopolitica peraltro chiaroveggente, che vedeva nell'occupazione islamica del Mediterraneo orientale l'inizio di un insanabile e devastante scontro di civiltà. Ma con quale autorità Piccolomini, per cercare di attenuarne le conseguenze, avrebbe potuto attribuire il titolo di Costantino a colui che aveva usurpato nel sangue il trono di Costantinopoli? Paradossalmente, proprio in base alla leggendaria donazione con cui il primo imperatore cristiano-bizantino, al momento di trasferire la capitale dell'impero alla neofondata Costantinopoli, avrebbe conferito a papa Silvestro I la sovranità su Roma, il suo senato, le sue dignità e ogni regno estraneo alla sfera d'influsso di Bisanzio. In realtà, spiega Giovanni Maria Vian nel bellissimo libro intitolato appunto La donazione di Costantino, la formazione del potere temporale dei papi è un fenomeno storicamente inverso, non causa ma conseguenza del venire meno dell'autorità imperiale in Italia tra il V secolo e la metà dell'VIII, e non certo per una rinuncia di Costantino, all'apogeo della sua potenza. Inversione che basta a giudicarla "storicamente mitica". Sul carattere apocrifo della donazione non è stato in effetti mai necessario attendere l'opera, polemica quanto filologicamente esemplare, di Lorenzo Valla, il quale non trovò del resto particolare ostilità in Vaticano. Arnaldo da Brescia aveva denunciato il falso già nel 1152. I dubbi non erano e non sarebbero mancati mai, riguardo non solo alla sua autenticità ma anche alle modalità della sua invenzione. Che avvenne forse nelle cancellerie vaticane quando i longobardi stringevano i possedimenti pontifici da Nord e da Sud, consigliando alla Chiesa l'alleanza con Carlo Magno e la sua incoronazione a imperatore d'occidente. O forse proprio in ambiente ecclesiastico franco, poiché non fu mai chiaro a quale dei due poteri quell'incoronazione convenne. La leggenda narra che Costantino, malato di lebbra e pronto a mondarsi del suo male in una piscina di sangue di fanciulli sgozzati, secondo gli empi consigli dei sacerdoti capitolini, fosse fermato da Silvestro e consegnato alla "piscina della grazia" con un battesimo che subito lo guarì - anche se in realtà sarebbe avvenuto venticinque anni più tardi, sul letto di morte. La conversione avrebbe portato alla legittimazione del culto cristiano, poi divenuto religione di stato, ma soprattutto alla dichiarazione del primato di Roma sulle altre sedi vescovili e infine alla donazione. Grande illustrazione di questa leggenda sono mosaici e affreschi dell'XI e XII secolo eseguiti a Roma, soprattutto nella loggia del Laterano e ai Santi Quattro Coronati, dove l'iconografia della cerimonia enfatizza nei simboli il primato del papa sul sovrano. Dice bene Vian: a Roma la donazione non è solo "una storia di testi, ma anche di splendida propaganda artistica". Dando conto della polemica mai sopita tra costantiniani e illuministi sino alla fine del potere temporale dei papi, Vian non trascura il contesto internazionale ma privilegia la storia d'Italia: la più segnata dalla donazione, in quanto fonte di legittimità del potere temporale del papato. Da Napoleone a Pio VII, ma soprattutto da Gioberti a Cavour fino ai Patti Lateranensi e al "Tevere più largo" di Spadolini, da Roncalli a Montini fino a Luciani e Wojtyla, la storia d'Italia e dei "papi non più re" viene ripercorsa e rivisitata, e ogni sua ideologia riesumata e sottoposta a una puntuale, autoptica, ostinata revisione, e la dialettica tra pensiero laico e cattolico illuminata, grazie all'indomita filologia di Vian, da più di una rivelazione.

Joan Mirò

La Stampa Tuttolibri 15.5.04
JOAN MIRO’ Il calligrafo del cielo stellato
di Marco Vallora


GRANDE, grandissimo Mirò. Proprio perché sempre libero, arioso, nocchiere superbo ed insieme umìle dei propri grandiosi «vuoti» dipinti, che sino alla sua scomparsa, quasi centenaria, veleggiarono spumeggianti sulle ciglia cedevoli e stupefatte delle pareti del mondo. Senza mai un intoppo fastidioso, un irrigidimento ideologico, una sclerosi del gusto, parola che i soloni della surrealtà spesso ostentano ancora di disprezzare. È questo, soprattutto, che stupisce in lui, se lo si compara ad altri maestri del moderno, che invece hanno subito inciampi e cadute vertiginose nella torpida vecchiaia, irrigimentata o mercantile (basterebbe pensare a Max Ernst l'onirizzato, o talvolta a Derain e soprattutto a Chagall). Mirò no. Da buon metafisico e meditatore orientale, da calligrafo del cielo dipinto-stellato, non smette mai di rigenerarsi e di snellire i propri commerci con la realtà ed i dialoghi generosi con il proprio inconscio. Un subconscio altamente bambino, che non vuole, bretonianamente o freudianamente, sapere, insegnare, indottrinare. Lasciatemi «sporcare» quella parete, sembra ripetere ogni volta, palazzeschianamente, questo palombaro di nuvole dell'immaginario e di un formicolante pre-conscio, narrativo ed insieme poetico. Perché, come capita in questa bella rassegna parigina para-cronologica e musicale, senza troppa zavorra documental-filologica, per lasciar meglio staccare da terra questi aerostati in forma di tela, a materializzarsi sono come dei frammenti vaganti d'una lunga trama di stoffa interiore, che ogni tanto l'immaginario felice di Mirò «stacca» e confeziona. E non importa che le tele debbano essere immensi tappezzamenti celesti, slacciati da ogni gomèna della realtà, oppure piccoli frammenti di juta, scritta dalla sua febbrile grafia onirica, senza indossare mai la museruola soffocante del Surrealismo. No, non ci sono rapporti di valore e tabelle di tonalità, in questo suo viaggiare libero e notturno, quietamente ventoso e sempre cordiale (quale lezione per i nostri astrattisti respiranti e anti-geometrici, i Licini e i Soldati, i Melotti e i Novelli!). Così come non ci sono gerarchie di arti alte o minori, nobili od applicate. E se non sapessimo come vanno le cose delle arti, e le leggi inesorabili del far mostre, potremmo anche scegliere la via della benevolenza e pensare che Como abbia pensato di partire proprio là dove finiva Parigi, mostrando intanto e soprattutto l'ultimo periodo del maestro di Barcellona, quello più lirico e «scritto» (su cui curiosamente il Pompidou un po' troppo sorvola). Ma poi in particolare, Como, la città della seta, abbonda festosa in ceramiche, arazzi, affiches e tessuti (ovviamente molto più facili da ottenere) però non è il caso questa volta di storcere il naso, perché Mirò è grande («fare questa serie come d'un sol fiato») ogni volta che il suo polso-mentale si piega a sfiorare una superficie, una qualsivoglia «stoffa», sforbiciata dall'inesauribile pezza della sua fantasia. Ecco: chissà perché già dire «sforbiciato» suona termine troppo rude e violento, per quella sua lievità gentile e parigina. Talvolta ci si può domandare, sbagliando, come un artista così aereo e sopra-celeste possa fuoriuscire dalla tradizione scura e penitenziale dei Cervantes, degli El Greco, di Goya, insomma essere spagnolo. Ma è un errore, ovviamente, intanto perché Mirò sta piuttosto dalla parte cristallina dei Pedro Salinas, degli Azorin, dei Planetts e di Lorca e d'un musicista disincarnato come Mompou, poi non dimentichiamo quanta ferocia gongoresca ci sia pure in lui, anti-franchista ed anarcheggiante. E non solo nei suoi primi, feroci, ritratti di famiglia, «crudele opera di dissezione», quasi cubisteggiante, per dirla con lo studioso Roland Penrose (amico di Picasso, da cui Mirò si sentiva talvolta distaccato e polemico). Anche in certe sue partiture astratte, burrascose e martellate (ma lui non ama la parola astratto e prende le distanze dal «concreto», diciamo così «pelato», di Arp e Brancusi) per esempio la Ballerina che ascolta l'organo in una cattedrale gotica, o Gente nella notte guidata dalle tracce fosforescenti delle lumache, l'Interno Olandese I (che è un ovvio sfottò al gelido neo-plasticismo di Mondrian, ritornando verso le stanze musicali di Steen e von Ostade, ma popolandole di bruchi alla Bosch) oppure la Scala della fuga, così poco alla Klee, ci si rende conto che l'ispanità di Mirò risale molto più a monte degli scurori di Zurbaran e Velazquez. Verso le tracce prestoriche delle sculture iberiche od i resti dell'arte romanica catalana, tanto amata. E così si spiegano le anatomie poli-occhiute, i «capitipèdes», ovvero le sue teste pluri-piedate, le almanaccate «mitologie» della sua calligrafia celeste. Unico precetto «quello di Jarry, che si sia in queste tele un grande humour e grande poesia».