L'Adige 26.9.03
Franco Cardini: «L´Islam che è una religione diversa da quella cristiana ma con radici a questa comuni o affini è stato trattato - ha osservato lo studioso - come un conglomerato di eresia cristiana»
di Michele Carpagnano
«Tra singolare e plurale» ovvero «la lingua e le lingue, la scrittura e le scritture, la religione e le religioni», ma anche il diritto e i diritti, il mestiere ed i mestieri: dell´unicità e della pluralità si nutrono le radici delle genti d´Europa. Al singolare e al plurale era dedicata, giovedì pomeriggio, la sesta ed ultima sezione della Settimana di Studio organizzata dall´ITC-isig di Trento, giunta alla quarantaseiesima edizione, e che come consueto ospita esperti e storici di fama nazionale ed internazionale.
Quest´anno il tema, che ha impegnato già dallo scorso lunedì i partecipanti, ha ruotato intorno alla domanda: "Quali le radici dell´Europa?". «E´ nell´età carolingia delle cattedrali, degli studia, delle città libere che vanno ricercate le radici dell´Europa moderna» ha affermato, in apertura del suo intervento, il prof. Franco Cardini che ha affrontato il tema: «La religione e le religioni».
Cardini, recitando un passo di Dante, ci traghetta nella dimensione Medievale dalla quale tutto il suo discorso attinge immagini e sensazioni, avendo però cura di fornire al numeroso pubblico in sala un´avvertenza essenziale: «L´uso medievale del termine religio si riferisce a quel legame che unisce l´uomo a Dio». Nel Medioevo, allora, «le religioni non esistono». Non possono esistere. «Esiste la religione, il legame che unisce a Dio». La fides è una, è un abito che trasforma l´uomo (fides nell´accezione duplice di fiducia e di fedeltà) e che pertanto costringe "all´impossibilità obiettiva di mettere sullo stesso piano la religione con le altre religioni». Non essendo concepibili come "religioni", le religioni diverse da quella cristiana furono concepite come "eresie". «L´Islam che è una religione diversa da quella cristiana ma con radici a questa comuni o affini è stato trattato come un conglomerato di eresia cristiana».
Il ragionamento di Cardini prosegue serrato: nessuno spazio, dunque, per le religioni: «Nei confronti della fides le religioni ebraiche e mussulmane non vennero mai concepite come fides quanto piuttosto come lex».
(...)
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
venerdì 26 settembre 2003
Talvolta ritornano (e il manifesto sempre s'adegua...)
il manifesto 26.9.03
Tra psiche e linguaggio
Domani la giornata di seminari multipli della Società di psicoanalisi
Il premio Musatti. Domani, nell'ambito dei seminari organizzati dalla Spi, il riconoscimento verrà assegnato a Aldo Gargani
di LISA MASIER
Quest'anno il convegno a seminari multipli della società psicoanalitica italiana - che si svolge domani a Bologna - ospita tra i suoi incontri di studio un dibattito con alcuni studiosi di altre discipline, sul tema: «A partire dal linguaggio: coscienza, sessualità, inconscio». A discuterne con gli psicoanalisti saranno Felice Cimatti, filosofo del linguaggio e della mente, che ha scritto più volumi sul rapporto tra pensiero animale e menti linguistiche; Vittorio Gallese, neuroscienziato, che ha partecipato alla scoperta dei cosiddetti «neuroni specchio», studioso della «simulazione incarnata» e dell'azione come modellizzazione dell'interazione con gli altri e come base dei processi di astrazione e concettualizzazione indipendenti dal linguaggio; Claudio La Rocca, filosofo della conoscenza e studioso tra l'altro dello schematismo kantiano, cioè del processo di scambio tra immagini e linguaggio, tra il codice iconico dell'immaginazione e quello linguistico-concettuale dell'intelletto. Tra gli psicoanalisti, come promotori della giornata di studio, Francesco Napolitano, autore del volume Lo specchio delle parole sul linguaggio come medium materiale dell'autotrasparenza dell'anima e della sua misteriosa capacità di riflessione, e Alberto Luchetti, tra l'altro studioso di Jean Laplanche e di Piera Aulagnier, due degli psicoanalisti che più hanno contribuito in modo originale a ripristinare la centralità della questione del linguaggio nella psicoanalisi. Non è forse vero che «fra paziente e analista non accade nulla, se non che parlano fra loro», come disse Freud descrivendo la psicoanalisi ad un immaginario interlocutore imparziale? Già agli albori della sua ricerca, del resto, Freud aveva scritto: «Il profano troverà certo difficile comprendere come disturbi patologici del corpo e della psiche possano venir eliminati attraverso le `sole' parole del medico. Egli penserà che si pretende da lui la fede nella magia. Non ha tutti i torti; le parole dei nostri discorsi quotidiani non sono altro che magia sbiadita» e la scienza non fa altro che «restituire alla parola almeno una parte della sua primitiva forza magica».
D'altra parte, la psicoanalisi non solo ha come medium la parola, ma ha via via mostrato l'importanza del linguaggio fin negli oscuri recessi dell'elaborazione del sogno e più in generale dell'inconscio, nonché il suo rilievo nella psicopatologia della vita quotidiana e nella produzione di sintomi anche corporei. Non è stata anche per questo talvolta accusata di privilegiare il linguaggio a scapito del corpo «restringendo» (le virgolette sono d'obbligo) il suo campo d'azione al dire tutto quel che viene in mente, e a non fare altro che dire?
Eppure, esattamente cinquant'anni fa (il 26-27 settembre 1953), Jacques Lacan pronunciava a Roma il suo famoso rapport su Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, nel quale auspicava di rinnovare i fondamenti della psicoanalisi nel linguaggio, proprio perché reputava che si stessero incrinando e con essi si smarrisse il senso dell'esperienza psicoanalitica; mentre al contrario riteneva che i concetti psicoanalitici assumessero pieno senso solo «orientandosi in un campo di linguaggio, ordinandosi secondo la funzione della parola». A tale scopo, affermava con forza che «la legge dell'uomo è la legge del linguaggio», che l'uomo vive nel linguaggio, che «i simboli avvolgono la vita dell'uomo con una rete così totale da congiungere prima ancora della sua nascita coloro che lo genereranno 'in carne ed ossa'». Oggi, cinquant'anni dopo, sembra che la psicoanalisi scavalchi il linguaggio (come peraltro la sessualità e l'inconscio stesso) a favore di una maggiore attribuzione di importanza verso ciò che lo precede, lo trascende, e che anzi sembrerebbe costituirne il fondamento - azione, emozione, affetto, percezione, interazione - e su cui si ritiene implicitamente che esso interverrebbe solo secondariamente a riorganizzarlo e ristrutturarlo ad un diverso livello di complessità. D'altro canto, il rinnovamento degli studi nelle neuroscienze, nella filosofia del linguaggio e della mente, ma anche nell'evoluzionismo, in linguistica, in antropologia, rilanciano la questione dei rapporti tra l'azione (inestricabile da percezione, cognizione, immaginazione) e il linguaggio.
Questo permette e al tempo stesso impone di reinterrogare la fondamentalità del linguaggio, nella teoria e nella prassi psicoanalitiche ma più in generale in ogni scienza dell'uomo. Se il linguaggio è l'ambiente in cui evolve la specie umana, se la facoltà del linguaggio è la natura umana e un suo effetto è l'autocoscienza, lo specifico contributo della psicoanalisi non sta forse nell'indicare che una essenziale ricaduta dell'avvento del linguaggio nella specie umana e una sua peculiare incarnazione è la sessualità «allargata»? Quella sessualità «infantile» che non coincide con la sessualità adulta e genitale, e che abita permanentemente e conflittualmente non solo queste ultime, ma ogni relazione dell'essere umano, anche quella col proprio corpo e il proprio Io? Questa particolare sessualità, che costituisce la scoperta storica di Freud per il quale essa era alla base dell'inconscio e della costruzione e del mantenimento dell'organizzazione psichica, può essere forse il varco per pensare a un naturalismo non riduttivo in cui abbia uno spazio specifico il freudiano «apparato dell'anima»: per nulla obsoleto, esso può ancora contribuire alla comprensione e alla trasformazione dell'essere umano.
Tra psiche e linguaggio
Domani la giornata di seminari multipli della Società di psicoanalisi
Il premio Musatti. Domani, nell'ambito dei seminari organizzati dalla Spi, il riconoscimento verrà assegnato a Aldo Gargani
di LISA MASIER
Quest'anno il convegno a seminari multipli della società psicoanalitica italiana - che si svolge domani a Bologna - ospita tra i suoi incontri di studio un dibattito con alcuni studiosi di altre discipline, sul tema: «A partire dal linguaggio: coscienza, sessualità, inconscio». A discuterne con gli psicoanalisti saranno Felice Cimatti, filosofo del linguaggio e della mente, che ha scritto più volumi sul rapporto tra pensiero animale e menti linguistiche; Vittorio Gallese, neuroscienziato, che ha partecipato alla scoperta dei cosiddetti «neuroni specchio», studioso della «simulazione incarnata» e dell'azione come modellizzazione dell'interazione con gli altri e come base dei processi di astrazione e concettualizzazione indipendenti dal linguaggio; Claudio La Rocca, filosofo della conoscenza e studioso tra l'altro dello schematismo kantiano, cioè del processo di scambio tra immagini e linguaggio, tra il codice iconico dell'immaginazione e quello linguistico-concettuale dell'intelletto. Tra gli psicoanalisti, come promotori della giornata di studio, Francesco Napolitano, autore del volume Lo specchio delle parole sul linguaggio come medium materiale dell'autotrasparenza dell'anima e della sua misteriosa capacità di riflessione, e Alberto Luchetti, tra l'altro studioso di Jean Laplanche e di Piera Aulagnier, due degli psicoanalisti che più hanno contribuito in modo originale a ripristinare la centralità della questione del linguaggio nella psicoanalisi. Non è forse vero che «fra paziente e analista non accade nulla, se non che parlano fra loro», come disse Freud descrivendo la psicoanalisi ad un immaginario interlocutore imparziale? Già agli albori della sua ricerca, del resto, Freud aveva scritto: «Il profano troverà certo difficile comprendere come disturbi patologici del corpo e della psiche possano venir eliminati attraverso le `sole' parole del medico. Egli penserà che si pretende da lui la fede nella magia. Non ha tutti i torti; le parole dei nostri discorsi quotidiani non sono altro che magia sbiadita» e la scienza non fa altro che «restituire alla parola almeno una parte della sua primitiva forza magica».
D'altra parte, la psicoanalisi non solo ha come medium la parola, ma ha via via mostrato l'importanza del linguaggio fin negli oscuri recessi dell'elaborazione del sogno e più in generale dell'inconscio, nonché il suo rilievo nella psicopatologia della vita quotidiana e nella produzione di sintomi anche corporei. Non è stata anche per questo talvolta accusata di privilegiare il linguaggio a scapito del corpo «restringendo» (le virgolette sono d'obbligo) il suo campo d'azione al dire tutto quel che viene in mente, e a non fare altro che dire?
Eppure, esattamente cinquant'anni fa (il 26-27 settembre 1953), Jacques Lacan pronunciava a Roma il suo famoso rapport su Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, nel quale auspicava di rinnovare i fondamenti della psicoanalisi nel linguaggio, proprio perché reputava che si stessero incrinando e con essi si smarrisse il senso dell'esperienza psicoanalitica; mentre al contrario riteneva che i concetti psicoanalitici assumessero pieno senso solo «orientandosi in un campo di linguaggio, ordinandosi secondo la funzione della parola». A tale scopo, affermava con forza che «la legge dell'uomo è la legge del linguaggio», che l'uomo vive nel linguaggio, che «i simboli avvolgono la vita dell'uomo con una rete così totale da congiungere prima ancora della sua nascita coloro che lo genereranno 'in carne ed ossa'». Oggi, cinquant'anni dopo, sembra che la psicoanalisi scavalchi il linguaggio (come peraltro la sessualità e l'inconscio stesso) a favore di una maggiore attribuzione di importanza verso ciò che lo precede, lo trascende, e che anzi sembrerebbe costituirne il fondamento - azione, emozione, affetto, percezione, interazione - e su cui si ritiene implicitamente che esso interverrebbe solo secondariamente a riorganizzarlo e ristrutturarlo ad un diverso livello di complessità. D'altro canto, il rinnovamento degli studi nelle neuroscienze, nella filosofia del linguaggio e della mente, ma anche nell'evoluzionismo, in linguistica, in antropologia, rilanciano la questione dei rapporti tra l'azione (inestricabile da percezione, cognizione, immaginazione) e il linguaggio.
Questo permette e al tempo stesso impone di reinterrogare la fondamentalità del linguaggio, nella teoria e nella prassi psicoanalitiche ma più in generale in ogni scienza dell'uomo. Se il linguaggio è l'ambiente in cui evolve la specie umana, se la facoltà del linguaggio è la natura umana e un suo effetto è l'autocoscienza, lo specifico contributo della psicoanalisi non sta forse nell'indicare che una essenziale ricaduta dell'avvento del linguaggio nella specie umana e una sua peculiare incarnazione è la sessualità «allargata»? Quella sessualità «infantile» che non coincide con la sessualità adulta e genitale, e che abita permanentemente e conflittualmente non solo queste ultime, ma ogni relazione dell'essere umano, anche quella col proprio corpo e il proprio Io? Questa particolare sessualità, che costituisce la scoperta storica di Freud per il quale essa era alla base dell'inconscio e della costruzione e del mantenimento dell'organizzazione psichica, può essere forse il varco per pensare a un naturalismo non riduttivo in cui abbia uno spazio specifico il freudiano «apparato dell'anima»: per nulla obsoleto, esso può ancora contribuire alla comprensione e alla trasformazione dell'essere umano.
Maya Sansa: un premio ad Agrigento
Il Secolo XIX 26.9.03
Intervista a Maya Sansa, premio speciale "Efebo d'Oro" di Agrigento e attrice rivelazione della stagione cinematografica in corso
«In "Buongiorno, notte" Bellocchio mi ha chiesto di abbandonare la realtà»
di Raffaella Grassi
Grande serata di premiazione domani ad Agrigento del Festival Efebo d'Oro, curato dal Centro di Ricerca per la Narrativa e il Cinema e ogni anno dedicato al miglor film della stagione tratto da un'opera letteraria. Vincitore della venticinquesima edizione è risultato Gabriele Salvatores con il film Io non ho paura tratto dal romanzo di Niccolò Ammanniti pubblicato da Einaudi, mentre il vincitore della sezione televisione è Fabrizio Costa con La cittadella, dal famoso rmanzo di Cronin. Il premio alla carriera sarà assegnato a Ettore Scola che di recente ha presentato il suo ultimo film, Gente di Roma, e il Premio Speciale Efebo d'Oro 2003 all'attrice-rivelazione dell'anno, Maya Sansa (...)
Ventotto anni, romana, voce ruvida e bellezza schiva. È lei, Maya Sansa, Premio speciale Efebo d'Oro 2003, l'attrice rivelazione della stagione cinematografica in corso, protagonista di due film importanti come Buongiorno, notte di Marco Bellocchio e La meglio Gioventò di Marco Tullio Giordana, e in uscita con Il vestito della sposa di Fiorella Infascelli, presentato a Locarno
Liceo Classico a Roma, studi di recitazione a Londra, debutto nel '99 ne La balia di Bellocchio, Maya Sansa ha al suo attivo tutti personaggi "difficili", dalla lesbica in fuga di Benzina di Monica Stambrini alla terrorisca del sequestro Moro, ispirata alla br Anna Laura Braghetti.
Maya, com'è cambiata la sua vita dopo l'exploit di Cannes e Venezia?
«Non è cambiata molto. A parte il fatto che sto viaggiando moltissimo e che ho ricevuto grandi soddisfazioni dal pubblico. Ma io sono sempre la stessa, ho cominciato a recitare tanti anni fa...»
Come è avvenuto il secondo incontro con Bellocchio per Buongiorno, notte?
«Lavorare di nuovo con lui era il mio sogno. Dopo il primo incontro mi ha fatto altri tre provini. Durissimi, perché non volevo deludere né lui né me»
In che modo si è preparata al personaggio di Chiara?
«All'inizio mi sono documentata sul caso Moro, la sceneggiatura era segreta, perché Marco stava scrivendo una nuova versione e non la faceva leggere a nessuno. Appena ho saputo che il film si ispirava al libro della Braghetti sono corsa a cercarlo. Ma ad ogni provino Bellocchio mi allontanava sempre di più dal personaggio reale, voleva che abbandonassi la realtà e mi tuffassi in quel personaggio inventato da lui e mai esistito. Chiara ha delle cose in comune con la Braghetti ma ha un suo mondo interiore e un suo modo di sgretolarsi. È un soldatino che comincia a rompersi in un percorso che nel libro non c'è, ma che ha fatto parte dell'esperienza di molltissimi brigatisti. La maggior parte di loro ha dubitato, ha avuto un momento in cui stava per mollare»
Ha conosciuto Anna Laura Braghetti?
«No, mai. All'inizio ho chiesto di incontrarla ma lei ha rifiutato.»
Prossimamente uscirà Il vestito da sposa di Fiorella Infascelli, in cui lei interpreta una donna vittima di una violenza.
«È un personaggio di forte impatto, ma la violenza subita non è la cosa fondamentale del film, che è piuttosto una metafora, la capacità di rinascita dopo un grande dolore
Intervista a Maya Sansa, premio speciale "Efebo d'Oro" di Agrigento e attrice rivelazione della stagione cinematografica in corso
«In "Buongiorno, notte" Bellocchio mi ha chiesto di abbandonare la realtà»
di Raffaella Grassi
Grande serata di premiazione domani ad Agrigento del Festival Efebo d'Oro, curato dal Centro di Ricerca per la Narrativa e il Cinema e ogni anno dedicato al miglor film della stagione tratto da un'opera letteraria. Vincitore della venticinquesima edizione è risultato Gabriele Salvatores con il film Io non ho paura tratto dal romanzo di Niccolò Ammanniti pubblicato da Einaudi, mentre il vincitore della sezione televisione è Fabrizio Costa con La cittadella, dal famoso rmanzo di Cronin. Il premio alla carriera sarà assegnato a Ettore Scola che di recente ha presentato il suo ultimo film, Gente di Roma, e il Premio Speciale Efebo d'Oro 2003 all'attrice-rivelazione dell'anno, Maya Sansa (...)
Ventotto anni, romana, voce ruvida e bellezza schiva. È lei, Maya Sansa, Premio speciale Efebo d'Oro 2003, l'attrice rivelazione della stagione cinematografica in corso, protagonista di due film importanti come Buongiorno, notte di Marco Bellocchio e La meglio Gioventò di Marco Tullio Giordana, e in uscita con Il vestito della sposa di Fiorella Infascelli, presentato a Locarno
Liceo Classico a Roma, studi di recitazione a Londra, debutto nel '99 ne La balia di Bellocchio, Maya Sansa ha al suo attivo tutti personaggi "difficili", dalla lesbica in fuga di Benzina di Monica Stambrini alla terrorisca del sequestro Moro, ispirata alla br Anna Laura Braghetti.
Maya, com'è cambiata la sua vita dopo l'exploit di Cannes e Venezia?
«Non è cambiata molto. A parte il fatto che sto viaggiando moltissimo e che ho ricevuto grandi soddisfazioni dal pubblico. Ma io sono sempre la stessa, ho cominciato a recitare tanti anni fa...»
Come è avvenuto il secondo incontro con Bellocchio per Buongiorno, notte?
«Lavorare di nuovo con lui era il mio sogno. Dopo il primo incontro mi ha fatto altri tre provini. Durissimi, perché non volevo deludere né lui né me»
In che modo si è preparata al personaggio di Chiara?
«All'inizio mi sono documentata sul caso Moro, la sceneggiatura era segreta, perché Marco stava scrivendo una nuova versione e non la faceva leggere a nessuno. Appena ho saputo che il film si ispirava al libro della Braghetti sono corsa a cercarlo. Ma ad ogni provino Bellocchio mi allontanava sempre di più dal personaggio reale, voleva che abbandonassi la realtà e mi tuffassi in quel personaggio inventato da lui e mai esistito. Chiara ha delle cose in comune con la Braghetti ma ha un suo mondo interiore e un suo modo di sgretolarsi. È un soldatino che comincia a rompersi in un percorso che nel libro non c'è, ma che ha fatto parte dell'esperienza di molltissimi brigatisti. La maggior parte di loro ha dubitato, ha avuto un momento in cui stava per mollare»
Ha conosciuto Anna Laura Braghetti?
«No, mai. All'inizio ho chiesto di incontrarla ma lei ha rifiutato.»
Prossimamente uscirà Il vestito da sposa di Fiorella Infascelli, in cui lei interpreta una donna vittima di una violenza.
«È un personaggio di forte impatto, ma la violenza subita non è la cosa fondamentale del film, che è piuttosto una metafora, la capacità di rinascita dopo un grande dolore
fortuna e sfortuna
La Stampa TuttoScienze 24.9.03
PSICOLOGIA SPERIMENTALE
La malasorte colpisce chi se la va a cercare
L’INDOLE OTTIMISTICA PERMETTE SPESSO DI SFRUTTARE LE OCCASIONI PROPIZIE E DI ADATTARSI PIU’ FACILMENTE A NUOVE SITUAZIONI. LE RICERCHE DI UNO STUDIOSO INGLESE CHE HA ISTITUITO ADDIRITTURA UN «CORSO DI FORTUNA»
di Luigi Garlaschelli (*)
RICHARD Wiseman è uno psicologo dell'Università inglese dell’Hertfordshire che ottiene spesso gli onori della cronaca per alcune sue ricerche sui presunti fenomeni paranormali: è anche membro del Csicop, un comitato che, come in Italia il Cicap (Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale), esamina criticamente i fenomeni che si presentano come anomali rispetto alle conoscenze scientifiche consolidate.
Wiseman ama utilizzare grandi numeri di soggetti nei suoi test (a volte anche con esperimenti on-line su Internet), per ottenere risultati statisticamente inattaccabili. Per esempio, ha condotto il più grande esperimento di telepatia della storia: le migliaia di spettatori di un concerto rock dovevano "trasmettere", tutti insieme, a un "ricevente" isolato in una stanzetta, l'immagine comparsa sul megaschermo dello stadio (per la cronaca, l'esperimento non è riuscito). Ha portato in giro per la Gran Bretagna una specie di macchina elettronica, che i giocatori dovevano cercare di "influenzare" facendo uscire più volte "testa" di "croce", oppure prevedere le uscite (nessun risultato dopo un anno, e mezzo milione di prove). Nel castello di Edimburgo con telecamere, sensori elettronici e molti volontari ha tentato di capire se, quando e perché qualcuno ritenesse di vedere dei fantasmi. Ma una decina di anni fa Wiseman decise di dedicarsi alla più elusiva delle credenze. La fortuna, la superstizione e il fato sono spesso percepite come forze misteriose che si tenta di dominare adottando comportamenti magici e scaramantici. Indossiamo amuleti e corni per attirare la buona sorte, evitiamo di rovesciare il sale per non allontanarla. Alcuni ci credono, altri ne ridono. Eppure, considerando l'esistenza dei nostri conoscenti, sembra proprio vero che alcune persone siano sempre baciate dal destino, mentre altre sono tormentate dai rovesci della malasorte.
Wiseman è uno studioso sperimentale, non si perde in disquisizioni su concetti vaghi e indefiniti come "caso" e "destino". Si è quindi affidato a una serie di esperimenti di laboratorio a dir poco singolari, compiuti da lui e altri ricercatori nel corso degli anni. In uno di questi, si induceva un gatto nero ad attraversare la strada di un gruppo di persone, mentre per un altro gruppo se ne usava uno bianco, verificando poi se uno dei gruppi aveva più fortuna al gioco (statisticamente, nessuna differenza). Analogamente, alcuni soggetti portavano dei ciondoli portafortuna comperati in un centro New Age (nessuna differenza con coloro che ne erano privi). Si rompevano specchi, si passava sotto scale, si rovesciava del sale. Risultato: nessuno di questi comportamenti superstiziosi influenza la dea bendata. Utilizzando 400 persone dai 18 agli 84 anni, una metà dei quali si riteneva molto fortunata e l'altra metà molto sfortunata, Wiseman decise allora di capire se non è il modo in cui noi affrontiamo e reagiamo alle esperienze della vita a renderci fortunati o meno. Ad esempio, non sarà che chi è nato con la camicia sa cogliere le occasioni favorevoli quando gli si presentano, mentre altri se le fanno sfuggire, tutti tesi solo a ciò che hanno in mente? Ecco allora un esperimento: fece sfogliare una rivista ai soggetti sotto studio, dicendo di contare quante fotografie vi comparivano. Ebbene, la maggioranza del gruppo degli "sfortunati" contò le immagini e restituì la rivista mediamente dopo due minuti. Invece la maggioranza dei "fortunati" si accorse che a pagina due una nota diceva chiaramente "Non contate oltre: questa rivista contiene 43 immagini", e che un'altra nota a metà della rivista, grande quanto la pagina, offriva "250 sterline se riferite di avere visto questa pagina". E ancora: non sarà che gli sfortunati vedono "il bicchiere mezzo vuoto", mentre i fortunati "mezzo pieno"? Wiseman chiese ai soggetti di immaginare di essere stati testimoni di una rapina a mano armata, durante la quale sarebbero stati lievemente feriti a un braccio. I commenti degli "sfortunati" a questo episodio immaginario erano tutti negativi ("proprio a me doveva capitare, potevo rimetterci la vita"); invece, i "fortunati" sapevano ragionare in modo controfattuale, vedendo anche in questa circostanza un lato buono ("me la sono cavata bene, ho avuto solo un graffio... e forse verrò anche intervistato dalla tv"). Sfruttare le occasioni favorevoli; cambiare le proprie abitudini; ascoltare di più il proprio intuito; pensare che le cose sarebbero potute andare peggio, anziché lamentarsi perché non sono andate meglio; guardare con ottimismo il futuro. Sono tutti fattori importanti che Wiseman ha individuato nei "baciati dal destino". Su queste ricerche Wiseman ha anche scritto un libro (in uscita nella traduzione italiana nel prossimo ottobre, con il titolo "Il fattore fortuna", editore Sonzogno) e ha creato un sito internet (www.luckfactor.co.uk). Ma ha fatto anche di più: ha spiegato agli "sfortunati" perché essi erano tali, facendo loro frequentare un vero e proprio Corso di Fortuna. I risultati sono stati incredibili: l'ottanta per cento di questi strani studenti ha cambiato il proprio atteggiamento e ora ritengono che il destino sorrida loro. Insomma, è dimostrato scientificamente che avevano ragione gli antichi: «Faber est suae quisque fortunae»: ognuno è artefice del proprio destino.
(*)Università di Pavia
PSICOLOGIA SPERIMENTALE
La malasorte colpisce chi se la va a cercare
L’INDOLE OTTIMISTICA PERMETTE SPESSO DI SFRUTTARE LE OCCASIONI PROPIZIE E DI ADATTARSI PIU’ FACILMENTE A NUOVE SITUAZIONI. LE RICERCHE DI UNO STUDIOSO INGLESE CHE HA ISTITUITO ADDIRITTURA UN «CORSO DI FORTUNA»
di Luigi Garlaschelli (*)
RICHARD Wiseman è uno psicologo dell'Università inglese dell’Hertfordshire che ottiene spesso gli onori della cronaca per alcune sue ricerche sui presunti fenomeni paranormali: è anche membro del Csicop, un comitato che, come in Italia il Cicap (Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale), esamina criticamente i fenomeni che si presentano come anomali rispetto alle conoscenze scientifiche consolidate.
Wiseman ama utilizzare grandi numeri di soggetti nei suoi test (a volte anche con esperimenti on-line su Internet), per ottenere risultati statisticamente inattaccabili. Per esempio, ha condotto il più grande esperimento di telepatia della storia: le migliaia di spettatori di un concerto rock dovevano "trasmettere", tutti insieme, a un "ricevente" isolato in una stanzetta, l'immagine comparsa sul megaschermo dello stadio (per la cronaca, l'esperimento non è riuscito). Ha portato in giro per la Gran Bretagna una specie di macchina elettronica, che i giocatori dovevano cercare di "influenzare" facendo uscire più volte "testa" di "croce", oppure prevedere le uscite (nessun risultato dopo un anno, e mezzo milione di prove). Nel castello di Edimburgo con telecamere, sensori elettronici e molti volontari ha tentato di capire se, quando e perché qualcuno ritenesse di vedere dei fantasmi. Ma una decina di anni fa Wiseman decise di dedicarsi alla più elusiva delle credenze. La fortuna, la superstizione e il fato sono spesso percepite come forze misteriose che si tenta di dominare adottando comportamenti magici e scaramantici. Indossiamo amuleti e corni per attirare la buona sorte, evitiamo di rovesciare il sale per non allontanarla. Alcuni ci credono, altri ne ridono. Eppure, considerando l'esistenza dei nostri conoscenti, sembra proprio vero che alcune persone siano sempre baciate dal destino, mentre altre sono tormentate dai rovesci della malasorte.
Wiseman è uno studioso sperimentale, non si perde in disquisizioni su concetti vaghi e indefiniti come "caso" e "destino". Si è quindi affidato a una serie di esperimenti di laboratorio a dir poco singolari, compiuti da lui e altri ricercatori nel corso degli anni. In uno di questi, si induceva un gatto nero ad attraversare la strada di un gruppo di persone, mentre per un altro gruppo se ne usava uno bianco, verificando poi se uno dei gruppi aveva più fortuna al gioco (statisticamente, nessuna differenza). Analogamente, alcuni soggetti portavano dei ciondoli portafortuna comperati in un centro New Age (nessuna differenza con coloro che ne erano privi). Si rompevano specchi, si passava sotto scale, si rovesciava del sale. Risultato: nessuno di questi comportamenti superstiziosi influenza la dea bendata. Utilizzando 400 persone dai 18 agli 84 anni, una metà dei quali si riteneva molto fortunata e l'altra metà molto sfortunata, Wiseman decise allora di capire se non è il modo in cui noi affrontiamo e reagiamo alle esperienze della vita a renderci fortunati o meno. Ad esempio, non sarà che chi è nato con la camicia sa cogliere le occasioni favorevoli quando gli si presentano, mentre altri se le fanno sfuggire, tutti tesi solo a ciò che hanno in mente? Ecco allora un esperimento: fece sfogliare una rivista ai soggetti sotto studio, dicendo di contare quante fotografie vi comparivano. Ebbene, la maggioranza del gruppo degli "sfortunati" contò le immagini e restituì la rivista mediamente dopo due minuti. Invece la maggioranza dei "fortunati" si accorse che a pagina due una nota diceva chiaramente "Non contate oltre: questa rivista contiene 43 immagini", e che un'altra nota a metà della rivista, grande quanto la pagina, offriva "250 sterline se riferite di avere visto questa pagina". E ancora: non sarà che gli sfortunati vedono "il bicchiere mezzo vuoto", mentre i fortunati "mezzo pieno"? Wiseman chiese ai soggetti di immaginare di essere stati testimoni di una rapina a mano armata, durante la quale sarebbero stati lievemente feriti a un braccio. I commenti degli "sfortunati" a questo episodio immaginario erano tutti negativi ("proprio a me doveva capitare, potevo rimetterci la vita"); invece, i "fortunati" sapevano ragionare in modo controfattuale, vedendo anche in questa circostanza un lato buono ("me la sono cavata bene, ho avuto solo un graffio... e forse verrò anche intervistato dalla tv"). Sfruttare le occasioni favorevoli; cambiare le proprie abitudini; ascoltare di più il proprio intuito; pensare che le cose sarebbero potute andare peggio, anziché lamentarsi perché non sono andate meglio; guardare con ottimismo il futuro. Sono tutti fattori importanti che Wiseman ha individuato nei "baciati dal destino". Su queste ricerche Wiseman ha anche scritto un libro (in uscita nella traduzione italiana nel prossimo ottobre, con il titolo "Il fattore fortuna", editore Sonzogno) e ha creato un sito internet (www.luckfactor.co.uk). Ma ha fatto anche di più: ha spiegato agli "sfortunati" perché essi erano tali, facendo loro frequentare un vero e proprio Corso di Fortuna. I risultati sono stati incredibili: l'ottanta per cento di questi strani studenti ha cambiato il proprio atteggiamento e ora ritengono che il destino sorrida loro. Insomma, è dimostrato scientificamente che avevano ragione gli antichi: «Faber est suae quisque fortunae»: ognuno è artefice del proprio destino.
(*)Università di Pavia
Exit
Galileo 26.9.03
SUICIDIO ASSISTITO
“Un diritto della persona”
di Monica Soldano
L’individuo morente, in condizioni di grande sofferenza fisica e psicologica deve essere rispettato e tutelato nel suo libero arbitrio. E’ questo il messaggio lanciato dal Congresso internazionale sulle decisioni di fine vita che si è svolto a Roma il 22 settembre scorso. Un’iniziativa che rientra nel progetto europeo Ethicatt (link spalla), cui partecipa la facoltà di Sociologia dell’Università la Sapienza, organizzatrice dell’evento romano. Tra i numerosi relatori internazionali, c’era anche Jèrome Sobel, medico e presidente della sezione svizzera di Exit, una delle 30 organizzazioni in Europa che senza scopo di lucro sono impegnate nel diritto a morire con dignità. Galileo ha raccolto la sua testimonianza.
Dottor Sobel, qual è la sua qualifica professionale?
“Sono un medico otorinolaringoiatra e chirurgo maxillofacciale”.
Chi si rivolge a Exit?
“Quando un cittadino svizzero è in una grave condizione fisica e psicologia, affetto da una malattia allo stadio terminale, può contattarci. Noi, dopo un’attenta verifica dei requisiti e di tutta la documentazione, valutiamo se accogliere la domanda di suicidio assistito. A quel punto, inviamo qualcuno del nostro gruppo di lavoro o vado io stesso a trovarlo”.
Quali sono i requisiti che rendono ammissibile la richiesta?
“Prima di tutto la richiesta deve provenire da una persona ancora capace di intendere e volere, ed essere ripetuta a distanza di qualche giorno. La malattia di cui soffre deve essere dichiarata incurabile e le sofferenze devono essere intollerabili, sia dal punto di vista fisico che psichico. Occorre anche che la prognosi sia fatale. Non solo, il paziente deve essere in grado di autosomministrarsi il farmaco della ‘buona morte’”.
Qual è la differenza tra suicidio assistito ed eutanasia?
“E’ sostanziale: nessuno agisce per favorire la morte del malato, se non egli stesso. L’assistenza che Exit dà al morente è ben altra cosa. Noi ci assicuriamo che non ci siano interessi diversi da quelli di una caritatevole azione. Non devono esserci parenti in attesa di eredità o interessi personali di alcun tipo. Io personalmente sostengo i colloqui con il paziente e con la famiglia. Ogni caso è a sé e va valutato il contesto. Occorre, inoltre accertarsi che il paziente non stia attraversando fasi depressive ma che ci sia serenità nella decisione”.
E le cure palliative?
“A volte non possono nulla, soprattutto sulla sofferenza psicologica di chi è senza speranza e assiste a una degenerazione progressiva. Altre volte, la sedazione intensa peggiora solo lo stato di coscienza e di lucidità”.
Qual è il ruolo del medico in tutto ciò?
“Prescrive il farmaco, valuta il caso clinico, ma sostanzialmente fa l’accompagnatore. In Svizzera dal 2001 è stato sconfitto il forte tabù che ritiene contraddittoria la figura del medico che cura e salva la vita con quella del medico che accompagna alla buona morte. L’Accademia delle Scienze Mediche ha dichiarato che l’assistenza al suicidio assistito può essere considerata parte dell’attività medica. Ma chiunque, un amico o un familiare, può offrire la stessa assistenza senza essere perseguito per legge. Una volta mi capitò di avere al mio fianco un pastore amico del morente, che gli recitava i suoi salmi preferiti”.
Cosa prova quando assiste qualcuno nel momento della sua morte? In fondo è arrivata prima del tempo, anche grazie a lei…
“Quella persona era in ogni caso destinata a morire. Sento di aver fatto ciò che quella persona in tutta libertà e coscienza mi ha chiesto di fare. E’ un atto estremo di rispetto per la sua dignità. Ciò non mi sottrae a una grande commozione. Per qualche giorno questo sentimento mi coinvolge, ma mi dà anche la forza di continuare”.
E’ prevista un’assistenza psicologica per i volontari di Exit?
“Non in modo organizzato. Di certo con il mio gruppo condividiamo i singoli casi e li discutiamo a lungo. Ciò ci permette anche di avere un sostegno psicologico. Ma, probabilmente, lei ha ragione: è una delle questioni di cui dovremmo occuparci”.
Che cosa l’ha spinta a impegnarsi con Exit?
“Una storia personale. Mia nonna era gravemente ammalata e il suo dolore fisico era indescrivibile. Io ero molto legato a lei e a mio nonno. Sentirmi così impotente di fronte alle sue sofferenze mi ha fatto capire che la morte merita di essere vissuta con serenità e dignità, proprio come la vita”.
SUICIDIO ASSISTITO
“Un diritto della persona”
di Monica Soldano
L’individuo morente, in condizioni di grande sofferenza fisica e psicologica deve essere rispettato e tutelato nel suo libero arbitrio. E’ questo il messaggio lanciato dal Congresso internazionale sulle decisioni di fine vita che si è svolto a Roma il 22 settembre scorso. Un’iniziativa che rientra nel progetto europeo Ethicatt (link spalla), cui partecipa la facoltà di Sociologia dell’Università la Sapienza, organizzatrice dell’evento romano. Tra i numerosi relatori internazionali, c’era anche Jèrome Sobel, medico e presidente della sezione svizzera di Exit, una delle 30 organizzazioni in Europa che senza scopo di lucro sono impegnate nel diritto a morire con dignità. Galileo ha raccolto la sua testimonianza.
Dottor Sobel, qual è la sua qualifica professionale?
“Sono un medico otorinolaringoiatra e chirurgo maxillofacciale”.
Chi si rivolge a Exit?
“Quando un cittadino svizzero è in una grave condizione fisica e psicologia, affetto da una malattia allo stadio terminale, può contattarci. Noi, dopo un’attenta verifica dei requisiti e di tutta la documentazione, valutiamo se accogliere la domanda di suicidio assistito. A quel punto, inviamo qualcuno del nostro gruppo di lavoro o vado io stesso a trovarlo”.
Quali sono i requisiti che rendono ammissibile la richiesta?
“Prima di tutto la richiesta deve provenire da una persona ancora capace di intendere e volere, ed essere ripetuta a distanza di qualche giorno. La malattia di cui soffre deve essere dichiarata incurabile e le sofferenze devono essere intollerabili, sia dal punto di vista fisico che psichico. Occorre anche che la prognosi sia fatale. Non solo, il paziente deve essere in grado di autosomministrarsi il farmaco della ‘buona morte’”.
Qual è la differenza tra suicidio assistito ed eutanasia?
“E’ sostanziale: nessuno agisce per favorire la morte del malato, se non egli stesso. L’assistenza che Exit dà al morente è ben altra cosa. Noi ci assicuriamo che non ci siano interessi diversi da quelli di una caritatevole azione. Non devono esserci parenti in attesa di eredità o interessi personali di alcun tipo. Io personalmente sostengo i colloqui con il paziente e con la famiglia. Ogni caso è a sé e va valutato il contesto. Occorre, inoltre accertarsi che il paziente non stia attraversando fasi depressive ma che ci sia serenità nella decisione”.
E le cure palliative?
“A volte non possono nulla, soprattutto sulla sofferenza psicologica di chi è senza speranza e assiste a una degenerazione progressiva. Altre volte, la sedazione intensa peggiora solo lo stato di coscienza e di lucidità”.
Qual è il ruolo del medico in tutto ciò?
“Prescrive il farmaco, valuta il caso clinico, ma sostanzialmente fa l’accompagnatore. In Svizzera dal 2001 è stato sconfitto il forte tabù che ritiene contraddittoria la figura del medico che cura e salva la vita con quella del medico che accompagna alla buona morte. L’Accademia delle Scienze Mediche ha dichiarato che l’assistenza al suicidio assistito può essere considerata parte dell’attività medica. Ma chiunque, un amico o un familiare, può offrire la stessa assistenza senza essere perseguito per legge. Una volta mi capitò di avere al mio fianco un pastore amico del morente, che gli recitava i suoi salmi preferiti”.
Cosa prova quando assiste qualcuno nel momento della sua morte? In fondo è arrivata prima del tempo, anche grazie a lei…
“Quella persona era in ogni caso destinata a morire. Sento di aver fatto ciò che quella persona in tutta libertà e coscienza mi ha chiesto di fare. E’ un atto estremo di rispetto per la sua dignità. Ciò non mi sottrae a una grande commozione. Per qualche giorno questo sentimento mi coinvolge, ma mi dà anche la forza di continuare”.
E’ prevista un’assistenza psicologica per i volontari di Exit?
“Non in modo organizzato. Di certo con il mio gruppo condividiamo i singoli casi e li discutiamo a lungo. Ciò ci permette anche di avere un sostegno psicologico. Ma, probabilmente, lei ha ragione: è una delle questioni di cui dovremmo occuparci”.
Che cosa l’ha spinta a impegnarsi con Exit?
“Una storia personale. Mia nonna era gravemente ammalata e il suo dolore fisico era indescrivibile. Io ero molto legato a lei e a mio nonno. Sentirmi così impotente di fronte alle sue sofferenze mi ha fatto capire che la morte merita di essere vissuta con serenità e dignità, proprio come la vita”.
i disturbi psichiatrici dell'infanzia a Roma, un dato
Corriere della Sera Cronaca di Roma 26.9.03
FATEBENEFRATELLI
Indagine: disturbi psichiatrici
Il 20% dei bambini romani soffre di disturbi psichiatrici di varia natura che necessitano di una valutazione, ma solo il 10% si rivolge ai servizi sanitari. Il dato è emerso da una indagine presentata nel V convegno dell’Afar, l’Associazione Fatebenefratelli per la ricerca biomedica e sanitaria.
FATEBENEFRATELLI
Indagine: disturbi psichiatrici
Il 20% dei bambini romani soffre di disturbi psichiatrici di varia natura che necessitano di una valutazione, ma solo il 10% si rivolge ai servizi sanitari. Il dato è emerso da una indagine presentata nel V convegno dell’Afar, l’Associazione Fatebenefratelli per la ricerca biomedica e sanitaria.
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