martedì 4 novembre 2003

la videcassetta dell'incontro con Marco Bellocchio
del 29.10.03 all'Università di Roma

(informazione ricevuta da Annalina Ferrante)

E' possibile prenotare la videocassetta dell'incontro
con Marco Bellocchio alla "Sapienza"
sul sito:
 www.mawivideo.it

__________________________________________________

a Firenze
«Stessa rabbia stessa primavera» di Stefano Incerti
sul film di Marco Bellocchio

La Repubblica edizione di Firenze, martedì 4 ovembre 2003, Pagina XI

nel post qui sotto si può leggere il testo di un'intervista al regista del film, disponiile anche in rete QUI

alla Leopolda per STATION TO STATION, il megaprogetto realizzato dall´assessorato all´istruzione del Comune di Firenze e da Controradio in collaborazione con La Repubblica,

alle ore 20 di domani, mercoledì 5, sarà proiettato
«Stessa rabbia stessa primavera» di Stefano Incerti
,
un film che analizza le motivazioni che hanno spinto Marco Bellocchio a realizzare «Buongiorno Notte» esattamente 25 anni dopo il sequestro Moro.

 

STATION TO STATION
Leopolda, parte la grande festa fra arte e impegno
Alla fabbrica della creatività

Per cinque sere concerti e dj, un suk no global, eventi, installazioni. E birra a prezzi popolari
di Fulvio Paloscia


Una pista per skateboard lunga 25 metri che riproduce una vera e propria strada: ovviamente abbondano gli ostacoli da evitare con acrobazie spericolate. Un pannello lungo 60 metri che i ragazzi dell'associazione «Art & Heart» stanno aerografando da ieri: riproduce un cielo illuminato dalla luna e solcato da saette, farà da sfondo al «Suk della solidarietà», la minifiera del volontariato e dell'impegno sociale che ospiterà tra gli altri Indymedia, ben noto gruppo di mediattivisti no-global. Uno spazio espositivo lungo 50 metri e largo 15 ad uso e consumo di giovani artisti, e che avrà come scenografia pareti di gigantesche proiezioni. Benvenuti, da stasera a sabato 8 alla Leopolda a Porta al Prato per «Station to Station» il megaprogetto realizzato dall´assessorato all´istruzione del Comune di Firenze e da Controradio in collaborazione con La Repubblica, che fotografa la nuova creatività fiorentina e che cerca di bissare il successo dello scorso anno (80 mila persone). Lo fa mettendo insieme cose diversissime, come l'arte e l'impegno umanitario: accostamento tutt'altro che peregrino visto che le mille manifestazioni della creatività giovanile, pur nella loro corroborante diversità, possono essere unificate proprio dal desiderio di comunicare, colmando sempre di più il divario tra la vita (quella quotidiana compresa) e il prodotto artistico. Tra gli artisti che hanno aderito all'invito, lanciato da «ExTemporanea», di mettere in mostra le loro installazioni c'è Daniel Verio, che attraverso speciali algoritmi modificherà suoni e immagini captati in diretta all'interno della Leopolda; i fratelli Pieralli lavoreranno invece con il corpo: il loro, e quello di chi, tra il pubblico, vorrà contribuire; Ugo Zatini, in arte Ziqqurat, trasformerà uno storico dipinto in un orwelliano Grande Fratello che spierà, attraverso un sistema di telecamere, i visitatori in un ironico gioco di voyeurismo. Per i rockettari, oltre i concerti, da segnalare il primo incontro ravvicinato con le etichette indipendenti fiorentine e toscane dopo la crisi degli anni Novanta: accanto a nomi ormai storici come Santeria, Materiali Sonori, Wide spiccano la Stout, che ha tra i suoi soci l'ex Scisma Paolo Benvegnù; Cucca Raccha, specializzata in reggae; Homesleep, autentica fucina che ha sotto contratto band di culto della scena italiana come Giardini di Mirò e Yuppi Flu. Le etichette convocate non solo metteranno in mostra le loro produzioni, ma raccoglieranno materiale per rimpinguare i cataloghi: rock band fiorentine, fatevi sotto. Last but not least, il bar dove si svende birra a 3 euro (prezzo superconcorrenziale) e cenare (con piatti freddi) costa pochissimo di più. Lo gestisce l´associazione «Insieme» che con i proventi della scorsa edizione ha costruito un pozzo nel Senegal. Apertura cancelli ore 17. Ingresso libero.

un'intervista di Stefano Incerti
autore di «Stessa rabbia stessa primavera»

(segnaazione di Annalina Ferrante e di Carmine Russo)

TAM TAM CINEMA Mercoledì 3 Settembre 2003

BELLOCCHIO: STESSA RABBIA, STESSA PRIMAVERA
Stefano Incerti / regista
intervista di Miriam Tola


per vedere l'articolo originale, cliccare QUI


Stessa rabbia, stessa primavera: è rubato ad una canzone di De Andrè il titolo scelto da Stefano Incerti per il suo documentario su Marco Bellocchio e il suo Buongiorno, notte. Domani nei Nuovi Territori di Venezia 60, più che un backstage, è un ritratto del regista tra vita, cinema e politica.
La produzione è di Sergio Pelone per Filmalbatros e Dario Formisano per Elleu Multimedia, marchio che distribuirà il dvd.

Raccontaci l’impatto con il set di “Buongiorno notte”.

La regia del documentario mi è stata affidata 2 settimane prima dell’inizio delle riprese del film. Per muovermi con più dicrezione sul set ho girato solo con una Sony 150. E’ stata la mia prima volta con il digitale e la leggerezza del mezzo mi ha addirittura permesso di stare tra Bellocchio e gli attori. Nei teatri di posa di Cinecittà, trasformati nel covo brigatista, c’era quella serenità che solo una sceneggiatura solida può dare. Mi ha colpito il grande silenzio ma, soprattutto quella sorta di seduta psicoanalitica voluta da Bellocchio prima del ciak. Momenti di confronto in cui dar vita ad un percorso collettivo.

Di quali altri materiali è composto il documentario?

Ci sono immagini di repertorio provenienti dall’archivio Rai e dall’Archivio del Movimento Operaio e Democratico che offrono uno spaccato dell’Italia degli anni 60/70: dagli operai al lavoro agli scontri di piazza. Poi frammenti di film di Bellocchio, tratti dalle pellicole più legate a Buongiorno, notte come I pugni in tasca e L’ora di religione. L'ossatura è fornita da un’intervista che ho realizzato con lui a Valle Giulia, là dove è cominciato il ’68 romano. Mi sono preparato rivendendo tutta La notte della Repubblica di Zavoli e leggendo alcuni libri tra cui quelli di Giorgio Galli sul partito armato. Anche qualcosa su Bellocchio: il catalogo curato da Paola Malanga per la retrospettiva di Locarno del 1998, il Castoro scritto nello stesso anno da Sandro Bernardi. Dalle mia scaletta di domande ho tenuto fuori temi come la psicoanalisi e la follia, cruciali nel cinema di Bellocchio ma non direttamente connessi con Buongiorno, notte.

Dall’intervista emergono le molle che hanno spinto Bellocchio a girare “Buongiorno, notte"?

Emerge l’interesse per il personaggio femminile, ispirato ad Anna Laura Braghetti. Bellocchio non voleva ricostruire il caso Moro né ambiva a raccontare un’epoca. Al centro di tutto c’è lo sguardo verso i rapporti, intimi e misteriosi, tra prigioniero e carcerieri. L’altro elemento chiave è il legame con il padre: in qualche modo, attraverso il film e il personaggio di Aldo Moro, Bellocchio ha recuperato il rapporto con la figura di suo padre, a lungo rimossa.

Il verso di De André da cui hai preso il titolo si riferisce al ’68. Perché l’hai scelto?

Perché il documentario parte dalle immagini del ’68, la stagione che Bellocchio ha, in un certo senso, anticipato con I pugni in tasca. Poi la frase Stessa rabbia, stessa primavera è la sintesi perfetta del suo cinema: la rabbia è quella che attraversa tutte le sue pellicole, la primavera rimanda alla straordinaria giovinezza che continua ad esprimere.

Bertolucci ha detto che la morte di Moro coincide con la fine del sogno. Per Bellocchio il sogno si è mai riacceso?

Di certo c’è in lui un profondo disincanto verso la politica. Ma nell’intervista evoca il risveglio dei movimenti, i ragazzi del G8 senza dimenticare le componenti cattoliche.

l'immagine proposta da "La condanna"
per pochi giorni al Quirinale e a Venezia

Giornale di Brescia 4.11.03
Torna in Italia dalla Russia
MADONNA LITTA IL DOLCE ENIGMA DI LEONARDO
di Fausto Lorenzi


per vedere l'immagine della Madonna Litta cliccare QUI

Nel 1865 il conte milanese Antonio Litta, erede dei Visconti e dei Belgioioso, offrì la sua collezione all’Ermitage di San Pietroburgo. Lo stesso direttore del Museo imperiale, Stepan Gedeonov, venne a Milano, dove acquistò per lo zar Alessandro II quattro dipinti per 100 mila franchi: tra questi la Madonna col Bambino attribuita a Leonardo da Vinci, che da quel momento venne chiamata La Madonna Litta. Per i russi, questa piccola Madonna (42x33 cm, olio e tempera su tavola, trasferita su tela con notevoli danni) che allatta dolcemente il Bambino, in piedi, come s’alzasse a mostrarlo e offrirlo a chi guarda, sullo sfondo d’un paesaggio incorniciato da due finestre ad arco, è diventato una sacra icona, tanto che fu subito esposta alla fine della Seconda guerra mondiale, come inno al risorgere della vita. E in molte case sta riprodotta, come le icone più venerande, e come quelle è diventata parte dell’identità del popolo. Ora è già arrivata in Italia, su un aereo militare, come dono temporaneo del premier Putin che viene in questi giorni in visita ufficiale. Protetta da una speciale teca, sarà esposta gratis al pubblico al Quirinale (sala delle Bandiere), dal 7/11 al 10/12, quindi passerà al Palazzo Ducale (sala del Mappamondo) di Venezia, dal 15/12 al 15/1 (là sarà omaggio al risorgere del teatro della Fenice dalle ceneri, quasi a evocare un potere taumaturgico dell’arte. In più, sarebbe proprio la Madonna che allatta di Leonardo che Marcantonio Michiel vide nel 1543 a Venezia in casa Contarini). C’entrano, con la venuta in Italia, anche i buoni uffici di Banca Intesa, presieduta dal bresciano Nanni Bazoli, che all’Ermitage ha sponsorizzato il restauro delle sale della pittura veneta. Ci si aspetta che possa ripetersi l’emozionante calca che accompagnò 5 anni fa la Dama con l’ermellino dal Museo di Cracovia. Se per la Dama si voleva incrociare lo sguardo più bello del mondo, qui ci si vorrà commuovere per la dolcezza mite e malinconica con cui la Madre si mangia con gli occhi il suo Bambino. Ma per la maggior parte degli storici d’Occidente, fin dall’800, questa Madonna datata al 1490 circa, tra i primi ritratti di trequarti della nostra pittura, sarebbe stata concepita da Leonardo, ma eseguita da un allievo, pur con correzioni del maestro, tanto che grandi specialisti di Leonardo, da Pietro Marani a David Allan Brown, anche in studi recentissimi la escludono dalle autografie. Il prototipo è nella Testa di giovane donna del Louvre, studio di profilo di intimismo dolce e musicale, ma anche di meditazione sul nesso tra castità e sapienza; e fors’anche in un disegno a Francoforte. Dopo gli studi delle Vergini, per l’Adorazione dei magi degli Uffizi e per la Vergine delle rocce del Louvre (primo dipinto commissionato a Milano nel 1483 al maestro), dove il tema sacro già diventava riflessione sul legame tra madre e figlio, qui la fermezza delle proporzioni offre il lato matematico, fiorentino dell’impianto, ma la grazia tattile infusa dalla posa nella luce naturale rivela tutta la nuova invenzione lombarda, nello stesso sfumare dell’incidenza luminosa dal volto armonico alla grazia già ombrosa del busto che accoglie quel luminosissimo Bambino che s’aggrappa con tutto il corpo al seno, ma volge l’occhio di beato languore allo spettatore. Proprio certa durezza del chiaroscuro, che in altri ritratti coevi (dalla Dama con l’Ermellino al Musico dell’Ambrosiana milanese) è sciolto, quasi bagnato nell’irradiazione di luce e ombra vere, come emanazione o respiro morbido, induce molti studiosi a fare i nomi di leonardeschi (il più accreditato è ora Marco d’Oggiono, e prima lo Zenale, il De Predis, il Boltraffio.). Ma per la conservatrice dell’Ermitage Tatiana Kustodieva e per Carlo Pedretti, che in America cura il Centro studi leonardeschi, non c’è dubbio: per quest’ultimo, anzi, la tavola sarebbe stata tagliata, dall’originale figura intera. Leonardo fu il primo a porsi il problema dei sentimenti (lui diceva i moti dell’animo) che condizionano le espressioni del corpo. L’abbia direttamente dipinta lui, o un suo formidabile seguace, resta la conferma di come di Leonardo sia stato dirompente soprattutto il disegno della mente, in questo avvicinare in un’inedita intimità d’affetti le inclinazioni dell’anima al corpo e al mondo naturale. È questo che conta davvero, non il cercare a tutti i costi una firma.

lettere a Liberazione sull'affaire dei crocefissi

Liberazione 4.11.03
Il "no" al Crocifisso è fissato nella Costituzione
Quanti massacri commessi in suo nome


No al fanatismo delle religioni
Egregio direttore, una questione che riguarda il principio supremo della laicità dello Stato e quindi la stessa garanzia della vita democratica non può essere risolta per via di maggioranze, infatti se anche il 100% degli italiani fosse cattolico lo Stato non potrebbe farsi propagatore della confessione della chiesa romana e del suo simbolo. Come hanno abbondantemente ricordato diverse sentenze della Corte Costituzionale, nonché della Corte di Cassazione. Se decidessimo a maggioranza che il simbolo da esporre fosse quello dell'ebraismo, o degli atei o dei musulmani, o quant'altro, lo Stato repubblicano, laico, democratico, sarebbe tenuto ad ottemperare? Certamente no. Vale il principio garantito dall'art. 1 della Costituzione, quando afferma che «la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Solo la Costituzione, infatti, è la garanzia della libertà di tutti, senza che si venga costretti ad appartenenze che di tutti non sono affatto. Solo dalla garanzia del diritto di ognuno a veder tutelata la propria libertà di coscienza scaturisce la pace. L'alternativa sarebbe il fanatismo della fede, e le guerre e gli stermini che proprio in nome della croce, il clero cristiano, dai primi secoli, fino ai giorni nostri ha perpetrato.
Maria Mantello Associazione "Giordano Bruno"

Imposizioni sfociate nella violenza
Caro direttore, il cattolicesimo non è più religione di Stato. La mia solidarietà va al giudice Mario Montanaro che non ha fatto altro che interpretare quello che viene chiamato il concordato tra Repubblica italiana e Santa Sede (1984, Craxi) dove c'è la possibilità di appendere il crocifisso e non l'obbligo. E' vergognoso che ci si appelli al Regio Decreto n. 965 del 24 Aprile (che all'art. 118 dice che «ogni istituto ha la bandiera nazionale ed ogni aula l'immagine del crocifisso ed il ritratto del Re») o ad un generico simbolo dei valori nazionali e della cultura cristiana. Non dimentichiamo che i valori a cui fanno appello sono gli stessi che hanno portato nei secoli passati a massacrare milioni di anime da salvare in giro per il mondo (si pensi alle crociate o all'America latina). Inoltre la cultura cristiana è il frutto di imposizioni sfociate anche nella violenza (si pensi alla Santa Inquisizione). Capisco che ci sono le elezioni europee e che i voti dei cattolici contino, ma di fronte a questa idolatria ed interferenza da parte dei vescovi è vergognoso che anche parte della sinistra laica abbia criticato l'operato di questo giudice.
Angelo Marongiu Bergamo

Strane coincidenze
Caro direttore, le soluzioni trovate da varie autorità sono del tutto provvisorie, perché sarà il giudice di merito a decidere su tutta la vicenda tra pochi giorni, e non dirimono alcun dubbio. Infatti, se tale giudice poteva revocare o modificare l'ordinanza dove stanno i motivi d'urgenza con cui l'avvocatura di uno Stato che definisce se stesso laico, sconfessionale, imparziale, pluralista - per sue leggi e sua giurisprudenza - ha ottenuto la sospensione? Ancora, un ufficiale che rifiuta di eseguire un titolo esecutivo è possibile di denuncia per omissione di atti d'ufficio. Ancora, perché proprio ora il rinvio a giudizio per Adel Smith per uno dei delitti contro la religione dello Stato (art. 402-406 del codice penale), quando l'accordo tra Stato italiano e Vaticano del 18.2.84 abolisce il concetto di religione cattolica come unica religione dello Stato e quando la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale totale dell'art. 402 e la parziale degli altri articoli? Sembra un film già visto, ad esempio come l'incriminazione di Action "proprio" all'indomani della manifestazione del 4 ottobre. In ogni caso il principio dell'autonomia e indipendenza della magistratura va rispettato e il giudice di merito dovrà decidere in tutta serenità, senza autorevoli interferenze. Stiamo veramente chiedendo il minimo dei loro doveri alle nostre ciarliere autorità. ma ce lo concederanno?
Pasquale Vilardo Roma

No alle superstizioni sì alla cultura scientifica
Caro direttore, nonostante Croce, Ciampi e Fini io non mi dico cristiano, e con me almeno 10 milioni di italiani, che possono farlo prima di tutto perché nessun cristiano ha mai dimostrato in modo democratico quello che afferma. La maggior parte dei cristiani il proprio credo lo impone con la violenza - si pensi al genocidio dei popoli dell'intero continente americano - o con sottili minacce psicologiche. Possiamo dirci non cristiani semplicemente perché lo diciamo. I richiami alla "storia" o al "noi" dimostrano forse che è venuta l'ora di portare l'Italia in Europa non solo con l'Euro ma anche con la cultura scientifica, di emancipare certe masse da superstizioni, o almeno da dargli l'opportunità di dirsi "non cristiani" senza poi sentirsi inaccettate da Ciampi e Fini e dalla comunità in cui vivono. Far leva sull'esclusione sociale è un'azione ignobile che qualifica chi la mette in atto.
Massimo D'Angeli via e-mail

[...]

Umberto Veronesi

(una segnalazione di Sergio Grom)

Corriere della Sera 4.11.03
Veronesi: «Anche Ogm e staminali strumenti del nuovo illuminismo»
Parla l’oncologo italiano più famoso nel mondo: «Combatto il dolore perché allontana da Dio Non ho nulla da obiettare a quel che detta la coscienza, ma mi fa male il rifiuto della razionalità»

Umberto Veronesi è nato nel 1925 a Milano. E’ sposato con una pediatra ed è padre di 7 figli
Ha scoperto la sua «vocazione» a 18 anni: colpito in guerra da una mina, si appassionò alla medicina durante la degenza in ospedale


INCONTRI IN ITALIA / Il grande medico, Milano e la necessità di un «nuovo illuminismo»
Veronesi: combatto il dolore, allontana da Dio
di ALDO CAZZULLO


«Giobbe è più impaziente di quanto si creda. E Dio alla fine riconosce la sua ragione». Umberto Veronesi è un grande lettore della Bibbia. Coltiva fin dalla giovinezza studi teologici. Il suo testo prediletto è l'Ecclesiaste. Ma, forse per la sua pratica con la sofferenza, ha meditato a lungo sul libro di Giobbe. Ed è convinto che l'interpretazione più diffusa sia da rovesciare: «Giobbe non accetta la sofferenza ingiusta, l'imperscrutabilità del potere divino. Vi si ribella. E Dio non lo condanna». «Anzi - dice il professore -, Dio premia Giobbe e redarguisce i tre amici che vedevano nella sua sofferenza l’espiazione di qualche colpa ignota».
Da quel passo della Bibbia Umberto Veronesi, 78 anni, 7 figli, l’oncologo europeo più noto al mondo, ha tratto un insegnamento che non è stato estraneo alla sua storia di scienziato e gli fornisce ora una chiave di lettura del presente. «La sofferenza è stata considerata per secoli una forza purificatrice, un fattore di redenzione. Osservare per una vita la sofferenza degli altri, però, mi ha condotto alla conclusione opposta. Il dolore allontana da Dio. Il malato terminale è del tutto concentrato su se stesso. Il male lo induce a dimenticare il bisogno della divinità, lo distrae, lo impegna in ogni momento. E’ un cattivo consigliere. Va prevenuto, lenito con ogni mezzo disponibile, se possibile sconfitto. E la premessa di questa battaglia è ripristinare il primato della ragione».
Il professore cerca tra le carte dello studio, nell’Istituto europeo di oncologia di cui è fondatore. Ritrova il testo della «lectio» tenuta il 19 maggio scorso all’università di Milano, che gli ha conferito la laurea honoris causa in biotecnologie mediche. «Vede? Nella prima pagina sono citati Beccaria, i fratelli Verri, Cattaneo, che oggi è ricordato solo per il federalismo ma che confidava nella scienza al punto da legare l’evoluzione politica italiana al progresso scientifico. Per questo sono rimasto molto colpito dall’editoriale con cui Stefano Folli ha indicato la necessità di un "nuovo illuminismo". Oggi pare quasi che l’illuminismo sia considerato morto, che il pensiero razionale debba cedere alla superstizione, al miracolismo, a valori esclusivamente soprannaturali. Questo atteggiamento è frutto di un’ideologia. Di un pregiudizio negativo, incentrato sull’intangibilità della natura, che rappresenterebbe il bene assoluto, mentre le biotecnologie sono additate come il male. Siamo di fronte a un errore, che non ha neppure giustificazioni dottrinarie. Nella natura vige la legge del più forte, e anche la cultura cristiana lo riconosce; penso ad esempio alle riflessioni di Miegge sulla brutalità della natura. L’evoluzione stessa è frutto del caso. Per questo l’uomo da sempre interviene sulla natura, la cambia, la migliora. Ora abbiamo mezzi per intervenire meglio che in passato. Dobbiamo elaborare un pensiero che ci aiuti a usare questi mezzi».
Il razionalismo propugnato da Veronesi non è in contrapposizione alla cultura cattolica. Il professore non rinnega le sue convinzioni laiche, frutto, oltre che dello studio, dell’esperienza. Racconta ad esempio di non ritenere che la morte sia un passaggio più lieve per i credenti; di aver avuto a volte l’impressione contraria, che i non credenti siano i più preparati alla fine, i più consapevoli del dovere di cedere il posto alle nuove vite.
Ma non nasconde l’interesse e l’apertura verso il mondo cattolico. C’è un sacerdote che ha contato molto nella sua vita. Non si considera affatto un anticlericale. Né intende polemizzare con il «neoguelfismo» manifestatosi di recente in Parlamento. Avverte però un pericolo: «Tutta la discussione sulla bioetica e sulle biotecnologie avviene in chiave difensiva. Il pregiudizio è che le novità siano pericolose e occorra mettersene al riparo. In questo modo straordinarie opportunità come gli Ogm e le cellule staminali diventano fobie. Non ho nulla da obiettare a quel che detta la coscienza, provo rispetto e amore per il pensiero religioso. Mi dispiace però l’opzione antiscientifica. Il rifiuto della razionalità. La negazione dell’illuminismo».
Il luogo naturale per progettare il futuro e far crescere le nuove idee appare a Veronesi la città dov’è nato e si è affermato, Milano. Il professore avverte anche qui i segni dei vizi italiani, un certo conservatorismo, la tentazione familista e oligarchica; eppure la sua visione della metropoli è positiva, e le prospettive gli sembrano ancora migliori. «A Milano il cattolicesimo ha venature gianseniste. Da sempre i grandi capitalisti coltivano una coscienza sociale. Non è morta la lezione di Eustachio Degola, l’abate che influenzò anche Manzoni, per cui le grandi fortune dipendono dal merito ma anche dalla grazia divina, che va in qualche forma ripagata. Si spiega anche così il mecenatismo milanese». Ci sono nuovi progetti per il professore. Come l’ospedale modello pensato insieme con Renzo Piano, non più caserma ma luogo di accoglienza. E come la cittadella della salute, con una serie di centri europei per la cardiologia, l’oncologia, le malattie mentali, la neonatologia, la ricerca. Quando si trattò di realizzare l’Istituto europeo di oncologia, Veronesi si rivolse a un altro personaggio simbolo del mondo laico milanese, Enrico Cuccia.
«Ma Cuccia - ricorda - era un uomo molto religioso. Di una religiosità critica, capace di accettare il pensiero dissidente. Con lui ho avuto lunghe discussioni sulla fede, sull’anima». Veronesi coltiva un’idea socratica dell’anima - vista come psiche, come pensiero - che non appartiene solo al mondo pagano. In questa chiave, spiega, si può considerare l’anima immortale: «Anche teologi dell’età medievale e rinascimentale, come Pomponazzi, accostavano l’anima al pensiero. E oggi la Chiesa acconsente all’espianto degli organi da uomini ancora vivi ma di cui l’encefalogramma piatto indica che hanno perso il pensiero. Di noi restano le idee. E il patrimonio genetico, che trasmettiamo ai nostri figli. E’ lì la vita eterna, almeno per me. La ricerca del divino riguarda tutti, anche me. Ho cercato di approfondire le varie confessioni, e questo approccio, come nota Mircea Eliade, predispone allo scetticismo, in quanto ci si imbatte in dieci diverse religioni, ognuna convinta di possedere la verità. Ma non sono insensibile alle suggestioni della teologia della crisi di Karl Barth: se Dio si è allontanato, ha comunque lasciato una parte di sé tra noi. E’ quella che andiamo cercando».
Dell’anno trascorso come ministro ha un buon ricordo. «Mi hanno impressionato l’efficienza e la preparazione dell’alta burocrazia, che di fatto guida l’amministrazione del Paese. Nei primi giorni i direttori generali erano disorientati, non erano abituati a un ministro che arrivava alle 8 del mattino. Si sono adeguati fin da subito, e hanno lavorato molto bene. Non ho pregiudizi nei confronti della politica. Vi ho trovato passione, non ho mai visto segni di corruzione, neppure di quella intellettuale. Non mi appartiene però l’attitudine del politico a dire non quel che pensa ma quel che è utile alla sua parte. Mi rendo conto che si tratta di una necessità. Ma non fa parte della mia natura».
Continua, il professore, a esercitare un potere da cui non ci si può dimettere, quello del medico verso il paziente.
«Il nostro lavoro è fatto di almeno tre componenti. Quella scientifica. Quella creativa, che influenza anche la chirurgia, una forma di artigianato se non di arte. E quella magica. Il medico esercita una sorta di potere magico sul paziente. Può alleviare, oltre alla sofferenza del corpo, quella della psiche. Ha tra i suoi doveri, oltre alla verità, l’ottimismo. Sono affascinato dalla fantasia, ne sento la forza sulle arti che mi appassionano e talvolta pratico, la musica, la pittura, la poesia. Non rinuncio alla ragione. Non devo, e non posso».

Marco Bellocchio: l'intervista a Vanity Fair

da VANITY FAIR, VANITYINTERVISTA
LA SERENITÀ È UN DONO TARDIVO

A 54 anni ha scoperto una vitalità mai conosciuta grazie alla figlia Elena. E ora, dieci anni dopo, sente di aver raggiunto un buon equilibrio. Niente male per un regista tormentato come lui, da sempre in psicanalisi.

Nel 1965, a soli 26 anni, Marco Bellocchio debutta come regista con "I pugni in tasca" di cui è anche sceneggiatore. È subito trionfo: la critica lo osanna come un genio

CON LO SGUARDO AL FUTURO: Marco Bellocchio, 64 anni, ha girato nella sua carriera ventuno film. Dopo il successo, e le polemiche per la mancata vittoria di "Buongiorno, notte" al Festival di Venezia, sta già lavorando a una nuova opera, "Il regista dimatrimoni"

«Ho vissuto oltre la metà di quello che ci tocca. Quindi intendo vivere bene quello che resta»


di Paola Jacobbi


A Parma, un infido motto campanilista sentenzia: "di quelli di Piacenza possiamo fare senza". Be', del piacentino Marco Bellocchio è difficile che il cinema italiano possa fare a meno. Amato, odiato, incompreso o venerato. Considerato perduto nelle brume della psicanalisi ai tempi del Diavolo in corpo e, adesso, con Buongiorno, notte, esaltato con il furore delle grandi cause. Questo signore, che compie 64 anni il 9 novembre, resta un personaggio capace di dividere come pochi.
Alle sue spalle, meno di trenta film e quasi quarant'anni di polemiche, fin dall'esordio, nel 1965, con I pugni in tasca. Adesso, mentre la pellicola sul caso Moro continua la sua buona performance al botteghino ed è invitato a molti festival, Bellocchio scrive il prossimo film, Il regista di matrimoni. Lavora prevalentemente di mattina, dei giornali legge la prima pagina, e poi salta a quelle della cultura e degli spettacoli, un vero intellettuale. Ammette di non essere disciplinato, ma si sforza di diventarlo. Il volto severo e bello, anche se avaro di sorrisi, ha scritto sulla pelle una dichiarazione d'indipendenza, artistica e personale. Non dev'essere facile avere a che fare tutti i giorni con uno così. «Bisognerebbe chiederlo a Francesca (Calvelli, 41 anni, da una decina compagna del regista e montatrice dei suoi ultimi cinque film, ndr). Comunqe sì, sì, sono un compagno difficile», risponde Bellocchio. «Ogni uomo e ogni donna hanno una loro inafferrabilità, ma nei rapporti di coppia si tende a voler possedere tutto dell'altro e questo già crea dei problemi. In più, un artista ha una sua specifica, ulteriore, inafferrabilità».
Si considera un partner disattento?
«In certi momenti, probabilmente sì. Quando sono perso dietro ai miei progetti, capita che chi mi è accanto si senta frustrato, escluso»
Come si fa perdonare?»
«Cerco di usare l'intelligenza. E poi sono sicuro di essere una persona buona. Posso essere assente, ma mai in modo cattivo»
Con Francesca lavora: questo arricchisce il rapporto o aumenta i conflitti?»
«Discutiamo molto, ma la collaborazione creativa prevale. Ho ricevuto molti complimenti per l'uso delle musiche dei Pink Floyd in Buongiorno, notte: quello è stato un suggerimento di Francesca»
Lavora anche con suo figlio Piergiorgio, che in Buongiorno, notte interpreta un terrorista.
«Con Piergiorgio ci sono stati alti e bassi. Ha cominciato a lavorare con me fin da piccolo (faceva capolino, a sei anni, in Salto nel vuoto. Poi ha assunto troppe responsabilità nella società di produzione, per colpa mia, che l'ho caricato di impegni. Così, adesso, come produttori lavoriamo ognuno per conto proprio. Le cose vanno molto meglio. Gli ho chiesto di esserci in Buongiorno, notte, lui ha accettato ed è andata benissimo. C'è sempre qualche polemica, anche con lui. Ma è una litigiosità sana».
I Bellocchio sono un grande clan familiare. Che cosa fate a Natale?
«Alcuni stanno a Milano, altri a Piacenza, io a Roma con la mia compagna. Piergiorgio passa le feste con sua madre. Non c'è la tradizione delle riunioni di famiglia».
Si è parlato di una "rinascita" artistica, dal film La balia in poi. Coincide con l'arrivo di Elena, la sua bambina.
Quasi. Elena è stata una sorpresa, una presenza non premeditata. Avevo già 54 anni, quello con lei è un rapporto vivificante, anche se adesso la vedo già andare per conto suo. È assetata di sapere, fa domande a raffica, usa parole di cui non conosce il significato: per lei è tutto una novità. Comunque non saprei dire se a causa di Elena o delle stagioni della vita, in questi anni sono diventato più sicuro e più sereno. Non rincoglionito, come ha scritto il critico Goffredo Fofi, sia chiaro. Piuttosto, con l'età, sento una maggiore urgenza di fare, costruire».
«Il tempo che passa le fa paura?»
«Si sente che gli anni scarseggiano, si teme il degrado fisico e mentale. C'è la consapevolezza di aver vissuto oltre la metà di quello che ci tocca. Quindi, ho ferma intenzione di vivere bene quello che resta».
Tentazioni di conversioni religiose?
«Neanche per sogno. Qualche sacerdote ha voluto vedere nel film L'ora di religione un mio avvicinamento al sacro, ma ne sono lontanissimo. Io mi sento legato al mondo, al presente, al concreto della libertà moderna, quindi la dimensione della fede, l'aspirare al trascendente, sono tutte cose che mi sono profondamente estranee. Wim Wenders si è convertito, va a Messa regolarmente e il fatto mi ha molto stupito. Per quanto mi riguarda, l'idea di saltare nell'aldilà non mi sfiora neanche».
Lei, che ha diretto film militanti come La Cina è vicina, è ancora di sinistra?
«Mi è più facile dire quello che non sono: non sono fascista, non sono berlusconiano, non sono in favore del capitalismo. Resta il fatto che credere, come molti della mia generazione hanno fatto, nella rivoluzione e nell'instaurazione della dittatura del proletariato si è dimostrato sbagliato e catastrofico».
In Italia la sinistra continua a perdere. Crede che sconti anche una certa contiguità culturale con il mondo dei terroristi che ha raccontato in Buongiorno, notte?
«Tra la sinistra istituzionale e i terroristi vi era una separazione radicale, ma resta il fatto che quei terroristi partivano da una formazione che aveva delle analogie. Quindi, sì, tragedie come quella di Aldo Moro hanno pesato anche sulla sinistra ufficiale, quella dei partiti».
Ripensando a quegli anni, si ha anche la sensazione che la prevalenza della politica avesse cancellato il principio del piacere: più si pensava alla rivoluzione, meno ci si divertiva.
«Nel mondo, estremo e malato, dei terroristi che descrivo in Buongiorno, notte questo veniva addirittura teorizzato. C'era una dimensione fanatico-religiosa che portava all'annullamento del corpo, la stessa sessualità si riduceva alla masturbazione con un giornaletto porno nella convinzione che solo così si sarebbe stati più concentrati nel progettare delitti e castighi. Erano passati dieci anni dal movimento liberatorio del '68, dove anche la promiscuità sessuale era rivoluzionaria. Alla fine degli anni Settanta, invece, non a caso, insieme con il terrorismo è esploso il fenomeno della droga: una forma di asessualità nirvanica, una risposta malata al desiderio di perdere il contatto con la realtà».
È ancora in analisi?
«Sì, frequento ancora, anche se non in modo regolare, le sedute di psicanalisi collettiva di Massimo Fagioli. So che una parte della cultura italiana mi ha considerato, per anni, perduto, stritolato nlle mani di questa persona. Ma i fatti della mia vita dimostrano il contrario. Fagioli non è un guru, è un terapeuta di alta scuola. C'è stato un momento in cui l'analisi ha coinciso cn il mio lavoro cinematografico. Oggi non è più così. Ma non ho niente da rinnegare, anzi. Credo che quell'esperienza mi abbia permesso di essere quello che soo adesso e che tanto viene apprezzato dagli stessi che mi definivano plagiato».
È vero che lei voleva fare l'attore, ma non ce l'ha fatta perché ha una voce stridula?
«È vero, ma è anche vero che Vittorio Gassman non aveva una gran voce all'inizio eppure per anni l'ha coltivata. Parlava, urlava, studiava, rompeva le scatole a tutti per imporsi e diventare quello che è diventato. Se anch'io avessi avuto la passione, quel cavolo che vogliamo, il sacro fuoco di stare in scena, mi sarei applicato. Invece, ho capito presto che mi interessava di più lavorare nell'ombra».
Sua nipote Violetta Bellocchio ha detto che nella vostra famiglia "c'è senso dell'umorismo su un fondo di cupezza". È d'accordo?
«Sono stato molto cupo, da giovane. Sono anche stato violentemente sarcastico e derisorio più che ironico. Oggi per come io mi batto in questa vita, i margini di cupezza sono diminuiti, ma anche quelli del sarcasmo. È un problema di percentuali: forse l'equilibrio è vicino».

______________________________________________

la sesta edizione di
BAMBINO DONNA E TRASFORMAZIONE DELL'UOMO
oltre che a ROMA, alla libreria AMORE E PSICHE
è adesso disponibile anche
da STRATAGEMMA a Firenze
______________________________________________

un laboratorio per musicisti a Roma

Saint Louis College of Music
www.slmc.it


Giovedì 6 novembre ore 15.00 in Via Cimarra 19/B

Incontro ad accesso libero con Tony Carnevale per la presentazione del

Laboratorio di Ideazione e Produzione Applicata
(già “Laboratorio di applicazioni industriali della musica”)


Sviluppo delle capacità creative e relazionali in ambito professionale: ideazione, composizione, arrangiamento, pre-produzione midi/audio, produzione (registrazione, mix e mastering) nella moderna industria multimediale.

Due parole per riassumere la storia del laboratorio in oggetto.
Molte cose sono cambiate da quando – era il 2001 - è iniziata questa avventura didattica presso il Conservatorio L. Refice di Frosinone, che ha accolto con lungimiranza questa proposta: il laboratorio è andato sempre più trasformandosi in direzione di un vero e proprio centro di produzione musicale caratterizzato da un grande fermento di idee e da una gran voglia di realizzarle.
Si è creato un solido gruppo di partecipanti che ha sviluppato collaborazioni anche – ed era uno degli obiettivi – al di fuori delle aule del Conservatorio; sono stati realizzati circa una trentina di progetti originali, alcuni dei quali hanno trovato applicazione nell’industria multimediale trasformandosi da progetti di studio in veri e propri “lavori” (vincendo anche dei premi).
Un importante istituto artistico-culturale nazionale ha risposto - nel 2002 e nel 2003 - alla richiesta di contribuire allo sviluppo di queste iniziative, concedendo delle “borse di studio” da utilizzare per la realizzazione di progetti musicali nati all’interno del laboratorio stesso, per permettere cioè la realizzazione di tali progetti in un vero e proprio studio di produzione, dando la possibilità di raggiungere un altro degli obiettivi: eliminare le distanze tra il mondo “teorico” della didattica ed il mondo “pratico” del lavoro.
Il terzo ciclo di attività, che si è svolto presso la sede della Artonica 96, ha permesso di consolidare innanzitutto il metodo: il cardine del laboratorio è rappresentato dalla produzione musicale di progetti originali dei partecipanti, seguendo un percorso che parte dall’idea ed arriva alla definitiva realizzazione su master, cosa che permette di affrontare tutte le fasi della lavorazione e le relative tecniche che si sono sviluppate in questi ultimi anni nell’ambito dell’industria musicale.


Tra i vari argomenti trattati (e supportati da intensa attività pratica) vale la pena ricordare:

- aspetti formali e sintattici della composizione industriale, relativamente ai progetti proposti dai partecipanti ma anche in senso analitico generale
- tecnica e pratica di arrangiamento ed orchestrazione moderna
- uso delle tecnologie e dei software più in uso nella moderna industria musicale
- problematiche connesse alle diverse applicazioni della musica, con specifici approfondimenti su cinema, televisione, discografia, danza.
- aspetti pratici e psicologici della prassi professionale


Da rilevare la piena riuscita del metodo collettivo: ogni partecipante discute con tutti gli altri il proprio progetto durante la realizzazione dello stesso, traendone stimolazioni e suggerimenti (ovviamente guidati dal docente), spesso arrivando a vere e proprie collaborazioni che si sono sviluppate, come già detto, anche al di fuori della sede didattica.
E’ importantissimo sottolineare il carattere interdisciplinare del laboratorio che tende ad utilizzare, per la realizzazione dei progetti in esso sviluppati, le risorse interne della scuola in cui ha sede, permettendo agli allievi degli altri corsi di sviluppare anche un’esperienza di produzione musicale vera a propria.

Un prospetto tecnico degli argomenti per offrire maggiori dettagli:

- Aspetti creativi della composizione: l’ideazione del progetto
- Ascolto analitico e commento di lavori musicali applicati
- Rapporto tra musica e immagine, musica e movimento
- Tecniche di composizione: strutture e stili, dalla semplice “song” (testi compresi) al sinfonismo moderno.
- Tecniche di arrangiamento, orchestrazione e pre-produzione: strutturazione di parti ritmiche, strumentali e vocali in vari stili, stesura delle stesse al computer, editing e stampa.
- Midi e computer: gestione creativa di software e generatori di suono.
- Tecniche di registrazione: ripresa microfonica di strumenti e voci, registrazione analogica e digitale, Editing.
- Elementi di fonica ed elaborazione del suono
- Aspetti tecnici e organizzativi di una produzione musicale: dall’ideazione alla realizzazione di un Master, pianificazione ed ottimizzazione del lavoro.
- Aspetti tecnici e psicologici del rapporto con le varie figure professionali dell’industria multimediale
- Aspetti legali dell’attività musicale: il diritto d’autore, i diritti degli artisti interpreti esecutori, le Royalties, i contratti etc.


E’ opportuno precisare che tutto ciò è indicativo in quanto il vero fulcro del laboratorio è comunque il rapporto di continua stimolazione che viene a crearsi tra i partecipanti sotto la guida del docente.

- Frequenza: quindicinale
- Durata: 5 ore per ogni incontro (gli incontri sono collettivi)
- Giorno: da concordare
- Numero massimo di allievi: 10 effettivi + eventuali uditori (partecipano come gli altri ma non propongono un proprio progetto originale). Sarà necessario un colloquio di ammissione nel quale sarà valutato un lavoro originale presentato dall’allievo, preferibilmente su supporto audio (CD o altro), oppure su carta.


Il Laboratorio è diretto da Tony Carnevale: per eventuali informazioni visitate il sito http://digilander.libero.it/artonica

Contattare: Saint Louis College of Music – tel 06 4870017