domenica 27 marzo 2005

domenica 27.3 è uscito, con Liberazione

Liberazione della domenica

Ingrao il disobbediente

Otto pagine su
I novanta anni di Pietro
nel racconto Di Gagliardi, Bertinotti, Lombardo Radice, Bassolino, Macaluso, Curzi, De Palma
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PIETRO INGRAO

L'Unità 26 Marzo 2005
Orizzonti
compleanni
I 90 anni di Pietro Ingrao
Storia di un ragazzo che voleva fare il poeta e che il Novecento trascinò al comunismo

Bruno Gravagnuolo

«Sono stato trascinato alla politica rompendo con tanti amori. Volevo fare dei film, occuparmi di poesia. Amavo Chaplin, Leopardi, Ungaretti, Montale. Ed ero tutto proiettato verso quel mondo. Poi è arrivata la bufera del Novecento. Il secolo mi ha preso per il collo e mi ha consegnato alla politica. E andata così e non me ne pento affatto». Sono giorni di vigilia in casa Ingrao. In attesa di mercoledì 30 marzo, allorché il grande dirigente del Pci compirà i suoi primi 90 anni, tra cerimonie ufficiali e l’affetto dei figli suoi e di Laura, «che gli ha insegnò a capire i carcerati». Quei figli rispetto ai quali, confessa divertito, «d’essere senza dubbio e a tutt’oggi più a sinistra». E allora, a distanza di un anno dall’ultima volta (quando parlammo degli 80 anni dell’Unità e di Ingrao «inventore» de l’Unità moderna) torniamo di nuovo a casa sua. Nell’appartamento luminoso di Via Balzani a Roma, tra i dipinti di Vespignani, Chagall e Guttuso, così «in rima» col suo ’900. E per un’occasione ancora più speciale. Perché si tratta di parlare di una vita intera. Delle sue scelte di fondo. Dei crocevia esistenziali. Delle cose fatte bene, e di quelle fatte male o non fatte. E tra le cose ben fatte per Ingrao c’è senz’altro la milizia nel Pci, il partito a cui ha dedicato l’esistenza. Del quale dice: «È stato un grande partito di popolo che ha guidato la Resistenza e ci ha resi più liberi». Benché poi per Ingrao quello stesso partito sia stato «colpevole di ritardi ed errori. Che hanno contribuito alla sua fine nel 1989. E indirettamente anche alla deriva moderata, da cui è uscito Berlusconi». Ma c’è una parola chiave che è la sintesi dell’avventura umana di Pietro Ingrao: comunismo. Ecco, nel festeggiare questo compleanno con lui, vogliamo chiedergli proprio questo, a mo’ di filo conduttore: che senso ha per lui quella parola? Perché non intende abbandonarla? E perchè anzi la rilancia, dopo il crollo di un’intera tradizione? Sentiamo.
Vorrei cominciare da una questione «biografica» ineludibile: il tuo rapporto con il comunismo. Ebbene, la tua recente adesione a Rifondazione è una riconferma, oppure è una revisione del tuo essere comunista?
«Mi pare indubbio che sia una riconferma. Fino a prova contraria Rifondazione si definisce comunista, o no? Del resto non ho mai avvertito dentro di me una rottura con l’ideale e la prospettiva comunista, benché sia convinto di aver commesso molti errori nella mia vita. Così come sono persuaso che il comunismo marxista, leninista e stalinista - quello del ’900 di cui sono figlio - abbia commesso tanti sbagli. Al punto da sfociare in una palese sconfitta storica. Nondimeno io resto legato all’ideale comunista».
Rivendichi piena coerenza con la tua milizia nel Pci, variante del comunismo novecentesco?
«Certo che la rivendico. E tuttavia vedo oggi con chiarezza non solo gli errori commessi dal comunismo leninista, ma anche quelli di cui porto la responsabilità personale...».
Quali furono all’interno del Pci gli errori più gravi e le scelte mancate che rimpiangi?
«Uno su tutti: il 1956. Allora vennnero alla luce i crimini e le deviazioni di Stalin e dello stalinismo. Ma in quel momento mancarono, sia da parte del Pci sia da parte mia, l’autocritica e la correzione necessaria»
Se non sbaglio tu distingi tra leninismo e stalinismo. Ma ravvisi ancora nell’Ottobre 1917 una data spartiacque. Non credi però che già il leninismo contenesse in sé tante tragiche deviazioni?
«Senza dubbio la Rivoluzione d’Ottobre è un grande spartiacque storico mondiale. Culminato nella conquista del potere da parte di due partiti comunisti: sovietico e cinese. E addirittura nella fondazione di un impero. È altresì vero però che l’errore di fondo non sta solo nello stalinismo, ma risiede già nel leninismo. E a tale conclusione sono arrivato tardi, diciamo alla fine degli anni 60. E ci sono arrivato ragionando sulla libertà. Sulla libertà come pratica politica di confronto e di dibattito dentro il partito. Nell’organizzazione leninista infatti, già ai tempi di Lenin, non era prevista libertà di ricerca e di confronto tra posizioni diverse o contrapposte».
Cos’è che a un certo punto hai avvertito come insostenibile: il modello di società? La violenza di partito? La dittatura del proletariato o che altro?
«Da un certo momento in poi tutto ciò ha rappresentato per me un serio problema. Qualcosa di inaggirabile. Anche perché la dittatura del proletariato nella versione di Marx era l’indicazione di una tendenza generale del mondo. Di un processo di socializzazione democratica della politica. Viceversa, nell’accezione leninista e russa, essa conteneva una tara di fondo sulla questione della libertà. Un vizio legato all’oppressione e alla repressione esercitata dal partito concepito da Lenin».
La tua critica investe dunque la Terza Internazionale. Hai mai pensato che si potesse ricostruire un altro filo muovendo da un’altra tradizione, cioè dal socialismo europeo?
«Ci ho pensato, specie dalla seconda metà degli anni 70 in poi. Posso raccontarti a riguardo un episodio preciso, che concerne la mia vita, risalente al 1978-79. Ero stato presidente della Camera sino al termine della legislatura interrotta dalla morte di Moro. In quel frangente viene riconfermato l’impegno per una presidenza comunista della Camera, anche per la legislatura sucessiva. Il partito mi chiede perciò di ricoprire ancora quell’incarico, ma io rifiuto. Ricordo aspre discussioni in direzione, per indurmi ad accettare. Con Pecchioli che si alza e mi intima di obbedire, in nome della disciplina di partito. Tenni duro e dissi ancora di no. Tanti anni dopo ebbi la soddisfazione di sentirmi dire dallo stesso Pecchioli che era stato lui a sbagliare, anche se egli ribadì di non comprendere le ragioni del mio rifiuto. E adesso lo dico a te il motivo. Sentivo il bisogno di rileggere l’accaduto di tutti quegli anni. E la questione che più mi stava a cuore era proprio quella a cui tu alludevi: capire quel che era stato il socialismo europeo. Avvertivo infatti la crisi che attraversava non solo il comunismo europeo, ma anche quello italiano. E volevo capire quanta parte di verità c’era in quel socialismo continentale, che storicamente era stato oggetto di forte condanna da parte del Pci».
Ti interessavano i padri - Kautsky, Bernstein, Adler - oppure i moderni eredi della Spd e delle altre socialdemocrazie?
«Gli uni e gli altri. Con particolare attenzione alla socialdemocrazia di allora: Brandt e Palme prima di tutto. Naturalmente distinguevo tra la destra socialdemocratica e la sinistra. In particolare mi interessava la sinistra giovanile tedesca degli Yusos. Ad ogni modo io rifiutai di ridiventare presidente della Camera, da un lato perché avvertivo l’esigenza di riflettere sui comunismo leninista e stalinista. E dall’altro per riprendere contatto con quelle forze socialdemocratiche con le quali pensavo si dovesse stabilire un rapporto, dopo la sconfitta ormai annunciata e incipiente del comunismo sovietico».
Mentre il Pci rifluisce e s’arrocca nella riproposizione del compromesso storico, tu scopri la Riforma dello Stato. Quello poteva essere un terreno di incontro con i socialisti italiani. E invece...
«I socialisti italiani in quel momento sono Craxi. Tuttavia c’era ancora a quel tempo un socialismo al quale resto molto legato. Quello di Riccardo Lombardi e della sinistra del Psi. Con loro mantenevo un dialogo aperto. Per costruire assieme una saldatura tra culture che avrebbe potuto impedire l’egemonia craxiana. Ma era una realtà, quella del socialismo europeo, con la quale noi del Pci non avevamo un vero rapporto.
Perciò volevo conoscere i tedeschi, gli austriaci, gli svedesi. Per vedere se esisteva un mondo del socialismo con il quale ci si potesse intendere. Ma tutto questo è finito in una sconfitta. Una sconfitta comune».
Veniamo al fatidico 1989. All’anno della svolta Pds che ti ha visto contrario al punto di uscire poi dal partito. Non si poteva anticipare quella svolta? Condizionarla e spingerla in direzione di quel socialismo di cui parlavi? E non è stato infecondo dire soltanto no da parte tua?
«No. Non erano possibili altre strade. Io ho detto di no, ma sono rimasto a lungo nel partito a combattere come minoranza, mentre una parte se ne andava. Occhetto aveva in testa un approdo radicalmente diverso da quello di un partito socialista di sinistra. E non solo lui. Anche D’Alema. Dal mio punto di vista poi i Ds, sebbene aderiscano al socialismo europeo, rappresentano ormai una forza moderata e di centro. Personalmente lo compresi quasi subito. Certo, ho sperato all’inizio che la posizione di D’Alema fosse diversa. Che con lui fosse possibile sviluppare una discussione. Ma ho dovuto rendermi conto che anche lui aveva in mente un modello ben lontano dai partiti socialisti. Insomma, erano e sono molto più moderati di Brandt. E i fatti lo hanno confermato. Meglio prenderne atto. Quanto a me mi riconosco in altri valori. I valori della sinistra, del movimento operaio, della liberazione del lavoro».
E invece, al di là della tradizione, da dove ricomincia per te la sinistra?
«Il partito della Rifondazione al quale mi sono iscritto mi pare rilanci proprio il grande obiettivo della liberazione del lavoro. Quello della lotta contro lo sfruttamento. In nome della riappropriazione da parte dei lavoratori del loro destino e del loro “fare”. Su questo si innesta oggi una grande e ulteriore idealità, che in passato non era così centrale: la pace. Non a caso Bertinotti parla oggi di non-violenza».
La non-violenza senza specificazioni non rischia di cristallizzarsi in qualcosa di mistico e persino di religioso?
«La non-violenza è un definirsi in rapporto alla storia e a quel che siamo stati. Ebbene, il marxismo metteva al centro un’idea di rivoluzione non solo sociale e di valori, ma anche armata di forza. Il potere andava preso materialmente. Con le armi. Di qui il mito di una rivoluzione che si impadroniva dei punti chiave dello stato ed estrometteva i borghesi. C’era in questo un’idea di naturale violenza, ribadita da Marx e poi da Lenin. Oggi viceversa si ipotizza la possibilità di prendere, o meglio, di raggiungere il potere. Senza ricorrere all’urto armato e cioè ad una logica che la mia generazione politica non ha mai escluso dal suo orizzonte».
Eppure già il Pci nuovo di Togliatti non contemplava più la violenza dello scontro armato. Propugnava anzi la via pacifica ed escludeva la violenza rivoluzionaria....
«Non sono d’accordo con te. Tanta parte del quadro comunista nel dopoguerra pensava ancora all’ora X. Almeno fino agli anni 60. Prova ne sia che negli anni 70 è emersa una componente, quella del brigatismo rosso, che aveva addentellati nel Pci...».
Un parentela sovversiva molto alla lontana. Quelli erano gli eredi di un estremismo che fu subito battuto e sconfitto da Togliatti nell’immediato dopoguerra.
«Ma alcuni di quegli estremisti erano comunisti. A Reggio Emilia c’era una quota di brigatisti che provenivano dal ceppo comunista. E poi Togliatti non ha mai detto che il socialismo non si doveva fare con le armi. Trovami una pagina in cui lo escluda in linea di principio. Io stesso, che pure non sono mai stato un estremista, ho pensato a lungo che sarebbe scattato un momento in cui gli altri ci avrebbero costretto allo scontro armato. Del resto non è un mistero come a a più riprese nel dopoguerra ci sia venuto dal partito l’ordine di andare a dormire fuori casa».
D’accordo, il Piano Solo e la strategia della tensione. Ma davvero sostieni che la presa violenta del potere fosse tra gli obiettivi del Pci? Francamente a me non pare affatto.
«Si supponeva seriamente che l’avversario potesse spostare il terreno dello scontro. E la storia ci dà conferma di tentativi e trame di questo tipo. Come che sia, per tornare alla non-violenza, essa vuole esprimere la distanza da un’intera epoca nella quale la violenza era considerata inseparabile dalla politica. Il che non significa che i comunisti debbano starsene inerti a subire la violenza, che non occuperanno più le terre in Brasile, o che non intraprenderanno più azioni organizzate di massa, anche energiche. L’importante - ecco il punto - è disinnescare il rapporto fino ad oggi ineluttabile e necessario tra la politica e la violenza. Un nesso tipico della politica novecentesca, e non solo della politica comunista. Consentimi infine di ricordare che è proprio l’accento messo oggi da Bush sulla guerra preventiva - e sulla violenza necessaria ad affermare i valori e il predominio Usa - a rendere attuale su scala planetaria il tema della non-violenza. In una con i diritti civili, democratici e sociali contro ogni forma di oppressione e di gerarchia imperiale fondata sulla guerra».
Torniamo più da vicino alla tua biografia. Ai Littoriali e al tuo fascismo giovanile, in passato oggetto di polemiche. Come avvenne il tuo passaggio al comunismo?
«Sono stato avanguardista, e poi nei Guf. E ho condiviso almeno una parte dell’ideologia fascista. Scrissi nel 1934 a diciannove anni una poesia, brutta in verità, dedicata alla fondazione di Littoria. E partecipavo del clima di allora. Ma proprio ai Littoriali di Firenze e di Roma conobbi dei coetanei, che mi aiutarono a a rifiutare il fascismo. Vuoi qualche nome? Antonio Amendola, uno dei figli di Giovanni Amendola - nonché fratello di Pietro e Giorgio - che era già un antifascista scatenato. Gli anni decisivi della svolta per me furono quelli tra il 1934 e il 1937, quando a Roma si formò un gruppo di giovani, già antifascisti o divenuti tali da poco. E il capofila era Bruno Sanguinetti, figlio del proprietario dell’Arrigoni, a cui devo molto».
Quando giunse per te il momento preciso della rottura politica col fascismo e su quale punto?
«Con la guerra di Spagna, nel 1936. Quando arrivai alla conclusione che non solo non ero più fascista, ma che intendevo combattere a fondo il regime. Compresi allora la natura violenta, irrazionale e bellicista del fascismo, impegnato a rovesciare la democrazia spagnola. Cambiano così il clima e i discorsi. Prima, con Amendola, parlavamo di ragazze, di libri e di film, girando a piedi in quella Roma e senza una lira in tasca. Dopo, la politica diviene assolutamente centrale. Del resto con Hitler ormai al potere, era iniziata la persecuzione di tanti intellettuali in Germania. Di quelli che amavo di più. Ad esempio stravedevo per Rudolph Arnheim, il grande teorico del cinema, costretto poi ad emigrare. Lo incontravo a Villa Torlonia, alla rivista Cinema diretta da Vittorio Mussolini. Proprio Arnheim mi raccontava della tragedia nazista e contribuì ad orientarmi verso l’antifascismo. Il mio fu un cammino lento. Lungo il quale fui aiutato anche da uomini come Alicata, Trombadori, Bufalini, Lucio Lombardo Radice, già schierati contro il fascismo e che facevano opera di proselitismo e di cospirazione, contro le indicazioni di Benedetto Croce. Quel Croce al quale essi avevano scritto, e che li aveva invitati a studiare. Fu così che anche io divenni un cospiratore».
Cospiratore per amore o per forza?
«Amavo la poesia e il cinema, ieri come oggi. Ho studiato al Centro Sperimentale per un anno. Nato in un borgo di provincia ero appassionato all’espressione estetica, all’incastro delle parole. Poi qualcuno mi ha detto: “non se ne parla, sei nato in un’altro secolo!” Chi? Quei coetanei di cui ti raccontavo. Che mi dicevano: “fai pure le tue poesie, ma non vedi la guerra, quell’operaio sfruttato, quelli che soffrono?” Sono loro che mi hanno tirato dentro la politica, le bufere del secolo e il comunismo»
E a chi ti chiede se ne valesse la pena, visti i tragici prezzi del comunismo, che rispondi?
«Rispondo che malgrado gli errori che lo hanno portato alla sconfitta il comunismo ha evocato la grande questione di questo secolo: la liberazione del lavoro. Ci sono milioni e milioni persone nel mondo che subiscono e soffrono in ginocchio. E liberarle è ancora la questione del mio tempo».

La biografia

Pietro Ingrao è nato a Lenola (Latina) il 30 marzo 1915. Laureato in Legge partecipa all’antifascismo romano ed entra nel Partito Comunista. Lavora alla stampa clandestina de «l’Unità» e ne diviene direttore dal 1948 al 1957. Sposa Laura Lombardo Radice dalla quale ha cinque figli.E della quale parla «Soltanto una vita» (Baldini e Castoldi Dalai) libro a cura della terzogenita Chiara. Membro della segreteria del Pci dal 1956. Deputato per la prima volta nel 1948. Nel 1968 è presidente del gruppo parlamentare Pci. Nel 1972 è responsabile del Coordinamento Regioni della Direzione Pci. Presidente del «Centro per la Riforma dello Stato» è Presidente della Camera dal 1976 al 1979. Non si è più ricandidato dal 1992, dopo essere uscito dal Pds, Autore di saggi di poesia e cinema, e libri come «Masse e potere» (Editori Riuniti) ha aderito a Rifondazione comunista. Tra i libri che parlano di lui, «Le cose impossibili», con Nicola Tranfaglia (Editori Riuniti) e il recente «Pietro Ingrao», a cura di Antonio Gallo, (Sperling & Kupfer).

La febbre di Pietro
la febbre della sinistra
Gianni D'Elia

Pietro commuove, verso di lui si sente solo un moto d’amore. L’affetto verso Pietro credo che sia comune a molti compagni della sinistra italiana, nuova e vecchia. E pare un affetto molto più lungo della diretta conoscenza di Pietro, che per me risale al 1998. Una Festa dell’Unità, a Bologna, dove si parlava dell’attualità della poesia leopardiana. Dirlo in un’Italia così, sembra quasi assurdo. Dietro la nostra Costituzione, che oggi la destra sconcia a quel modo, c’è la grande cultura italiana, umiliata da questa politica vergognosa. Una cultura, che facendo politica, non ha mai dimenticato l’unità dell’essere umano; una cultura che vorrebbe ritornare a contare qualcosa, dentro la politica, a cominciare dall’educazione dei giovani, che devono essere strappati alla idiozia imperante. Ecco, Pietro è stato ed è anche poeta, perché quella sua generazione, e anche quella classe politica d’opposizione a cui appartiene, non ha mai abiurato dall’umanesimo, perché non ha mai abiurato dall’umano, e dalla giustizia umana.
L’alta febbre del fare, così il poeta Ingrao; bastano i suoi titoli illuminanti, dopo questo, che resta un contrassegno dell’azione poetica e politica, disegnate in un’utopia concreta, esistenziale: la condivisione, il comunismo spirituale, sui nodi marxiani di storia e natura, per una liberazione possibile dalla necessità e dal dominio dell’uno su tutti. Questo affetto comune verso di lui, è dunque qualcosa di politico e di poetico insieme; è la nostra cultura migliore, nell’unità del fare e del dire, del trovare, che noi amiamo in lui.
Il compagno disarmato è un trovare ideologico, che ci serve oggi, nella lotta di adesso, come ieri. Per i compagni giovani del decennio dopo il ’68, Ingrao resta la sinistra del Pci, l’alternativa che non c’è stata, il disarmo come antico nodo del suo pensiero politico: il disarmo militare, europeo e mondiale, non certo il disarmo ideologico e organizzativo della democrazia di base, antifascista e repubblicana, non repubblichina!
Il cinema, la poesia, la politica viva, non sono stati forse anche gli amori dei nuovi compagni, dopo Ingrao? Come in una sequenza di Bertolucci, padre e figli, lui è giovane per intuito, per aspettativa, per consonanza con chi è venuto dopo, con gli stessi sogni e le stesse passioni: la pace. Chi ha gridato più forte con la ragione, in questi anni brutti, contro la guerra, sono stati in Italia due poeti diversi: Pietro Ingrao e Mario Luzi. E se altri facessero altrettanto?
Diciamo grazie a Pietro Ingrao, per avere tenuto unite, da sempre, la cultura alla politica, la poesia alla sinistra.
Abbiamo bisogno di entrambe, per sconfiggere i barbari...

Perché lo scontro con Amendola
Reichlin e Macaluso raccontano
b.gr.

Che cos’è stato e che cosa rappresenta oggi Pietro Ingrao, nella percezione e nel giudizio di chi nel Pci lo ha conosciuto bene, e magari anche contrastato, pur dentro un legame fortissimo di fraternità e stima? Lo abbiamo chiesto a due ex dirigenti comunisti, Alfredo Reichlin ed Emanuele Macaluso. Il primo, «ingraiano» di formazione, e redattore capo al tempo de l’Unità di Ingrao. Il secondo di ascendenza amendoliana e riformista, e anche lui come Reichlin ex direttore de l’Unità. Due amici di Pietro, di collocazione e storia diversa, all’insegna della comune matrice togliattiana.
«Ingrao - dice Reichlin - è stato il simbolo di un legame generazionale decisivo, quello tra il partito di Togliatti e una nuova leva di intellettuali italiani nel dopoguerra. In questo senso proprio l’Unità moderna, che lui ha inventato, non più classico giornale di partito, è stata una vera scuola di formazione culturale. Il terreno d’elezione di una classe dirigente per l’Italia, come era negli intendimenti di Togliatti». Un’operazione innovativa e contrastata, che suscitò «gelosie», culminata con l’ingresso di Ingrao in segreteria nel 1956. Perché? «Perché - dice Reichlin - eravamo accusati di essere frivoli, evasivi, di non celebrare l’Urss e di fare un giornale borghese». Ecco, uno come Ingrao non era «un burocrate, ma un grande organizzatore di cultura e di opinione e si vedeva nella passione con cui faceva il giornale». E le sfide politiche di Ingrao? La disfida con Amendola e «l’ingraismo»? «Il punto centrale - spiega Reichlin - fu la battaglia all’XI congresso del 1966 sul “modello di sviluppo”, da cui uscì sconfitto». Lì, oltre a porre la questione della democrazia interna Pietro «pose il problema delle grandi trasformazioni del capitalismo italiano, non più arretrato, come diceva Amendola, ma bisognoso d’essere guidato e governato lungo l’asse di un inedito sviluppo, a partire dai punti alti già raggiunti in quell’Italia in movimento, e che fosse in linea con la modernizzazione necessaria del sistema-paese». Insomma, erano gli anni del centro-sinistra, della nuova classe operaia, dei consumi di massa, del neocapitalismo. E Ingrao per Reichlin intercettava tutto questo, con largo anticipo sui tempi. Ma come? «Proponendo di cambiare il tipo di sviluppo economico, superando i bassi salari, allargando il mercato e il ventaglio dei bisogni, fuori dai rivoli corporativi della protesta, e imprimendo un segno democratico al meccanismo dell’accumulazione». In altri termini, una visione programmatoria di sinistra, dove per Reichlin «era Ingrao il riformista e non Amendola, fermo invece alla arretratezza e alla democrazia mancata in Italia». Queste in sintesi per Reichlin le tre sfide di Ingrao, che restano: «Pluralismo e democrazia interna nel Pci; strategia di alternativa economica; e la riforma istituzionale, un tema che intravide tra i primi, quando il sistema politico italiano entrò in crisi irreversibile». E oggi che cosa manda a dire Reichlin al compagno Ingrao: «Gli mando gli auguri ovviamente, e gli ripeto che sono stato felice quando mi ha inviato un biglietto nel quale, a proposito di un mio articolo sull’Unità, mi scrisse che malgrado tutti i dissensi lui “capisce la mia lingua”. Sì, non siamo d’accordo su nulla oggi, ma ci capiamo. E abbiamo ancora in comune una vecchia passione: cambiare le cose del mondo».
Tocca a Macaluso, che non condivide la visione programmatoria attribuita da Reichlin a Ingrao: «Ingrao fu un’anima chiave del Pci, ma non la sola. E fu forza e debolezza del Pci. Ha attratto infatti verso la legalità il sovversivismo movimentista, ma ha anche infiacchito la vocazione di governo del Pci». E il modello di sviluppo? «Il programmatore era Amendola. Ingrao viceversa contrapponeva al capitalismo un modello alternativo, un po’ come Riccardo Lombardi. La sua ipotesi politica poggiava sull’alternativa secca di sinistra al centrosinistra. E Pietro non accettava la sfida e le possibilità intrinseche al centrosinistra, al contrario di Amendola e di un certo Togliatti». E la democrazia interna al Pci e nel paese? «Fornì a riguardo un grande contributo, ma fu condizionato come tutti noi dal rito dell’unità di partito, come sul Manifesto. Quanto alle riforme istituzionali, le mise a fuoco con merito. Ma il limite fu un impasto di decisionismo e radicalismo democratico». E infine, presente e futuro di Ingrao per Macaluso: «Mi addolora che sia uscito dal Pds. Doveva restare, anche se in minoranza. Ma è un bene che abbia trovato in Rifondazione una comunità politica per esprimersi. Gli auguro con tutto il mio affetto che possa continuare a essere se stesso. A riflettere, e a combattere».

Mercoledì all’Auditorium di Roma una giornata intera in suo onore: da Scola a Castellina, da Veltroni a Lerner
Musica, cinema e poesia, una festa tutta per lui
Francesca De Sanctis


Festa grande all’Auditorium Parco della Musica di Roma per i novant’anni di Pietro Ingrao. Il Comune e la Fondazione Musica per Roma hanno programmato una giornata all’insegna della storia della sinistra e di piccole grandi sorprese. «Auditorium e Comune hanno voluto questa festa perché Pietro Ingrao non è solo una grande personalità della Sinistra italiana, ma una grande personalità della Repubblica italiana ed è stato un grande presidente della Camera dei Deputati in anni molto difficili - ricorda Goffredo Bettini, presidente di Musica per Roma -. D’altra parte la stessa Camera dei Deputati dedica a lui una giornata di studio e di approfondimento. Dunque, era doveroso che il Comune di Roma festeggiasse un uomo che ha combattuto il nazifascismo a Roma». E l’Auditorium Parco della Musica non poteva essere lo spazio migliore per ospitare gli invitati di questa festa. «Per me poi - continua Bettini - Pietro Ingrao è stato molto importante dal punto di vista della formazione politica. Da trent’anni mi lega a lui un’amicizia molto salda, per questo ho detto subito sì a questa festa».
La giornata di mercoledì 30 marzo non sarà formale o istituzionale, piuttosto, come tutte le feste di compleanno, sarà piena di amici che vorranno festeggiarlo. «Sarà un incontro scandito da alcuni eventi, per esempio le testimonianze e gli auguri dei suoi amici e di persone che gli vogliono bene e lo stimano (il sindaco Walter Veltroni, il regista Ettore Scola, Luciana Castellina, Gianni D’Elia, presentati da Gad Lerner, ore 18). Poi, sulla base di una intervista sul cinema che ama Ingrao fatta un paio di settimane fa, faremo un piccolo regalo a Pietro. Da questa intervista abbiamo tratto un breve filmato che gli regaleremo mercoledì in cui Pietro parla degli autori che ha amato, Chaplin in particolare, e in cui ci sono delle immagini di film che cita e delle immagini di Pietro stesso, sarà una sorpresa per lui. Questo è il regalo che il Comune di Roma e l’Auditorium gli faranno per il suo novantesimo compleanno. Il film è realizzato da Mario Sesti».
Toccherà ad un giovane pianista, Michelangelo Carbonara, dare avvio al concerto conclusivo della serata. Eseguirà al pianoforte le musiche che ama Ingrao, quelle di Bach e di Vivaldi. «Un’altra piccola chicca di questa festa riguarda Luca Zingaretti - prosegue Bettini - che ha registrato una lunga lettera inedita scritta da Ingrao nel ’92 in risposta ad un articolo che io scrissi su Paese sera e nella quale tracciavo il profilo politico e intellettuale di Ingrao. Lui mi rispose con una lettera che sarà pubblicata in un libriccino assieme alla mia risposta a quella lettera. È un modo di proseguire quel dialogo iniziato allora». Il libro uscirà mercoledì e s’intitola Una lettera di Pietro Ingrao. Una risposta di Goffredo Bettini (Alberto Olivetti, Cadmo).
«Nel foyer Santa Cecilia - aggiunge Bettini - verrà inaugurata anche una mostra di quadri di Alberto Olivetti ispirati da Ingrao e dipinti a Lenola nell’estate del 1984, nella casa di famiglia. Questi dipinti sono raccolti in un catalogo la cui prefazione è stata scritta da Rossana Rossanda. Infine, nello spazio Risonanze che ci è stato concesso da Santa Cecilia, ci sarà una esposizione a cura dell’Archivio Ingrao con alcuni carteggi inediti di Pietro».
Dalle 17.30, in poi, dunque, la festa prenderà il via con l’apertura delle mostre e proseguirà fino a sera.

LIBERAZIONE: l'ateismo

Liberazione 26.3.05
Dio non è morto.
Una favola non muore mai.
Rivendicare l'ateismo contro il dominio delle religioni.
Un libro di Michel Onfray, filosofo e fondatore dell'Università Popolare di Caen, pone la necessità di un nuovo laicismo

Chiara Ristori

Parigi. Nel paese dell'Illuminismo, inventore della laicità, la parola ateo suscita nuovamente il dibattito. Rivendicare e ripensare l'ateismo, in Francia come in un mondo in cui incessantemente si invoca dio per uccidere il prossimo, giustificare la propria identità o legittimare una missione, significa per alcuni intellettuali militare attivamente contro le guerre di religione che non hanno finito di devastare il nostro tempo. Occorre prendere posizione contro «la miseria spirituale che genera la rinuncia a sé, l'evidenza di un'alienazione». Sono le parole di Michel Onfray, filosofo, fondatore e animatore dal 2002 dell'Università Popolare di Caen. Autore di una trentina di libri nei quali formula un progetto di etica edonista, Onfray ha recentemente pubblicato un Trattato di ateologia, formidabile pamphlet per un ateismo argomentato, co
struito e militante. Un libro di un'efficacia straordinaria e di grande coraggio.

Ma quanti sono, gli atei di Francia? E perché "ateologia" e non ateismo? In un sondaggio ufficiale, pubblicato su giornale La Croix nel dicembre 2004, i francesi sono stati interrogati sulle loro pratiche religiose, senza che "ateismo" figurasse come categoria: 27% degli interpellati hanno potuto definirsi "senza religione", ma non proclamarsi atei. Cioè, etimologicamente e dichiaratamente "senza dio". Prefisso privativo, definizione negativa, Onfray sottolinea come l'ateo sia percepito dai credenti come un individuo «incompleto, amputato, un'entità a cui manchi dio per esistere veramente». Da qui la necessità di recuperare, rifondare il concetto per costruire un'ateismo positivo e rivendicato. Occorre riconciliarsi con un termine per farne la cifra di un impegno. Onfray opta allora per l' "ateologia", neologismo coniato nel 1950 da Georges Bataille, autore della Somme athéologique. E sceglie di iscriversi in un percorso che ha preso inizio nel 1729, allorché il primo ateo dichiarato, non un filosofo ma... un curato, l'abbate Meslier, scrisse nelle Ardenne Francesi il suo testamento, annunciando «dimostrazioni chiare ed evidenti della vanità e della falsità di tutte le divinità e di tutte le religioni del mondo». A Onfray il compito di proseguire la lotta contro «tutte le religioni del mondo», e con esse gli inevitabili integralismi, fondamentalismi, sette, fanatismo, terrorismo.

«I tre monoteismi, animati da una stessa pulsione di morte genealogica, condividono una serie di disprezzi identici: odio della ragione e dell'intelligenza, della libertà, di tutti i libri in nome di uno solo, della vita, della sessualità, delle donne e del piacere, del femminile, del corpo, dei desideri, delle pulsioni. Al posto di tutto ciò, ebraismo, cristianesimo e islam difendono la fede e la credenza, l'ubbidienza e la sottomissione, l'inclinazione per la morte e la passione per l'aldilà, l'angelo assessuato e la castità, la verginità e la monogamia, la sposa e la madre, l'anima e lo spirito. La vita crocefissa ed la celebrazione del non essere...». Onfray denuncia l'operato di coloro che in nome della propria angoscia esistenziale personale si arrogano il diritto di gestire le anime ed i corpi altrui, coloro che tentano di risolvere la pulsione di morte che li tormenta deviandola sul mondo e contaminando l'universo. Coloro che organizzano il mondo per se stessi e per gli altri in conseguenza di una «patologia mentale personale», che volendo evitare la negatività, la diffondono e finiscono per generare epidemie mentali. La religione è un sotterfugio, e dio è stato fabbricato dagli uomini per scongiurare la nostra paura della morte, per rendere possibile il nostro quotidiano cammino verso la morte. Ma non si può far morire dio. E' necessaria un'alternativa.

Se in filosofia, alla fine del XIX° secolo, con l'affermarsi del razionalismo, dei progressi scientifici e della psicoanalisi, ci fu un tempo l'epoca della "morte di dio", la nostra, secondo Onfray, sarebbe piuttosto quella del suo ritorno. Perché «dio non è né morto né moribondo-contrariamente a quanto pensano Nietszche e Heine.» Dio non è mortale, poiché «una finzione non muore». Un'illusione non decede mai, una fiaba per bambini non può essere confutata. Al bisogno di favole che riempiano una funzione consolatoria Onfray oppone la filosofia, come già lo fecero Seneca, Marco Aurelio ed Epicuro, sul modello dei grandi saggi del mondo antico: la santità è irragiungibile e genera frustrazioni, il pensiero e la saggezza no. A riprova, L'Università popolare di Caen, dove Onfray anima da tre anni lezioni aperte a tutti, a testimonianza di come ateismo non sia nichilismo, al contrario. Non credere in dio non significa non credere a nulla. «Non sono contro i miti, sono contro il fatto che ci si creda (...) Creiamo dunque dei miti federatori, fabbrichiamo favole, comprese quelle politiche, musicali, letterarie, ma soprattutto, non crediamoci!».

L'assoluta impossibilità di credere in dio, quando non si creda più alle fiabe, quando si sia veramente adulti, è ribadita anche da Salman Rushdie, uno dei numerosi intellettuali ad intervenire nel dibattito, fra i quali Michel Guerin, autore di un La pitié, Apologie athée de la religion chretienne edito da Actes Sud, e Régis Debray che pubblica per Fayard Les communions humaines, Pour en finir avec la "religion". Esprimendosi sull'argomento nelle colonne di Libèration con un editoriale dal titolo esplicito "La religione, cattiva consigliera di Stato", Rushdie lancia una veemente esortazione affinché i singoli rilevino la sfida lanciata dallo «spettro vociferante e oppressivo» della religione, quella stessa «ombra spettrale» che sedici anni fa scatenò la fatwa contro di lui, e che oggi ci minaccia tutti. Se Rushdie non evoca a nessun momento il concetto di ateismo, ma preferisce parlare di «laicità europea», il suo messaggio resta non di meno esplicito, e la sua posizione inequivocabile. «La verità è che, ovunque la religione sia al potere, è la tirannia che si insedia, l'inquisizione, i talebani». Oltre questa affermazione perentoria, Rushdie avanza «l'argomento supremo in favore della laicità» (Onfray direbbe dell'ateologia), che in italiano suonerebbe: «Non credo in dio, perché non credo nella fata dai capelli turchini...».

Ed è precisamente in merito di ateismo e laicità che divergono le posizioni di Rushdie e Onfray. Rushdie ribadisce che sia giunto il momento di mettere in guardia l'opinione pubblica contro la perdita di quei principi di laicità che dovrebbero presidiare ogni democrazia degna di questo nome: «Attualmente in America qualsiasi individuo - uomo o donna, omosessuale, di origine afro-americana, ebrea - può ambire ad accedere ai più alti gradi della funzione pubblica. Ma un ateo dichiarato non avrebbe assolutamente la minima probabilità di essere eletto». E analizza tale situazione ricordando come, storicamente, il Secolo dei Lumi per gli Stati Uniti non abbia segnato la rottura col pensiero religioso, ma al contrario un momento di slancio verso la fede, l'inizio di fuga verso la libertà di culto del Nuovo Mondo.

In Europa le cose dovrebbero andare diversamente, l'Illuminismo ha segnato un momento fondatore dell'ateismo, facendo della ragione e del pensiero filosofico un'arma contro le «favole consolatorie». Onfray ci richiama a questa realtà storica, e ci esorta ad andare oltre la laicità, in quanto il pensiero laico non sarebbe un pensiero decristianizzato, ma una cristianità nell'immanenza, in cui la quintessenza dell'etica giudeo-cristiana persisterebbe sotto le false spoglie di un linguaggio razionale. «Lavoro, Famiglia, Patria, santa trinità laica e cristiana...». Onfray ci invita a combattere il relativismo laico per il quale tutto è equivalente, tutte le religioni le credenze i pensieri si valgono - ma non valgono forse tutti allo stesso modo - invocando un'ateologia che ci riconcili con la vita, il piacere, la gioia, e non neghi nulla della vita, neppure il tragico dell'esistenza. Il filosofo raggiunge allora l'autore dei Versetti satanici che, a sollecitare la responsabilità individuale nella lotta, riporta un'affermazione siderante di James Joyce: «Non ci sono né eresia né filosofia che esasperino la chiesa quanto un essere umano».

Marco Bellocchio
a lui sarà dedicato l'Evento Speciale del prossimo Festival di Pesaro

ANSA ME25-MAR-05 14:35
CINEMA: 40 ANNI MOSTRA PESARO CON BELLOCCHIO, COREA E ERICEA PESARO DAL 25 GIUGNO AL 3 LUGLIO, FONDATA DA LINO MICCICHE' (ANSA)

PESARO, 25 MAR - Il cinema coreano contemporaneo, più una personale di Jang Sun-woo, una retrospettiva del regista spagnolo Victor Erice, il cinema finlandese, l' Evento Speciale dedicato a Marco Bellocchio. Sarà così l' edizione 2005 della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema Pesaro Film Festival in programma dal 25 giugno al 3 luglio. La manifestazione, fondata nel 1965 da Lino Miccichè e Bruno Torri, e diretta da Giovanni Spagnoletti dal 2000, sinonimo di scoperta di cinematografie emergenti e di riscoperte e riletture di filoni cinematografici, festeggia i suoi primi 40 anni, con la possibilità di consultare il database del festival sul sito www.pesarofilmfest.it. Il punto sulla vasta attività' della mostra sarà fatto anche nel volume ''40 anni di Nuovo Cinema'', a cura di Bruno Torri ed edito da Marsilio. In programma ''Cinema in piazza'', otto proiezioni serali a cielo aperto nella piazza principale di Pesaro di film in anteprima nazionale, che coniugano qualità e capacità di rivolgersi ad un vasto pubblico. Quanto alle sezioni principali, con la personale di Jang Sun-woo, classe 1952, famoso anche in Europa per Passage to Buddha e Lies, presentato a Venezia nel 1999, la rassegna pesarese apre una panoramica sulla cinematografia coreana, che nel 1992, proprio a Pesaro, ebbe la sua prima importante vetrina europea. Una retrospettiva completa, in collaborazione con Instituto Cervantes e ICAA, è dedicata a Victor Erice (El espiritu de la colmena, considerato uno dei piu' importanti film spagnoli di tutti i tempi, El sur e El sol del membrillo, premio Fipresci a Cannes). La sezione sul cinema finlandese contemporaneo, con un occhio particolare all' opera documentaristica e musicale di Mika Taanila, è realizzata in collaborazione con il gruppo di produzione e distribuzione Kinocar. Continua inoltre, dopo il successo dello scorso anno, la nuova sezione a concorso (5.000 Euro al vincitore) che offrirà una selezione di film provenienti da tutto il mondo sempre all'insegna del nuovo cinema. Da quest'anno, il premio sarà dedicato alla memoria di Lino Miccichè, morto il 30 giugno 2004. Una selezione delle sezioni principali della Mostra pesarese verra' ospitata all' interno della manifestazione ''I grandi festival'' nell'arena di Piazza Vittorio a Roma, nel luglio 2005.
Sarà infine dedicato a Marco Bellocchio l' Evento Speciale curato da Adriano Aprà, co-organizzato con la Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia-Cineteca Nazionale: una retrospettiva completa dell'opera di Bellocchio, due volumi monografici (uno fotografico) e una tavola rotonda. L'evento si concluderà con un riconoscimento della città di Pesaro al regista, che verrà consegnato nella serata conclusiva del "Cinema in Piazza".(ANSA).

hanno detto...

La Stampa 27 Marzo 2005

«LA fede è una grande forza spirituale, che garantisce al credente la sua integrità psichica. Ma io sono un medico, a me interessa guarire il prossimo. La fede, da sola, oggi non ha più, per certe persone, un potere terapeutico. Il mondo moderno è desacralizzato, e questa è una delle ragioni per cui è in crisi. L’uomo moderno deve perciò trovare altrove, nel suo profondo, le sorgenti della propria vita spirituale, e per trovarle deve individualmente lottare contro il male, confrontarsi con l’Ombra, integrare il demonio. Non c’è altra scelta.

CARL GUSTAV JUNG: Intervista a Mircea Eliade, 1952
in Jung parla (Adelphi 1995).

sani e normali i bambini concepiti in provetta
...e a proposito di staminali embrionali

Corriere della Sera Salute 27.3.05
PEDIATRIA
Figli della provetta, ma sani come gli altri

I bambini concepiti in provetta nascono sani, crescono in modo normale e non sono affatto svantaggiati rispetto agli altri. A rassicurare è uno studio internazionale coordinato dalla Royal Free and University College Medical School di Londra. I controlli medici e i test neuropsicologici effettuati all'età di 5 anni, non hanno messo in luce alcuna differenza tra i bambini per quanto riguarda l'intelligenza, le capacità di ragionamento, il linguaggio, le capacità motorie e altri aspetti dello sviluppo neurologico e comportamentale. Indipendentemente dal paese in cui erano nati.
Che cosa significa
La fecondazione assistita, quale sia la tecnica che viene impiegata, non aumenta il rischio di malattie, malformazioni, deficit cognitivi e di sviluppo nei bambini. All'età di 5 anni non ci sono differenze tra i bimbi concepiti in provetta e quelli concepiti naturalmente.
In pratica
Un dato che può rassicurare chi ha fatto ricorso o intende far ricorso alla fecondazione assistita, e che smentisce i risultati di recenti ricerche che avevano messo in allarme molti aspiranti genitori.
Importante è che i piccoli vengano seguiti normalmente con i dovuti controlli e che non si presti ossessiva attenzione al fatto che sono stati concepiti in provetta.

Corriere della Sera Salute 27.3.05
Staminali embrionali
Una tecnica di laboratorio le rende sicure


Una soluzione che rende improvvisamente tutto più facile. Robert Lanza, mago americano dell’ingegneria dei tessuti della Advanced Cell Technology di Worcester, negli Stati Uniti, è riuscito a mettere a punto una matrice proteica in cui far crescere bene in laboratorio le cellule staminali embrionali. Il lavoro che dimostra il successo di questa strada - dopo sei mesi le cellule mantengono tutta la loro potenzialità di svilupparsi in uno dei 220 tipi di tessuto presenti nel nostro organismo - è stato pubblicato di recente dalla rivista Lancet. La metodica sperimentata da Lanza risolve il problema che si era creato con la scoperta che le linee staminali embrionali esistenti non potrebbero essere destinate all’uso terapeutico nell’uomo.
I fattori di crescita d’origine animale che hanno reso possibile la loro espansione in laboratorio le ha contaminate con virus potenzialmente lesivi per noi. Non solo: la commistione uomo-animale ha fatto anche sì che le cellule ospitino una proteina estranea che, in caso di trapianto, potrebbe scatenare fenomeni di rigetto. Lo ha dimostrato uno studio pubblicato nel gennaio scorso sulla rivista "Nature Medicine" da ricercatori dell’Università della California e del Salk Institute di La Jolla.

capacità giuridica

La Stampa 27 Marzo 2005
GIUDICATO CAPACE DI INTENDERE E VOLERE IL BARISTA CHE COLPÌ LA DONNA DAVANTI ALLE FIGLIOLE
Uccise la moglie perché voleva lasciarlo

E’ stato giudicato capace di intendere e volere Pasquale Luongo, il barista che lo scorso settembre uccise la moglie a forbiciate sotto gli occhi delle piccole figlie. Accadde a Nichelino, in un alloggio di via Torino 48. Dietro l’angolo del bar che l’uomo gestiva e che il padre gli aveva aperto con il denaro della liquidazione, dopo essersi licenziato dalla Fiat proprio per quel motivo. Al perito nominato dal giudice Claudio Ferrero, lo psichiatra Elvezio Pirfo, l’uxoricida ha parlato spesso della gratitudine verso la figura del padre. «Io non avevo voglia di studiare, grazie a mio padre avevo potuto metter su famiglia». Lo specialista ne ha dedotto che il genitore prese sulle sue spalle le responsabilità del figlio, appianandogli le difficoltà della vita finché gli fu possibile. E quando Pasquale si è trovato di fronte alla volontà della moglie di separarsi ha vissuto la sua prima vera sconfitta. Per Pirfo, l’omicida ha una personalità debole e dipendente: un uomo che accumulava aggressività e di fronte al primo vero muro della vita l’ha scaricata contro quel muro, rappresentato dalla moglie.
«Ho rovinato la vita mia e delle mie figlie», ha ripetuto Pasquale Luongo allo specialista. Non gli hanno fatto più incontrare le due bambine che videro tutto e cresceranno, diventeranno donne, vivranno la vita adulta con quell’ultimo ricordo della mamma, agonizzante nel sangue, colpita al ventre, al collo, più volte.
Le piccole sono state affidate ai nonni materni, sono seguite e curate con amore. Nel procedimento penale i genitori e la sorella di Deborah Narcisi, la vittima, hanno deciso di costituirsi e all’incidente probatorio di venerdì si sono fatti assistere dai legali Paolo Chicco e Cristina Rey. L’avvocato Anna Ronfani è stato nominato dal tribunale curatore delle bambine.
Dieci anni fa Pasquale, allora di 27 anni, aveva messo incinta Deborah che non aveva nemmeno 17 anni. Si sposarono in gran fretta. Scovare un secondo uomo, dopo l’omicidio, è stato banale. «La verità - dice adesso l’avvocato Chicco - è che Luongo uccise la moglie quando si trovò di fronte a qualcosa di più del fantasma della separazione: la lettera dell’avvocato di lei che gli comunicava l’avvio della causa».
Pirfo indica anche «tratti di impulsività» presenti nella personalità di Pasquale ma, senza l’anamnesi dei rapporti dell’uomo con la famiglia d’origine e in particolare con il papà, apparirebbe ancora più brutale e cieco il gesto di un uomo scagliatosi contro la moglie davanti alla proprie figlie. Per finirla a forbiciate. Toccherà ora al pm Eugenia Ghi chiudere l’inchiesta e all’avvocato Aldo Albanese, difensore dell’uxoricida, aggrapparsi all’idea di un uomo

l'onesto Sirchia e la depressione

Il Gazzettino Domenica, 27 Marzo 2005
SALUTE
Un Piano contro una malattia in costante crescita, ne sono affetti un milione e mezzo di adulti e sei bambini su mille

Dopo il fumo, Sirchia dichiara guerra alla depressione

Roma; «Voglio arginare il diffondersi della depressione, che è una malattia in costante crescita. Si diffonde in maniera preoccupante in tutte le fasce d'età, tra gli anziani, che sono più fragili da un punto di vista psicologico, tra gli adulti e tra i bambini». Dopo il fumo, è questa la nuova battaglia che il ministro della salute, Girolamo Sirchia vuole intraprendere contro «la malattia oscura», difficile da individuare inizialmente e gravosa da curare quando diventa conclamata.
«Non vi sono ancora spiegazioni scientifiche - osserva il ministro - purtroppo la causa della depressione non si conosce e per questo diventa difficile da curare e i motivi del suo manifestarsi possono essere i più diversi, la competizione estrema, l'influenza dell'ambiente, un fattore genetico, perché si tratta di una malattia ereditaria, come il diabete o il cancro. La nostra società -avverte Sirchia- non offre sufficienti certezze per vivere sereni. In un mondo più ricco e più comodo di un tempo, l'uomo è più infelice di una volta».
In Italia sono un milione e mezzo gli adulti che soffrono di questa malattia, mentre circa il 10\% della popolazione ne ha sofferto almeno una volta. Per non parlare dei più piccoli: sono affetti dal "male di vivere" 6 bambini su mille, e il 13\% degli adolescenti incontra difficoltà nell'apprestarsi alla vita che li attende. «Di fronte a questo cospicuo numero di depressi - afferma Sirchia - ci siamo preoccupati e abbiamo voluto che il governo approntasse un piano, che coinvolgesse più ministeri, mirato alla prevenzione e alla diagnosi precoce della patologia. Per ora abbiamo costituito tre gruppi di lavoro che dovranno redigere le linee guide per le tre categorie maggiormente a rischio di depressione, bambini e adolescenti, donne, anziani».
Per i bambini saranno coinvolte le scuole e si confida nella collaborazione degli insegnanti che sarà essenziale per identificare comportamenti-sintomo della depressione, ossia in perticolare la solitudine e l'introversione. Psicoterapia di gruppo sarà fatta per aiutare i bambini a liberarsi dei problemi e non a interiorizzarli, cosa pericolosissima per il loro futuro. «Se la malattia non viene riconosciuta - avverte il ministro - può evolvere in un comportamento anomalo che peggiorerà nell'adolescenza e in età adulta sino ad arrivare alla schizofrenia». Per le donne, la causa principale che conduce alla depressione è la competizione portata all'eccesso, la donna che non riesce a stare al passo con i canoni di bellezza è assalita da uno stato d'ansia che sfocia in disturbipiù gravi,per molte altre invece è una alterazione ormonale sopratttto dopo il parto e a volte dutrante la menopausa. Il progetto si preoccupa di organizzare sedute di psicoterapia di gruppo durante la gravidanza per insegnare alle signore a prepararsi ai nuovi compiti e ai nuovi carichi psicologici.

subito una legge

Corriere della Romagna 27 marzo 2005
“Subito una legge contro il plagio psichico”

Rimini - Due lettere, con altrettanti appelli, al presidente della Repubblica Ciampi e ai capigruppo dei partiti in Senato, per sollecitare al più presto il varo di una legge contro il plagio. Le ha scritte il presidente del Favis, associazione che raccoglie le famiglie con persone vittime di sette, il riminese Maurizio Alessandrini. Anche a nome di altre associazioni analoghe, Alessandrini ricorda, a Ciampi e ai gruppi in Senato, che l’Italia ha stigmatizzato le torture inflitte, dai soldati americani, ai prigionieri di guerra irakeni. “Ma non meritano altrettanta attenzione - chiede Alessandrini - i nostri familiari, quotidianamente sottoposti allo scempio delle proprie coscienze e menti attraverso pratiche di manipolazione psicologica, talvolta affiancate all’uso di droghe e sostanze psicotrope?”. Di qui la richiesta di varare, al più presto, una legge contro il plagio.

la Costituzione e il 60º anniversario della Liberazione

Corriere della Sera 27.3.05
«25 Aprile anti-riforma», opposizione divisa
La proposta in lettere all’Unità e Liberazione.
Bertinotti: difendo la Costituzione, ma basta polemiche

Monica Guerzoni

ROMA - Tricolore alle finestre e tutti in piazza, a Roma, contro lo «scempio» della Costituzione nata dalla Resistenza. E non in un giorno qualunque, ma il 25 Aprile, sessantesimo della Liberazione. L’appello è partito dal basso, dai lettori, dai vecchi partigiani, dai tesserati ed è approdato nelle segreterie dei partiti. La sinistra radicale si mobilita. I riformisti sono più cauti, ma difficilmente, vista l’onda verde, bianca e rossa che invade le caselle di posta dei quotidiani di sinistra, potranno tirarsi indietro. «Sarà il primo appuntamento per rinnovare unitariamente l’impegno dei cittadini a difesa di quella libertà di bandiera, di uguaglianza e di giustizia che si chiama Costituzione» hanno scritto i partigiani dell’Anpi al quotidiano del Prc, Liberazione . «25 aprile, tutti a Roma a difesa della Costituzione nata dalla Resistenza» è l’appello inviato da un diessino di Bologna alla rubrica Cara Unità . La pagina delle lettere del quotidiano fondato da Gramsci e diretto da Antonio Padellaro è a senso unico, chi invita a riempire «i balconi d’Italia con i tricolori e la scritta "salviamo la Costituzione"» e chi le bandiere vorrebbe listarle con un grande nastro nero, Italia a lutto .
Fausto Bertinotti richiama alla memoria i versi di Pietro Calamandrei,
se voi volete andare
in pellegrinaggio
nel luogo dove è nata
la nostra Costituzione
andate nelle montagne
dove caddero i partigiani
nelle carceri dove furono
imprigionati, nei lager
dove furono sterminati ...
«Un anniversario solenne come quello dei 60 anni ci chiede di andare alle radici della Repubblica - riflette il segretario di Rifondazione - la cui fonte è la Resistenza, è la Costituzione». Il 25 Aprile Bertinotti manifesterà con questo spirito, ma che la festa non diventi una mobilitazione contro la maggioranza: «Antifascismo, Resistenza e difesa della Costituzione sono un unico processo politico, però basta polemiche». Anche il direttore di Liberazione , Piero Sansonetti, scenderà in corteo, ma lascerà a casa il tricolore: «Non mi appassiona, meglio la bandiera della pace».
La sinistra-sinistra, insomma, ci sarà. Il verde Alfonso Pecoraro Scanio chiama alla protesta nazionale, propone una settimana di iniziative in tutta Italia (dal 25 Aprile al Primo Maggio) in difesa della Costituzione e dei diritti dei cittadini e sprona l’Unione di Prodi a riempire le piazze. «Visto lo scempio che il governo Berlusconi sta compiendo, l’idea di mobilitare gli italiani il giorno della Festa della Liberazione mi pare utile e dovremo esserci tutti». Col tricolore listato a lutto? «Ma no... C’è ancora il referendum, la battaglia non è persa».
Il 60° del 25 Aprile contiene in sé il valore della difesa della Costituzione, quindi manifestare contro la riforma della Cdl «è legittimo» ragiona il presidente dei deputati della Margherita, Pierluigi Castagnetti. Purché si stia alla larga da forzature: «Tra la lotta di Liberazione e la Carta dei padri costituenti il legame è strettissimo, ma non possiamo disperdere la possibilità che anche chi combatteva dall’altra parte riconosca il valore della Resistenza». Dario Franceschini è più cauto. Per il coordinatore del partito di Francesco Rutelli la battaglia contro la riforma della seconda parte della Carta dev’essere la più dura possibile, ma l’opposizione deve stare attenta a non impoverire la ricorrenza fondante della democrazia: «Il 25 Aprile è la festa dell’unità nazionale e non può diventare la festa di metà Paese».
Trasformare il 60° della Liberazione nel lancio del referendum abrogativo sarebbe un errore, concorda Vannino Chiti, ma poiché la segreteria Ds è preoccupata, la Quercia rilancerà il tam-tam della base: «Sì a una manifestazione contro lo sfregio della Costituzione. Non al posto del 25 Aprile, ma dentro alle celebrazioni del 25 Aprile» . Il riformista Ds Peppino Caldarola non diserterà il corteo, ma invita all’accortezza. «Evitiamo la chiamata a raccolta contro la dittatura, non trasformiamo la battaglia referendaria nello scontro tra una destra che vuole innovare la Carta alla carlona e una sinistra che non vuole cambiare nulla». Radicalizzare va bene, ma sui contenuti , perché altrimenti il campo si restringe e il parlamentare diessino la battaglia in difesa della Costituzione vuole vincerla.
La leader dei Repubblicani europei Luciana Sbarbati, infine, bacchetta l’Unione: «Si può fare, si deve fare ed è anche tardi. Sono due anni che denuncio, da sola, l’attacco che mira alla Corte Costituzionale - lamenta l’unica donna leader della federazione dell’Ulivo -. La Carta è stata messa nel cassetto anche dal centrosinistra, perché non è stata insegnata nelle scuole. Non dobbiamo aspettare la vigilia del referendum per combattere questa battaglia...».

L'Unità 27 Marzo 2005
Una norma inserita nel decreto «omnibus» dà il via libera ai finanziamenti, bloccati per mesi e mesi in commissione Difesa
I 60 anni della Liberazione: via libera ai fondi
Nedo Canetti

ROMA Le organizzazioni partigiane e combattentistica avranno i contributi organizzativi e finanziari per celebrare degnamente il 60esimo Anniversario della Resistenza e della Guerra di Liberazione. Lo prevede una norma, inserita, sottoforma di emendamento, nel decreto cosiddetto «omnibus» (perché assembla decine di interventi nei campi più disparati), convertito definitivamente in legge dal Senato. Si è scelta questa strada dell'emendamento (presentato da diversi senatori del centrosinistra, primo firmatario, Luigi Marino, PcdI), perché il ddl, presentato un anno fa da senatori di tutti i gruppi, esclusa An (primo firmatario, Gianni Nieddu, Ds), era rimasto bloccato per mesi in commissione Difesa. Anche quando la commissione aveva dato il «via libera» per l'aula, si era, un'altra volta, impantanato alle soglie dell'approvazione, con la giustificazione, da parte della maggioranza, della mancanza di tempo (si doveva occupare tutto quello a disposizione per la devolution), in verità perché il centrodestra era intenzionato ad esprimere sì un voto favorevole, ma contemporaneamente al ddl sul riconoscimento come «belligeranti» dei repubblichini di Salò.
Infatti, il governo che, fino al giorno prima aveva congelato il ddl sul Sessantennale, con la scusa della mancanza di fondi, li trovava immediatamente, al momento in cui la stessa commissione Difesa varava per l'aula le norme su Salò. Protestava fermamente il centrosinistra. Era lo stesso presidente dei Ds al Senato, Gavino Angius, a farsi portavoce, in assemblea, di questa protesta. Intanto, però, si avvicinava la data del 25 aprile, senza che la legge riuscisse ad avere il disco verde di Palazzo Madama. Considerando che, di questo passo, e dovendo poi il testo passare ancora all'esame della Camera, si è scelta la scorciatoia dell'emendamento, ora approvato. Stabilisce che le Associazioni combattentistiche e partigiane, d'intesa con il ministero della Difesa, sono autorizzate a preparare ed organizzare manifestazioni celebrative ed iniziative storico-culturali sul piano nazionale ed internazionale per il 60° della Liberazione. Avranno un contributo di 3 milioni e 100 mila euro.
Inizialmente, il programma prevedeva un impegno per il triennio 2004-2006, che dovrà ora essere modificato almeno cronologicamente. Soddisfazione hanno espresso il presidente del PcdI, Armando Cossutta, che ha ricordato il contributo del suo partito al buon esito dell'iniziativa e il diessino Antonio Pizzicato, firmtario dell'emendamento. Entrambi hanno sottolineato l'importanza di essere riusciti a far approvare il provvedimento prima del 25 aprile e di averlo sganciato dalla «corsia parallela» del ddl su Salò.

brevi dal web 25 marzp 05

Yahoo!Salute
L'insulina agisce riducendo i sintomi depressivi
venerdì 25 marzo 2005, Il Pensiero Scientifico Editore

La resistenza all’insulina potrebbe essere una difesa contro la depressione intervenendo nella circolazione degli acidi grassi liberi e nel rilascio della serotonina nel cervello. Questo hanno sostenuto due lavori pubblicati da due differenti gruppi, uno finlandese e uno inglese, rispettivamente nel 2002 e nel 2003 su riviste internazionali accreditate. Ma secondo uno studio pubblicato sull’ultimo numero del British Medical Journal i pazienti insulino resistenti non hanno un incidenza e una gravità minore dei sintomi depressivi. Lo studio è stato condotto da un gruppo di epidemiologi dell’Università di Bristol coordinati da Debbie Lawlor.
A questo studio è stata mossa una critica di natura metodologia che ne fa vacillare la struttura stessa: i dati relativi ai sintomi depressivi sono stati raccolti esclusivamente tramite questionario e non attraverso un’analisi clinica approfondita dei pazienti. Questo approccio, secondo i sostenitori della relazione organica tra resistenza all’insulina e sintomi depressivi, sarebbe superficiale e, nonostante i numeri dello studio, lo renderebbero debole. Nonostante l’andamento contraddittorio dei risultati relativi a queste pubblicazioni, il messaggio che gli stessi autori del lavoro lanciano è quello di perseguire nello svolgere ricerche di questo tipo, soprattutto per cercare di comprendere meglio gli aspetti organici delle sindromi depressive.
Alla negazione della correlazione i medici sono giunti analizzando dei dati raccolti con il “Caerphilly study”, in quattro differenti fasi, dal 1979 al 1997. Nella prima fase dell’analisi, dal 1979 al 1983 sono stati arruolati 2512 pazienti maschi di età compresa tra i 45 e i 59 anni. A ciascuno di loro è stato fatto il prelievo del sangue e la resistenza all’insulina dei partecipanti allo studio è stata valutata tramite la glicemia e l’insulinemia. Nelle successive tre fasi dello studio, ciascuna della durata di cinque anni, i medici hanno somministrato ai volontari un questionario in modo da valutarne eventuali sintomi depressivi. L’analisi dei risultati evidenzia che la resistenza all’insulina non è correlata in alcun modo con i sintomi della depressione: i due elementi sono indipendenti l’uno dall’altra.

Fonte: Lawlor DA et al. Insulin resistence and depressive symptoms in middle aged men: findings from the Caerphilly prospective cohort study. BMJ 2205;330:705-6.

clarence.supereva.com 25/MAR/05 - 13:37
ALZHEIMER: STUDIO ITALIANO, RISCHIANO DOPPIO UOMINI CON DEPRESSIONE ALLE SPALLE

Roma, 25 mar. (Adnkronos Salute) - Gli uomini con una storia di depressione alle spalle rischiano il doppio di sviluppare, con l'eta', demenza e in particolare Alzheimer. I maggiori pericoli riguardano però gli uomini ex depressi, e non le donne. E' quanto emerge da uno studio italiano realizzato dall'università Campus Biomedico di Roma e dall'Associazione Fatebenefratelli per la Ricerca che ha esaminato il legame tra depressione e sviluppo di demenza, in particolare di Alzheimer, in 1.357 persone monitorate per un periodo di 14 anni, in uno studio sull'invecchiamento. A 49 donne e 76 uomini del campione sono state diagnosticate delle demenze, fra cui 40 casi di Alzheimer nelle donne e 67 negli uomini. E i ricercatori italiani hanno potuto osservare, incrociando i dati su demenza e Alzheimer a quelli sui sintomi depressivi, rilevati ogni 2 anni con strumenti standard, un rischio di malattia doppio negli uomini con una storia di depressione alle spalle rispetto a quelli che non avevano mai sofferto del ‘male oscuro', indipendentemente dalla presenza di malattie vascolari. ''Il legame tra depressione e Alzheimer - spiega Gloria Dal Forno, ricercatrice del Campus Biomedico, fra gli autori dello studio - differisce tra gli uomini e le donne. Del resto sappiamo che il cervello maschile e femminile presenta differenze anatomiche e funzionali ed è esposto diversamente agli ormoni nel corso della vita, ormoni sessuali che hanno effetti sia sulla depressione che sull'Alzheimer. Di conseguenza - prosegue la ricercatrice - il cervello maschile e femminile potrebbe reagire diversamente ai fattori di rischio di una malattia, ed è proprio ciò che sembra emergere dalla nostra ricerca''. (Ile/Adnkronos Salute)

ilmessaggero.it 25 marzo 2005
Depressione, più facile curarsi
Addio migrazioni, Foligno ora ha una sua struttura psichiatrica
di GILBERTO SCALABRINI

FOLIGNO - La depressione ha assunto anche nel nostro territorio una forma ”epocale”, soprattutto in mezzo ai giovani. Purtroppo, i confini tra nevrosi e psicosi sono così labili che emergono in maniera generica e frettolosa. Nel 2003, sono stati 202 i pazienti. Nei reparti di Perugia e terni hanno trovato posto solo 53 malati. Gli altri 149 sono dovuti ”emigrare” in strutture extraregionali. Un grave disagio per i familiari e un costo di 600.000 euro. Da ieri si è voltato pagina. Presso il nuovo ospedale (sarà pronto alla fine della prossima estate) è stato aperto il nuovo servizio psichiatrico di diagnosi e cura. Dispone di 12 posti letto e si avvale di 4 medici psichiatrici, 2 psicologi, 15 infermieri e 12 operatori socio-sanitari. Accoglierà pazienti in ricovero volontario o in trattamento sanitario obbligatorio. Il reparto è molto bello, perchè sono stati usati colori dai toni luminosi. Anche l’arredamento è fuori dallo stile del vecchio nosocomio. Ci sono poi i quadri, realizzati dalla accademia di Belle Arti di Perugia. Il direttore generale della Asl, Walter Orlandi, ha spiegato i motivi di tanto comfort: «qui è la mente ad essere recuperata e non un arto». Il taglio del nastro è toccato alla governatrice dell’Umbria, Maria Rita Lorenzetti, la quale ha sottolineato come la qualità degli spazi sia in stretto rapporto con la dignità umana. «In Umbria -ha detto- non esistono cittadini di serie A o di serie B. Nonostante i tagli, gli impegni assunti sono stati realizzati, con ulteriori investimenti in attrezzature e personale. La nostra sanità ha i conti in ordine e quindi andiamo avanti nella riorganizzazione della rete ospedaliera».
Il responsabile del Cim, Giuseppe Raponi, ha messo poi il dito sulla piaga: «Questo reparto chiude un periodo di difficoltà e apre prospettive reali. E’ l’unico reparto del centro Italia con una articolazione reale, fra impegno clinico durante la fase acuta della malattia e la predimissione o prosecuzione della cura. Un’altra caratteristica è il rapporto fra la psichiatra e le altre aree specialistiche dell’ospedale».
Un ringraziamento a nome di tutte le famiglie che hanno vissuto momenti di confusione e disperazione per trovare un posto letto al proprio familiare negli ospedali di Perugia e Terni, è venuto dalla rappresentante della associazione ”Liberi di essere”. «Un anno fa -ha raccontato- siamo andati a sollecitare la Regione, affinchè si realizzasse una struttura così importante. La promessa è stata mantenuta».
Infine, sono satte consegnate le borse di studio agli allievi della cattedra di pittura del professor Sauro Cardinali.

ilmessaggero.it 25 marzo 2005
LORD BYRON, Schumann, Beethoven, Balzac, ...
di J. L. PIO ABREU

LORD BYRON, Schumann, Beethoven, Balzac, Hemingway, William Faulkner, Virginia Woolf, Althusser, Edward Munch, Paul Gauguin, Antero de Quental. Avete mai sentito parlare di qualcuno di questi geni? Bene: soffrivano tutti di psicosi maniaco-depressiva, e l’associazione tra questa malattia e la genialità non è affatto una coincidenza. La psicosi maniaco-depressiva (che ora chiamano con il nome idiota di “disturbo-bipolare”) non è soltanto la malattia del genio: è anche una malattia che conferisce una creatività geniale. Disilludetevi però. Per arrivare a tanto bisogna far parte di una famiglia toccata dal fuoco, secondo la felice espressione di Kay Jamison, che soffriva dello stesso disturbo.
Probabilmente si tratterà di una famiglia illustre, visto che questa malattia favorisce l’ascesa sociale. (...)
Se aprite un libro sulla psicosi maniaco-depressiva, troverete un catalogo di teorie che descrivono diversi neurotrasmettitori, i quali attivano svariati ricettori e così via, una roba molto complicata. E’ vero che il tutto serve a capire il funzionamento dei farmaci e magari a incentivarne la vendita. Ma detto tra noi, che siamo più interessati all’incentivazione della malattia che non alle pasticche, la questione è abbastanza semplice. In una parola quello che conta è disorganizzare i ritmi del vostro corpo.
Non c’è bisogno che questo tipo di problema vi affligga sin dall’infanzia. Al contrario, quel fuoco che alligna nei vostri geni può fare di voi bambini brillanti, creativi e dinamici. Quello che si dice una persona di successo. Il difficile è prevedere per quanto tempo durerà, dal momento che la ricchezza di spirito non è eterna. Tutto sta nel sapere aspettare la prima depressione, che può sopraggiungere a 15 o a 70 anni, dipenderà molto dalla vostra vita affettiva, dal vostro inserimento sociale o dalla vostra professione.
Per arrivare ad avere questa malattia mi azzardo a darvi un consiglio: “conducete una vita sfrenata”, ma soltanto a partire da una certa età. Se infatti conduceste una vita molto ben strutturata e piena di responsabilità, con orari da rispettare, compiti da portare a termine, pasti regolari, sveglia sempre alla stessa ora, rischiereste di non scombinare mai il vostro orologio biologico e di non accorgervi delle vostre inquietudini profonde. Eppure è proprio quanto dovrete fare durante la vostra infanzia e giovinezza, in modo da crearvi un’immagine di successo e una personalità sana e dinamica, riconosciuta come tale dalla vostra cerchia di amici e parenti, tutti disposti ad appoggiarvi e a scusare qualche vostra piccola eccentricità. In questo modo tutto andrà per il meglio e quando inizierete ad avere problemi dovranno tutti riconoscere che è a causa di una malattia. Se al contrario cominciaste a scatenarvi troppo presto, iniziereste facilmente a commettere fesserie, passereste attraverso una serie di droghe, avreste difficoltà a costruirvi un’identità e al massimo potreste aspirare a una diagnosi di “personalità borderline”. Fin troppo banale, con i tempi che corrono.

una sventurata legge del Parlamento indiano

una notizia ricevuta da Francesco Troccoli

Il Parlamento indiano ha definitivamente approvato la legge che ostacola la produzione di farmaci "low-cost". Per MSF è un gravissimo passo indietro per la lotta all’Aids e alle altre malattie nei Paesi poveri.
(23/03/2005)

Roma/New Delhi, 23 marzo 2005 – Il Parlamento indiano ha approvato oggi una legge che – così come imposto dall’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) - introduce nel Paese i brevetti sui farmaci. Medici Senza Frontiere (MSF) lancia un allarme: la nuova legge impedirà a milioni di persone malate nei Paesi più poveri di avere accesso a farmaci economici e di qualità, a partire da quelli contro l’Aids.
Il testo è stato approvato nonostante la mobilitazione degli attivisti di tutto il mondo: dall’India, all’Africa alla Francia.
"La legge ridurrà drasticamente o impedirà alle industrie farmaceutiche indiane di continuare a produrre ed esportare farmaci salvavita economici verso i Paesi più poveri", dice Ellen T’Hoen, responsabile legale della campagna per l’accesso ai farmaci di MSF.
Negli anni scorsi l’India ha giocato un ruolo essenziale nella produzione di farmaci generici di qualità ed economici da esportare nei Paesi in via di sviluppo. L’India è anche stata il Paese leader nel dibattito sulle barriere all’accesso ai farmaci provocate dai brevetti nell’ambito del WTO e ha sempre difeso la necessità di fare in modo che le norme internazionali sui brevetti farmaceutici non ostacolassero la tutela della salute pubblica.
Ma, in quanto membro del WTO, a partire dal 2005 l’India ha l’obbligo di rilasciare brevetti ventennali sui farmaci. "Purtroppo – aggiunge Ellen T’Hoen - la nuova legge indiana non fa pieno uso delle clausole di salvaguardia previste dallo stesso WTO per alleviare almeno in parte gli effetti negativi dell’introduzione dei brevetti a tutela della salute pubblica".
La vita di milioni di persone che nel mondo dipendono dai farmaci indiani per potersi curare è così in pericolo.
Il caso dei farmaci contro l’Aids è l’esempio più eclatante del ruolo vitale svolto dalle industrie farmaceutiche indiane. L’OMS stima che nei paesi in via di sviluppo almeno 6 milioni di persone hanno urgente bisogno di terapie anti-retrovirali contro l’Aids. Oggi solo 700mila persone hanno accesso alle terapie antiretrovirali contro l’Aids: a circa il 50% di loro vengono somministrati farmaci indiani. MSF eroga le cure a 25.000 pazienti in 27 Paesi nel mondo; il 70% ricevono farmaci "made in India".
Prima che i farmaci antiretrovirali indiani fossero largamente disponibili sul mercato internazionale (2001) le terapie per i malati di Aids costavano 10mila $ l’anno per paziente, 40 volte di più del prezzo delle terapie indiane che oggi MSF acquista in media per 250$ l’anno per paziente. I produttori indiani sono anche stati i primi a realizzare le formulazioni "tre in uno" che permettono ai pazienti di assumere solo due pillole al giorno, invece delle 6-12 necessarie con i farmaci occidentali: questa semplificazione ha rivoluzionato il trattamento dell’Aids nei Paesi più poveri.
La realizzazione delle formulazioni "tre in uno" è stata possibile solo grazie al fatto che in India non erano in vigore i brevetti sui farmaci. In assenza dei brevetti è stato infatti possibile combinare 3 principi attivi in una sola pillola.
Con l’approvazione della legge indiana tutti i nuovi farmaci saranno coperti da brevetto e la fonte di farmaci "low-cost" si esaurirà.

homeless a Roma

SENZA DIMORA 12.0424/03/2005
Redattore Sociale
Uomo, tra i 30 e i 45 anni, italiano nel 31,51% dei casi, con alle spalle esperienze di alcolismo, droga e disagio mentale: questo l'identikit degli homeless nella capitale tracciato dalle associazioni che li incontrano e li sostengono

ROMA – Età compresa tra i 30 e i 45 anni, prevalentemente di sesso maschile e italiano nel 31,51% dei casi con esperienze di alcolismo, droga e disagi mentali: questo l’identikit degli homeless nella capitale, il cui numero è cresciuto notevolmente secondo le associazioni che li incontrano, che evidenziano allo stesso tempo la chiusura di molti centri diurni per mancanza di fondi. Questo uno dei dati allarmanti emersi nel corso della conferenza “Insieme si può”, organizzata nei giorni scorsi al Teatro Verde dalla Caritas della XXX Prefettura e dall’associazione “La Speranza’’, in collaborazione con il Coordinamento del Volontariato del XVI Municipio. Ne dà notizia il periodico telematico www.vocidivia.it, che si occupa dei fatti di cronaca, politica, attualità del Municipio XVI di Roma. "Il Comune di Roma per motivi di bilancio si è visto costretto a chiudere una serie di piccoli centri diurni - ha spiegato la Presidentessa della Commissione dei Servizi Sociali, Cristina Maccone - ma con il progetto di aprirne di più grandi. Nonostante questa carenza di fondi si è cercato di fronteggiare l’emergenza freddo di queste ultime settimane con dei camper dove prima venivano rifocillate con un pasto caldo le persone in difficoltà per poi avviarle, grazie ad un computer, al primo centro di ricovero disponibile”.
La cooperativa “Il Grande Carro”, con sede a Donna Olimpia, cerca di aiutare le persone in difficoltà creando un’impresa economica senza fini di lucro. “Dal 1996 – ha ricordato Ilario Volpi, presidente della cooperativa – ci occupiamo di manutenzione del verde, ristrutturazioni, ristorazione, fornendo 80 pasti al giorno per le mense di alcuni centri diurni, catering, buffet, convegni e cene a domicilio”. La particolarità di questa “impresa sociale” è che più della metà dei soci lavoratori sono pazienti dai 20 ai 60 anni dei Centri di Igiene Mentale, con un passato di ricoveri e di visite, alcuni dei quali affetti da depressioni gravi e schizofrenia. “Tutti i soci sani – dichiara Volpi – pongono particolare attenzione all’operato dei loro compagni meno fortunati e non abbiamo mai avuto nessun tipo di problema”.
Don Stefano Meloni, rappresentante della Caritas Diocesana, ha riferito che con 50mila euro ha trasformato l’oratorio di una chiesa in refettorio e dormitorio per le persone in difficoltà; alla gestione di tale centro contribuiscono numerose altre parrocchie del XIV e XV Municipio. (lab)
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