venerdì 19 marzo 2004

a Termini

una segnalazione di Marco Pizzarelli

"SGUARDI AL FEMMINILE" A TERMINI

L'Ala Mazzoniana della Stazione Termini ospita fino al 28 marzo la rassegna "Sguardi al femminile": film, cortometraggi, libri, mostre d'arte, incontri e retrospettive sulle donne, frutto del lavoro di "Etruria Cinema". La rassegna, completamente gratuita, esplora il ruolo e i meriti della donna nella società attuale. Tre i momenti principali della manifestazione: la mostra fotografica "Uomini" di L. Ferro - dove una donna mette a 'nudo' dal suo punto di vista il mondo maschile - , un documentario inedito su Anna Magnani e gli incontri con le vincitrici della seconda edizione del premio "Etruria Cinema", con a seguire - ogni sera a partire dal 22 marzo - proiezioni di film e documentari dalle 19 in poi. La serie di proiezioni si conclude il 26 con "L'ora di religione" di Marco Bellocchio, cui farà seguito "Piera e gli assassini", dialogo tra Piera Degli Esposti e Dacia Maraini condotto da Oliviero Beha. Per maggiori informazioni, 06-7218691.

schizofrenia pesce elettrochoc

una segnalazione di Sergio Grom e di Paolo Izzo

Venerdì di Repubblica 19.3.04
Depressi? Provate con un po' di salmone

O con le acciughe, le trote, le sardine. Tutti alimenti ricchi di Omega-3 che spazzerebbero via i sintomi. Ma c'è anche la cura con la luce, del sonno, dei campi magnetici... Addio pillole? Il futuro è la bioterapia?
di Anna Capelli


Combattere la depressione senza ricorrere a farmaci e psicanalisi? Secondo lo psichiatra francese Davíd Servan Schreiber, docente all'Università di Lione e in quella statunítense di Pittsburgh, è possibile. Nel mesi scorsi il suo libro (Guérir le stress, l'anxieté et la dépression sans médicaments ni psychanalyse, pubblicato in Italia da Sperling & Kupfer con il titolo Guarire, pp. 306, euro 17) ha suscitato non poche polemiche oltralpe. Ma anche l'interessamento della comunità scientifica. Una delle tesi sostenute da Servan Schreiber, e cioè che gli acidi grassi omega-3 abbiano effetti antidepressivi, è stata presa in considerazione in un convegno sulle terapie anti-invecchiamenio e la biontologia (una nuova disciplina che studia la relazione tra salute psichica e fisica) svoltosi qualche settimana fa a Merano. E al San Raffaele di Milano da gennaio si sta sperimentando su una quindicina di pazienti affetti da depressione proprio una terapia a base di omega-3.
«La scienza ha dimostrato che questi grassi, fondamentali per la fluidità delle membrane cerebrali, diminuiscono del 60 per cento l'incidenza dell'Alzheimer», dice Servan Schreiber. «Tra i popoli che consumano più pesce, come i giapponesi, la depressione post-parto è da 3 a 20 volte inferiore a quella dei paesi occidentali. Le riserve di omega-3 sono nettamente superiori nei soggetti normali che in quelli depressi. E, soprattutto, poche settimane di trattamento con olio di pesce modificano la struttura stessa del cervello e riducono fortemente i sintomi legati allo stato depressivo».
Ma quanti ornega-3 ci vogliono per I spazzar via la depressione? «Perché i siano efficaci è necessario assumerne quotidianamente almeno 2 grammi di olio concentrato di pesce, integrando l'alimentazione con vitamina E, C e selenio, per evitare l'ossidazione degli omega-3 nell'organismo», suggerisce lo psichiatra francese. Ma chi vuole puntare sulla prevenzione può anche limitarsi a modificare le proprie abitudini alimentari, aumentando il consumo di pesce, in particolare di quello che vive in acque fredde, ricco di grassi: salmone, trota, sgombro, acciughe, sardine.
Tuttavia gli omega-3 sono solo una i delle strategie anti-ansia suggerite da Servan Schreiber. Per rimuovere le tracce di traumi e di eventi dolorosi del passato, che spesso condizionano lo stato emotivo, lo scienziato suggerisce per esempio l'Emdr, una tecnica che consiste nel muovere con regolarità davanti agli occhi del paziente una bacchetta, in modo che il suo sguardo vada da destra a sinistra come se seguisse una partita di tennis. «In pochi minuti», dice Servari Schreiber «i movimenti oculari, dei tutto simili a quelli della fase Rem dei sonno, inducono la riattualizzazione e il superamento dei traumi. I risultati sono spettacolari: dopo tre sedute, l'80 per cento delle persone non presenta più sintorni».
Troppo bello per essere vero?
Non proprio. Un approccio al trattamento della depressione aperto al contributo di metodi naturali e di tecniche inconcepibili fino a pochi anni fa caratterizza anche il dipartimento di psichiatria dell'Ospedale San Raffaele di Mílano, diretto dal professor Enrico Smeraldi. «Nel nostro centro per i disturbi dell'umore», dice Smeraldi, «applichiamo con successo la terapia della privazione di sonno: il paziente rimane sveglio per 36 ore, ha una notte di recupero, poi ricomincia per tre volte l'alternanza di veglia prolungata e di sonno. Spesso tre sedute sono sufficienti per ottenere il miglioramento o la risoluzione del problema, attraverso una stimolazione della serotonina più veloce di quella ottenibile con un farmaco».
Molto probabilmente agisce sui neurotrasmettitori che trasportene la serotonina anche la light therapy che si applica al San Raffaele da quando ci si è accorti di una strana anomalia. «II nostro reparto ha alcune stanze esposte a est e altre esposte a ovest», spiega Smeraldi. «Conteggiando i giorni di degenza, abbiamo notato che i pazienti ricoverati a est venivano dimessi in media quattro giorni prima degli altri. L'unica differenza era la luce cui erano esposti. Di qui l'idea di usare la luce come terapia. Il paziente compila un questionario, in base al quale si stabilisce qual'è l'ora del giorno in cui è più ricettivo e, al momento stabilito, rimane in una stanza per trenta minuti, a distanza ravvicinata (un metro, un metro e mezzo) rispetto a una luce verde. I risultati sono ottimi».
Nello stesso centro si applica da un anno e mezzo anche la Tms, o stimolazione magnetica transcranica. «È un metodo indolore e non invasivo», dice Adelio Lucca, del Dipartimento di psichiatria del San Raffaele. «Nei depressi gravi si registra una minor irrorazione sanguigna della corteccia cerebrale e un diminuito consumo di glucosio. Noi, applicando per pochi secondi un campo magnetico, produciamo una stimolazione elettrica delle cellule corticali, che riequilibra il metabolismo e ha un effetto antidepressivo». Un po' come accadeva con l'elettrochoc. «Il principio è lo stesso», dice Lucca, «ma la pratica è del tutto innocua. E dà risultati eccellenti dopo una o due settimane di trattamento, con risposte analoghe a quelle degli antidepressivL Noi siamo l'unico centro in Lombardia autorizzato a praticare elettrochoc, ma, grazie alla Tms, siamo passati da 30 elettrochoc all'anno a uno».
E gli omega-3 prescritti al suoi pazienti da Servan Schreiber funzionano? «Dopo aver letto il libro, abbiamo deciso di sperimentarli anche noi», risponde Lucca. «Da 3 mesi un gruppo di pazienti segue una dieta che comprende capsule di omega-3, anche se questo non significa escludere i farmaci. È comunque troppo presto per sapere se gli acidi grassi sono davvero efficaci». Insomma, questa commistione tra tecnologie di punta e terapie dolci non trova opposizione tra gli psichiatri italiani. E nemmeno tra gli psicoanalisti. «Era tempo che s arrivasse a una riconsiderazione degli approcci terapeutici», dice Gherardo Amadei, professore di psicopatologia dello sviluppo all'Università Cattolica di Milano. «Forse queste sono davvero le terapie del futuro». Che Servan Schreiber, tra l'altro figlio del fondatore del settimanale francese L'Express, abbia davvero inaugurato l'età dell'ex-stress?

L'opinione di Giovanni Battista Cassano: nei casi gravi serve
Ma lo psichiatra va controcorrente: meglio l'elettrochoc


«I RISULTATI Di METODI NATURAU come la light therapy sono modesti, nulli quelli degli omega-3 e tutti ancora da dimostrare quelli della stimolazione magnetica. Ma l'efficacia delle teraple ellettroconvulsivanti sulle depressioni gravi è largamente provata». Giovanni Battista Cassano, direttore dei Dipartimento di psIchiatria dell'Università di Pisa non usa mezzi termini. Ma l'elettrochoc non era stato abbandonato? «Da noi mai. Abbiamo conservato una teralpia salvavita per i depressi con propositi sulcidi o resistenti al fannaci, per le psicosi acute o le ferma manlacail gravi. D'altra parte se la si udlìzza per combattere Parldnson o epilessia nessuno è contrario». Non è rischlosa? «Molto meno dei farmaci. L'anestesia totale è breve e gli effetti collaterali si limitano ad amnesie tranaltorie. Ma i oentri che la praticano sono pochiesimi, per cui Il 90 per conto dei pazienti arriva da altre regioni». Tutto bene, dunque? No, perché uno studio pubblicato due mesi fa sull'americano Journal of Clinical Psychiatry parla di un tasso elevato di ricadute: 27 pazienti su 30 trattati, nel giro di un anno. «Le ferma gravi si ripresentano qualsiasi sia la terapia impiegata. Ma molti, dopo un ciclo di eiettrochoc, stanno bene per 5 o 10 anni», dice Cassano. (ac.)


MARCO Bellocchio a New York

Ansa 18-MAR-04 19:32
Cinema: a New York una settimana dedicata a Bellocchio


(ANSA)-NEW YORK, 18 MAR- Da 'Pugni in tasca' a 'Buongiorno notte': da domani, per oltre una settimana, New York ripercorre la carriera di Marco Bellocchio. Un tributo cinematografico organizzato dalla Brooklyn Academy of Music in collaborazione con l'Istituto Italiano di cultura. La rassegna, per i promotori, intende rendere omaggio a "uno dei registi italiani di maggior talento, piu' rispettati e impegnati socialmente".

scambio di persona?

Repubblica 19.3.04
QUELLE COSE CHE NON RIFAREI
intervista a Piergiorgio Bellocchio

Fortini ci smosse con una bella lettera
Con Grazia Cherchi l'intesa era perfetta
Vent'anni fa chiudeva "Quaderni Piacentini". Ecco il bilancio autocritico del fondatore
di SIMONETTA FIORI


Piacenza. Tutto, apparentemente, è come vent´anni fa. Piergiorgio Bellocchio con la sua faccia da ragazzo appena invecchiato, classe 1931, febbrile e irrequieto, molte sigarette, malmostoso verso il mondo intero, a cominciare da se stesso. L´eremo è quello piacentino, non la mitica sede di via Poggiali dove si facevano i Quaderni - ora una sorta di casa-biblioteca dove l´ex direttore conserva i suoi "oggetti smarriti", libri ormai introvabili - ma un affollato condominio a cinque minuti dalla stazione, perché «in un´Italia che s´è arricchita sono tra i pochi che si sono impoveriti». Della nobile e un po´ altezzosa famiglia culturale piacentina - Fortini, Cherchi, Fofi, Berardinelli e tanti altri - il più coerente ed appartato: un lungo silenzio interrotto da rigorose collaborazioni giornalistiche, da alcuni libri raffinati (Dalla parte del torto, Eventualmente, L´astuzia delle passioni) e nel 1985 dalla rivista Diario, scritta interamente da lui e da Berardinelli. «Avrei voluto titolarla Prima di crepare: mi parve di eccedere nel pessimismo, in realtà non lo fui abbastanza».
Tutto, apparentemente, come prima. L´ultimo numero dei Quaderni piacentini usciva nel 1984 e ora il convegno promosso "a vent´anni dal funerale" vuole mantenerne l´impronta: niente autocelebrazioni, sobrietà grafica nella locandina, i "padri storici" confusi ad anonimi relatori sotto i trent´anni, così come nei primi numeri della rivista gli inediti di Bertolt Brecht erano mescolati alle poesie di Vico Paveri, ferroviere di Piacenza. Squilla il telefono, sono figli e nipoti dei Quaderni Piacentini, fili spezzati che si riannodano, amici ritrovati. Un´avventura generazionale, ma anche un romanzo famigliare: una rivista che per oltre un ventennio - 1962-1984 - ha inciso su umori, gusti, inclinazioni della "nuova sinistra".
All´origine ci fu il suo incontro con Grazia Cherchi.
«Sì, Grazia: anche lei di Piacenza, anche lei borghese benestante e anche lei intellettuale irrequieta. L´avevo conosciuta nella seconda metà degli anni Cinquanta, lettrice onnivora e fervorosa. Anch´io all´epoca leggevo un libro al giorno, ma soltanto sdraiato sul letto: oggi m´addormenterei».
Cosa vi legava?
«C´era confidenza, amicizia, collaborazione. Un´intesa lieve, nutrita d´affetto: la ricordo allegra e quieta fino all´ultimo, nonostante gli esiti della Tac. Eravamo complementari, ci si capiva. Anche nella direzione dei Quaderni Piacentini: era bravissima nel coltivare i rapporti con i collaboratori, un autentico talento, che poi avrebbe sviluppato nell´editoria».
E lei, Bellocchio?
«No, io mi stufavo. Dinanzi al collaboratore riottoso, subito m´arrendevo. Non so psicologizzare. Preferivo occuparmi di cose pratiche, campo in cui Grazia non eccelleva. Contabilità, distribuzione, spedizioni: mi ricordo ancora i tagli nelle mani a furia di far pacchi».
Una rivista anomala: senza una redazione, ma con una felice tradizione conviviale.
«Jon Halliday, un caro amico inglese, diceva che la nostra era una rivista fondata sui pranzi. Ospitavamo spesso anche Giovanni Pirelli, che in fondo ci era grato: eravamo gli unici a non chiedergli soldi».
E poi c´erano i fratelli Bellocchio.
«Ero il più grande. Quando mio padre morì mi ritrovai capofamiglia, giovane e avventuroso. Marco frequentava il centro sperimentale di cinematografia, Alberto era sindacalista della Cgil e Antonio faceva il magistrato. Con i beni di famiglia decisi di finanziare i Quaderni Piacentini - i primi due numeri tra il marzo e l´aprile del 1962 - e poco dopo il film di Marco, I pugni in tasca: pensavo che ciascuno avesse diritto di giocarsi le sue chances. Mio padre era un avvocato colto e di grande liberalità: non gli sarebbe dispiaciuto».
Con quali ambizioni fondaste la rivista?
«Volevamo pungolare, rompere, creare nuovi linguaggi, noi interpreti d´un marxismo critico che mescolava la scuola di Francoforte con il materialismo di Sebastiano Timpanaro e l´originale riflessione di Cesare Cases. Fummo una voce rilevante della "nuova sinistra", indagavamo i fermenti oltre confine, anticipammo il Sessantotto. Erano anni drammatici e fervidi. L´Italia stava cambiando faccia. E sulla scena internazionale c´era la guerra algerina, la decolonizzazione in Africa, la nuova sinistra americana, la rivoluzione cubana, il Vietnam. Abbiamo certo fatto errori, preso qualche abbaglio. Non ci siamo mai fatti molte illusioni sul sistema sovietico, per questo abbiamo investito troppo sulla Cina: drammaticamente sbagliando».
Prima ancora l´incontro con Fortini: burrascoso l´epilogo, ma fecondo il sodalizio.
«Con Grazia e i miei fratelli, alla fine dei Cinquanta, avevamo fondato un circolo a Piacenza, Incontri di cultura, a cui parteciparono intellettuali di ispirazione eterogenea, Ernesto De Martino ed Enzo Paci, Danilo Dolci e Carlo Bo. Venne soprattutto Franco Fortini, con cui si stabilì un rapporto importante, centrale».
Lettera agli amici piacentini, scritta nel 1961, è un´ideale introduzione ai Quaderni.
«Soltanto in seguito Franco volle darle quel titolo, perché forse siamo stati quelli che meglio l´avevano compresa e messa a frutto. Eravamo in pieno boom economico, anche in Italia s´affermava l´industria culturale. Fortini ci invitava a resisterle, rimanendo estranei all´"imbestiamento collettivo". Bisognava scegliere tra "progresso neocapitalistico, elettronico, riformistico" e "ricerca della verità": il primo portava "scatti di stipendio, volumi di filologia, premi letterari"; la seconda procurava integrità morale. Scegliemmo questa seconda».
Ma questo radicalismo non fu una scelta sbagliata? Tra gli errori della nuova sinistra non ci fu anche l´assoluta refrattarietà alla cultura riformista?
«Sì, ci fu un certo eccesso nel criticare il centro-sinistra e il suo programma di riforme. Soltanto in seguito avrei recuperato l´anima liberalgobettiana da cui poi discendo: negli anni Cinquanta ero vicino ai radicali di Pannunzio. Il nostro atteggiamento si rivelò impolitico, anche nella successiva demolizione del Pci. Non capivamo allora che occorre essere sì intransigenti nel modo di chiedere, ma non bisogna domandare la luna: Matteotti, che pagò il proprio rigore con la morte, era un socialista di destra».
Voi volevate cambiare il mondo.
«Il nostro è stato un peccato di ingenuità: credevamo che fosse possibile un salto più lungo. L´entusiasmo intorno a Kennedy, Krusciov, il Concilio Vaticano II, ci sembrava una melassa indigesta. O forse eravamo troppo preoccupati di venire meno a certi principi. In conclusione, siamo stati abbastanza miopi: ma di presbiopia è piena la vita».
Alcune vostre rubriche entrarono nella leggenda, come Libri da leggere, libri da non leggere.
«Non sono orgoglioso di quella rubrica, che avrebbe richiesto maggiore cautela. Buona l´idea originale, che però non era nostra ma dei surrealisti».
E il seguito?
«Finimmo per stroncare libri che non avevamo letto come la Lolita di Nabokov o La vita agra di Bianciardi: errori colossali. Presto divenne un tiro al bersaglio, ma non sempre la mira era giusta. E c´è chi ne porta ancora le ferite: Enzo Siciliano non mi ha mai perdonato. Attaccammo anche il Gruppo 63, ma in fondo a Sanguineti o a Guglielmi non dispiaceva essere della partita. Ricordo ancora le lettere rabbiose di chi si sentiva escluso: dai libri da leggere ma anche dai libri da non leggere».
Stroncavate mostri sacri come Moravia, Pasolini, Eco.
«Sì, tuttavia non siamo mai stati maramaldi. Ho bocciato Il nome della rosa perché era brutto, non perché avesse successo. Ma non ho avuto particolari problemi con Eco: il vero guaio sono gli echiani, i suoi seguaci».
Eravate spocchiosi?
«Sì, un po´ arroganti. La parola giusta è iattanza, ostentazione di presunte sicurezze».
Altre autocritiche?
«Pur essendo la meno dottrinaria tra le riviste politiche di allora - toglievo tutte le citazioni di Marx dalla testata degli articoli - oggi mi piacerebbe trovare qualche inchiesta in più e qualche teoria in meno».
Siete stati accusati di ritardo nel denunciare le derive terroristiche del movimento.
«Obiezione ingiusta: la rivista rappresentò una voce di moderazione rispetto alle istanze rivoluzionarie. Eravamo la destra dell´estrema sinistra. Cercavo tuttavia di comprendere le cause del terrorismo. Il mio era un atto d´accusa verso una classe dirigente incapace».
Parole molto aspre, forse troppo. E oggi?
«Non ho più le parole».
Rimpianti?
«Forse in questi anni avrei potuto scrivere di più. Ma se anche molti altri avessero seguito il mio esempio, vivremmo meglio. Meno oberati da carta inutile».

UN CONVEGNO
LA TRIBÙ SNOB DELLA SINISTRA


A VENT´ANNI dalla morte, un convegno sui Quaderni piacentini che si propone una chiave critica: Ridefinire la politica, sabato, al Teatro de Filodrammatici a Piacenza. La giornata è dedicata alla memoria di Grazia Cherchi. Vi partecipano alcuni dei padri nobili e dei collaboratori - Bellocchio, Fofi Berardinelli, Luca Baranelli, Carlo Donolo, Marcello Flores, Marco Revelli - mescolati a giovani studiosi curiosi di quella esperienza: i più antichi s´interrogheranno sull´oggi, i giovani sulla rivista. Un´occasione per ripercorrerne la storia: i primi due fascicoli uscirono nel marzo e nell´aprile del 1962: tiravano circa 250 copie e costavano cento lire. L´impronta di novità proveniva dai commenti sociali: tra i collaboratori - oltre ai direttori Bellocchio e Cherchi - figurano Fortini, Giovanni Giudici, Fofi, Edoarda Masi, Mario Isnenghi, Alberto Asor Rosa. Il salto di qualità a partire dal 1965: tra i contributi più rilevanti, Un colloquio con Ernesto De Martino di Cesare Cases, la rassegna di Renato Solmi su La Nuova sinistra americana, più tardi Considerazioni sul materialismo di Timpanaro, e poi il saggio Contro l´Università di Viale. Le pubblicazioni cessarono nell´84.

il manoscritto di Dino Campana

Repubblica, ed. di Firenze 19.3.04
Aggiudicato all'asta con 213 mila euro il manoscritto de "Il più lungo giorno"
L'Ente Cassa ce l'ha fatta, Campana torna a Firenze

Il documento sarà accessibile a tutti in una biblioteca, forse la Nazionale
Speranza: "È andata bene, prezzo esorbitante, non avremmo potuto salire"
di MARA AMOREVOLI


AGGIUDICATO a Firenze. Alla sua città. E al pubblico di studiosi e bibliofili che vorranno consultarlo. Il manoscritto de «Il più lungo giorno» del poeta Dino Campana è stato acquistato ieri all´asta dall´Ente Cassa di Risparmio per 175 mila euro. Il lotto numero 20 con il prezioso documento è stato battuto alle ore 15.15 nelle sede romana della Casa d´aste Christie´s: silenzio in sala mentre in collegamento telefonico da Firenze c´è Edoardo Speranza, vicepresidente dell´Ente Cassa incaricato della trattativa. La base d´asta è 150 mila euro. Parte la contesa. Dura pochissimo: due soli rilanci, uno di un privato presente in sala che si ferma subito e lascia campo libero alla banca fiorentina. Che infine se lo aggiudica a 175 mila euro. Anzi a 213.425 euro, diritti d´asta compresi precisano da Christie´s.
«Ce l´abbiamo fatta, non è andata male - tira un sospiro di sollievo Speranza - il prezzo era esorbitante e non avremmo potuto seguirlo oltre i 200 mila euro. Ora siamo contenti di questa nuova acquisizione per la città, che pur restando di nostra proprietà, sarà affidata ad una importante biblioteca pubblica, a disposizione degli studiosi. E quanto prima comunicheremo a chi darlo».
Si complimenta per il lieto fine dell´operazione anche il poeta Mario Luzi: il primo a dare l´allarme per la possibile dispersione privata del piccolo e preziosissimo quaderno in cui Campana annotò i suoi celebri versi, sia pure meno intensi dei futuri «Canti orfici». «Sono davvero felice che resti di proprietà pubblica e quindi fruibile. E poi a Firenze, il luogo ideale - afferma Luzi - Quanto a dove collocarlo, il posto di perentorietà è la Biblioteca nazionale centrale. più del Gabinetto Vieusseux, della Fondazione Primo Conti, dove è vero che sarebbe in compagnia di altri scritti di Papini e Campana, ma è situata un po´ fuori mano. Nulla è paragonabile alla Biblioteca nazionale. Che dire, se non che sono contento che in questa città non ci siamo spogliati anche di queste penne?».
L´acquisizione era in parte già certa. Dopo che il documento ritrovato nel 1971 era rimasto per anni in custodia nelle mani di un notaio a cui era stato affidato dagli eredi di Campana, che solo ora lo hanno affidato a Christie´s per venderlo, l´interesse era salito alle stelle: «Come pure il prezzo, esagerato e fagocitato dalle notizie di stampa - afferma il vicepresidente dell´Ente Cassa - se gli eredi avessero fatto un´offerta alle istituzioni fiorentine, sarebbe stato più semplice e meno oneroso». Già, tanto più che anche l´assessorato alla cultura di Palazzo Vecchio, il Comune di Marradi e quello di Campi Bisenzio, con la Provincia di Firenze insieme alla Regione Toscana erano pronti a dare un contributo di 80 mila euro per l´acquisto. Ma l´Ente Cassa di Risparmio ha voluto partecipare da sola alla battuta all´incanto, pronta a fare la sua parte senza partner. E ora quel quaderno scritto a penna da Campana, prima con mano ferma e poi più frenetica, considerato il testo base dei «Canti orfici», dopo lunghe peregrinazioni tra le residenze degli eredi, le figlie del fratello del poeta, diventa patrimonio visibile a tutti come la sua poesia.

Emily Dickinson

Repubblica 19.3.04
EMILY DICKINSON ENTOMOLOGA DEL VERSO
di FRANCO MARCOALDI


Ludwig Wittgenstein sosteneva che per comprendere le vicende del mondo bisogna guardare le cose o da molto vicino o da molto lontano. Ed esattamente questo fece Emily Dickinson (1830 -1886) nella sua camera della casa di Amherst (Massachusetts): al medesimo tempo un microscopio e un telescopio, secondo quanto scrive Barbara Lanati nella prefazione a Sillabe di seta (Feltrinelli, 8 euro, pagine 219), sua nuova e ulteriore scelta tratta dall´opera della grande poetessa americana.
La Lanati rifugge dalla facile idea della casa-prigione e pensa invece alla Dickinson come a un´entomologa del verso, come a un´astronoma dello slittamento semantico. Sedeva silenziosa al suo tavolo da lavoro e lì, giorno dopo giorno, sera dopo sera, si abbandonava alla sua infinita danza d´amore con le parole. Quelle altrui (dalla Bibbia alle cronache di giornale, da Shakespeare ai libri di viaggio) e quelle proprie: migliaia di versi che solo dopo la morte avrebbero visto la luce.
Già, le parole: un tempo, scrive Emily a un amico ricordando gli anni dell´adolescenza, ritenevamo che fossero «cosucce da poco, senza energia. Ora non conosco nulla al mondo che abbia tanto potere. Ne esistono alcune di fronte alle quali mi inchino, stanno lì come un principe tra i Lord. A volte ne scrivo una, e la guardo, ne fisso la forma, i contorni, fino a quando comincia a splendere e non c´è zaffiro al mondo che ne possa uguagliare la luce».
La Dickinson vive immersa in questo universo linguistico, fantasioso e totalizzante, dal quale distilla - con infinita sapienza - una poesia capace di combinare tra loro le più diverse tonalità: perentoria e smarrita, allucinata e spoglia. Mai, comunque, «romantica», come ha voluto invece un certo cliché contro cui si schiera apertamente la Lanati, che ancora una volta - con questo Sillabe di seta - mostra il grado di assoluta intimità che nel corso del tempo è riuscita a stabilire con Emily. La quale, oltre a tutto il resto, ci comunica nel suo specialissimo modo che cosa significhi riportare alla luce gli «zaffiri» delle parole per montarli, poi, in poesia.
«Ecco chi fu un poeta -
chi distilla la sorpresa di un senso
da significati ordinari -
ed estrae essenza infinita
da specie familiari
che si estinsero alla nostra porta»

Nietzsche a Torino

Repubblica, ed. di Torino 19.3.04
Quei sogni che abitano dove viveva Nietzsche

"La Mole Antonelliana è geniale, l´ho ribattezzata Ecce Homo"
Nella vecchia casa torinese del filosofo tedesco c´è ora il negozio "My Dream»
di ALFONSO CIPOLLA


«Conoscete Torino? Ecco una città secondo il mio cuore. Anzi la sola. Tranquilla, quasi solenne. Terra classica per gli occhi e per i piedi (grazie ad una pavimentazione magnifica e ad un colore tra il giallo e l´ocra che fonde armoniosamente tutte le cose). Un soffio di buon Settecento. Palazzi di quelli che parlano al cuore; non fortezze stile Rinascimento! E poi: scorger le Alpi dal centro della città! Queste lunghe strade che sembrano condurre in linea retta verso le anguste cime nevose! Aria serena, limpida in modo sublime. Non avrei mai creduto che una città, grazie alla luce, potesse diventare così bella. A cinquecento passi da me il Palazzo Carignano, un grandioso vis-à-vis (costruito nel 1670). Di rimpetto a questo, il teatro Carignano, dove si dà in modo degnissimo la Carmen. Si può camminare per mezze ore di seguito sotto alti portici. Qui tutto è costruito con liberalità ed ampiezza, specialmente le piazze, così anche nel cuore della città si ha un senso superbo di libertà. Vi ho trascinato, s´intende, il mio bagaglio di preoccupazioni e di filosofia».
A eleggere Torino come propria città ideale è Friedrich Nietzsche che visse nella capitale sabauda per ben sei mesi, suddivisi in due soggiorni diversi tra il 1888 e il 1889. Alloggiava in una camera d´affitto al numero 6 di via Carlo Alberto: terzo piano con finestra vista piazza: trenta lire al mese. Padroni di casa erano Davide e Candida Fino, di cui si è tramandata l´esistenza solo per quel loro inquilino eccellente, e non perché titolari di una rivendita di giornali situata davanti agli uffici delle Poste, che all´epoca erano in Palazzo Campana.
Torino non perdona. La sua affannosa operosità è contagiosa. Il filosofo tedesco in quei sei mesi lavorò come un forsennato: scrisse Ecce Homo, completò Il caso Wagner, Nietzsche contro Wagner, L´Anticristo, Il crepuscolo degli Idoli, Ditirambi dionisiaci, e non contento compose anche musica: una ballata in omaggio alla figlia dei suoi padroni di casa e la Preghiera alla vita. A fronte di tanto lavoro, non si saranno certo stupiti i probi coniugi quando il 3 gennaio del 1889 videro sotto casa il loro inquilino abbracciare e baciare un cavallo malmenato, e quindi stramazzare al suolo in deliquio.
Si racconta che Davide Fino, vegliando il malato, ne raccolse le confidenze. «Sono passato vicino alla Mole Antonelliana, l´edificio più geniale che è stato forse costruito per l´assoluto impulso verso l´alto, non ricorda nient´altro se non il mio Zarathustra. L´ho battezzata Ecce Homo e l´ho circondata nel mio spirito con un immenso spazio libero». Fu allora che il buon giornalaio venne a sapere da Nietzsche che Nietzsche non era Nietzsche, ma nientemeno che Dioniso e il Cristo Crocifisso. Il Fino non ci pensò due volte, e per non rischiare di perdere la mesata d´affitto, chiamò immediatamente uno psichiatra.
Ora al numero 6 di via Carlo Alberto, una lapide ricorda il genio del filosofo che in Torino «conobbe la pienezza dello spirito che tenta l´ignoto, la volontà di dominio che suscita l´eroe». Curiosamente, proprio di fronte alla lapide, oggi campeggia l´insegna di un negozio: My Dream, il mio sogno.

Emanuele Severino

Gazzetta di Parma 19.3.04
CULTURA— Grande partecipazione per la lezione del docente: «Il tema della verità è l'impegno per il futuro»
Il futuro della tecnica secondo Severino
Il grande filosofo ospite della facoltà di Ingegneria per una conferenza su università e tecnica
di Lisa Oppici


Un viaggio straordinario tra passato e futuro, guidato da uno dei più illustri filosofi del nostro tempo. Davvero affascinante, ieri, la conferenza su «Università e tecnica» tenuta da Emanuele Severino alla facoltà di Ingegneria dell'Università. L'incontro, organizzato dalle facoltà di Architettura e di Ingegneria come quarta «stazione» di una serie di appuntamenti annuali iniziati nel 2000 con Maria Corti, ha fatto registrare il classico «tutto esaurito»: tanti i docenti e gli studenti dietro i banchi ad ascoltare in un silenzio quasi religioso l'intervento del grande filosofo, preceduto dai saluti introduttivi del preside vicario di Ingegneria, Edzeario Prati, del preside di Architettura, Giovanni Bassanelli, di Ivo Iori (docente della facoltà di Architettura e responsabile della collana «Opere inedite di cultura», (in cui a breve sarà pubblicato il testo della conferenza) e di Renato Rizzi, professore associato all'Istituto universitario d'arte di Venezia.
Severino ha accompagnato il pubblico in un viaggio nello spazio e nel tempo, prendendo le mosse dalle caratteristiche necessarie delle istituzioni formative: «Se la scuola e l'università – ha spiegato - hanno il compito di non far vivere "in sogno" i popoli, insegnandogli invece a guardarsi attorno, allora è inevitabile che pongano come contenuto fondamentale la tensione tra il grande passato, costruito all'insegna della convinzione di un senso unitario e assoluto del mondo e delle cose, e il grande presente della frammentarietà: tra la tradizione dell'Occidente e la civiltà della tecnica della contemporenaità, ossia il prevalere di quel modo di pensare che dice no al passato».
Due atteggiamenti diversi, due modi opposti di vedere le cose: l'idea forte di una verità assoluta e di un senso unitario e organico da un lato, la sua negazione dall'altro.
La tecnica è parte integrante dello scontro, anche perché fortemente collegata all'essenza del pensiero filosofico degli ultimi duecento anni. «La sostanza del pensiero filosofico contemporaneo – ha continuato Severino - consiste nel dire che è impossibile un Dio, un centro, un significato fondamentale del mondo, una verità assoluta, un fondamento assoluto. Le competenze scientifiche del nostro tempo e il pensiero filosofico e il suo "sottosuolo" sono due candidati alle nozze: da una parte le competenze specifiche dello scienziato e dall'altra la filosofia, che dicendo che non esiste un limite assoluto apre il campo alla tecnica. Andiamo dunque verso un tempo in cui la tecnica così intesa, cioè unita al sapere filosofico e non vincolata, è destinata al dominio».
In questo dominio già ora si assiste a una sorta di ribaltamento dei ruoli, proprio perché «la tecnica oggi è "lo" strumento, non uno strumento qualsiasi». È lo strumento di cui si servono le forze conflittuali, e al quale esse si affidano per prevalere. Così facendo, però, abdicano in parte a sé: «Oggi tutti si servono della tecnica, e sono così legati alla sua potenza da rinunciare sempre più a loro stessi». Eccola allora trasformarsi da mezzo a fine.
Ed ecco noi avviati verso una sorta di «paradiso della tecnica» che non sarà poi così paradisiaco: «Quello sarà il luogo dove coralmente i popoli avvertiranno che la situazione raggiunta mancherà di un requisito fondamentale: la verità. L'accostamento al problema della verità – ha concluso Emanuele Severino - costituirà l'autentico impegno dell'uomo del futuro».