Repubblica 7.7.04
TORNA IL SAGGIO DI NICOLA MATTEUCCI SULLO STORICO JACQUES MALLET-DU PAN
L´UOMO CHE ODIAVA LA RIVOLUZIONE
I sentimenti contrastanti per i giacobini e robespierre
una presa di posizione critica verso l´illuminismo
di MASSIMO L. SALVADORI
Chi voglia una riprova di quanto certi capitoli della storia passata facciano da specchio a quella presente può ancor sempre guardare alla rivoluzione francese. Al punto che le maggiori vette della storiografia dedicata agli avvenimenti aperti dal 1789 rappresentano tappe tra le più significative dell´evolversi della coscienza europea. Così la coscienza che scrive la storia diventa essa stessa storia politica e civile. Si pensi solo a come prima i successi e poi la crisi e il crollo del comunismo abbiano potentemente influito sui modi di interpretare la rivoluzione francese e in particolare il ruolo svolto dai giacobini. A proposito di questi ultimi si è passati da Albert Mathiez a François Furet, dall´esaltazione di Robespierre alla sua esecrazione. In questo generale dibattito si colloca per molti aspetti anche il libro di Nicola Matteucci dal titolo Jacques Mallet-Du Pan. Ginevra, "L´Illuminismo e la Rivoluzione francese", apparso dapprima nel 1957 e ora ripresentato presso Marco Editore (pagg. 423, euro 35) con una nuova prefazione in cui l´autore assume con decisione la sua posizione in relazione alle controversie interpretative.
In questa prefazione Matteucci prende partito contro Mathiez, accusato di aver diretto la sua ricerca «solo a distinguere i buoni dai cattivi»; ma a sua volta non esista a schierarsi con chi - da Salvemini a Omodeo, Chabod e Furet - ha distinto tra la buona rivoluzione liberale del 1789 e il cattivo giacobinismo del 1793-94. Una linea, che non esita a proclamare «vincente». Il rapporto tra il 1789 e il 1793-94 e la loro contrapposizione pongono da sempre un problema di metodo di fondo. Una cosa, infatti, è la legittima e persino inevitabile celebrazione o condanna del giacobinismo in base ai valori e modelli etici e politici di ciascuno; un´altra tutta diversa è approdare alla conclusione di Salvemini che la vera e positiva rivoluzione fu quella svoltasi tra il 1789 e il 1792, laddove il potere giacobino costituì uno stravolgimento, un colpevole eccesso, una forzatura addirittura "antistorica" dovuta ad una degenerazione messa in atto da ideologi fanatici, ricomposta soltanto - sostenne Omodeo - dalla ripresa del liberalismo moderato nell´età della Restaurazione. Ma qui occorre tenere presente l´obiezione che al Salvemini rivolse uno studioso liberale, Walter Maturi, secondo il quale «una storia della Rivoluzione francese senza Robespierre e la dittatura giacobina non è una storia della Rivoluzione francese». L´obiezione è solida poiché problema ineludibile per lo storico, quali che siano i suoi amori e le sue avversioni, sarà sempre prioritariamente quello di comprendere perché dagli Stati Generali si arrivò al giacobinismo (come, per quanto attiene alla rivoluzione russa, perché dal febbraio 1917 si giunse all´ottobre). E fu un problema, il rapporto tra la caduta della monarchia in Francia e il regime di Robespierre, che si pose con acutezza, seppure in maniera contraddittoria e irrisolta, anche Mallet-Du Pan.
Quando scoppiò la rivoluzione, il ginevrino Mallet era un quarantenne giunto in Francia alla fine del 1783, che - ci spiega Matteucci - aveva maturato un atteggiamento critico verso l´illuminismo, era avverso ai dottrinarismi, ostile alla democrazia ma non a un liberalismo moderato; e guardava come ad un buon esempio alla costituzione inglese e con scetticismo alla capacità di rinnovamento della monarchia francese in crisi. Iniziato il grande rivolgimento, egli si schierò con i monarchiens, attestandosi sull´idea che la rivoluzione fosse stata la risposta inevitabile alle organiche insufficienze dell´assolutismo monarchico. I "diritti dell´uomo" come diritti di natura universali li considerò frutti di astratto ideologismo, in contrasto con l´inevitabile diseguaglianza sociale e la difesa di quella proprietà che richiedeva di necessità l´ineguaglianza politica. Il suo motto era la libertà senza anarchia, l´ordine senza il dispotismo vuoi monarchico vuoi popolare. Se aveva caldeggiato la rivoluzione "politica" del 1789, Mallet ricevette una scossa definitiva dalla rivoluzione "sociale" del 1792, che considerò l´inizio dell´assalto alla proprietà e causa del sopravvento di una democrazia distruttiva. Nell´agosto del 1793, quando si era ormai consumata la caduta dei girondini e Robespierre aveva preso il potere, Mallet pubblicò l´opera sua di maggior peso: le "Considérations sur la nature de la Révolution de France". Questo saggio - ispirato a quel punto ad «un violento odio» verso la rivoluzione - lo ha iscritto, accanto ai Burke, ai de Maistre e ai Rivarol, alla schiera degli scrittori controrivoluzionari. Sennonché Mallet, come sottolinea Matteucci, a differenza di Burke, il quale si levava contro «le eccessive ambizioni della ragione», temeva lo scatenamento delle forze irrazionali anzitutto nelle moltitudini. Dopo il 1793 il ginevrino divenne informatore e consigliere dei sovrani delle potenze in lotta con la Francia; poi, disilluso di tutti e di tutto, se ne andò in Inghilterra per morirvi nel 1800.
Nelle Considérations, al pari del suo storico Matteucci, Mallet per un verso afferma che il 1793 aveva ucciso e contraddetto il 1789; per l´altro arriva ad esaltare, in un misto di deprecazione-ammirazione, il governo dei giacobini capace di imporre l´ordine, con sovrumana energia, sul dilagante disordine. Da ultimo, profugo in Inghilterra, Mallet giunse a concludere che il 1792-93, lungi dall´essere un corpo estraneo da espungere, offriva invece la chiave - scrive Matteucci - con cui interpretare «tutta la storia francese», dando «una giustificazione storica della Rivoluzione e del fallimento delle illusioni dell''89». Così, egli in sostanza si poneva ante litteram in una linea interpretativa che sarebbe stata poi per aspetti essenziali, al di là di opposti valori, anche quella di Mathiez.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
mercoledì 7 luglio 2004
prima erano le «nevrosi di guerra» adesso sono i «disturbi post-traumatici da stress»
o, meglio, i DPTS...
Yahoo! Salute 7.7.04
Psichiatria, Psicologia e Neurologia
Guerre e disturbi post-traumatici
Il Pensiero Scientifico Editore
Il New England Journal of Medicine si occupa diffusamente del problema e del costo dei disturbi post-traumatici da stress (DPTS) associati alle più recenti campagne militari statunitensi, in particolare nelle missioni Iraqi Freedom e Operation Enduring Freedom in Afghanistan. Lo fa con un lavoro di Hoge, Castro e Messer sui rapporti tra il dovere di combattere e l’insorgere di problemi psichici nei soldati e con una più ampia riflessione sullo stesso tema, affidata ad un editoriale di Matthew J. Friedman.
I dati, ancorché preliminari, sono molto interessanti e assolutamente senza precedenti, anche se – avverte Friedman in apertura – è possibile sottostimino ancora l’effettiva incidenza clinica dei disturbi post-traumatici da stress tra le truppe di ritorno dai teatri operativi. Sì, perché di questo si tratta: lo stesso concetto di nevrosi di guerra, negli anni 1980 ancora limitato a ben definite situazioni di "combattimento", si è modificato ampliando i suoi confini in conseguenza del crescente impiego delle forze armate in missioni di "peace-keeping". Anche se in effetti l’impiego in combattimento aumenta ovviamente il carico di stress e di conseguenza l’incidenza di questi che sono i disturbi di maggior riscontro tra chi rientra dalle missioni attuali.
Per la prima volta si tenta di valutare la prevalenza di disturbi psichiatrici riconducibili ad una campagna in corso. In secondo luogo, i dati possono esser confrontati con quelli raccolti prima del dispiegamento delle truppe nei teatri di guerra. Un terzo aspetto che emerge subito dall’analisi è che lo stigma impedisce a molti veterani di ricorrere alle strutture assistenziali psichiatriche, anche se riconoscono la gravità dei propri problemi.
Friedman si ricollega ovviamente ai precedenti più noti, in particolare allo studio epidemiologico sui veterani della guerra in Vietnam, condotto verso la metà degli anni Ottanta; su militari, quindi, rientrati già da 10-20 anni dalla guerra. In quell’occasione, la percentuale di disturbi post-traumatici da stress fu del 15 per cento tra i soldati maschi e dell’8 per cento tra le donne.In seguito, uno studio retrospettivo di coorte su veterani della guerra del Golfo, condotto tra il ’95 ed il ’97, mostrò una prevalenza del 10,1 per cento tra chi aveva combattuto, contro un 4,2 per cento tra i non combattenti. Tuttavia, la percentuale degli affetti da disturbi post-traumatici da stress dopo la guerra del Golfo praticamente raddoppiava quando i soggetti sono stati ricontattati due anni dopo il rientro. I dati sono simili a quelli riscontrati sulle truppe rientrate dalla Somalia tra il 1992 ed il ’94, in quell’occasione senza differenze sostanziali tra i sessi.
Ovviamente, non si può ancora sapere se nel tempo la percentuale dei colpiti da disturbi post-traumatici da stress dopo le guerre attualmente in corso aumenterà o calerà. Le strutture di sostegno e cura attuali sono più adeguate di un tempo e ciò dovrebbe favorire il ricorso alle stesse da parte dei militari in difficoltà. Friedman ha ragione di temere tuttavia che la percentuale attuale, già alta (compresa tra il 15,6 ed il 17,1) tra i veterani delle guerre in Iraq ed Afghanistan potrà salire, per due motivi: primo, perché si sa ormai che nei due anni successivi al rientro la prevalenza è destinata a crescere, e in secondo luogo perché la missione si è di fatto incrudelita nel tempo, trasformandosi da un’attività di attacco breve e poi di peace keeping, in una guerra a oltranza, con disagi psichici crescenti per le truppe combattenti. Per cui i dati di Hoge et al. sono da considerarsi molto prudenti.
Un vantaggio per i veterani consisterà certamente nel fatto che, oggi come oggi, chi torna dall’Iraq e dall’Afghanistan non viene accolto con la diffidenza che incontravano invece i reduci dal Vietnam; Friedman ritiene che gli americani sappiano distinguere bene tra guerra e guerrieri e che anche chi osteggia la prima, ha motivi di gratitudine verso i secondi, pur persistendo il problema dello stigma ed un elemento psicologico non sottovalutabile, come la vergogna del militare che non vuole "soccombere" allo stress e quindi lo denega, invece che cercare aiuto e conforto nelle strutture appropriate.
Le terapie che si stanno dimostrando più efficaci sono quella cognitiva-comportamentale e quella farmacologica, in particolare grazie a due inibitori del reuptake della serotonina approvati dalla Food and Drug administration statunitense. È triste notare comunque che anche le maggiori riviste mediche internazionali debbano dedicare sempre più spazio a problemi di salute legati alle guerre in corso.
Fonti: Hoge CW, Castro CA, Messer SC, et al. Combat duty in Iraq and Afghanistan, mental health problems, and barriers to care. N Engl J Med 2004;351:13-22.
Friedman MJ. Acknowledging the psychiatric cost of war. N Engl J Med 2004;351:75-77.
Psichiatria, Psicologia e Neurologia
Guerre e disturbi post-traumatici
Il Pensiero Scientifico Editore
Il New England Journal of Medicine si occupa diffusamente del problema e del costo dei disturbi post-traumatici da stress (DPTS) associati alle più recenti campagne militari statunitensi, in particolare nelle missioni Iraqi Freedom e Operation Enduring Freedom in Afghanistan. Lo fa con un lavoro di Hoge, Castro e Messer sui rapporti tra il dovere di combattere e l’insorgere di problemi psichici nei soldati e con una più ampia riflessione sullo stesso tema, affidata ad un editoriale di Matthew J. Friedman.
I dati, ancorché preliminari, sono molto interessanti e assolutamente senza precedenti, anche se – avverte Friedman in apertura – è possibile sottostimino ancora l’effettiva incidenza clinica dei disturbi post-traumatici da stress tra le truppe di ritorno dai teatri operativi. Sì, perché di questo si tratta: lo stesso concetto di nevrosi di guerra, negli anni 1980 ancora limitato a ben definite situazioni di "combattimento", si è modificato ampliando i suoi confini in conseguenza del crescente impiego delle forze armate in missioni di "peace-keeping". Anche se in effetti l’impiego in combattimento aumenta ovviamente il carico di stress e di conseguenza l’incidenza di questi che sono i disturbi di maggior riscontro tra chi rientra dalle missioni attuali.
Per la prima volta si tenta di valutare la prevalenza di disturbi psichiatrici riconducibili ad una campagna in corso. In secondo luogo, i dati possono esser confrontati con quelli raccolti prima del dispiegamento delle truppe nei teatri di guerra. Un terzo aspetto che emerge subito dall’analisi è che lo stigma impedisce a molti veterani di ricorrere alle strutture assistenziali psichiatriche, anche se riconoscono la gravità dei propri problemi.
Friedman si ricollega ovviamente ai precedenti più noti, in particolare allo studio epidemiologico sui veterani della guerra in Vietnam, condotto verso la metà degli anni Ottanta; su militari, quindi, rientrati già da 10-20 anni dalla guerra. In quell’occasione, la percentuale di disturbi post-traumatici da stress fu del 15 per cento tra i soldati maschi e dell’8 per cento tra le donne.In seguito, uno studio retrospettivo di coorte su veterani della guerra del Golfo, condotto tra il ’95 ed il ’97, mostrò una prevalenza del 10,1 per cento tra chi aveva combattuto, contro un 4,2 per cento tra i non combattenti. Tuttavia, la percentuale degli affetti da disturbi post-traumatici da stress dopo la guerra del Golfo praticamente raddoppiava quando i soggetti sono stati ricontattati due anni dopo il rientro. I dati sono simili a quelli riscontrati sulle truppe rientrate dalla Somalia tra il 1992 ed il ’94, in quell’occasione senza differenze sostanziali tra i sessi.
Ovviamente, non si può ancora sapere se nel tempo la percentuale dei colpiti da disturbi post-traumatici da stress dopo le guerre attualmente in corso aumenterà o calerà. Le strutture di sostegno e cura attuali sono più adeguate di un tempo e ciò dovrebbe favorire il ricorso alle stesse da parte dei militari in difficoltà. Friedman ha ragione di temere tuttavia che la percentuale attuale, già alta (compresa tra il 15,6 ed il 17,1) tra i veterani delle guerre in Iraq ed Afghanistan potrà salire, per due motivi: primo, perché si sa ormai che nei due anni successivi al rientro la prevalenza è destinata a crescere, e in secondo luogo perché la missione si è di fatto incrudelita nel tempo, trasformandosi da un’attività di attacco breve e poi di peace keeping, in una guerra a oltranza, con disagi psichici crescenti per le truppe combattenti. Per cui i dati di Hoge et al. sono da considerarsi molto prudenti.
Un vantaggio per i veterani consisterà certamente nel fatto che, oggi come oggi, chi torna dall’Iraq e dall’Afghanistan non viene accolto con la diffidenza che incontravano invece i reduci dal Vietnam; Friedman ritiene che gli americani sappiano distinguere bene tra guerra e guerrieri e che anche chi osteggia la prima, ha motivi di gratitudine verso i secondi, pur persistendo il problema dello stigma ed un elemento psicologico non sottovalutabile, come la vergogna del militare che non vuole "soccombere" allo stress e quindi lo denega, invece che cercare aiuto e conforto nelle strutture appropriate.
Le terapie che si stanno dimostrando più efficaci sono quella cognitiva-comportamentale e quella farmacologica, in particolare grazie a due inibitori del reuptake della serotonina approvati dalla Food and Drug administration statunitense. È triste notare comunque che anche le maggiori riviste mediche internazionali debbano dedicare sempre più spazio a problemi di salute legati alle guerre in corso.
Fonti: Hoge CW, Castro CA, Messer SC, et al. Combat duty in Iraq and Afghanistan, mental health problems, and barriers to care. N Engl J Med 2004;351:13-22.
Friedman MJ. Acknowledging the psychiatric cost of war. N Engl J Med 2004;351:75-77.
Maria Schneider su Paris Match
com'era la sceneggiatura originale di "Ultimo Tango a Parigi"
La Gazzetta del Mezzogiorno 7.7.04
L'attrice sua partner in «Ultimo tango»
Maria Schneider: Brando era attratto dai ragazzi
PARIGI Marlon Brando «non faceva mistero, talvolta, di interessarsi ai ragazzi»: lo rivela Maria Schneider, interprete con il grande attore americano di Ultimo tango a Parigi. E aggiunge che il ruolo da lei interpretato nel film era, nella sceneggiatura originale, affidato a un attore maschio.
È un Marlon Brando «franco, semplice, sano, caloroso», un «uomo integro e generoso» quello che emerge dall'intervista della Schneider alla rivista Paris Match. Un attore che durante le pause di lavorazione offriva a tutti aperitivi e panini, sempre gentile con i tecnici.
L'attrice parigina, partner di Brando nel 1971, appena diciannovenne, nello scandaloso capolavoro di Bernardo Bertolucci, ricorda con trasporto l'esperienza a fianco del mostro sacro. «Marlon era estremamente pudico. Abbiamo girato le scene calde davanti a un'equipe ridotta. Il tutto nel modo più naturale del mondo. Sul set era assolutamente vietata ogni visita. Solo Jeanne Moreau riuscì, una volta, a forzare lo sbarramento», spiega l'attrice. Che rivela come sia stato molto imbarazzante vedere per la prima volta il film: «Non tanto per le scene fisiche, ma per quello che ci dicevamo. Bertolucci ci aveva obbligati a confidare dei ricordi della nostra infanzia. Questo si è rivelato più impudico delle nudità. Marlon ne fu molto irritato. Ebbe la sensazione di essere tradito e, per tredici anni, non parlò più a Bertolucci».
L'attrice sua partner in «Ultimo tango»
Maria Schneider: Brando era attratto dai ragazzi
PARIGI Marlon Brando «non faceva mistero, talvolta, di interessarsi ai ragazzi»: lo rivela Maria Schneider, interprete con il grande attore americano di Ultimo tango a Parigi. E aggiunge che il ruolo da lei interpretato nel film era, nella sceneggiatura originale, affidato a un attore maschio.
È un Marlon Brando «franco, semplice, sano, caloroso», un «uomo integro e generoso» quello che emerge dall'intervista della Schneider alla rivista Paris Match. Un attore che durante le pause di lavorazione offriva a tutti aperitivi e panini, sempre gentile con i tecnici.
L'attrice parigina, partner di Brando nel 1971, appena diciannovenne, nello scandaloso capolavoro di Bernardo Bertolucci, ricorda con trasporto l'esperienza a fianco del mostro sacro. «Marlon era estremamente pudico. Abbiamo girato le scene calde davanti a un'equipe ridotta. Il tutto nel modo più naturale del mondo. Sul set era assolutamente vietata ogni visita. Solo Jeanne Moreau riuscì, una volta, a forzare lo sbarramento», spiega l'attrice. Che rivela come sia stato molto imbarazzante vedere per la prima volta il film: «Non tanto per le scene fisiche, ma per quello che ci dicevamo. Bertolucci ci aveva obbligati a confidare dei ricordi della nostra infanzia. Questo si è rivelato più impudico delle nudità. Marlon ne fu molto irritato. Ebbe la sensazione di essere tradito e, per tredici anni, non parlò più a Bertolucci».
Roberto Herlitzka, in una intervista
L'Arena 7.7.04
(...)
- È inevitabile soffermarsi su "Buongiorno, notte", il film di Marco Bellocchio
«Oltre ad essere un’opera bellissima, mi ha dato un successo, un’approvazione a largo raggio che non penso durerà più di tanto ma che - finché c’è - mi fa piacere: la gente mi ha detto cose commoventi che è bello sentirsi dire perché capisci di aver comunicato ciò che veramente desideravi. Di questo devo ringraziare per primo il regista e poi me stesso che sono riuscito a trovare anche dentro di me corde particolari»
(...)
(...)
- È inevitabile soffermarsi su "Buongiorno, notte", il film di Marco Bellocchio
«Oltre ad essere un’opera bellissima, mi ha dato un successo, un’approvazione a largo raggio che non penso durerà più di tanto ma che - finché c’è - mi fa piacere: la gente mi ha detto cose commoventi che è bello sentirsi dire perché capisci di aver comunicato ciò che veramente desideravi. Di questo devo ringraziare per primo il regista e poi me stesso che sono riuscito a trovare anche dentro di me corde particolari»
(...)
archeologia storica
Giangstone de' Medici, l'ultimo
Repubblica Firenze 7.7.04
Rimossa per la prima volta la lastra nelle Cappelle: ma sotto c'era niente
La beffa dell´ultimo Medici la salma non si trova
Giallo granducale Sospese le ricerche dopo vari tentativi. Si attendono nuovi apparecchi per sondare il muro
Decadente e illuminato infelice e alcolista amatissimo dal popolo fu una figura grandiosa dello sfacelo di Firenze di inizio Settecento
Sposato a forza a una nobildonna tedesca da cui fuggì visse circondato da stuoli di amanti e morì senza eredi
di MARA AMOREVOLI
I ritratti ce lo consegnano con un parruccone di riccioli biondi che non sono certo la cornice migliore per quel volto marcato, dalla bocca troppo carnosa, dal naso lungo e curvo, dagli occhi grandi e malinconici. «Brutto come tutti gli ultimi Medici» stigmatizzano gli storici dell´arte. Eppure amatissimo, pianto e rimpianto dai fiorentini. Di Giangastone, l´ultimo dei Medici, granduca suo malgrado perché non amava il potere, si sa infatti che «cadde sul trono, più che salirci» dopo la morte del padre, Cosimo III, nel 1723. Aveva già 52 anni, ed era stanco e assai segnato dalla sua proverbiale indolenza e ipocondria. I documenti lo raccontano di indole mite, sensibile, colto anche se non particolarmente intelligente, appassionato di botanica tanto da eleggere come suo rifugio solitario, per studiare piante e fiori, la Palazzina del Cavaliere a Boboli.
Giangastone principe buono, con un matrimonio malriuscito alle spalle, e un´anima nera accanto, rappresentata da Giuliano Dami, uno dei suoi primi amanti, oltre che consigliere e complice di scorribande tra i «ruspanti», come venivano chiamati i tanti ragazzi e garzoni chiamati a corte, pagati con la moneta «ruspo» per le loro prestazioni. Inattivo come un moderno Oblomov, vizioso e dissoluto, ma anche regnante lungimirante e illuminato. Di certo disincantato e disilluso, dopo quel matrimonio a cui era stato costretto per assicurare un erede alla dinastia, con la principessa tedesca Anna Maria Franziska, figlia del duca di Sassonia, vedova del principe palatino Filippo di Neuberg, descritta come «brutta, rozza, massiccia, tutta petto e pancia». Il povero Giangastone, appena ventitreenne, amante della musica, raffinato cultore delle arti e del disegno, suo malgrado la impalmò il 2 luglio del 1697 e andò a vivere nella residenza della moglie a Reichstadt, in Boemia. Un fallimento, a cui fuggì quasi subito. Prima rifugiandosi a Parigi, poi a Praga, dove si dette al gioco e al bere, perdendo ingenti somme di denaro. Nel 1708 Giangastone rientrò definitivamente a Firenze, solo, senza erede e un po´ malmesso, ormai dedito al vizio del bere vino, rosolio e liquori.
«Eppure ironico, ben lontano dall´esercizio dell´ancien régime, geniale nel capire che la libertà e diversità degli individui andava difesa - precisa l´antiquario Alberto Bruschi, appassionato al personaggio tanto da dedicargli un libro «Giangastone, un trono di solitudine nella caligine di un crepuscolo» - Aprì le porte dei conventi facendo uscire le giovani obbligate al velo, lasciò libere anche le meretrici, abolì lo spionaggio e la tortura, pose le basi perché poi Pietro Leopoldo abolisse la pena di morte. Certo, visse in modo sregolato, forse perché assillato dall´eminenza grigia di Giuliano Dami, e anche per mettere in ridicolo tutti i troni d´Europa. Il suo motto? "Laissez faire", perché sentiva incombente la fine della sua dinastia, per questo si ritirò e appartò, passando così tanto tempo a letto, in una sorta di depressione e abulia senile. Ma non è stato il depravato che si è voluto disegnare».
Appena diventato granduca nel 1623, Giangastone tentò davvero di mettere ordine anche a corte, facendo fuori da Palazzo Pitti tutti i preti, il seguito di spie e beghine che assillava il padre Cosimo III. E abolì anche le pensioni sul credo, ossia le gabelle che dovevano pagare ebrei, luterani, calvinisti convertiti al cattolicesimo, oltre a dichiarare fuori legge lo spionaggio, cattivo costume incoraggiato prima a corte dal padre. E abbassò anche il prezzo del grano. I fiorentini lo amavano, sentivano uno di loro questo principe solitario che rifuggiva il fasto e che, spesso ubriaco, dava spettacolo lungo i traballanti percorsi in portantina, da Palazzo Pitti al Duomo, per andare ad assistere alle cerimonie religiose. In tutto il suo regno durò 14 anni. Senza che venisse versata una goccia di sangue. Nel 1728, Montesquieu di passaggio a Firenze, scriveva: «A Firenze c´è un governo molto mite, nessuno conosce o s´accorge del granduca o della sua corte. Ed è per questa ragione che questo piccolo Stato sembra grande».
La parabola di Giangastone si chiuse nel silenzio della sua camera da letto, ormai diventata trono e sala di ricevimento, sovrastata - come si vede in un dipinto del Museo degli Argenti- da un enorme baldacchino rosso, e riempita di fiori per eliminare l´orribile olezzo di un giaciglio che il granduca voleva intoccabile. Ormai senza eredi e rassegnato, uomo senza qualità perché consapevole della fine di una grande dinastia, Giangastone non si oppose neppure alla scelta dei Lorena, chiamati al suo posto dai capi di Stato europei senza neppure consultarlo. Quando morì, il 9 luglio del 1737, i fiorentini piansero a lungo il loro principe e il tramonto di una parte della loro storia.
ore 19.15 ultim'ora
Le hanno trovate!
c'era un botolino prima del tutto scpnosciuto. Pochi scalini... ed ecco la salma di Giangastone, con altre tre... Il mistero adesso è chi siano state le altre tre persone... Sono al lavoro anche i paleopatologi
Rimossa per la prima volta la lastra nelle Cappelle: ma sotto c'era niente
La beffa dell´ultimo Medici la salma non si trova
Giallo granducale Sospese le ricerche dopo vari tentativi. Si attendono nuovi apparecchi per sondare il muro
Decadente e illuminato infelice e alcolista amatissimo dal popolo fu una figura grandiosa dello sfacelo di Firenze di inizio Settecento
Sposato a forza a una nobildonna tedesca da cui fuggì visse circondato da stuoli di amanti e morì senza eredi
di MARA AMOREVOLI
I ritratti ce lo consegnano con un parruccone di riccioli biondi che non sono certo la cornice migliore per quel volto marcato, dalla bocca troppo carnosa, dal naso lungo e curvo, dagli occhi grandi e malinconici. «Brutto come tutti gli ultimi Medici» stigmatizzano gli storici dell´arte. Eppure amatissimo, pianto e rimpianto dai fiorentini. Di Giangastone, l´ultimo dei Medici, granduca suo malgrado perché non amava il potere, si sa infatti che «cadde sul trono, più che salirci» dopo la morte del padre, Cosimo III, nel 1723. Aveva già 52 anni, ed era stanco e assai segnato dalla sua proverbiale indolenza e ipocondria. I documenti lo raccontano di indole mite, sensibile, colto anche se non particolarmente intelligente, appassionato di botanica tanto da eleggere come suo rifugio solitario, per studiare piante e fiori, la Palazzina del Cavaliere a Boboli.
Giangastone principe buono, con un matrimonio malriuscito alle spalle, e un´anima nera accanto, rappresentata da Giuliano Dami, uno dei suoi primi amanti, oltre che consigliere e complice di scorribande tra i «ruspanti», come venivano chiamati i tanti ragazzi e garzoni chiamati a corte, pagati con la moneta «ruspo» per le loro prestazioni. Inattivo come un moderno Oblomov, vizioso e dissoluto, ma anche regnante lungimirante e illuminato. Di certo disincantato e disilluso, dopo quel matrimonio a cui era stato costretto per assicurare un erede alla dinastia, con la principessa tedesca Anna Maria Franziska, figlia del duca di Sassonia, vedova del principe palatino Filippo di Neuberg, descritta come «brutta, rozza, massiccia, tutta petto e pancia». Il povero Giangastone, appena ventitreenne, amante della musica, raffinato cultore delle arti e del disegno, suo malgrado la impalmò il 2 luglio del 1697 e andò a vivere nella residenza della moglie a Reichstadt, in Boemia. Un fallimento, a cui fuggì quasi subito. Prima rifugiandosi a Parigi, poi a Praga, dove si dette al gioco e al bere, perdendo ingenti somme di denaro. Nel 1708 Giangastone rientrò definitivamente a Firenze, solo, senza erede e un po´ malmesso, ormai dedito al vizio del bere vino, rosolio e liquori.
«Eppure ironico, ben lontano dall´esercizio dell´ancien régime, geniale nel capire che la libertà e diversità degli individui andava difesa - precisa l´antiquario Alberto Bruschi, appassionato al personaggio tanto da dedicargli un libro «Giangastone, un trono di solitudine nella caligine di un crepuscolo» - Aprì le porte dei conventi facendo uscire le giovani obbligate al velo, lasciò libere anche le meretrici, abolì lo spionaggio e la tortura, pose le basi perché poi Pietro Leopoldo abolisse la pena di morte. Certo, visse in modo sregolato, forse perché assillato dall´eminenza grigia di Giuliano Dami, e anche per mettere in ridicolo tutti i troni d´Europa. Il suo motto? "Laissez faire", perché sentiva incombente la fine della sua dinastia, per questo si ritirò e appartò, passando così tanto tempo a letto, in una sorta di depressione e abulia senile. Ma non è stato il depravato che si è voluto disegnare».
Appena diventato granduca nel 1623, Giangastone tentò davvero di mettere ordine anche a corte, facendo fuori da Palazzo Pitti tutti i preti, il seguito di spie e beghine che assillava il padre Cosimo III. E abolì anche le pensioni sul credo, ossia le gabelle che dovevano pagare ebrei, luterani, calvinisti convertiti al cattolicesimo, oltre a dichiarare fuori legge lo spionaggio, cattivo costume incoraggiato prima a corte dal padre. E abbassò anche il prezzo del grano. I fiorentini lo amavano, sentivano uno di loro questo principe solitario che rifuggiva il fasto e che, spesso ubriaco, dava spettacolo lungo i traballanti percorsi in portantina, da Palazzo Pitti al Duomo, per andare ad assistere alle cerimonie religiose. In tutto il suo regno durò 14 anni. Senza che venisse versata una goccia di sangue. Nel 1728, Montesquieu di passaggio a Firenze, scriveva: «A Firenze c´è un governo molto mite, nessuno conosce o s´accorge del granduca o della sua corte. Ed è per questa ragione che questo piccolo Stato sembra grande».
La parabola di Giangastone si chiuse nel silenzio della sua camera da letto, ormai diventata trono e sala di ricevimento, sovrastata - come si vede in un dipinto del Museo degli Argenti- da un enorme baldacchino rosso, e riempita di fiori per eliminare l´orribile olezzo di un giaciglio che il granduca voleva intoccabile. Ormai senza eredi e rassegnato, uomo senza qualità perché consapevole della fine di una grande dinastia, Giangastone non si oppose neppure alla scelta dei Lorena, chiamati al suo posto dai capi di Stato europei senza neppure consultarlo. Quando morì, il 9 luglio del 1737, i fiorentini piansero a lungo il loro principe e il tramonto di una parte della loro storia.
ore 19.15 ultim'ora
Le hanno trovate!
c'era un botolino prima del tutto scpnosciuto. Pochi scalini... ed ecco la salma di Giangastone, con altre tre... Il mistero adesso è chi siano state le altre tre persone... Sono al lavoro anche i paleopatologi
TSO:
un comunicato di Psichiatria Democratica
Vita 5.7.04
Psichiatria: allarme per le nuove Linee Guida sul TSO
Sono state emanate dalla Conferenza Stato-Regioni: Psichiatria Democratica le definisce "di eccezionale gravità"
di Benedetta Verrini
E' di nuovo allarme nel mondo degli operatori sociali e delle organizzazioni che si occupano di psichiatria: Psichiatria Democratica denuncia che il 19 maggio scorso la Conferenza Permanente Stato - Regioni ha inviato a tutti i Presidenti delle Regioni un documento recante "Linee guida sull'applicazione di accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori per la malattia mentale ai sensi degli articoli 34 e 35 della legge 23 dicembre 1978, n. 833".
Un documento definito "di eccezionale gravità" perché, sempre secondo Psichiatria Democratica, "lo strumento dell'Accertamento Sanitario Obbligatorio (ASO) può essere utilizzato dallo psichiatra - secondo le suddette linee- guida- anche quando si verifica "il rifiuto del soggetto interessato a recarsi presso il Servizio…, laddove si sia realizzata un'interruzione non concordata del programma terapeutico e ciò possa determinare una prevedibile riacutizzazione o ricaduta sintomatologica". A quali strumenti , ci chiediamo, ci si affiderebbe perchè si possa determinare la "prevedibile riacutizzazione" :secondo quali parametri? con quali certezze?".
Basterebbe, fa notare l'associazione, che il paziente si rifiuti di recarsi al servizio, per costringerlo a sottoporsi obbligatoriamente all'accertamento sanitario.
Ma c'è di più: è previsto che "il TSO extraospedaliero possa realizzarsi presso strutture semiresidenziali o residenziali afferenti al Dipartimento di Salute Mentale". "Siamo di fronte all'ignoranza delle più elementari regole di applicazione di una legge e delle funzioni svolte dalle strutture di un DSM" prosegue PD. "Possono mai essere trattati i pazienti acuti (per definizione quelli in TSO) in strutture deputate alla riabilitazione, come sono appunto quelle residenziali e semiresidenziali? Come può una struttura semiresidenziale, che è attiva solo di giorno, trattare un paziente in TSO che necessita di cure 24 ore su 24?"
E' previsto che laddove le prestazioni contenute nei LEA "non siano fruibili nella regione di residenza…le stesse possono essere usufruite, previa attestazione del DSM competente, presso i Servizi pubblici o privati accreditati sul territorio nazionale". "Questo è in contrasto con lo spirito delle leggi vigenti nazionali e regionali in materia psichiatrica, con i due Progetti- Obiettivo "Tutela della Salute Mentale"" spiega ancora PD. "Tutta la normativa ha sempre evidenziato l'importanza di assicurare la continuità terapeutica nel trattare il disagio là dove nasce, di sviluppare un rapporto costante con il territorio d'appartenenza, per favorire i processi d'inserimento sociale e lavorativo e per lottare contro il pregiudizio. Ciò non è possibile se si afferma la tendenza a deportare gli utenti in luoghi lontani dalla propria comunità e dai propri affetti. L'emigrazione ha già arrecato tanti danni, quella psichiatrica può causarne ancora di più".
Psichiatria Democratica denuncia, dunque, il tentativo da parte del Governo di introdurre attraverso queste assurde "linee- guida", quelle misure già contenute nella proposta di legge Burani- Procaccini, caratterizzate da aspetti pesantemente illiberali, che rilanciano le strutture della cronicità, insieme agli interessi dei privati.
"E', necessario, allora, che le stesse organizzazioni e gli stessi cittadini che si sono opposti alla revisione della legge 180 e che in migliaia e migliaia hanno sottoscritto, nei mesi addietro, l'appello di Psichiatria Democratica, insieme a tutti coloro che hanno a cuore le libertà sancite dalla nostra Costituzione, boccino con forza queste indicazioni governative palesemente contrarie ai più elementari diritti delle persone" conclude il comunicato di PD.
Psichiatria: allarme per le nuove Linee Guida sul TSO
Sono state emanate dalla Conferenza Stato-Regioni: Psichiatria Democratica le definisce "di eccezionale gravità"
di Benedetta Verrini
E' di nuovo allarme nel mondo degli operatori sociali e delle organizzazioni che si occupano di psichiatria: Psichiatria Democratica denuncia che il 19 maggio scorso la Conferenza Permanente Stato - Regioni ha inviato a tutti i Presidenti delle Regioni un documento recante "Linee guida sull'applicazione di accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori per la malattia mentale ai sensi degli articoli 34 e 35 della legge 23 dicembre 1978, n. 833".
Un documento definito "di eccezionale gravità" perché, sempre secondo Psichiatria Democratica, "lo strumento dell'Accertamento Sanitario Obbligatorio (ASO) può essere utilizzato dallo psichiatra - secondo le suddette linee- guida- anche quando si verifica "il rifiuto del soggetto interessato a recarsi presso il Servizio…, laddove si sia realizzata un'interruzione non concordata del programma terapeutico e ciò possa determinare una prevedibile riacutizzazione o ricaduta sintomatologica". A quali strumenti , ci chiediamo, ci si affiderebbe perchè si possa determinare la "prevedibile riacutizzazione" :secondo quali parametri? con quali certezze?".
Basterebbe, fa notare l'associazione, che il paziente si rifiuti di recarsi al servizio, per costringerlo a sottoporsi obbligatoriamente all'accertamento sanitario.
Ma c'è di più: è previsto che "il TSO extraospedaliero possa realizzarsi presso strutture semiresidenziali o residenziali afferenti al Dipartimento di Salute Mentale". "Siamo di fronte all'ignoranza delle più elementari regole di applicazione di una legge e delle funzioni svolte dalle strutture di un DSM" prosegue PD. "Possono mai essere trattati i pazienti acuti (per definizione quelli in TSO) in strutture deputate alla riabilitazione, come sono appunto quelle residenziali e semiresidenziali? Come può una struttura semiresidenziale, che è attiva solo di giorno, trattare un paziente in TSO che necessita di cure 24 ore su 24?"
E' previsto che laddove le prestazioni contenute nei LEA "non siano fruibili nella regione di residenza…le stesse possono essere usufruite, previa attestazione del DSM competente, presso i Servizi pubblici o privati accreditati sul territorio nazionale". "Questo è in contrasto con lo spirito delle leggi vigenti nazionali e regionali in materia psichiatrica, con i due Progetti- Obiettivo "Tutela della Salute Mentale"" spiega ancora PD. "Tutta la normativa ha sempre evidenziato l'importanza di assicurare la continuità terapeutica nel trattare il disagio là dove nasce, di sviluppare un rapporto costante con il territorio d'appartenenza, per favorire i processi d'inserimento sociale e lavorativo e per lottare contro il pregiudizio. Ciò non è possibile se si afferma la tendenza a deportare gli utenti in luoghi lontani dalla propria comunità e dai propri affetti. L'emigrazione ha già arrecato tanti danni, quella psichiatrica può causarne ancora di più".
Psichiatria Democratica denuncia, dunque, il tentativo da parte del Governo di introdurre attraverso queste assurde "linee- guida", quelle misure già contenute nella proposta di legge Burani- Procaccini, caratterizzate da aspetti pesantemente illiberali, che rilanciano le strutture della cronicità, insieme agli interessi dei privati.
"E', necessario, allora, che le stesse organizzazioni e gli stessi cittadini che si sono opposti alla revisione della legge 180 e che in migliaia e migliaia hanno sottoscritto, nei mesi addietro, l'appello di Psichiatria Democratica, insieme a tutti coloro che hanno a cuore le libertà sancite dalla nostra Costituzione, boccino con forza queste indicazioni governative palesemente contrarie ai più elementari diritti delle persone" conclude il comunicato di PD.
Iscriviti a:
Post (Atom)