venerdì 16 luglio 2004

Elsa Morante
il comunismo che non si era ancora visto

Sul prossimo numero di Quaderni Radicali (86), che esce in edicola il 7 agosto allegato a "il Riformista", ci sarà la mia recensione di un librino di Elsa Morante (edito da nottetempo) che consiglio vivamente. Ve la allego in anteprima. Paolo Izzo

Il comunismo che non si è ancora visto
di Paolo Izzo


L’agenda è piena di idee; gli stimoli sovrabbondano e la penna è pronta a raccoglierli per incidere nomi e parole sul biancore illibato del foglio. Quando, sotto la lampada gialla della scrivania, compare un libricino rosso e nero, piccolo e grande, antico ma presente. Si chiama appunto “Piccolo Manifesto dei Comunisti (senza classe né partito)”. Sono poche pagine di Elsa Morante, che Nottetempo pubblica nella collana “i sassi”. La scrittrice, parafrasando il Manifesto di Marx e Engels, cominciava così:
"1. Un mostro percorre il mondo: la falsa rivoluzione.
"2. La specie umana si distingue da quelle degli altri viventi per due qualità precipue. L’una costituisce il disonore dell’uomo; l’altra, l’onore dell’uomo.
"3. Il disonore dell’uomo è il ‘Potere’. Il quale si configura immediatamente nella società umana, universalmente e da sempre fondata e fissa sul binomio: ‘padroni e servi’ – ‘sfruttati e sfruttatori’.
"4. L’onore dell’uomo è ‘la libertà dello spirito’. E non occorrerebbe precisare che qui la parola ‘spirito’ (non foss’altro che sulla base delle scienze attuali) non significa quell’ente metafisico-etereo (e alquanto sospetto) inteso dagli “spiritualisti” e dalle comari, ma anzi la realtà integra, propria e naturale dell’uomo […]".
Si potrebbe continuare fino al tredicesimo punto di questa folgorante testimonianza, senza mai pentirsi di trascrivere simili dichiarazioni né di aver trascurato, per farlo, le idee appuntate nell’agenda di cui sopra. Perché il Manifesto di Elsa Morante vale come se fosse stato scritto per ieri, per oggi e per domani…
Ma si farebbe un torto al coraggio e alla bravura di quelli di Nottetempo e si toglierebbe il gusto di impossessarsi di questo volumetto con la copertina rossa e nera.
Già pubblicato in "Linea d’ombra" nel 1988, il Manifesto risale al 1970 o giù di lì, come precisa Goffredo Fofi in una nota conclusiva. Ed è Fofi stesso ad ammettere la svista sua e degli altri quando in quell’anno arrivavano le parole lungimiranti della Morante: che, inascoltate, avvertivano dei germi che avrebbero ammalato la cosiddetta rivoluzione comunista.
Oggi potremmo aggiungere che la rivoluzione fallì per la totale assenza di una qualsiasi ricerca sull’inconscio, senza la quale la “libertà dello spirito” è destinata a soccombere; si può dire che, come la Storia ci ha insegnato, quasi tutte le rivoluzioni sono fallite per lo stesso motivo, per aver voluto cioè consacrare l’esito dello scontro sull’altare della dea Ragione.
Ma dal ’68 in poi, l’euforia e una certa ideologia astratta tendevano trappole consistenti e illusorie, per rendersi conto del pericolo cui si andava incontro. Elsa Morante metteva sull’avviso: se il cosiddetto “movimento” avesse rinunciato alla propria rigidità per dare ascolto a quanti come lei prevedevano il fallimento, ci saremmo probabilmente risparmiati gli anni di piombo, la lotta armata, etc. (non è un caso che al Manifesto segua una lettera della stessa Morante alle Brigate Rosse, ma questo è un altro capitolo ancora). Ci troveremmo a vivere in una realtà forse più sana e sicuramente più orientata verso la considerazione delle esigenze psichiche, piuttosto che sulla mera soddisfazione dei bisogni materiali (cosa che, tra l’altro, continua a essere retaggio di pochi). È la libertà dello spirito di cui parla Morante (e aggiungiamo noi, la sanità mentale), il bene che primariamente dovrebbe essere accessibile a tutti. E forse a questa cosa si potrebbe dare quel nome antico, poiché ne è cambiato il senso: comunismo, appunto.

“Piccolo Manifesto dei Comunisti (senza classe né partito)”
di Elsa Morante
nottetempo “i sassi”, aprile 2004, pp. 32

(Anteprima da “Quaderni Radicali” n. 86, in uscita il 7 agosto)

la noia

Repubblica 16.7.04
UN BRILLANTE SAGGIO CHE SPIEGA LA NOIA
di FRANCO MARCOALDI


Tra i tanti effetti della società di massa, c´è anche quello di una progressiva diffusione «democratica» della noia. Quello che un tempo sembrava un fenomeno marginale, appannaggio esclusivo di nobili e monaci, da un certo punto in avanti - segnatamente dal Romanticismo - comincia a diventare un´esperienza capillare, generalizzata. Di massa, appunto.
Questa almeno è l´idea che propone un giovane filosofo norvegese, Lars Fr.H.Svendsen, nel suo saggio La filosofia della noia (traduzione di Giovanna Paterniti, Guanda, pagg. 206, euro 13). E per suffragare tale tesi intesse, al modo benjaminiano, un saggio crivellato da mille citazioni: di Pascal e Schopenahuer, Nietzsche e Adorno, Kierkegaard e Heidegger; senza contare la letteratura (Goethe, Flaubert, Bernanos, Pessoa, Ballard, Kundera, Moravia) e la musica rock.
Meno fascinosa della malinconia, meno grave della depressione, e perciò stesso meno indagata da filosofi e psichiatri, la noia «è un fenomeno vago e multiforme», difficile da afferrare. Anche perché, afferma Svendsen, è impossibile stabilire «se il mondo ci appare privo di senso perché ci annoiamo, o se ci annoiamo perché il mondo ci appare privo di senso». Ma ecco che così procedendo il filosofo norvegese ha già stabilito un punto fermo: l´inestricabile nesso tra noia e senso. Essendo sempre più difficile rintracciare il secondo, ecco perché la noia è oggi più diffusa che mai, come ci conferma «l´inusitato proliferare dei "placebo sociali". Quanto più si moltiplicano i surrogati di significato, tanto maggiore dev´essere la carenza cui devono sopperire».
Svendsen è terrorizzato all´idea di scrivere un saggio noioso sulla noia. E in effetti riesce brillantemente ad evitare questo rischio. Aggiungendo poi, da bravo filosofo, che il suo scopo non è di offrire soluzioni, ma soltanto di chiarire il problema: «la noia non è una questione di inoperosità, ma di significato». Basta leggere il Libro dell´inquietudine di Fernando Pessoa per averne conferma: «Il tedio pesa di più quando non si ha la scusa dell´ozio. Il tedio dei più grandi indaffarati è il peggiore di tutti. Il tedio non è la malattia della noia di non aver nulla da fare, ma una malattia peggiore: sentire che non vale la pena di fare alcunché. E poiché è così, quanto più c´è da fare, tanto più tedio bisogna sentire».

è stata la Musa degli esistenzialisti
Intervista a Juliette Gréco

La Stampa 16.7.04
INTERVISTA
«Jujube» racconta la sua straordinaria vita. E questa sera alla Milanesiana verranno letti alcuni brani dell’autobiografia
Juliette Gréco: «La mia voce nasce dal silenzio»
PASSIONI
di Paolo Di Stefano


Dice che la sua voce è nata dal silenzio. Dal silenzio dell’infanzia, quando si ostinava a non rispondere alle domande della maestra anche a costo di venire espulsa dall’aula per il suo mutismo. Ora, a 77 anni, non le resta che fare il conto delle tante espulsioni della sua vita: soprattutto quelle che lei, Juliette Gréco, ha imposto agli uomini, dopo aver assistito impassibile al decomporsi dell’amore. Un lungo elenco: dall’attore Philippe Lemaire a Michel Piccoli. «Mi disgusta la decomposizione dei sentimenti, mi disgusta - dice - voglio solo ciò che rispetto, ciò che amo e ciò che ammiro. Quando il sentimento muore, me ne vado. Per me esistono solo le cose belle da vivere, tutto il resto lo rifiuto». Forse per questo, la sua è una vita vissuta all’insegna della resistenza a oltranza. Resistenza al senso comune, alla banalità. Che cosa significa resistere, lo imparò ben presto, quando capì che sua madre era una attivista partigiana che durante la guerra nascondeva in casa uomini mai visti e per questo venne arrestata dalla Gestapo nel ’43.
Oggi, di sua madre Juliette conserva soprattutto due ricordi, il più bello e il più brutto: «Il più duro è molto lontano: avevo tredici anni, ero molto arrabbiata, alzai le mani su di lei, le tirai una sberla. È un ricordo terribile, non riesco a liberarmene. Il più bello è il suo ritorno dal campo di concentramento, ero a Parigi da sola e il giorno in cui lei tornò non posso dimenticarlo...». La memoria? «Un dovere e una ricchezza» dice. Dovere è anche dimenticare, a volte. Per esempio, dimenticare un padre mai conosciuto: «Lo vidi quando ero molto piccola, poi tre volte quand’ero adulta, era un tipo molto bello, ma per me non era mio padre».
Ricordare e dimenticare. Questa sera la cantante francese, Jujube per gli amici, sarà a Milano per una serata di letteratura e musica. Verranno lette alcune pagine dell’autobiografia ( Jujube , pubblicata nell’82 dall’editore Stock) in cui Juliette parla dell’infanzia e dei sentimenti. E anche di qualche incontro. Come quello, lontanissimo, con François Mauriac, al ristorante La Méditerranée di Place de l’Odéon: «Ero molto giovane, povera, con i piedi nudi, un maglione nero, un paio di pantaloni neri, fui invitata lì da Christian Bérard e Boris Kochno, il quale mi aveva visto danzare all’Opéra e voleva creare un balletto per me, mi voleva convincere a tornare alla danza. Io sapevo che non sarei tornata, ma accettai l’appuntamento soprattutto perché a quei tempi avevo fame e non sempre riuscivo a mangiare; quando entrai, la gente si voltò per vedere quella poveraccia in un locale così elegante. A un certo punto vidi un distinto signore, alto e di una certa età, che si alzò da un tavolo, allargò le braccia e cominciò a urlare: "Bonjour, Gréco...". Venne ad abbracciarmi e la gente rimase stupita... Mauriac che salutava una piccola miserabile come me... Al suo tavolo c’era l’attrice Edwige Feuillère, una donna che avrei stimato e amato per tutta la vita».
Jujube la selvaggia, la solitaria, la silenziosa, l’indomabile. Jean-Paul Sartre, quando insieme frequentavano il Café Flore, scrisse canzoni per la sua Juliette perché, diceva, «solo grazie a lei le mie parole possono diventare pietre preziose... La sua voce contiene milioni di canzoni, milioni di poesie». Non solo Sartre, si sa: Camus, Prévert, Queneau, Vian, Cocteau, Gainsbourg, Béart, Aznavour, Ferré. E Brel, « il più generoso, il più puro, scriveva canzoni con la stessa forza con cui van Gogh dipingeva».
Erano gli anni dell'immediato dopoguerra e Saint-Germain-des-Près era il centro del mondo: «Magnifico, durante la guerra nessuno era interessato ai bambini, noi non potevamo neanche parlare a tavola, non avevamo diritto di parola. Di colpo, con gente come Sartre e Simone de Beauvoir, scoprimmo di essere diventati adulti... Tutti avevano una loro forza, una loro generosità, una loro intelligenza, ero sbalordita».
E oggi, è possibile oggi lo stesso sbalordimento? «Sono ancora una donna sbalordita... conosco ancora gente magnifica, forse non saranno le stesse persone di un tempo, nessuno è sostituibile, ognuno è un caso unico, credo. Però ho ancora molta speranza, anche se il contesto politico e sociale è molto più difficile che negli anni del dopoguerra, non c’è più quel fervore, quella speranza folle di eguaglianza e di fraternità. Oggi è più difficile, ma bisogna continuare a battersi».
La definizione che più le piace è: Jujube, una donna in piedi. «Sì, bisogna restare sempre in piedi, combattere tutto quello che si detesta. Cantare in piedi contro i pericoli: la menzogna, il razzismo, l’immobilismo...». Al Tabou di rue Dauphine, con Vian e Cocteau, si cantava in piedi. C’era anche Miles Davis, che suonava in piedi. «Era un locale per bambini felici e, se c’erano vecchi, erano dei vecchi bambini felici. Miles Davis è tra i miei amori più belli, ci siamo amati subito, come dei bambini. Quanto tempo è passato... per le mie storie d’amore non ho il senso degli anni che passano... Forse fu quando cominciai a cantare, nel ’49, credo».
La gioventù. Quanto le manca la gioventù? «Non mi manca perché è all’interno di me, sono io che sono stanca, non la mia giovinezza». Prima venne la danza, poi il teatro, infine il canto. Che differenza? «Nessuna differenza, sono tre attività che impegnano allo stesso modo la totalità del comunicare, il corpo, lo spirito, la voce». Come la scrittura? «Per la scrittura è diverso: a un certo punto mi sono detta: posso morire da un momento all’altro, bisogna che dica la mia verità, che non è la verità degli altri, ma solo la mia. Ho scritto l’autobiografia, ma non ho ancora finito di dire la verità, la mia verità».

Stephen Hawking: mi ero sbagliato

Repubblica 16.7.04
Lo scienziato Stephen Hawking annuncia un'importante scoperta: la relazione tra pochi giorni a Dublino. La notizia sul "New Scientist"
Buchi neri, una nuova teoria "Non spazzano via tutto"

I suoi precedenti studi contraddicevano le leggi della fisica
I 3 satelliti saranno lanciati nel 2012, ma una versione in miniatura partirà fra quattro anni
L´apparente paradosso dei mulinelli cosmici sarebbe ora stato risolto
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
ENRICO FRANCESCHINI


LONDRA - C´è un grosso buco nella teoria dei «buchi neri», e lo scienziato che l´ha inventata si appresta a riempirlo. Sulla base di nuove ricerche, Stephen Hawking, il più famoso fisico vivente, è pronto ad ammettere di essersi sbagliato. Per trent´anni, l´eminente studioso inglese ha difeso la nozione che i «buchi neri», lo stadio finale dell´evoluzione di una stella, non lasciano sfuggire nulla verso lo spazio esterno, neppure la luce, distruggendo tutto ciò che risucchiano senza lasciare traccia di niente. Ma nei giorni scorsi l´autore del best-seller mondiale «Breve storia del tempo» ha scritto agli organizzatori di una conferenza che si terrà a Dublino la settimana prossima, chiedendo di poter fare un intervento sull´argomento: «Ho risolto il paradosso dei buchi neri e vorrei parlarne», diceva il messaggio, inviato a Curt Cutler, fisico dell´istituto Albert Einstein di Golm, in Germania, che presiederà il convegno.
«Non ci ha mostrato niente di scritto, ma sulla base della sua grande reputazione lo abbiamo inserito all´ultimo momento nella lista dei relatori», riferisce il professor Cutler al settimanale britannico "New Scientist". Andando a interrogare collaboratori e allievi di Hawking alla Cambdrige University, la rivista ha avuto la conferma che il sessantaduenne scienziato, quasi completamente paralizzato e immobilizzato su una sedia rotelle per una grave malattia neurologica, intende rivedere le proprie convinzioni.
Nel 1976 Stephen Hawking spiegò il fenomeno con la teoria del «paradosso dei buchi neri». Aveva calcolato che, una volta formatosi, un «buco nero» comincia a perdere massa trasmettendo radiazioni di energia; che tali radiazioni non contengono alcuna informazione sulla materia all´interno del «buco nero»; e che quando un «buco nero» evapora, non ne resta alcuna traccia. La sua scoperta era in contraddizione con le leggi della fisica quantistica, secondo cui è impossibile spazzare via completamente le tracce di ciò che esiste. Ma il fisico rispondeva a questo apparente paradosso affermando che i campi gravitazionali dei «buchi neri» hanno una tale intensità da sconvolgere le leggi della fisica.
Pur non convincendo tutti i suoi colleghi, la teoria gli ha dato grande fama internazionale. Aiutato anche dalle cinque milioni di copie vendute dal suo libro «Breve storia del tempo», poco per volta Hawking ha fatto entrare i «buchi neri», uno dei più complicati misteri della scienza, nel linguaggio di tutti i giorni. L´idea che l´universo sia cosparso di spaventose trappole galattiche che risucchiano la materia e la consegnano all´oblio, ha affascinato a lungo chiunque alza gli occhi al cielo in una notte stellata.
Mercoledì prossimo, a Dublino, il professor Hawking dovrebbe rivelare che le cose non stanno esattamente così: quei mulinelli cosmici non risucchiano proprio tutto, qualche informazione sfugge al loro vortice e può arrivare fino a noi. Sarà un altro piccolo passo nell´impresa di comprendere i segreti dell´universo. Ma non potremo più usare «buco nero» come metafora di un tritacarne che tutto inghiotte e tutto fa scomparire.

Repubblica 16.7.04
L'INTERVISTA
Stefano Vitale, docente di fisica a Trento
"La nostra missione li vedrà da vicino"
di CLAUDIA DI GIORGIO


ROMA - «Non sarà uno scoop mediatico. Il contesto della conferenza di Dublino sulla relatività generale è molto serio; conoscendo Hawking sono certo che porterà un risultato scientifico, una teoria, un calcolo che dimostra, o cerca di dimostrare, quantitativamente dov´è finita l´informazione sfuggita al buco nero». Stefano Vitale è ordinario di fisica sperimentale all´università di Trento e fa parte del comitato scientifico che organizza la conferenza dove Stephen Hawking presenterà la soluzione al paradosso che lui stesso ha contribuito a creare.
La conferenza è dedicata alla relatività generale di Einstein, di cui nel 2005 si celebra il centenario. La scoperta di Hawking cambierebbe qualcosa?
«Il paradosso nasce tra l´interazione tra relatività generale e la meccanica quantistica, l´altra grande rivoluzione concettuale del XX secolo, e il matrimonio tra queste due teorie è tutto da concludere. La soluzione del paradosso sarebbe un passo avanti nella comprensione di uno dei suoi aspetti, ma la relatività generale è solida, non ha bisogno di questo, è dimostrata da un´enorme quantità di esperimenti».
Lei è responsabile scientifico per l´Agenzia spaziale italiana di una missione che permetterà di osservare i buchi neri in modo mai fatto prima d´ora. Di cosa si tratta?
«La missione si chiama LISA Pathfinder e fa da battistrada a un grande progetto congiunto Esa e Nasa per mettere in orbita LISA, un osservatorio delle onde gravitazionali previste da Einstein, che saranno un potentissimo strumento di osservazione dell´universo e dei buchi neri. Che in un certo senso sono "neri" perché non ne esce niente, eccetto le onde gravitazionali, che sono l´unica cosa prodotta dai buchi neri».
Quando partirà il progetto?
«L´osservatorio LISA, che è composto da tre satelliti, sarà lanciato nel 2012. Ma poiché si basa su tecnologie molto sofisticate, l´Esa ha appena approvato la realizzazione di LISA Pathfinder, una versione in miniatura di una parte dell´osservatorio, che servirà a dimostrare la fattibilità di questo ambizioso obiettivo, e che partirà nel 2008».

Macaluso e la storia del Pci

Repubblica 16.7.04
La rivista di Macaluso
Intellettual e Pci tra abiura e rimpianto
di NELLO AJELLO


Abiura, rimpianto, vittimismo. Di questi stati d´animo, che segnano la psicologia di tanti ex comunisti, si trovano poche tracce in quella autobiografia, intitolata 50 anni nel Pci, che Emanuele Macaluso - togliattiano, parlamentare, direttore dell´Unità dal 1982 al 1986 - ha pubblicato di recente presso l´editore Rubbettino. E´ un racconto gremito di personaggi e ricco di riflessioni ad uso dei vecchi e nuovi «compagni».
Non a caso nella rivista Le nuove ragioni del socialismo, che Macaluso dirige, storici ed ex militanti del Pci ne hanno tratto spunto per rivisitare le vicende di quel partito. Lungo due visuali: da un lato il suo grado di dipendenza dall´Urss e dall´altro il suo radicamento «italiano» e democratico. Luciano Cafagna ha espresso considerazioni assai fini sulla tendenza degli ex comunisti di guardare al loro passato politico come a un romanzo di formazione, quasi riproducendo «il comunismo realizzato in una sola persona».
Massimo L. Salvadori si è soffermato sulle due anime del Pci, cui si accennava. Soltanto le «dure repliche della storia» costrinsero quel partito a una scelta. Ancora al XVI congresso del 1983 - ha ricordato fra l´altro - Berlinguer dichiarava «impercorribili» le tradizioni della socialdemocrazia; e anche più tardi la minoranza guidata da Napolitano, detta «migliorista», venne isolata. In definitiva, fra quelle due facce del comunismo italiano non vi fu «una tensione o una contraddizione ma un´organica compenetrazione». Fino agli ultimi esiti.
E´ stata proprio questa irrisolta antinomia fra il sentirsi «comunisti italiani» o «italiani comunisti» - incalzerà Franco Ottolenghi - a impedire, all´epoca del «secondo 89», con Occhetto, «un accesso senza riserve» al riformismo di marca occidentale.
A somministrare un antidoto a queste critiche s´è adoperata Rossana Rossanda. Mai, afferma in sostanza l´autrice nel numero di maggio della rivista, il comunismo nostrano fu davvero succubo dell´Unione Sovietica. L´adesione del Pci al blocco del patto di Varsavia valeva come un mero «segno di contraddizione» rispetto allo schieramento dell´Alleanza atlantica. Qualcosa di forzato. «Gli altri - sosteneva Amendola - hanno alle spalle gli Stati Uniti. Noi dobbiamo tenere l´Urss». Al di là di questo, il Pci trovò la propria ispirazione lungo le linee della cultura meridionale di Labriola, De Sanctis, Salvemini, Dorso, Gramsci. Niente o poco Andrej Zdanov. A mostrare i segni della cultura comunista valgono «più i cataloghi di Einaudi che quelli degli Editori Riuniti».
Filosovietico a malincuore e persino poco marxista, il Pci fu da sempre genericamente democratico e «occidentale» (fin troppo, si legge fra le righe): ecco, in sintesi, l´opinione della fondatrice del Manifesto. Opinione che, nel suo intervento, Biagio de Giovanni confuta, rovesciandola: è vero che da noi la cultura comunista si riconobbe in gran parte, simbolicamente, nel catalogo Einaudi, ma ciò va ascritto a suo merito. Dimostra che nei ranghi intellettuali del Pci si riuscì a «comprendere laicamente il valore dell´organizzazione della cultura». Quando, a partire dagli anni Settanta, questo schema «liberale nel senso di non-zdanoviano» venne abbandonato, l´intellighenzia comunista «non ebbe più molto da dire alla società italiana».
Il confronto prosegue nel numero di luglio, nel quale Paolo Favilli rivendica come massima benemerenza del Pci l´aver onorato la «cultura della storia»; e cita in proposito Emilio Sereni (1907-1977), che, pur essendo seguace e propugnatore delle teorie zdanoviane, con i suoi lavori sul paesaggio agrario italiano seppe ergersi a «maestro di innovazione storiografica». Il che per Sereni è certamente vero, ma non tutti gli storici comunisti a lui coevi furono di pari livello, e che non fu questa parte «positiva» del suo magistero la più ascoltata all´interno del partito di Togliatti.

storia del Pci
Giuseppe Di Vittorio

Corriere della Sera 16.7.04
Di Vittorio, il volto riformista del Pci
di PAOLO FRANCHI


Il bel libro che Antonio Carioti ha scritto su Giuseppe Di Vittorio per la collana del Mulino «L’identità italiana» può essere utile anche ad animare una discussione, quella sulle radici storiche e politiche del nostro riformismo, della cui sostanziale assenza i primi a risentire sono stati ovviamente i diretti interessati. Fu riformista, seppure a suo modo, e pure pagando tutti i prezzi del caso ai suoi tempi e al suo credo ideologico, il grande sindacalista di Cerignola? E, nel caso, in che senso? Carioti, a dire il vero, rifugge dal formulare risposte univoche in materia: ma non credo di forzare troppo il suo pensiero dicendo che, alle strette, propenderebbe per il sì, come ha fatto, tra gli altri, lo storico Piero Craveri. Emanuele Macaluso, nel suo libro Cinquant’anni nel Pci , edito da Rubbettino, si mostra dello stesso avviso e anzi entra nel merito. «Il più amato dei leader sindacali fu - scrive - il volto riformista» del partito e, aggiunge, non si può comprendere «perché il Pci ha avuto il ruolo che ha avuto» senza «sforzarsi di capire chi fu e cosa rappresentò Di Vittorio nel popolo, ma pure nella considerazione delle classi dirigenti». Non solo. A riprova del riformismo di Di Vittorio, Macaluso cita aspetti cruciali della sua concezione del sindacato, ma anche, più in generale, di quello che un tempo si chiamava il «movimento operaio». Non considerò le riforme come «momenti di rottura» del capitalismo, nell'ambito «della transizione a un altro sistema», ma come «passi avanti per migliorare le condizioni di vita dei lavoratori e la società». Fu tra i primi a sinistra, e non solo nel Pci, a pensare - perché questo fu, nel 1949, il Piano del lavoro elaborato dalla Cgil - che il movimento operaio dovesse essere protagonista consapevole della costruzione, in Italia, dello Stato sociale. Pose a soggetto del suo riformismo, prima ancora delle riforme, il lavoratore: e proprio sulla scorta di questa concezione della politica e della democrazia, per la quale sotto nessun cielo è lecito sparare sugli operai, nel 1956, di fronte alla rivoluzione ungherese, dissentì dalla posizione del Pci.
Comprendo bene le motivazioni di chi, come ha fatto Oscar Giannino sul Foglio , recensendo il libro di Carioti, rifiuta, tutto al contrario, di considerare Di Vittorio un «criptoriformista». Perché pronunciò dei no coraggiosi e ne pagò il prezzo, «ma senza evitare poi l'allineamento e fiumi di elogi del modello sovietico»; e perché, a stringere, non venne a capo del dramma irrisolto di un sindacalismo «di classe» impossibilitato, quasi per definizione, a formulare «un'aperta divergenza strategica con il Pci di Togliatti». Vero. Come è vero che non colse, negli anni Cinquanta, le potenzialità di sviluppo della società italiana e che sbagliò a contrastare la linea di contrattazione aziendale adottata dalla Cisl e che, insomma, un moderno sindacato riformista non riuscì a costruirlo e anzi, probabilmente, non lo immaginò nemmeno. Come è vero, ancora, che è bene restare guardinghi di fronte alla sapienza della tradizione comunista e postcomunista nell'«estrarre magistralmente, dal proprio interno (...) i migliori eroi e simboli attualizzati di scelte mai compiute nella realtà, quando erano necessarie». Ma penso pure che ancora più guardinghi bisognerebbe restare di fronte a un’idea esangue di riformismo. Ricco di grilli parlanti e di mosche cocchiere, ma senza precedenti, seppure irrisolti e contraddittori, nella vicenda nazionale. Senza antenati, ancorché discutibili. Senza contraddizioni, magari anche terribili. Senza storia, e quindi senza popolo. Così limpido e lineare, da non poter esistere in natura.

uomini e topi
«monitorare l'attività del cervello 'vivo' a livello cellulare»

Yahoo! Notizie (ADNKRONOS) 14.7.04
Cervello: Tecnica 'Fotografa' Attivita' Singoli Neuroni


New York, 14 lug. (Adnkronos Salute) - Ricercatori Usa hanno messo a punto una tecnica che, per la prima volta, monitora l'attivita' del cervello 'vivo' a livello cellulare. In futuro potrebbe essere usata "per svelare ai ricercatori come i farmaci agiscono a livello di neuroni specifici", spiegano gli studiosi della Carnegie Mellon University sul Journal of Neuroscience. In questo modo, la scoperta potrebbe facilitare la messa a punto di nuove strategie terapeutiche. Recenti studi hanno permesso di mappare aree del cervello reponsabili di alcune attività, come la memoria, il comportamento o la percezione. Ma fino ad ora non si potevano 'fotografare' i singoli neuroni, precisa Alison Barth, responsabile della ricerca Usa. Per superare questo limite, il team ha condotto esperimenti su topi di laboratorio: in particolare, sono stati modificati alcuni geni degli animali, in modo che una proteina fluorescente si 'accendesse' quando veniva attivata una particolare cellula nervosa nel cervello. In futuro si potra' capire se un farmaco funziona su un neurone specifico, semplicemente guardando se la proteina brilla. Usando questa tecnica la dottoressa Barth ha identificato l'area specifica del cervello del topo coinvolta nell'elaborazione dell'informazione sensoriale che arriva all'animale da un singolo baffo. Si tratta della prima 'fotografia' dell'attivita' cerebrale a un livello cosi' specifico e in risposta a uno stimolo sensoriale, dice la studiosa. «Il nostro topo transgenico - precisa alla Bbc online - e' un modello che puo' essere usato per visualizzare, nel tessuto cerebrale vivente, un singolo neurone attivato in risposta a uno stimolo». Ora il topolino e' stato brevettato e i ricercatori pensano che potra' agevolare la messa a punto di farmaci per psicopatologie come la schizofrenia. «Se, ad esempio, si studia l'ansia - spiega la ricercatrice - alcuni neuroni si attivano in risposta a questa sensazione, ma non tutte le cellule cerebrali rispondono nello stesso modo. Questa tecnica ci permette di scoprire quali sono le cellule piu' alterate e di 'disegnare' farmaci specifici, dall'effetto mirato». (Mal/Adnkronos Salute)

Paolo Izzo
un racconto ed un'intervista a Tony Carnevale

un racconto di Paolo Izzo

"Presenza in assenza"


è stato pubblicato nella raccolta "Parole in corsa II", edita da Full Color Sound, in libreria (10 €).
I testi contenuti nel volume sono 186 e rappresentano una selezione dagli oltre 800 racconti partecipanti al concorso nazionale omonimo

inoltre
una intervista, sempre di Paolo Izzo
a
TONY CARNEVALE
può essere letta a questo indirizzo

puoi leggere entrambi i testi anche su SPAZI
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