una segnalazione di Peppe Cancellieri
La Stampa 24 Febbraio 2004
A ROMA IL CONGRESSO DELLA SOCIETÀ DI PSICOPATOLOGIA
«I segreti di killer e kamikaze»
Studiosi da tutto il mondo per «capire» la violenza
di Daniela Daniele
ROMA. Psichiatri italiani e stranieri si confronteranno, a partire da oggi e per cinque giorni, nel IX congresso della Società italiana di psicopatologia che si tiene nella capitale. «Tra le discipline mediche - osserva Paolo Pancheri, presidente del convegno -, la psichiatria è quella che, più di ogni altra, rappresenta l’area di confine tra il somatico e il sociale, tra il biologico e lo psichico, tra il molecolare e l’interpersonale». Il congresso darà uno spazio rilevante al tema dei rapporti mente-cervello. «I tempi sono maturi - spiegano gli organizzatori - per una “clinica del cervello” dove i confini tra “organico” e “psichico” sono andati sfumando sempre di più, fino a perdere il loro significato». E proprio il rapporto tra struttura cerebrale e correlati intrapsichici è uno degli argomenti di maggior interesse del congresso, soprattutto alla luce dei più recenti dati della ricerca.
Altro tema, purtroppo di sempre maggiore attualità: la violenza. Lo psichiatra è sempre più spesso chiamato a valutare quando comportamenti aggressivi e antisociali debbano essere oggetto di attenzione clinica e si debbano, quindi, ricondurre a psicopatologie. Diverse le relazioni al riguardo. Tra le altre: «Il crimine violento è un disturbo psicopatologico?»; «Il Kamikaze: la follia della normalità»; «Aggressività e ricoveri psichiatrici».
Argomento di grande importanza per comprendere lo sviluppo di certe patologie della psiche è il rapporto tra il disagio psicologico infantile e quello dell’adulto. Fino a poco tempo fa, la psichiatria dell’adulto e quella del bambino hanno operato in compartimenti nettamente separati. Quadri clinici ed esordio in età evolutiva, però, sono di comune riscontro in psichiatria generale e si è visto che la matrice di molti disturbi dell’adulto si ritrova in problemi che hanno avuto il loro inizio nell’età infantile. Verranno anche trattati temi che muovono a emozioni forti, come la morte. Per esempio, il rapporto tra medico e paziente nelle situazioni di fine della vita. O l’eutanasia. Esperti dalla Svizzera e dall’Olanda parleranno dell’esperienza nei loro Paesi.
Cinema e psichiatria, un binomio che è ormai parte della tradizione dei congressi Sopsi. Anche quest’anno, verrà dato ampio spazio all’argomento, mostrando come il cinema sia diventato lo strumento più efficace e potente nella discussione interattiva di casi clinici, nella conoscenza della realtà della psichiatria e nello studio di particolari caratteristiche del funzionamento mentale. «La richiesta di aiuto psicoterapeutico - continua il professor Pancheri - è andata aumentando in ampi strati della popolazione e i farmaci di interesse psichiatrico hanno sempre più un’ampia diffusione, favorita dalla loro sempre maggiore tollerabilità ed efficacia».
In pieno sviluppo anche la ricerca in questo campo che, attualmente, «occupa una posizione di leadership» tra le discipline mediche. «L’importanza della psichiatria nel modo di sentire collettivo - conclude il presidente del congresso - è riflessa dallo spazio crescente dato dai mass media ai problemi psichiatrici che interessano ampie aree della popolazione; anche le leggi che interessano l’assistenza psichiatrica hanno risonanza nazionale».
Yahoo Notizie Martedì 24 Febbraio 2004, 12:09
PSICHIATRIA: DEPRESSO 1 ITALIANO SU 5, SINTOMO E' DOLORE FISICO
(ANSA) - ROMA, 24 FEB - Un dolore fisico che le analisi non riescono a spiegare, dal mal di testa al mal di stomaco. E' il volto nuovo con il quale si rivela la depressione: una patologia in crescita che colpisce un italiano su cinque, in particolare sempre piu' donne e giovani, mentre aumenta in modo preoccupante, sfiorando di otto anni, il lasso di tempo tra l'insorgere del disturbo e il ricorso alle cure.
A lanciare l'allarme sono stati oggi vari psichiatri ed esperti riuniti a Roma per il nono congresso della Società italiana di psicopatologia.
La depressione dunque, hanno affermato gli psichiatri, parla anche con il corpo e il dolore fisico. Da qui l'invito al medico di base a sospettare uno stato depressivo in quei soggetti che denunciano dolori fisici che non trovano una spiegazione nonostante svariate indagini. Ma qual e' la causa del dolore fisico nel soggetto depresso? Gli psichiatri Giovanni Biggio dell'Universita' di Cagliari, Mauro Mauri dell'Universita' di Pisa, Enrico Smeraldi dell'Universita' Vita e Salute di Milano e Riccardo Torta dell'Universita' di Torino hanno spiegato oggi che in questo tipo di soggetti si verifica un calo di due neurotrasmettitori, la noradrenalina e la serotonina, che rivestono un ruolo anche nel controllo del dolore. Riducendosi dunque la loro azione, nel soggetto depresso si amplifica la sensibilita' al dolore fisico. Per questo, hanno sottolineato gli esperti, preziosa e' l'azione della molecola Venlafaxina che ha la proprieta' di andare ad agire contemporaneamente proprio sui due neurotrasmettitori e curando la depressione combatte ed elimina anche il dolore fisico ad essa associato.
In Italia, avvertono gli psichiatri, la depressione e' dunque in aumento e i numeri lo dimostrano: ne soffrono in media 17 italiani su 100 ed ogni anno si verificano 250 casi in piu' ogni 10 mila abitanti. Un italiano su cinque, pero', ha gia' pagato o paga sulla propria pelle il peso della malattia. Ed ancora: due donne ogni uomo soffrono di depressione. Ma c'e' un altro dato che preoccupa gli esperti: il tempo che intercorre fra l'insorgenza della depressione e il ricorso alle cure, che puo' raggiungere anche gli otto anni e nel caso della psicosi i dodici anni. Un ultimo dato: tra quanti soffrono di depressione, la meta' non ha avuto diagnosi, mentre la meta' dei pazienti che pur hanno ricevuto una diagnosi non riceve cure adeguate. (ANSA).
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
martedì 24 febbraio 2004
psichiatria americana
e storia della cultura della droga
(sulle orme della cocaina di Freud)
Corriere della Sera 24.2.04
Lo psichiatra americano Humphry Osmond è morto
di Cesare Medail
Lo psichiatra americano Humphry Osmond è morto a 86 anni nella sua casa di Appleton (Wisconsin). Oggi lo ricorderanno in pochi, soprattutto in Europa; eppure, 50 anni fa Osmond coniò un termine, «psichedelico», che ha segnato più di una generazione e attraversato le culture alternative occidentali. Derivata dal greco «psyché» (anima) e «delôun» (mostrare), la parola indica gli effetti visionari della coscienza dilatata da droghe naturali quali la mescalina o sintetiche quali l’Lsd.
L’importanza culturale, però, di Osmond non sta tanto nei suoi studi prima sulla schizofrenia (notò che dava effetti analoghi a quelli della mescalina) e poi sull’alcolismo (cercò di curarlo con dosi di Lsd), quanto nel fatto che la sua «cavia» fu per qualche tempo Aldous Huxley (1894-1963), con il quale ebbe anche un carteggio rivelatore della cultura che generò le stagioni psichedeliche degli hippy, dei beat , degli stati alterati di coscienza, che ebbero proprio un viatico nei romanzi di Huxley (da Le porte della percezione a Paradiso e inferno).
«Per scandagliare l’inferno o librarsi nei mondi angelici, basta un pizzico di mescalina», scrisse Osmond; e Huxley accettò di fare la cavia, assumendo il fungo e scrivendo: «La maggioranza degli uomini conduce una vita così penosa o così limitata che la smania di trascendere se stessi è un bisogno ineluttabile, forse innato», soprattutto se non si trova più la trascendenza tramite «esercizi spirituali».
Nacque così il rifiuto «psichedelico» della società opulenta, consumista, ipertecnologia e priva di valori, inteso non come fuga del disertore ma come evasione da una prigione: una stagione che si sarebbe esaurita quando, dopo molte catastrofi personali legate all’Lsd, si cominciarono a percorrere altre vie quali la meditazione, lo yoga, i sogni, per cercare le proprie «uscite dal mondo».
Lo psichiatra americano Humphry Osmond è morto
di Cesare Medail
Lo psichiatra americano Humphry Osmond è morto a 86 anni nella sua casa di Appleton (Wisconsin). Oggi lo ricorderanno in pochi, soprattutto in Europa; eppure, 50 anni fa Osmond coniò un termine, «psichedelico», che ha segnato più di una generazione e attraversato le culture alternative occidentali. Derivata dal greco «psyché» (anima) e «delôun» (mostrare), la parola indica gli effetti visionari della coscienza dilatata da droghe naturali quali la mescalina o sintetiche quali l’Lsd.
L’importanza culturale, però, di Osmond non sta tanto nei suoi studi prima sulla schizofrenia (notò che dava effetti analoghi a quelli della mescalina) e poi sull’alcolismo (cercò di curarlo con dosi di Lsd), quanto nel fatto che la sua «cavia» fu per qualche tempo Aldous Huxley (1894-1963), con il quale ebbe anche un carteggio rivelatore della cultura che generò le stagioni psichedeliche degli hippy, dei beat , degli stati alterati di coscienza, che ebbero proprio un viatico nei romanzi di Huxley (da Le porte della percezione a Paradiso e inferno).
«Per scandagliare l’inferno o librarsi nei mondi angelici, basta un pizzico di mescalina», scrisse Osmond; e Huxley accettò di fare la cavia, assumendo il fungo e scrivendo: «La maggioranza degli uomini conduce una vita così penosa o così limitata che la smania di trascendere se stessi è un bisogno ineluttabile, forse innato», soprattutto se non si trova più la trascendenza tramite «esercizi spirituali».
Nacque così il rifiuto «psichedelico» della società opulenta, consumista, ipertecnologia e priva di valori, inteso non come fuga del disertore ma come evasione da una prigione: una stagione che si sarebbe esaurita quando, dopo molte catastrofi personali legate all’Lsd, si cominciarono a percorrere altre vie quali la meditazione, lo yoga, i sogni, per cercare le proprie «uscite dal mondo».
Cina
Liberazione 24.2.04
Europa e Stati Uniti alle prese con l'esuberante economia cinese. Volano le esportazioni in tutti i settori: dall'acciaio alle Nike copiate, dalle bevande al hig tech
"Made in China", sfida al mercato globale
di Maria R. Calderoni
Tanti tanti tanti tanti tanti piccoli cinesi. Alt. Non dire mai più che la Cina è vicina. Infatti la Cina non è vicina. La Cina è qui. Siamo belli che circondati. Basta guardare. Dati 2001, fonte Ocse: in Italia la Cina esporta bevande e tabacchi, cibo e bestiame, carburanti e lubrificanti, oli animali e vegetali, grassi e cere, prodotti chimici e affini, beni manifatturieri (a volontà), pelli, pelli lavorate e conciate, pellicce, prodotti in gomma sughero e legno, carta e simili, tessili, abbigliamento (a bizzeffe), prodotti minerali e metallici, ed eccetera.
Se non vi dispiace non solo bambole (il 75% della produzione mondiale di giocattoli è cinese, comunque), pantofole, Nike copiate, accendini-sorpresa, pigiami e magliette di ogni marca e seize. Dalla stessa fonte Ocse, si evince appunto che da noi arrivano "made in China" ferro e acciaio, macchinari e attrezzature da trasporto, macchinari specialistici, industriali, da ufficio, per processione dati automatica, per telecomunicazioni, per audioregistrazione, veicoli stradali, attrezzature da trasporto ed eccetera.
Non solo noi. In buona compagnia in Europa (un complessivo 17 per cento di business commerciale) siamo con Francia e Germania (quest'ultima totalizza un 4 per cento di import "giallo"); l'Asia assorbe un 54 per cento, l'America latina il 2,4.
Gli Usa, poi, guarda quelli. Loro toccano il 20,4 per cento (sono dati del 2001, sicuramente oggi sottostimati), un export-import Cina-Usa valutato in 150 miliardi di dollari l'anno. Dati strabilianti (e anche "destabilizzanti", dal punto di vista di certi "falchi"). «Nel 2002, su base annua quindi, le importazioni americane di reggiseni, vestaglie e magliette dalla Cina sono aumentate rispettivamente del 232%, del 540% e del 219%. Cifre che hanno letteralmente provocato grida di dolore da parte di gruppi di interesse nazionali, spingendo i politici a intervenire».
Tutt'altro che semplice, terribili scatole cinesi. Perché «se è vero che il Pentagono tende a vedere la Cina come una minaccia, è anche vero che con la Cina sono in ballo interessi commerciali molto forti: giganti come Boeing, Motorola, Citibank e Wal-Mart detengono infatti sempre più quote del mercato cinese».
Virgolette d'obbligo. Sono righe tratte infatti da Aspenia, il trimestrale edito dall'Aspen Institute, il cui ultimo numero si intitola "Il tempo della Cina" ed è interamente dedicato a decrittare il Macro Fenomeno che di nome fa Repubblica popolare cinese. Un numero anch'esso strabiliante per i dati, le ricerche, le analisi, le tesi che contiene. In sostanza, uno sguardo lungo e spregiudicato sull'ex Pianeta misterioso dell'altra sponda del Pacifico, 4 mila anni di storia, 1 miliardo e 350 milioni di persone - un quinto dell'umanità - il 50 per cento delle quali al di sotto dei 30 anni, Repubblica popolare a partito unico, quello che si chiama ancora (ancora, ancora!) Pcc (Partito comunista cinese).
Un immenso, dinamico ibrido i cui connotati Aspenia tratteggia così: «Una potenza economica globale, il Sistema del capitalismo comunista», una gigantesca nazione dove «pragmatismo politico, "cultura della convenienza", logica dei consumi occidentale incuneata in una struttura socialista fortemente ideologica», fanno della Grande Cina «un Paese politicamente definito "socialismo di mercato alla cinese", e culturalmente "socialismo postmoderno"». Il tutto sotto la guida della "quarta generazione" marxista-leninista con alla testa Hu Jintao.
Sostiene Aspenia.
L'occhio lungo dentro questa Cina ne vede, di cose: belle, brutte, bellissime, bruttissime, abbaglianti, oscure, contraddittorie, fantastiche, potenziali e no, tutte comunque ardue e colossali... Va bene. Gli esperti di prim'ordine che hanno collaborato al numero "cinese" della rivista concordano però, tutti, su un punto, piuttosto essenziale: «L'economia cinese è cresciuta a un tasso annuo dell'8-9% quasi per due decenni, conseguendo, come hanno riconosciuto le Nazioni Unite, il più grande e più rapido successo nella guerra alla povertà della storia dell'umanità».
Un enorme balzo della tigre in meno di quarant'anni, ma ancora insufficiente. Nonostante il record e l'immane sforzo, i poveri-poveri in Cina sono ancora il 10 per cento della popolazione (non meno di 150 milioni). Grandi dislivelli, anche drammatici, caratterizzano ancora le condizioni tra città e aree metropolitane e i territori interni, soprattutto le campagne; e tra regioni e regioni, con non pochi conflitti e tensioni sociali (cui non sarebbe estraneo, secondo gli analisti di Aspenia, un diffuso fenomeno di corruzione, soprattutto nei ranghi della burocrazia di Stato).
Una condizione non difficile da comprendere (e tutt'altro che da sottovalutare, proprio per le implicazioni sociali, umani e culturali che può significare). E possiamo aggiungere - per capire l'ordine di grandezza dei problemi della Cina di oggi, anno 2004 - che sono ancora almeno 700 milioni i contadini in condizione di pura sopravvivenza sull' immensa terra dell'ex Impero celeste.
Ciò semplicemente vuol dire che, nonostante l'enorme balzo della tigre, quasi il 70 per cento della popolazione cinese vive ancora in quelle sterminate aree rurali (o semi-urbanizzate) che sono rimaste indietro (praticamente escluse) dal nuovo standard industriale.
Un enorme problema, con 700 milioni sulla scena...
La Cina - questa la conclusione - resta un paese povero. Una nazione ancora debole (e tutt'altro che militarizzata).
Però una nazione in marcia: a differenza dell'India che «pur avendo un miliardo di abitanti non è riuscita vincere la battaglia contro la povertà», la Cina sta lì a dimostrare che «il fattore cruciale, nel destino dei Paesi, è la politica, non la popolazione».
E' anche errato, erratissimo parlare di "miracolo" cinese. Per il semplice fatto che il miracolo non c'è. Infatti la sbalorditiva transizione cinese è iniziata da oltre vent'anni - Aspenia la data dal 1979 - quando ha preso corso quello che la rivista definisce la "demaoizzazione", con la conseguente apertura al mercato (sia orientale che occidentale).
Il "caso" cinese; come si sa, è sotto esame, grandi dispute sono in corso, soprattutto nel mondo comunista. Ma è un argomento che qui non vogliamo trattare. Ci basta qui raccontare un po' quello che c'è, dentro il "miracolo" lungo vent'anni della Repubblica popolare cinese. Almeno 170 nuove città da 1 milione di abitanti create nell'ultimo ventennio; almeno 400 milioni di cittadini che si possono definire di ceto medio di tipo occidentale (Europa e Usa messi insieme), dei quali oltre 200 milioni decisamente affluenti (ricchi); almeno un milione e mezzo di studenti in ingegneria e materie scientifiche nelle università (sfornati 50 mila ingegneri all'anno, contro i 30 mila in Usa). C'è dentro un insonne e, per forza di cose, mastodontico, fervore di R&S, di Ricerca e Sviluppo; e ci sono dentro numeri da capogiro in fatto di potenzialità.
«Da molti punti di vista, la Cina è destinata a sostituire gli Stati Uniti come nuovo motore della crescita mondiale». E giù una selva di "numeri". Cina odierna come primo consumatore mondiale di materie prime, per esempio il 25 per cento del cotone, soia e acciaio, il 16 dell'alluminio, il 35 del carbone (e da qui al 2030 il consumo di petrolio è destinato ad aumentare del 100%, vale a dire la Cina sarà il primo consumatore mondiale di oro nero, con quel che segue).
Non basta. Secondo i dati industriali (2003), la Cina è stato il più forte produttore «di otto su dodici dei prodotti più diffusi dell'elettronica di consumo, con la produzione di circa la metà della produzione mondiale di lettore Dvd e macchine fotografiche digitali, più di un terzo di drive Dvd-Rom e personal computer; e circa un quarto di cellulari, tv a colori e palmari».
Ancora ancora. «In un suo studio recente, l'Ifc - l'ente della Banca mondiale che finanzia il settore privato - prevede che il valore dell'elettronica della Cina aumenti, di qui al 2005, da 34 a 80 miliardi di dollari. Verrà superata l'Europa (che arriverà a 73 miliardi) e cominceranno a essere insidiate le posizioni di Stati Uniti e Giappone».
E hi-tech e auto alla "cinese". Cellulari passati «in poco più di due trimestri da 190 milioni a 250 milioni, ed erano appena 85 milioni nel 2002; utenti di telefonia fissa da 300 milioni a 350, e due anni e mezzo fa erano poco più di 150 milioni; abbonati a Internet da 35 milioni a 42, erano 10 milioni nel 2000». Inoltre, «da parte sua il settore auto ha sfiorato un incremento dell'85%, dopo un progresso del 20% nel 2001 e del 56 nel 2002».
Telefonini iradiddio, nel solo 2002 ne sono stati venduti 65 milioni (China Mobile è ormai il primo operatore assoluto nel mondo di telefonia mobile per numero di abbonati). E quanto a Internet «si prevede che nel 2005 su 100 navigatori, 30 saranno cinesi (a fronte di 25 europei e 20 americani)».
La Cina è qui. I suoi salari restano bassissimi (anche in pieno boom tecnologico; purtroppo), giusto 1 centesimo di quelli Usa, ad esempio. E per far fronte al dramma della disoccupazione - quella vecchia e quella nuova, quella secolare e quella "moderna" - quella ad esempio arrivata dalle migliaia di fabbriche pubbliche fallite, o tragicamente in perdita, che hanno lasciato sul campo da 3 a 3 milioni e mezzo di senza lavoro - la leadership cinese della "quarta generazione" deve perciò poter camminare in fretta - molto in fretta - se vuole vincere la colossale, ineluttabile sfida.
La sfida di riuscire a creare almeno 20 milioni di posti di lavoro nel giro di pochi anni, praticamente da subito. La sfida di riuscire a creare, per poter proseguire sul cammino di macro sviluppo intrapreso, 300-350 milioni di nuovi posti di lavoro nel giro di 10-15 anni (per la serie la terra trema).
Sostiene Aspenia.
C'è poi da mettere in conto "l'istinto americano". Come unica "Potenza strategica" in grado di tenere testa agli Usa, il gigante Cina è da tempo nel mirino della Casa Bianca. Gli analisti di Aspenia la mettono così: «Gli Stati Uniti, come polo dominante dell'attuale sistema internazionale, hanno un interesse di fondo a che la crescita economica della Cina rallenti (il corsivo è nostro) nei prossimi anni». Magari a prezzo «di una nuova "guerra fredda" che potrebbe, fra l'altro, scaricarsi sul controllo di risorse energetiche di cui la Cina è fortemente carente».
E la leadership cinese della "quarta generazione"?
Lo sa.
Europa e Stati Uniti alle prese con l'esuberante economia cinese. Volano le esportazioni in tutti i settori: dall'acciaio alle Nike copiate, dalle bevande al hig tech
"Made in China", sfida al mercato globale
di Maria R. Calderoni
Tanti tanti tanti tanti tanti piccoli cinesi. Alt. Non dire mai più che la Cina è vicina. Infatti la Cina non è vicina. La Cina è qui. Siamo belli che circondati. Basta guardare. Dati 2001, fonte Ocse: in Italia la Cina esporta bevande e tabacchi, cibo e bestiame, carburanti e lubrificanti, oli animali e vegetali, grassi e cere, prodotti chimici e affini, beni manifatturieri (a volontà), pelli, pelli lavorate e conciate, pellicce, prodotti in gomma sughero e legno, carta e simili, tessili, abbigliamento (a bizzeffe), prodotti minerali e metallici, ed eccetera.
Se non vi dispiace non solo bambole (il 75% della produzione mondiale di giocattoli è cinese, comunque), pantofole, Nike copiate, accendini-sorpresa, pigiami e magliette di ogni marca e seize. Dalla stessa fonte Ocse, si evince appunto che da noi arrivano "made in China" ferro e acciaio, macchinari e attrezzature da trasporto, macchinari specialistici, industriali, da ufficio, per processione dati automatica, per telecomunicazioni, per audioregistrazione, veicoli stradali, attrezzature da trasporto ed eccetera.
Non solo noi. In buona compagnia in Europa (un complessivo 17 per cento di business commerciale) siamo con Francia e Germania (quest'ultima totalizza un 4 per cento di import "giallo"); l'Asia assorbe un 54 per cento, l'America latina il 2,4.
Gli Usa, poi, guarda quelli. Loro toccano il 20,4 per cento (sono dati del 2001, sicuramente oggi sottostimati), un export-import Cina-Usa valutato in 150 miliardi di dollari l'anno. Dati strabilianti (e anche "destabilizzanti", dal punto di vista di certi "falchi"). «Nel 2002, su base annua quindi, le importazioni americane di reggiseni, vestaglie e magliette dalla Cina sono aumentate rispettivamente del 232%, del 540% e del 219%. Cifre che hanno letteralmente provocato grida di dolore da parte di gruppi di interesse nazionali, spingendo i politici a intervenire».
Tutt'altro che semplice, terribili scatole cinesi. Perché «se è vero che il Pentagono tende a vedere la Cina come una minaccia, è anche vero che con la Cina sono in ballo interessi commerciali molto forti: giganti come Boeing, Motorola, Citibank e Wal-Mart detengono infatti sempre più quote del mercato cinese».
Virgolette d'obbligo. Sono righe tratte infatti da Aspenia, il trimestrale edito dall'Aspen Institute, il cui ultimo numero si intitola "Il tempo della Cina" ed è interamente dedicato a decrittare il Macro Fenomeno che di nome fa Repubblica popolare cinese. Un numero anch'esso strabiliante per i dati, le ricerche, le analisi, le tesi che contiene. In sostanza, uno sguardo lungo e spregiudicato sull'ex Pianeta misterioso dell'altra sponda del Pacifico, 4 mila anni di storia, 1 miliardo e 350 milioni di persone - un quinto dell'umanità - il 50 per cento delle quali al di sotto dei 30 anni, Repubblica popolare a partito unico, quello che si chiama ancora (ancora, ancora!) Pcc (Partito comunista cinese).
Un immenso, dinamico ibrido i cui connotati Aspenia tratteggia così: «Una potenza economica globale, il Sistema del capitalismo comunista», una gigantesca nazione dove «pragmatismo politico, "cultura della convenienza", logica dei consumi occidentale incuneata in una struttura socialista fortemente ideologica», fanno della Grande Cina «un Paese politicamente definito "socialismo di mercato alla cinese", e culturalmente "socialismo postmoderno"». Il tutto sotto la guida della "quarta generazione" marxista-leninista con alla testa Hu Jintao.
Sostiene Aspenia.
L'occhio lungo dentro questa Cina ne vede, di cose: belle, brutte, bellissime, bruttissime, abbaglianti, oscure, contraddittorie, fantastiche, potenziali e no, tutte comunque ardue e colossali... Va bene. Gli esperti di prim'ordine che hanno collaborato al numero "cinese" della rivista concordano però, tutti, su un punto, piuttosto essenziale: «L'economia cinese è cresciuta a un tasso annuo dell'8-9% quasi per due decenni, conseguendo, come hanno riconosciuto le Nazioni Unite, il più grande e più rapido successo nella guerra alla povertà della storia dell'umanità».
Un enorme balzo della tigre in meno di quarant'anni, ma ancora insufficiente. Nonostante il record e l'immane sforzo, i poveri-poveri in Cina sono ancora il 10 per cento della popolazione (non meno di 150 milioni). Grandi dislivelli, anche drammatici, caratterizzano ancora le condizioni tra città e aree metropolitane e i territori interni, soprattutto le campagne; e tra regioni e regioni, con non pochi conflitti e tensioni sociali (cui non sarebbe estraneo, secondo gli analisti di Aspenia, un diffuso fenomeno di corruzione, soprattutto nei ranghi della burocrazia di Stato).
Una condizione non difficile da comprendere (e tutt'altro che da sottovalutare, proprio per le implicazioni sociali, umani e culturali che può significare). E possiamo aggiungere - per capire l'ordine di grandezza dei problemi della Cina di oggi, anno 2004 - che sono ancora almeno 700 milioni i contadini in condizione di pura sopravvivenza sull' immensa terra dell'ex Impero celeste.
Ciò semplicemente vuol dire che, nonostante l'enorme balzo della tigre, quasi il 70 per cento della popolazione cinese vive ancora in quelle sterminate aree rurali (o semi-urbanizzate) che sono rimaste indietro (praticamente escluse) dal nuovo standard industriale.
Un enorme problema, con 700 milioni sulla scena...
La Cina - questa la conclusione - resta un paese povero. Una nazione ancora debole (e tutt'altro che militarizzata).
Però una nazione in marcia: a differenza dell'India che «pur avendo un miliardo di abitanti non è riuscita vincere la battaglia contro la povertà», la Cina sta lì a dimostrare che «il fattore cruciale, nel destino dei Paesi, è la politica, non la popolazione».
E' anche errato, erratissimo parlare di "miracolo" cinese. Per il semplice fatto che il miracolo non c'è. Infatti la sbalorditiva transizione cinese è iniziata da oltre vent'anni - Aspenia la data dal 1979 - quando ha preso corso quello che la rivista definisce la "demaoizzazione", con la conseguente apertura al mercato (sia orientale che occidentale).
Il "caso" cinese; come si sa, è sotto esame, grandi dispute sono in corso, soprattutto nel mondo comunista. Ma è un argomento che qui non vogliamo trattare. Ci basta qui raccontare un po' quello che c'è, dentro il "miracolo" lungo vent'anni della Repubblica popolare cinese. Almeno 170 nuove città da 1 milione di abitanti create nell'ultimo ventennio; almeno 400 milioni di cittadini che si possono definire di ceto medio di tipo occidentale (Europa e Usa messi insieme), dei quali oltre 200 milioni decisamente affluenti (ricchi); almeno un milione e mezzo di studenti in ingegneria e materie scientifiche nelle università (sfornati 50 mila ingegneri all'anno, contro i 30 mila in Usa). C'è dentro un insonne e, per forza di cose, mastodontico, fervore di R&S, di Ricerca e Sviluppo; e ci sono dentro numeri da capogiro in fatto di potenzialità.
«Da molti punti di vista, la Cina è destinata a sostituire gli Stati Uniti come nuovo motore della crescita mondiale». E giù una selva di "numeri". Cina odierna come primo consumatore mondiale di materie prime, per esempio il 25 per cento del cotone, soia e acciaio, il 16 dell'alluminio, il 35 del carbone (e da qui al 2030 il consumo di petrolio è destinato ad aumentare del 100%, vale a dire la Cina sarà il primo consumatore mondiale di oro nero, con quel che segue).
Non basta. Secondo i dati industriali (2003), la Cina è stato il più forte produttore «di otto su dodici dei prodotti più diffusi dell'elettronica di consumo, con la produzione di circa la metà della produzione mondiale di lettore Dvd e macchine fotografiche digitali, più di un terzo di drive Dvd-Rom e personal computer; e circa un quarto di cellulari, tv a colori e palmari».
Ancora ancora. «In un suo studio recente, l'Ifc - l'ente della Banca mondiale che finanzia il settore privato - prevede che il valore dell'elettronica della Cina aumenti, di qui al 2005, da 34 a 80 miliardi di dollari. Verrà superata l'Europa (che arriverà a 73 miliardi) e cominceranno a essere insidiate le posizioni di Stati Uniti e Giappone».
E hi-tech e auto alla "cinese". Cellulari passati «in poco più di due trimestri da 190 milioni a 250 milioni, ed erano appena 85 milioni nel 2002; utenti di telefonia fissa da 300 milioni a 350, e due anni e mezzo fa erano poco più di 150 milioni; abbonati a Internet da 35 milioni a 42, erano 10 milioni nel 2000». Inoltre, «da parte sua il settore auto ha sfiorato un incremento dell'85%, dopo un progresso del 20% nel 2001 e del 56 nel 2002».
Telefonini iradiddio, nel solo 2002 ne sono stati venduti 65 milioni (China Mobile è ormai il primo operatore assoluto nel mondo di telefonia mobile per numero di abbonati). E quanto a Internet «si prevede che nel 2005 su 100 navigatori, 30 saranno cinesi (a fronte di 25 europei e 20 americani)».
La Cina è qui. I suoi salari restano bassissimi (anche in pieno boom tecnologico; purtroppo), giusto 1 centesimo di quelli Usa, ad esempio. E per far fronte al dramma della disoccupazione - quella vecchia e quella nuova, quella secolare e quella "moderna" - quella ad esempio arrivata dalle migliaia di fabbriche pubbliche fallite, o tragicamente in perdita, che hanno lasciato sul campo da 3 a 3 milioni e mezzo di senza lavoro - la leadership cinese della "quarta generazione" deve perciò poter camminare in fretta - molto in fretta - se vuole vincere la colossale, ineluttabile sfida.
La sfida di riuscire a creare almeno 20 milioni di posti di lavoro nel giro di pochi anni, praticamente da subito. La sfida di riuscire a creare, per poter proseguire sul cammino di macro sviluppo intrapreso, 300-350 milioni di nuovi posti di lavoro nel giro di 10-15 anni (per la serie la terra trema).
Sostiene Aspenia.
C'è poi da mettere in conto "l'istinto americano". Come unica "Potenza strategica" in grado di tenere testa agli Usa, il gigante Cina è da tempo nel mirino della Casa Bianca. Gli analisti di Aspenia la mettono così: «Gli Stati Uniti, come polo dominante dell'attuale sistema internazionale, hanno un interesse di fondo a che la crescita economica della Cina rallenti (il corsivo è nostro) nei prossimi anni». Magari a prezzo «di una nuova "guerra fredda" che potrebbe, fra l'altro, scaricarsi sul controllo di risorse energetiche di cui la Cina è fortemente carente».
E la leadership cinese della "quarta generazione"?
Lo sa.
le donne e gli artisti
Gazzetta di Parma 24.2.04
In «Prestami il volto» di Valeria Palumbo gli amori di Modigliani, Mahler e altri grandi
Donne artisti destino
di Isabella Bonati
Certe fiamme incontrandosi non possono che ardere. Due anime affini divorano un fuoco che svela infinito. E se sono due anime grandi si ha un'alchimia inestinguibile. «Prestami il volto» di Valeria Palumbo (Selene Edizioni) ritrae i burrascosi rapporti tra gli artisti e le loro ispiratrici. Dieci storie di donne, nove storie di uomini (Rosa Bonheur ebbe una donna per compagna), dieci volte Assoluto, dove l'arte si confonde con l'amore e l'amore si fa arte. E l'arte e l'amore sono vita e diventano destino.
Elizabeth Siddal e Dante Gabriel Rossetti, Eva Gonzalès ed Edouard Manet, Gabriele Munter e Vasilij Kandinsky, ma anche la bellissima Alma Mahler, moglie del compositore Gustav Mahler, e Oskar Kokoschka, e Beatrice Hastings, eccessiva, anticonformista, e il livornese Amedeo Modigliani, sono alcune di queste coppie celebri, sodalizi d'anima. E loro, donne dannate, estreme, oltre la norma, inquiete, inarrestabili, artiste muse amanti degli artisti, appartennero a qualcuno, spesso a tanti, a nessuno per davvero, loro, padrone di se stesse. «Le dieci donne che appaiono nei dieci ritratti presentati - afferma l'autrice - non sono state soltanto muse o modelle. E non si sono limitate a prestare le loro fattezze ai loro celebri amanti per poi, al massimo, scaldarne il cuore e il letto. Sono state tutte ottime compagne (ottimo non ha nulla a che vedere con la qualità dei rapporti, quasi sempre tempestosi), prima di tutto perché sono state donne di grande personalità». Spiriti in grado di volare, loro e i loro amanti. Loro, evocatrici dell'arte ed arte creata. L'arte in potenza nelle menti degli artefici, resa atto sulla tela, sublimata in una immagine di donna. Eppure i loro volti hanno fluttuato nell'immortalità e non le loro anime, il loro essere la donna di qualcuno e non semplicemente donna. E non essenzialmente essere. Salvate da un ritratto, da uno sguardo, per il resto nell'oblio. Mai comprese, spesso emarginate, confinate perché donne nel silenzio: «Si può senz'altro pensare che averle scelte come compagne, rivela una notevole sensibilità da parte dei partners. La verità è che quasi tutti si sono dimostrati incapaci di accettare il loro talento e la loro autonomia».
Valeria Palumbo, giornalista e appassionata d'arte, musica e teatro, dopo aver lavorato nella redazione di Capital, è attuale caporedattore attualità del mensile Amica.
Il suo libro restituisce spessore artistico e dignità umana a donne che, vittime del giudizio di ogni tempo, a questo tempo han consegnato l'anima e un ritratto e sono state lacerate dalla pena di non essere comuni. Pena inespiabile. Donne che han pagato il prezzo di se stesse con l'infelicità e talvolta con la vita.
«Sono state, anche a prescindere dalla loro influenza sui loro celebri compagni, personalità da scoprire. Tutte, indistintamente, hanno pagato un prezzo altissimo per essere uscite dagli schemi, per non essere state solo muse». Per essere state delle donne, delle donne eccezionali. «Che noia essere limitati nei gesti quando si è donna!» ha scritto l'indipendente ed esplosiva Rosa Bonheur esaltando «la grande e fiera ambizione per il sesso di cui mi faccio gloria di appartenere e di cui sosterrò l'indipendenza fino all'ultimo giorno. Del resto sono convinta che a noi appartenga l'avvenire». Parole audaci e sovversive? Forse precoci per i tempi. Eppure cosa è cambiato troppo se allora e ancora adesso il genio femminile è una condanna e l'arte di una donna è una follia?
In «Prestami il volto» di Valeria Palumbo gli amori di Modigliani, Mahler e altri grandi
Donne artisti destino
di Isabella Bonati
Certe fiamme incontrandosi non possono che ardere. Due anime affini divorano un fuoco che svela infinito. E se sono due anime grandi si ha un'alchimia inestinguibile. «Prestami il volto» di Valeria Palumbo (Selene Edizioni) ritrae i burrascosi rapporti tra gli artisti e le loro ispiratrici. Dieci storie di donne, nove storie di uomini (Rosa Bonheur ebbe una donna per compagna), dieci volte Assoluto, dove l'arte si confonde con l'amore e l'amore si fa arte. E l'arte e l'amore sono vita e diventano destino.
Elizabeth Siddal e Dante Gabriel Rossetti, Eva Gonzalès ed Edouard Manet, Gabriele Munter e Vasilij Kandinsky, ma anche la bellissima Alma Mahler, moglie del compositore Gustav Mahler, e Oskar Kokoschka, e Beatrice Hastings, eccessiva, anticonformista, e il livornese Amedeo Modigliani, sono alcune di queste coppie celebri, sodalizi d'anima. E loro, donne dannate, estreme, oltre la norma, inquiete, inarrestabili, artiste muse amanti degli artisti, appartennero a qualcuno, spesso a tanti, a nessuno per davvero, loro, padrone di se stesse. «Le dieci donne che appaiono nei dieci ritratti presentati - afferma l'autrice - non sono state soltanto muse o modelle. E non si sono limitate a prestare le loro fattezze ai loro celebri amanti per poi, al massimo, scaldarne il cuore e il letto. Sono state tutte ottime compagne (ottimo non ha nulla a che vedere con la qualità dei rapporti, quasi sempre tempestosi), prima di tutto perché sono state donne di grande personalità». Spiriti in grado di volare, loro e i loro amanti. Loro, evocatrici dell'arte ed arte creata. L'arte in potenza nelle menti degli artefici, resa atto sulla tela, sublimata in una immagine di donna. Eppure i loro volti hanno fluttuato nell'immortalità e non le loro anime, il loro essere la donna di qualcuno e non semplicemente donna. E non essenzialmente essere. Salvate da un ritratto, da uno sguardo, per il resto nell'oblio. Mai comprese, spesso emarginate, confinate perché donne nel silenzio: «Si può senz'altro pensare che averle scelte come compagne, rivela una notevole sensibilità da parte dei partners. La verità è che quasi tutti si sono dimostrati incapaci di accettare il loro talento e la loro autonomia».
Valeria Palumbo, giornalista e appassionata d'arte, musica e teatro, dopo aver lavorato nella redazione di Capital, è attuale caporedattore attualità del mensile Amica.
Il suo libro restituisce spessore artistico e dignità umana a donne che, vittime del giudizio di ogni tempo, a questo tempo han consegnato l'anima e un ritratto e sono state lacerate dalla pena di non essere comuni. Pena inespiabile. Donne che han pagato il prezzo di se stesse con l'infelicità e talvolta con la vita.
«Sono state, anche a prescindere dalla loro influenza sui loro celebri compagni, personalità da scoprire. Tutte, indistintamente, hanno pagato un prezzo altissimo per essere uscite dagli schemi, per non essere state solo muse». Per essere state delle donne, delle donne eccezionali. «Che noia essere limitati nei gesti quando si è donna!» ha scritto l'indipendente ed esplosiva Rosa Bonheur esaltando «la grande e fiera ambizione per il sesso di cui mi faccio gloria di appartenere e di cui sosterrò l'indipendenza fino all'ultimo giorno. Del resto sono convinta che a noi appartenga l'avvenire». Parole audaci e sovversive? Forse precoci per i tempi. Eppure cosa è cambiato troppo se allora e ancora adesso il genio femminile è una condanna e l'arte di una donna è una follia?
Iran: le grotte del sufismo
Repubblica, edizione di Palermo 24.2.04
LE GROTTE DEL SUFISMO
di MARCELLA CROCE
«Qui vicino mio cugino Saadegh si è fatto una grotta». Sulle prime attribuisco a un´improprietà linguistica questa frase sibillina del nostro amico Hassan. La sua bella barba bianca si allarga in un sorriso, noi non lo sappiamo ancora ma queste sue parole preannunciano il nostro primo incontro ravvicinato con un mistico sufi. Che vorrà mai dire «si è fatto una grotta»? Semplicissimo: vuol dire scegliere un posto di proprio gusto su una montagna accessibile a piedi da casa. E cominciare a martellare la roccia per crearsi una grotta personale. Sadeegh ha impiegato circa otto anni per completare la sua, lavorando da solo una decina di ore la settimana in un anfratto del monte Soffeh, la montagna che sovrasta la città iraniana di Isfahan. Non è un eremita, nella sua grotta non ha mai abitato, semplicemente la usa come pied-a-terre, quando vuole sentirsi più vicino al cielo. Trascorre lì buona parte della giornata, da solo o offrendo tè e pasticcini ad amici che come lui cercano di cogliere nella natura l´amore e l´unità del mondo.
L´acqua del monte è stata convogliata in un pratico «rubinetto» esterno e anche in una vasca interna, molto ben rifinita e completa di canalizzazione per un eventuale esubero. La grotta porta tutti i segni del suo piccone, in un angolo Saadegh ha realizzato per i giorni invernali una stufa a legna con relativa canna fumaria, all´esterno ha sistemato una veranda per godersi la frescura dei tramonti estivi. Non è la sua prima grotta. Saadegh (nome di origine araba che vuol dire «sincero») ha 76 anni e di grotte ne ha già «fatte» ben cinque, ma le prime quattro le ha dovute abbandonare. Da tempo immemorabile, l´Islam mistico, che è quello dell´uomo non conformista, non è mai stato visto di buon occhio dai dogmatici. Non a caso il monte si chiama Soffeh: un tempo era sacro ai sufi, in Iran e Turchia detti anche dervisci, che per secoli vi si sono rifugiati ogni qual volta le persecuzioni nei loro riguardi raggiungevano livelli insopportabili.
Suf era la ruvida lana della loro umile veste, che si dice bruciassero una volta raggiunto il massimo e ultimo livello di erfand, il sentiero verso Dio. Straordinaria sintesi di spiritualità e sensualità, il sufismo predicava un percorso interiore che coniugasse amore umano e amore divino, erotismo e unione con il divino. Questi pellegrini della valle d´amore, con le loro parole sconvolgenti, con il loro fervore e la loro eccezionale carica emozionale, hanno saputo produrre alcuni fra i vertici della letteratura mondiale. L´amore umano e mistico fu cantato per secoli dai sufi nei loro famosi e sublimi componimenti poetici.
«L´amore è il loro credo e la loro fede», avrebbe detto Ibn Arabi, grande poeta andaluso; anche i nostri stilnovisti, che amavano autodefinirsi «sudditi d´Amore», non avrebbero faticato molto a trovare con loro delle affinità. Uno dei più famosi poeti sufi fu Mawlana Jalalal-Din, vissuto nel XIII secolo; giacché passò buona parte della sua vita e morì in Turchia, che all´epoca faceva parte dell´impero bizantino, è conosciuto con il nome di Rumi (il romano). A lui è attribuita la famosa frase «quello che per voi è un rumore, per me è musica», e con queste parole si era messo a ballare al ritmo del battito del fabbro sull´incudine. Molti sufi erano veri spiriti enciclopedici, artisti, scienziati e alchimisti: il mistico Razi nell´XI secolo scoprì la formula dell´acido solforico. I sufi, che in Nord Africa sono chiamati anche fakir (poveri), non sono mai stati dei veri asceti. Al contrario dei mistici del Medioevo cristiano, non si sono mai separati completamente dal mondo. Spesso uniti in confraternite (tariqat), per le meditazioni e per le preghiere collettive si riuniscono tuttora in residenze (khanaqa), che in origine erano destinate ad accogliere gli adepti itineranti. Stanno con la gente e lavorano, anzi guadagnare è considerato un dovere, per poter dare il sovrappiù a chi ne ha bisogno: innumerevoli sono le botteghe di artigiani che espongono in bella mostra su una parete l´ascia, simbolo dei dervisci, un tempo famosi anche in Iran per le danze sfrenate con le quali raggiungevano lo stato di trance. Il loro ordine è stato da taluni paragonato a quello dei Templari.
Come ogni buon musulmano, il mistico sufi, cui recentemente ha dato un volto Omar Sharif nel delizioso film "Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano", si rifà di norma agli insegnamenti di un maestro, e tale strettissimo rapporto si può fare risalire in linea diretta al profeta Maometto e ad Alì, suo cugino e genero, che gli sciiti ritengono suo unico e legittimo erede spirituale.
LE GROTTE DEL SUFISMO
di MARCELLA CROCE
«Qui vicino mio cugino Saadegh si è fatto una grotta». Sulle prime attribuisco a un´improprietà linguistica questa frase sibillina del nostro amico Hassan. La sua bella barba bianca si allarga in un sorriso, noi non lo sappiamo ancora ma queste sue parole preannunciano il nostro primo incontro ravvicinato con un mistico sufi. Che vorrà mai dire «si è fatto una grotta»? Semplicissimo: vuol dire scegliere un posto di proprio gusto su una montagna accessibile a piedi da casa. E cominciare a martellare la roccia per crearsi una grotta personale. Sadeegh ha impiegato circa otto anni per completare la sua, lavorando da solo una decina di ore la settimana in un anfratto del monte Soffeh, la montagna che sovrasta la città iraniana di Isfahan. Non è un eremita, nella sua grotta non ha mai abitato, semplicemente la usa come pied-a-terre, quando vuole sentirsi più vicino al cielo. Trascorre lì buona parte della giornata, da solo o offrendo tè e pasticcini ad amici che come lui cercano di cogliere nella natura l´amore e l´unità del mondo.
L´acqua del monte è stata convogliata in un pratico «rubinetto» esterno e anche in una vasca interna, molto ben rifinita e completa di canalizzazione per un eventuale esubero. La grotta porta tutti i segni del suo piccone, in un angolo Saadegh ha realizzato per i giorni invernali una stufa a legna con relativa canna fumaria, all´esterno ha sistemato una veranda per godersi la frescura dei tramonti estivi. Non è la sua prima grotta. Saadegh (nome di origine araba che vuol dire «sincero») ha 76 anni e di grotte ne ha già «fatte» ben cinque, ma le prime quattro le ha dovute abbandonare. Da tempo immemorabile, l´Islam mistico, che è quello dell´uomo non conformista, non è mai stato visto di buon occhio dai dogmatici. Non a caso il monte si chiama Soffeh: un tempo era sacro ai sufi, in Iran e Turchia detti anche dervisci, che per secoli vi si sono rifugiati ogni qual volta le persecuzioni nei loro riguardi raggiungevano livelli insopportabili.
Suf era la ruvida lana della loro umile veste, che si dice bruciassero una volta raggiunto il massimo e ultimo livello di erfand, il sentiero verso Dio. Straordinaria sintesi di spiritualità e sensualità, il sufismo predicava un percorso interiore che coniugasse amore umano e amore divino, erotismo e unione con il divino. Questi pellegrini della valle d´amore, con le loro parole sconvolgenti, con il loro fervore e la loro eccezionale carica emozionale, hanno saputo produrre alcuni fra i vertici della letteratura mondiale. L´amore umano e mistico fu cantato per secoli dai sufi nei loro famosi e sublimi componimenti poetici.
«L´amore è il loro credo e la loro fede», avrebbe detto Ibn Arabi, grande poeta andaluso; anche i nostri stilnovisti, che amavano autodefinirsi «sudditi d´Amore», non avrebbero faticato molto a trovare con loro delle affinità. Uno dei più famosi poeti sufi fu Mawlana Jalalal-Din, vissuto nel XIII secolo; giacché passò buona parte della sua vita e morì in Turchia, che all´epoca faceva parte dell´impero bizantino, è conosciuto con il nome di Rumi (il romano). A lui è attribuita la famosa frase «quello che per voi è un rumore, per me è musica», e con queste parole si era messo a ballare al ritmo del battito del fabbro sull´incudine. Molti sufi erano veri spiriti enciclopedici, artisti, scienziati e alchimisti: il mistico Razi nell´XI secolo scoprì la formula dell´acido solforico. I sufi, che in Nord Africa sono chiamati anche fakir (poveri), non sono mai stati dei veri asceti. Al contrario dei mistici del Medioevo cristiano, non si sono mai separati completamente dal mondo. Spesso uniti in confraternite (tariqat), per le meditazioni e per le preghiere collettive si riuniscono tuttora in residenze (khanaqa), che in origine erano destinate ad accogliere gli adepti itineranti. Stanno con la gente e lavorano, anzi guadagnare è considerato un dovere, per poter dare il sovrappiù a chi ne ha bisogno: innumerevoli sono le botteghe di artigiani che espongono in bella mostra su una parete l´ascia, simbolo dei dervisci, un tempo famosi anche in Iran per le danze sfrenate con le quali raggiungevano lo stato di trance. Il loro ordine è stato da taluni paragonato a quello dei Templari.
Come ogni buon musulmano, il mistico sufi, cui recentemente ha dato un volto Omar Sharif nel delizioso film "Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano", si rifà di norma agli insegnamenti di un maestro, e tale strettissimo rapporto si può fare risalire in linea diretta al profeta Maometto e ad Alì, suo cugino e genero, che gli sciiti ritengono suo unico e legittimo erede spirituale.
le statistiche dei suicidi in Toscana
Repubblica 24.2.04
L'ESPERTO
Parla lo statistico Roberto Volpi: "In Toscana invece è superiore, ma diminuisce"
"A Firenze il tasso di suicidi è più basso della media italiana"
Invece a Siena e Grosseto i numeri sono fino a tre volte superiori
La primavera il periodo più a rischio, mentre a dicembre si registrano meno casi
di MARIA CRISTINA CARRATÙ
«Davvero non capisco tutto questo allarme. La verità è che in Toscana, come del resto in Italia, i suicidi sono in costante diminuzione». Roberto Volpi, statistico, consulente del Comune di Firenze e dell´Istituto degli Innocenti, autore di numerosi saggi che, a colpi di dati, sdrammatizzano radicalmente certi ricorrenti allarmi sociali (come la violenza sui minori), va ancora una volta controcorrente. E nonostante l´inanellarsi di suicidi delle ultime settimane, smentisce che ci siano gli elementi per lanciare un allarme «toscano». I suicidi, fa notare l´esperto, secondo le statistiche giudiziarie pubblicate dall´Istat, sono in calo a livello nazionale (dal '97 al 2001 sono passati da 3459 a 2819), con un tasso annuo di 6,6 su 100 mila abitanti (nel 2001), rispetto a cui quello della Toscana (7,4) «è di meno di un punto superiore, e però leggermente inferiore a quello complessivo del nord e del centro Italia, del 7,6». E, quel che più conta, «anch´esso in calo».
A ridimensionare l´allarme, fa notare Volpi, è anche uno sguardo «onesto» alle situazioni locali. A Firenze, per esempio, il tasso è del 5,4, «cioè ancora più basso di quello medio italiano e anche dello stesso toscano», mentre le percentuali più alte, quelle che incidono in negativo sul quadro complessivo regionale, chiamano in causa due aree di cui tutto si direbbe fuorché che fossero a rischio: la provincia di Siena e quella di Grosseto, con tassi di 16-17 suicidi per 100 mila abitanti, circa due volte e mezzo superiori al nazionale, e mentre sono di appena il 4,1 quelli di Prato e di Massa Carrara, le provincie meno a rischio della regione seguite da Pistoia e Firenze. Ancora: dal punto di vista del rapporto fra suicidi ed età, ecco che si scopre che ben il 42% del totale dei suicidi è di ultra sessantacinquenni (il 33% in Italia) fascia di età che pure copre meno del 20% della popolazione totale della regione - e in entrambi i casi, locale e nazionale, il peso degli anziani nei suicidi è doppio rispetto a quello sul totale della popolazione. In compenso, e a sostegno di una interpretazione sdrammatizzante del fenomeno, è molto ridotto in Toscana il tasso di suicidi dei giovani nella fascia di età a più rischio, quella 18-24 anni. «Sarebbe ben più grave» dice Volpi, «che, in un certo ambiente sociale, a suicidarsi fossero più i giovani dei vecchi». Altro dato in contrasto con le analisi più ricorrenti sull´effetto negativo dei periodi di festività, è dicembre il mese in cui ci si suicida di meno, e la primavera il periodo in cui ci si suicida di più.
Conclusione: altro che accusare le città di essere «disumane». Al di là di tanti luoghi comuni, secondo Volpi, «gli ambienti sociali in cui le relazioni umane sono più intense, le occasioni di scambio, gli stimoli e la possibilità di coltivare interessi ed impegni sono maggiori, contribuiscono ad una percezione più positiva della propria esistenza». Là dove, invece, come i casi di Grosseto e Siena confermano, «la vita attiva non è il fattore dominante, il rischio di una percezione negativa è più alto». Bellezze naturali e storiche, insomma, con connessa «vita contemplativa», non sarebbero dunque, secondo l´esperto, un´assicurazione sulla vita: «Dal punto di vista dei fattori di rischio comunemente considerati, a Firenze se ne può certo individuare un´infinità di più che nel resto della Toscana. Eppure, qui c´è anche un´offerta culturale e ricreativa senza eguali, e guarda caso ci si suicida tre volte meno che nelle pacifiche Siena e Grosseto».
L'ESPERTO
Parla lo statistico Roberto Volpi: "In Toscana invece è superiore, ma diminuisce"
"A Firenze il tasso di suicidi è più basso della media italiana"
Invece a Siena e Grosseto i numeri sono fino a tre volte superiori
La primavera il periodo più a rischio, mentre a dicembre si registrano meno casi
di MARIA CRISTINA CARRATÙ
«Davvero non capisco tutto questo allarme. La verità è che in Toscana, come del resto in Italia, i suicidi sono in costante diminuzione». Roberto Volpi, statistico, consulente del Comune di Firenze e dell´Istituto degli Innocenti, autore di numerosi saggi che, a colpi di dati, sdrammatizzano radicalmente certi ricorrenti allarmi sociali (come la violenza sui minori), va ancora una volta controcorrente. E nonostante l´inanellarsi di suicidi delle ultime settimane, smentisce che ci siano gli elementi per lanciare un allarme «toscano». I suicidi, fa notare l´esperto, secondo le statistiche giudiziarie pubblicate dall´Istat, sono in calo a livello nazionale (dal '97 al 2001 sono passati da 3459 a 2819), con un tasso annuo di 6,6 su 100 mila abitanti (nel 2001), rispetto a cui quello della Toscana (7,4) «è di meno di un punto superiore, e però leggermente inferiore a quello complessivo del nord e del centro Italia, del 7,6». E, quel che più conta, «anch´esso in calo».
A ridimensionare l´allarme, fa notare Volpi, è anche uno sguardo «onesto» alle situazioni locali. A Firenze, per esempio, il tasso è del 5,4, «cioè ancora più basso di quello medio italiano e anche dello stesso toscano», mentre le percentuali più alte, quelle che incidono in negativo sul quadro complessivo regionale, chiamano in causa due aree di cui tutto si direbbe fuorché che fossero a rischio: la provincia di Siena e quella di Grosseto, con tassi di 16-17 suicidi per 100 mila abitanti, circa due volte e mezzo superiori al nazionale, e mentre sono di appena il 4,1 quelli di Prato e di Massa Carrara, le provincie meno a rischio della regione seguite da Pistoia e Firenze. Ancora: dal punto di vista del rapporto fra suicidi ed età, ecco che si scopre che ben il 42% del totale dei suicidi è di ultra sessantacinquenni (il 33% in Italia) fascia di età che pure copre meno del 20% della popolazione totale della regione - e in entrambi i casi, locale e nazionale, il peso degli anziani nei suicidi è doppio rispetto a quello sul totale della popolazione. In compenso, e a sostegno di una interpretazione sdrammatizzante del fenomeno, è molto ridotto in Toscana il tasso di suicidi dei giovani nella fascia di età a più rischio, quella 18-24 anni. «Sarebbe ben più grave» dice Volpi, «che, in un certo ambiente sociale, a suicidarsi fossero più i giovani dei vecchi». Altro dato in contrasto con le analisi più ricorrenti sull´effetto negativo dei periodi di festività, è dicembre il mese in cui ci si suicida di meno, e la primavera il periodo in cui ci si suicida di più.
Conclusione: altro che accusare le città di essere «disumane». Al di là di tanti luoghi comuni, secondo Volpi, «gli ambienti sociali in cui le relazioni umane sono più intense, le occasioni di scambio, gli stimoli e la possibilità di coltivare interessi ed impegni sono maggiori, contribuiscono ad una percezione più positiva della propria esistenza». Là dove, invece, come i casi di Grosseto e Siena confermano, «la vita attiva non è il fattore dominante, il rischio di una percezione negativa è più alto». Bellezze naturali e storiche, insomma, con connessa «vita contemplativa», non sarebbero dunque, secondo l´esperto, un´assicurazione sulla vita: «Dal punto di vista dei fattori di rischio comunemente considerati, a Firenze se ne può certo individuare un´infinità di più che nel resto della Toscana. Eppure, qui c´è anche un´offerta culturale e ricreativa senza eguali, e guarda caso ci si suicida tre volte meno che nelle pacifiche Siena e Grosseto».
un'altra rivoluzione fallita:
Giulio Giorello su Pancho Villa e Emiliano Zapata
Gazzetta di Parma 24.2.04
Giulio Giorello parla del saggio «Villa e Zapata» di cui è prefatore
«Due eroi per liberare gli oppressi»
«La rivoluzione fu una decennale Iliade messicana, in cui Villa, Zapata e gli altri giocarono i ruoli ricoperti nel mito da Agamennone, Achille, Ettore ed Enea.» Così scrive lo storico inglese Frank McLynn in «Villa e Zapata, una biografia della rivoluzione messicana» (Il Saggiatore, 508 pagine, 22,00 euro): la prima rivoluzione del XX secolo fu unica per la durata e i fatti di sangue, tanto da avergli suggerito un paragone col poema omerico. Sangue che al momento non fruttò al Messico il benessere e la stabilità politica auspicati, ma pure diede a questo Paese una Costituzione rispettosa dei principi di giustizia sociale. E se il Messico in tutto il Novecento è stato immune da feroci dittature militari, è merito anche di Villa e Zapata, l'Attila del Sud e il Centauro del Nord, sulla cui vita e personalità McLynn ci rivela ogni particolare, compresi molti aneddoti divertenti.
Entrambi combatterono per dare ai «dannati della terra» un migliore tenore di vita, ma la loro rivoluzione, come rileva il filosofo Giulio Giorello nell'introduzione al volume di McLynn, sfociò in uno Stato a partito unico, quel focolaio di corruzione che fu il Partito Rivoluzionario Istituzionale. La grande epopea popolare si spense nel sangue dei suoi eroi inconsapevoli, che avevano preso le armi sotto la spinta delle masse operaie e contadine, ma che da «rivoluzionari di passaggio» si tramutarono in «rivoluzionari permanenti - scrive Giorello, - cioè capaci di collocare nello spazio e nel tempo il loro partito preso per i diritti». Con Giulio Giorello, docente di Filosofia della scienza all'Università di Milano, riepiloghiamo quegli eventi lontani, ma sempre attuali nel Messico che ne è figlio.
«Questa ''biografia della rivoluzione messicana'' - dice Giorello - è stata scritta da uno studioso che si occupa in genere di storia europea. Tra le fonti a cui ha attinto per ricostruire la vita di Francisco Villa detto Pancho e di Emiliano Zapata, Frank McLynn c'è anche una pellicola di Sergio Leone, quel film visionario e barocco che è "Giù la testa", dove un irlandese dell'Ira si trova, con qualche disinvoltura storica, a combattere con Pancho Villa».
Perché le insurrezioni di Villa e Zapata finirono male?
«I due eroi della rivoluzione messicana operavano in due zone diverse del Messico, uno nel Nord e l'altro nel Sud, ed erano portavoce di problemi differenti, che questa biografia, costruita con la tecnica del montaggio cinematografico, rende molto bene. Le loro vicende a un certo punto si intrecciano, i due si incontrano a Città del Messico, ma non riescono a coordinare le loro azioni, e questa fu la debolezza che decretò la fine della loro rivoluzione. Così i vincitori non furono né Villa né Zapata, ma quella borghesia progressista che poi si cacciò nel vicolo cieco della persecuzione dei cattolici, quando i due capi rivoluzionari erano già stati assassinati».
Che cosa ha significato per il Messico la rivolta che infiammò il Paese dal 1910 al 1920?
«E' stata una grandissima esperienza di libertà e di giustizia, pur con tutti i difetti del regime che poi fu realizzato dal Partito Rivoluzionario e nonostante la mummificazione operata dal partito della restaurazione. Bisogna tenere presente che, in modi diversi, Villa e Zapata interpretavano rivendicazioni sociali molto sentite e che il popolo insorse in nome dei diritti e della libertà degli Indios e delle donne, del loro riconoscimento come individui. Non si trattò solo di una presa di coscienza delle masse popolari, per dirla nel linguaggio pre-sessantottino. Fu una vicenda epica».
Se Villa e Zapata fossero stati meno individualisti, avrebbero potuto raggiungere risultati maggiori?
«L'individualismo, certo, fu un ostacolo, così come la concezione troppo localistica della libertà. Una volta stabilite delle isole di libertà nelle zone controllate dagli zapatisti e dai villisti, forse mancò un piano più generale che potesse estendersi all'intero Messico e servire da modello ad altri Paesi dell'America Latina. Questo fu un limite di quella rivoluzione, ma è molto facile criticare Villa e Zapata col senno di poi».
Quanto contribuì al fallimento della loro rivoluzione il sistema corrotto che l'attorniava?
«Alcuni racconti dello scrittore messicano Ignazio Paco Taibo II descrivono magistralmente il clima di corruzione e ristagno che frenò la spinta in avanti verso i traguardi indicati dai due condottieri. Non parlerei, però, di fallimento. Alcune grandi rivoluzioni non sono fallite, ma si sono chiuse: con la restaurazione, come capitò alla rivoluzione inglese con Oliver Cromwell e a quella francese col ritorno dell'Ancien Régime, o con un compromesso che non ha accontentato nessuno, come è stato nel Novecento per la rivoluzione irlandese, i cui strascichi si avvertono ancora oggi nell'Irlanda del Nord. Ma certe esperienze rivoluzionare diventano patrimonio di tutta l'umanità. Villa e Zapata sono rimasti due punti di riferimento non solo per il Messico, ma per tutti coloro che sognano la libertà in ogni angolo del globo. Per certi versi lo direi anche per Che Guevara. C'è una lezione morale nella rivoluzione».
McLynn accosta Villa e Zapata al bandito Giuliano. Che cosa ne pensa?
«Quest'accostamento può suscitare curiosità, ma forse è l'aspetto meno interessante del libro. E' un errore di certa storiografia anglosassone riunire nella categoria del bandito sociale le persone più disparate. Siamo più sul terreno delle leggende romantiche che sulla concreta realtà storica. Villa e Zapata furono due grandi ribelli, ma furono anche dotati di una profonda dimensione umana e intellettuale, non paragonabili col fenomeno del banditismo siciliano».
Ieri Villa e Zapata, oggi il subcomandante Marcos nel Chiapas: perché il Messico è così predisposto alle rivoluzioni?
«Spesso le rivoluzioni non avvengono in Paesi dove la popolazione è ridotta alla pura sopravvivenza, ma in nazioni ricche di contrasti e di tradizioni. Il Messico ha una storia drammatica fin dalla conquista spagnola, per il complicato processo di liberazione e per la vicinanza degli Stati Uniti, tutti fattori che Frank McLynn ha bene analizzato. La rivoluzione è stata figlia di questa storia complessa e non semplicemente di una situazione di abbandono, della grandezza del Messico e non di un'endemica miseria».
La rivolta in corso da tanti anni nel Chiapas si riallaccia a quella di Zapata?
«Marcos ha nei riguardi degli Indios la stessa sollecitudine verso le loro difficoltà che aveva Zapata. Dicendo così, non intendo sminuire la figura dell'altro eroe della rivoluzione messicana, Villa, di cui sono rimasti famosi il coraggio, la spregiudicatezza, l'attenzione per i diritti dei più umili, il rispetto per la donna, e ciò malgrado la forma apparentemente rude di democrazia agraria armata, realizzata dai suoi uomini nelle zone da loro controllate».
Giulio Giorello parla del saggio «Villa e Zapata» di cui è prefatore
«Due eroi per liberare gli oppressi»
«La rivoluzione fu una decennale Iliade messicana, in cui Villa, Zapata e gli altri giocarono i ruoli ricoperti nel mito da Agamennone, Achille, Ettore ed Enea.» Così scrive lo storico inglese Frank McLynn in «Villa e Zapata, una biografia della rivoluzione messicana» (Il Saggiatore, 508 pagine, 22,00 euro): la prima rivoluzione del XX secolo fu unica per la durata e i fatti di sangue, tanto da avergli suggerito un paragone col poema omerico. Sangue che al momento non fruttò al Messico il benessere e la stabilità politica auspicati, ma pure diede a questo Paese una Costituzione rispettosa dei principi di giustizia sociale. E se il Messico in tutto il Novecento è stato immune da feroci dittature militari, è merito anche di Villa e Zapata, l'Attila del Sud e il Centauro del Nord, sulla cui vita e personalità McLynn ci rivela ogni particolare, compresi molti aneddoti divertenti.
Entrambi combatterono per dare ai «dannati della terra» un migliore tenore di vita, ma la loro rivoluzione, come rileva il filosofo Giulio Giorello nell'introduzione al volume di McLynn, sfociò in uno Stato a partito unico, quel focolaio di corruzione che fu il Partito Rivoluzionario Istituzionale. La grande epopea popolare si spense nel sangue dei suoi eroi inconsapevoli, che avevano preso le armi sotto la spinta delle masse operaie e contadine, ma che da «rivoluzionari di passaggio» si tramutarono in «rivoluzionari permanenti - scrive Giorello, - cioè capaci di collocare nello spazio e nel tempo il loro partito preso per i diritti». Con Giulio Giorello, docente di Filosofia della scienza all'Università di Milano, riepiloghiamo quegli eventi lontani, ma sempre attuali nel Messico che ne è figlio.
«Questa ''biografia della rivoluzione messicana'' - dice Giorello - è stata scritta da uno studioso che si occupa in genere di storia europea. Tra le fonti a cui ha attinto per ricostruire la vita di Francisco Villa detto Pancho e di Emiliano Zapata, Frank McLynn c'è anche una pellicola di Sergio Leone, quel film visionario e barocco che è "Giù la testa", dove un irlandese dell'Ira si trova, con qualche disinvoltura storica, a combattere con Pancho Villa».
Perché le insurrezioni di Villa e Zapata finirono male?
«I due eroi della rivoluzione messicana operavano in due zone diverse del Messico, uno nel Nord e l'altro nel Sud, ed erano portavoce di problemi differenti, che questa biografia, costruita con la tecnica del montaggio cinematografico, rende molto bene. Le loro vicende a un certo punto si intrecciano, i due si incontrano a Città del Messico, ma non riescono a coordinare le loro azioni, e questa fu la debolezza che decretò la fine della loro rivoluzione. Così i vincitori non furono né Villa né Zapata, ma quella borghesia progressista che poi si cacciò nel vicolo cieco della persecuzione dei cattolici, quando i due capi rivoluzionari erano già stati assassinati».
Che cosa ha significato per il Messico la rivolta che infiammò il Paese dal 1910 al 1920?
«E' stata una grandissima esperienza di libertà e di giustizia, pur con tutti i difetti del regime che poi fu realizzato dal Partito Rivoluzionario e nonostante la mummificazione operata dal partito della restaurazione. Bisogna tenere presente che, in modi diversi, Villa e Zapata interpretavano rivendicazioni sociali molto sentite e che il popolo insorse in nome dei diritti e della libertà degli Indios e delle donne, del loro riconoscimento come individui. Non si trattò solo di una presa di coscienza delle masse popolari, per dirla nel linguaggio pre-sessantottino. Fu una vicenda epica».
Se Villa e Zapata fossero stati meno individualisti, avrebbero potuto raggiungere risultati maggiori?
«L'individualismo, certo, fu un ostacolo, così come la concezione troppo localistica della libertà. Una volta stabilite delle isole di libertà nelle zone controllate dagli zapatisti e dai villisti, forse mancò un piano più generale che potesse estendersi all'intero Messico e servire da modello ad altri Paesi dell'America Latina. Questo fu un limite di quella rivoluzione, ma è molto facile criticare Villa e Zapata col senno di poi».
Quanto contribuì al fallimento della loro rivoluzione il sistema corrotto che l'attorniava?
«Alcuni racconti dello scrittore messicano Ignazio Paco Taibo II descrivono magistralmente il clima di corruzione e ristagno che frenò la spinta in avanti verso i traguardi indicati dai due condottieri. Non parlerei, però, di fallimento. Alcune grandi rivoluzioni non sono fallite, ma si sono chiuse: con la restaurazione, come capitò alla rivoluzione inglese con Oliver Cromwell e a quella francese col ritorno dell'Ancien Régime, o con un compromesso che non ha accontentato nessuno, come è stato nel Novecento per la rivoluzione irlandese, i cui strascichi si avvertono ancora oggi nell'Irlanda del Nord. Ma certe esperienze rivoluzionare diventano patrimonio di tutta l'umanità. Villa e Zapata sono rimasti due punti di riferimento non solo per il Messico, ma per tutti coloro che sognano la libertà in ogni angolo del globo. Per certi versi lo direi anche per Che Guevara. C'è una lezione morale nella rivoluzione».
McLynn accosta Villa e Zapata al bandito Giuliano. Che cosa ne pensa?
«Quest'accostamento può suscitare curiosità, ma forse è l'aspetto meno interessante del libro. E' un errore di certa storiografia anglosassone riunire nella categoria del bandito sociale le persone più disparate. Siamo più sul terreno delle leggende romantiche che sulla concreta realtà storica. Villa e Zapata furono due grandi ribelli, ma furono anche dotati di una profonda dimensione umana e intellettuale, non paragonabili col fenomeno del banditismo siciliano».
Ieri Villa e Zapata, oggi il subcomandante Marcos nel Chiapas: perché il Messico è così predisposto alle rivoluzioni?
«Spesso le rivoluzioni non avvengono in Paesi dove la popolazione è ridotta alla pura sopravvivenza, ma in nazioni ricche di contrasti e di tradizioni. Il Messico ha una storia drammatica fin dalla conquista spagnola, per il complicato processo di liberazione e per la vicinanza degli Stati Uniti, tutti fattori che Frank McLynn ha bene analizzato. La rivoluzione è stata figlia di questa storia complessa e non semplicemente di una situazione di abbandono, della grandezza del Messico e non di un'endemica miseria».
La rivolta in corso da tanti anni nel Chiapas si riallaccia a quella di Zapata?
«Marcos ha nei riguardi degli Indios la stessa sollecitudine verso le loro difficoltà che aveva Zapata. Dicendo così, non intendo sminuire la figura dell'altro eroe della rivoluzione messicana, Villa, di cui sono rimasti famosi il coraggio, la spregiudicatezza, l'attenzione per i diritti dei più umili, il rispetto per la donna, e ciò malgrado la forma apparentemente rude di democrazia agraria armata, realizzata dai suoi uomini nelle zone da loro controllate».
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