Il Manifesto 1.12.04
Donne e uomini
LA FORZA DI SOTTRARSI AI RAPPORTI DI FORZA DONNE E UOMINI
di Luisa Muraro
La cosa che più stupisce, nel recente confronto tra Ferrara e Cacciari all'Università Cattolica, sui rapporti tra la cultura europea e l'islam, è il ritorno al pensiero forte della modernità - l'asse Spinoza-Hegel, per intenderci - da parte di Cacciari. Il filosofo arriva a parlare della scienza come basata su leggi universali e necessarie. Siamo alla fine del postmoderno? Èquello che ho pensato. Che previsioni possiamo fare per la cultura filosofica e politica che ha caratterizzato il passaggio dalla fine del comunismo allo stato di guerra permanente? Non lo so. Mi ha colpito che Ferrara registri, a modo suo, che nel confronto con l'islam le donne c'entrano, mentre Cacciari, che pure si dilunga sulla relazione di alterità, nulla dice dell'altro che è donna. Ne ha mai detto qualcosa? Forse no, ma almeno, quando scriveva di angeli, aveva l'idea che c'è altro: altro dal pensiero della sua formazione filosofica, ma comune alla tradizione cristiana, ebraica, islamica. Con la guerra, ecco che cosa succede, che i confronti s'irrigidiscono e alle esperienze, ai linguaggi, ai saperi che non ci stanno al nuovo regime, arriva l'ordine tacito e perentorio di sparire.
La vicenda delle due Simone parla però di un'altra possibilità. Forse le due non torneranno più in Iraq, ma si sono salvate e, come fa vedere il loro racconto, a questo esito felice ha contribuito il fatto che erano due, che erano amiche e che, con l'energia che emanava dalla loro amicizia, dalla loro bontà, dal loro sesso, sono riuscite a significare ai loro sequestratori che c'è un altro ordine da quello dei rapporti di forza.
Secondo me, la cosa più importante in questo momento storico è che le donne non spariscano per effetto di un loro adattamento totale al sistema dei rapporti di forza, che si tratti della guerra o dell'economia. Corrono questo rischio, di sparire, anche le donne che si schierano all'opposizione, nei partiti o nei movimenti.
Passo così a parlare del significato che io e altre abbiamo colto nella Lettera di Ratzinger sulla collaborazione della donna e dell'uomo. Per noi, quel testo è importante e nuovo perché ha idea di un senso libero della differenza sessuale, e lo fa parlare. Cito una sola frase: «Si deve accogliere la testimonianza resa dalla vita delle donne come rivelazione di valori senza i quali l'umanità si chiuderebbe nell'autosufficienza, neisogni di potere e nel dramma della violenza». S'intende, lo fa parlare secondo la visione del mondo propria dello scrivente, nella quale molte e molti non si riconoscono. Ma non dobbiamo appiattire una cosa sull'altra: sarebbe come inchiodare l'altro ad una rappresentazione immodificabile, qualunque cosa dica.
In un recente dibattito sulla Lettera di Ratzinger, ClaudiaMancina mi ha opposto che la differenza sessuale è un tema largamente presente già nella filosofia romantica. È vero, pensiamo per esempio a Humboldt (sul quale Donatella Di Cesare ha scritto un bell'articolo proprio su questo giornale, segnalando anche gli scritti sul tema in questione). Ma il punto riguarda il senso della differenza sessuale: i romantici pensavano la differenza nell'orizzonte totalizzante dell'Uno. Arrivare a fare uno è la direzione dominante del pensiero filosofico e politico della modernità e in questa prospettiva la differenza sessuale viene interpretata nella forma della complementarità Il senso libero del nostro essere donne/uomini nasce quando si mantiene la differenza e si rinuncia alla risposta della complementarità (e questa è la novità della Lettera, io dico). Il fatto dell'asimmetria tra i sessi resta così non aggiustato e diventa causa di lavoro simbolico (e quindi fonte di umanità): il pensiero (maschile) rinuncia a ridurrel'altro (che è donna) nel proprio orizzonte e trova il suo incipit non più nella definizione di sé (nell'identità) ma nell'ascolto e nell'interlocuzione conl'altro.
Questo - detto nei termini più intuitivi in un contesto ancora dominato dal neutro-maschile - è pensiero della differenza. E corrisponde ad una rivoluzione simbolica che in molte, uomini non esclusi, abbiamo intravisto, senza però attingerla pienamente. Un criterio che suggerisco sarebbe questo, che, nella teoria come nella pratica di vita, arriviamo al punto in cui l'affermazione dell'uguaglianza cede il passo al significarsi della differenza. Se non ci arriviamo, non ci sarà libertà delle donne, temo, oppure sì ma.., non ci saranno più le donne. Userò le semplici parole con cui sì è espressa Mary Catherine Bateson, la figlia di Gregory e di Margaret Mead: «In misura diversa, ognuna di noi (parla dì sé e di alcune amiche) ha subito discriminazioni per il fatto di essere donna; tutte siamo state qualche volta trattate come meno che uguali. Ma tutte siamo sempre alla ricerca di rapportidi differenza, un po' disorientate dalla necessaria accettazione politica dell'uguaglianza».
Quel punto in cui l'uguaglianza, ossia il diritto, cede il passo al significarsi della differenza, è rischioso, poiché da lì può passare la sopraffazione, ma ne vale la pena poiché lì si gioca la libertà femminile - altrimenti messa fuori gioco dall'applicazione della legge.
Torno a Cacciari che tenta,nel confronto con Ferrara, di strapparsi alla necessità dei rapporti di forza, che il suo interlocutore gli ha prospettato: «con la guerra o senza la guerra, dobbiamo difendere il nostro sistema di vita». Cacciari non riesce nel suo intento ed il suo intervento termina con frasi intricate. Cosa di cui io non mi sento di fargli carico, il problema essendo terribilmente intricato esso stesso. Ma una cosa gli imputo, di non essersi servito della politica delle donne.
L'umanità di sesso femminile ha una lunga storia di tentativi e di pratiche per strapparsi ai rapporti dì forza e far valereun altro ordine di rapporti. 01tre alla libertà femminile chec'è, poca o tanta, anche buona parte della civiltà di cui ancora godiamo, poca o tanto, viene da questa lotta. Con il pensiero femminista si è cercato - non senza conflitti e contrasti, come era inevitabile che fosse - di tradurla in un sapere. Abbiamo capito che il punto di svincolo dalla logica del più forte è nel saper sottrarsi alle simmetrie e alle contrapposizioni. E che, quando c'è relazione, non c'e identità irrinunciabile. La nostra formula più recente parla di saper fare un passo indietro, l'abbiamo scoperta grazie ad una vicenda recente, raccontata sull'ultimo numero della rivista Via Dogana (che l'ha messa nel titolo), nella quale si tratta proprio di rapporti con una comunità islamica di Milano. Fare un passo indietro perché ci sia posto per l'altro e perché altro possa avvenire, grazie alla relazione di scambio. Perché dobbiamo difenderci, se siamo capaci di cambiare?
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
mercoledì 1 dicembre 2004
la Cina e la pena di morte
Il Corriere della Sera 1.12.04
Tra docenti universitari e avvocati aperto il dibattito sulla riforma
LA CINA E LA PENA DI MORTE "FORSE E' L'ORA DI ABOLIRLA"
I giuristi di Pechino: «Ci vorrà tempo, ma la via è segnata»
di Fabio Cavalera
PECHINO - Un pezzetto dopo l'altro il vecchio castello viene giù. Per la Cina di una volta provare a discutere la pena di morte così come la separazione del potere della politica dal potere della giustizia era sacrilegio assoluto. Adesso il motore delle trasformazioni è arrivato fino a coinvolgere le fondamenta del diritto penale. Siamo all'inizio. Nessuno sa pronosticare fino a dove approderà il confronto. Ma il dato certo è che le autorità non stanno ponendo alcuna censura - anzi al dibattito sulla riforma delle leggi fondamentali dello Stato in materia per l'appunto penale.
Allo stesso modo - con dibattiti che hanno avuto la funzione di percepire gli umori della società - era cominciato pure il percorso del riconoscimento della proprietà privata. Se ne è parlato in maniera quasi clandestina, dopodiché, passo passo, il cerchio è diventato così largo da coinvolgere partito e Assemblea del popolo. Un meccanismo che sembra ripetersi. La Cina ha bisogno di rispettare i suoi ritmi, spesso lentissimi. Ma si muove. Che sia comunque il segnaledi qualcosa di più profondo e incisivo che sta scuotendo l'anima del Celeste Impero? Qu Xinjin,professore all'Università di Politica e Giurisprudenza nel distretto Haidian, a ovest della capitale, risponde che la strada è segnata.
Fra un anno, fra dieci, fra venti «non so sbilanciarmi sui tempi, però, sono sicuro che il sistema della giustizia si evolverà». La sua convinzione non è campata per aria. Nei circoli dei penalisti, nelle università, fra gli avvocati il problema è all'ordine del giorno: è davvero possibile abolire la pena di morte? «Io credo di sì».
Dal 1979 in avanti la Cina non ha mai messo mano ai quattrocento e oltre articoli (dei quali una sessantina sulla pena di morte) che disciplinano la definizione e le sanzioni dei reati. L'esecuzione, la fucilazione, e prevista tanto per i cosiddetti attentati di carattere politico quanto per la corruzione grave, la violenza sessuale, il rapimento. Ci sono state piccole modifiche ma nulla che intaccasse la spina dorsale del sistema. Ora, spiega il professor Qu, fra gli studiosi si è messo in moto un processo di valutazione e di analisi sulla prospettiva di riformare profondamente il diritto penale. «Non abbiamo ancora coinvolto i funzionari dello Stato, i quali però sanno che in alcune università ciò è avvenuto e sanno pure quali sono state le nostre conclusioni».
Quarantenne con l'aria di chi prima di rispondere a una domanda ci sta a pensare un po'. Un volto ben squadrato e un ciuffo di capelli che penzola sulla fronte. Occhialetti di metallo, un golfino blu e una giacchetta, nonostante il freddo intenso che è appena sceso, il computer in mano. A Qu Xinjin l'etichetta di intellettuale appassionato, dai modi pacati ma risoluti, gliela appiccichi subito. C'è una nuova classe di liberi pensatori che si sta imponendo nel mondo accademico e che conta sempre di più al di fuori del binari tradizionali dell'ideologia comunista. Sono i laureati degli anni Ottanta. QuXinjin è uno di questi. Diploma, poi master.
La materia è delicata. Una frase fuori posto e si rischia di incappare nella maglie dei controlli. Almeno questo è ciò che pensi. Ti ricredi nel giro di un minuto. Il professore che insegna diritto penale non sembra avere alcuna diffidenza.E tanto meno paura. E' andato persino in televisione e ha raccontato la sua. Ripete che su una cosa gli studiosi si stanno ritrovando d'accordo: la pena di morte va abolita. «E' sui tempi che fra di noi ci sono giudizi diversi. I più moderati dicono che si può cambiare, ma che l'attuazione della riforma va differita di venti o addirittura trent'anni. Altri parlano di cinque o dieci anni. I più estremisti, chiamiamoli così, spingono perché avvenga subito. Io sono per il cambiamento ma so anche che occorre capire il sentimento della nostra gente». I primi sondaggi che qua e là sono stati effettuati, sondaggi non scientifici, sondaggi empirici via web o via telefono, «ci inducono a procedere senza avere troppa fretta, sette cinesi su dieci sarebbero infatti favorevoli alla pena di morte, persino fra i giovani e fra gli studenti la percentuale resta alta». La proposta di abolirla ci sarà ma non a brevissimo termine. «Forse, questa volta, è più preparato il sistema politico che non il popolo a un cambiamento così radicale». Resta il fatto che parlarne in pubblico è ormai tollerato, persino sollecitato. «E' un buon segno».
La Cina, che per altro continua a respingere ogni suggestione democratica (lo stesso presidente Hu Jintao ha sottolineato che la democrazia occidentale non è un modello adattabile al suo Paese), si sta chiedendo comunque quale sia il sistema giudiziario e penale più adatto a sostenere la sfida del mercato e della società nel prossimo futuro. Oltre che sulla pena di morte l'università, le facoltà di scienze politiche stanno segnalando l'opportunità di ragionare sul principio della divisione dei poteri.
I magistrati dipendono dalla politica? I magistrati sono di nomina politica? Oggi in Cina avviene chel'Assemblea del popolo elegge i magistrati della Corte Suprema, mentre le Assemblee locali eleggono i magistrati ai livelli più bassi. Dunque vi è una stretta dipendenza del potere giudiziario dal potere della politica. Che il quadro sia destinato a modificarsi è molto probabile. Lo segnalano due circostanze. Il Comitato centrale del Partito comunista, attraverso una «conferenza» per gli studi giudiziari, ha avviato una raccolta di informazioni in ambito accademico e, pur senza scardinare l'impianto in vigore, ha dato il segnale che la questione è all'ordine del giorno. Nonc'è fretta. D'accordo. In ogni caso è stato un bel passo in avanti. Come pure - e questa seconda circostanza va letta assieme alla prima - lo è la proposta avanzata daglistudiosi di provare ad avviare la riforma dalla periferia. Fare in modo che a nominare i magistrati dei tribunali locali non siano più le Assemblee del popolo ma i tribunali di livello immediatamente più alto.
Il professor Qu Xinjin è convinto che la fase dell'immobilismo sia definitivamente superata. «C'è un clima di libertà maggiore che consoliderà la via delle riforme». E' certo, il giovane titolare della cattedra di diritto penale, che il domani sia molto più vicino di quanto nonsi pensi. La Cina è capace di stupire in ogni momento. Gli studenti lo aspettano. Poi, Qu Xinjin correrà a un'altra conferenza. A ripetere che la pena di morte va abolita.
Tra docenti universitari e avvocati aperto il dibattito sulla riforma
LA CINA E LA PENA DI MORTE "FORSE E' L'ORA DI ABOLIRLA"
I giuristi di Pechino: «Ci vorrà tempo, ma la via è segnata»
di Fabio Cavalera
PECHINO - Un pezzetto dopo l'altro il vecchio castello viene giù. Per la Cina di una volta provare a discutere la pena di morte così come la separazione del potere della politica dal potere della giustizia era sacrilegio assoluto. Adesso il motore delle trasformazioni è arrivato fino a coinvolgere le fondamenta del diritto penale. Siamo all'inizio. Nessuno sa pronosticare fino a dove approderà il confronto. Ma il dato certo è che le autorità non stanno ponendo alcuna censura - anzi al dibattito sulla riforma delle leggi fondamentali dello Stato in materia per l'appunto penale.
Allo stesso modo - con dibattiti che hanno avuto la funzione di percepire gli umori della società - era cominciato pure il percorso del riconoscimento della proprietà privata. Se ne è parlato in maniera quasi clandestina, dopodiché, passo passo, il cerchio è diventato così largo da coinvolgere partito e Assemblea del popolo. Un meccanismo che sembra ripetersi. La Cina ha bisogno di rispettare i suoi ritmi, spesso lentissimi. Ma si muove. Che sia comunque il segnaledi qualcosa di più profondo e incisivo che sta scuotendo l'anima del Celeste Impero? Qu Xinjin,professore all'Università di Politica e Giurisprudenza nel distretto Haidian, a ovest della capitale, risponde che la strada è segnata.
Fra un anno, fra dieci, fra venti «non so sbilanciarmi sui tempi, però, sono sicuro che il sistema della giustizia si evolverà». La sua convinzione non è campata per aria. Nei circoli dei penalisti, nelle università, fra gli avvocati il problema è all'ordine del giorno: è davvero possibile abolire la pena di morte? «Io credo di sì».
Dal 1979 in avanti la Cina non ha mai messo mano ai quattrocento e oltre articoli (dei quali una sessantina sulla pena di morte) che disciplinano la definizione e le sanzioni dei reati. L'esecuzione, la fucilazione, e prevista tanto per i cosiddetti attentati di carattere politico quanto per la corruzione grave, la violenza sessuale, il rapimento. Ci sono state piccole modifiche ma nulla che intaccasse la spina dorsale del sistema. Ora, spiega il professor Qu, fra gli studiosi si è messo in moto un processo di valutazione e di analisi sulla prospettiva di riformare profondamente il diritto penale. «Non abbiamo ancora coinvolto i funzionari dello Stato, i quali però sanno che in alcune università ciò è avvenuto e sanno pure quali sono state le nostre conclusioni».
Quarantenne con l'aria di chi prima di rispondere a una domanda ci sta a pensare un po'. Un volto ben squadrato e un ciuffo di capelli che penzola sulla fronte. Occhialetti di metallo, un golfino blu e una giacchetta, nonostante il freddo intenso che è appena sceso, il computer in mano. A Qu Xinjin l'etichetta di intellettuale appassionato, dai modi pacati ma risoluti, gliela appiccichi subito. C'è una nuova classe di liberi pensatori che si sta imponendo nel mondo accademico e che conta sempre di più al di fuori del binari tradizionali dell'ideologia comunista. Sono i laureati degli anni Ottanta. QuXinjin è uno di questi. Diploma, poi master.
La materia è delicata. Una frase fuori posto e si rischia di incappare nella maglie dei controlli. Almeno questo è ciò che pensi. Ti ricredi nel giro di un minuto. Il professore che insegna diritto penale non sembra avere alcuna diffidenza.E tanto meno paura. E' andato persino in televisione e ha raccontato la sua. Ripete che su una cosa gli studiosi si stanno ritrovando d'accordo: la pena di morte va abolita. «E' sui tempi che fra di noi ci sono giudizi diversi. I più moderati dicono che si può cambiare, ma che l'attuazione della riforma va differita di venti o addirittura trent'anni. Altri parlano di cinque o dieci anni. I più estremisti, chiamiamoli così, spingono perché avvenga subito. Io sono per il cambiamento ma so anche che occorre capire il sentimento della nostra gente». I primi sondaggi che qua e là sono stati effettuati, sondaggi non scientifici, sondaggi empirici via web o via telefono, «ci inducono a procedere senza avere troppa fretta, sette cinesi su dieci sarebbero infatti favorevoli alla pena di morte, persino fra i giovani e fra gli studenti la percentuale resta alta». La proposta di abolirla ci sarà ma non a brevissimo termine. «Forse, questa volta, è più preparato il sistema politico che non il popolo a un cambiamento così radicale». Resta il fatto che parlarne in pubblico è ormai tollerato, persino sollecitato. «E' un buon segno».
La Cina, che per altro continua a respingere ogni suggestione democratica (lo stesso presidente Hu Jintao ha sottolineato che la democrazia occidentale non è un modello adattabile al suo Paese), si sta chiedendo comunque quale sia il sistema giudiziario e penale più adatto a sostenere la sfida del mercato e della società nel prossimo futuro. Oltre che sulla pena di morte l'università, le facoltà di scienze politiche stanno segnalando l'opportunità di ragionare sul principio della divisione dei poteri.
I magistrati dipendono dalla politica? I magistrati sono di nomina politica? Oggi in Cina avviene chel'Assemblea del popolo elegge i magistrati della Corte Suprema, mentre le Assemblee locali eleggono i magistrati ai livelli più bassi. Dunque vi è una stretta dipendenza del potere giudiziario dal potere della politica. Che il quadro sia destinato a modificarsi è molto probabile. Lo segnalano due circostanze. Il Comitato centrale del Partito comunista, attraverso una «conferenza» per gli studi giudiziari, ha avviato una raccolta di informazioni in ambito accademico e, pur senza scardinare l'impianto in vigore, ha dato il segnale che la questione è all'ordine del giorno. Nonc'è fretta. D'accordo. In ogni caso è stato un bel passo in avanti. Come pure - e questa seconda circostanza va letta assieme alla prima - lo è la proposta avanzata daglistudiosi di provare ad avviare la riforma dalla periferia. Fare in modo che a nominare i magistrati dei tribunali locali non siano più le Assemblee del popolo ma i tribunali di livello immediatamente più alto.
Il professor Qu Xinjin è convinto che la fase dell'immobilismo sia definitivamente superata. «C'è un clima di libertà maggiore che consoliderà la via delle riforme». E' certo, il giovane titolare della cattedra di diritto penale, che il domani sia molto più vicino di quanto nonsi pensi. La Cina è capace di stupire in ogni momento. Gli studenti lo aspettano. Poi, Qu Xinjin correrà a un'altra conferenza. A ripetere che la pena di morte va abolita.
situazionismo come hegelismo
una egnalazione di Roberto Altamura
La premonizione di Guy Debord
di Franco Berardi Bifo
Il 30 novembre di dieci anni fa, commentando a caldo la morte di Debord, scrissi un pezzo che iniziava con la frase: il suicidio di Debord non è altro che il suicidio di Debord e non è legittimo interpretarlo come un momento del suo pensiero. E' vero, non è giusto interpretare un gesto così complesso come il suicidio sulla base delle semplici complicazioni della politica o della filosofia. Oggi però dovremmo ragionare non solo sull'eredità teorica che il situazionismo ha lasciato, ma anche sulla premonizione che quel suicidio portava dentro di sé. D'altronde possiamo oggi rileggere l'intera esperienza del situazionismo come una premonizione, un presagio doloroso.
Il movimento situazionista si dissolse nel momento in cui sui muri di Parigi compariva la scritta "l'immaginazione al potere". Il '68 portava a compimento il sogno delle avanguardie storiche, del dadaismo, del surrealismo, il sogno dell'abolizione dell'arte e della vita quotidiana, e soprattutto della fusione di arte e vita quotidiana, il sogno di una vita in cui la differenza prevalesse sulla ripetizione. Ma, come abbiamo poi scoperto, l'immaginazione si è cristallizzata nell'Immaginario, e il predominio dell'immaginario ha paralizzato l'immaginazione. Macchine di produzione omologata dell'Immaginario hanno infiltrato la mente collettiva, e l'hanno cablata introducendovi automatismi psichici, linguistici, relazionali. Dobbiamo «riconoscerlo: la società reale non è più capace di immaginare nulla che non sia stato prodotto nei laboratori del Sistema Globale Omologato.
Questo effetto di omologazione dell'immagin/azione da parte dell'Immaginario Debord lo chiamò (nell'opera sua più celebrata) "spettacolo". Spettacolo è ciò che deve essere visto, ma non può essere in nessun caso vissuto.
La generazione del '68 lascia dietro di sé un'eredità tragica. L'attesa di felicità era costitutiva della cultura di quella generazione che, nata dopo la guerra più devastante della storia, si riprometteva di non subire mai più una violenza così disumana.
Ma quella attesa è stata delusa, e delusa due volte. Anzitutto la costruzione di comunità singolari di felicità extrastorica (situazioni) non è stata perseguita, non è stata organizzata scientificamente, perché ci si attendeva (dialetticamente) la felicità dalla storia, dall'inverarsi del Comunismo, dal sopravvenire di una totalità non alienata. In secondo luogo perché la storia non è il luogo della felicità, e ciò garantisce l'infelicità dei dialettici.
Sottrarsi alla storia, sottrarsi alla sua pretesa totalizzante, e così svuotare la totalità dello sfruttamento e della guerra. Questo è ciò che il situazionismo avrebbe potuto indicare, se non fosse stato hegeliano. Cosa altro vuol dire d'altronde "situazione" se non proprio questo: uno spazio esistenziale immaginato e costruito secondo regole che non obbediscono a nessun principio di totalità? Ma il '68 (e il situazionismo con lui) non ha saputo pensarsi come fuga, come sottrazione, come diserzione attiva. Ha voluto concepirsi come nuova totalità da instaurare.
Debord è stato l'ultimo degli hegeliani, l'ultimo grande dialettico, anche se ha saputo paradossalmente percepire il formarsi di un campo nel quale la dialettica non ha più alcuna efficacia, né interpretativa né pratica.
La realtà attuale del semio-capitalismo che si dispiega attraverso la trasformazione digitale della produzione comunicativa non assomiglia affatto a una negazione dialettica, e non procede a nessun processo di totalizzazione. Al contrario, è la frammentazione che prende il sopravvento nell'universo sociale della rete. E l'attesa dialettica è divenuta una trappola, ha impedito di volgere al positivo in forma di situazioni felicemente singolari, la potenza conoscitiva produttiva immaginaria esistenziale di cui la società post sessantottarda è divenuta capace.
E così la potenza produttiva del lavoro cognitivo si è rivolta contro l'esistenza e la felicità dei lavoratori cognitivi, la potenza spettacolare della comunicazione sociale si è rivolta contro la comunicazione sociale intesa come processo di condivisione vissuta.
Debord ha visto il limite della dialettica, ma non ha voluto superarlo, andare oltre, uscire dall'ossessione della totalità storica, e andarsene libero per la sua strada. Quando qui dico Debord voglio dire tutti noi, che non abbiamo saputo (né sappiamo né forse sapremo mai) liberarci da Hegel, liberarci dall'orizzonte storico. Il punk, che continuò consapevolmente il percorso del movimento situazionista, ha percepito il dissolversi di ogni possibile totalità futura. Il grido "no future" segnalò che nessuna totalità tollerabile sembra più essere possibile. E il suicidio è divenuto un comportamento socialmente diffuso, o addirittura un'arma contro gli altri e contro se stessi, l'unica via di fuga dalla intollerabile sofferenza di un esistere di cui è cancellato il senso.
Chi era Guy Debord
Il 30 novembre del 1994 muore suicida il filosofo francese Guy Debord. Nato il 28 dicembre del 1931 Debord è stato il cofondatore nel ’52 dell’Internazionale Lettrista e nel ’57 dell’Internazionale situazionista, il movimento che metteva in stretta relazione il pensiero e l’azione, l’arte e la vita. Il suo saggio più famoso, “La società dello spettacolo”, è stato un importante punto di riferimento per i movimenti del ’68 e degli anni Settanta, francesi e italiani
La premonizione di Guy Debord
di Franco Berardi Bifo
Il 30 novembre di dieci anni fa, commentando a caldo la morte di Debord, scrissi un pezzo che iniziava con la frase: il suicidio di Debord non è altro che il suicidio di Debord e non è legittimo interpretarlo come un momento del suo pensiero. E' vero, non è giusto interpretare un gesto così complesso come il suicidio sulla base delle semplici complicazioni della politica o della filosofia. Oggi però dovremmo ragionare non solo sull'eredità teorica che il situazionismo ha lasciato, ma anche sulla premonizione che quel suicidio portava dentro di sé. D'altronde possiamo oggi rileggere l'intera esperienza del situazionismo come una premonizione, un presagio doloroso.
Il movimento situazionista si dissolse nel momento in cui sui muri di Parigi compariva la scritta "l'immaginazione al potere". Il '68 portava a compimento il sogno delle avanguardie storiche, del dadaismo, del surrealismo, il sogno dell'abolizione dell'arte e della vita quotidiana, e soprattutto della fusione di arte e vita quotidiana, il sogno di una vita in cui la differenza prevalesse sulla ripetizione. Ma, come abbiamo poi scoperto, l'immaginazione si è cristallizzata nell'Immaginario, e il predominio dell'immaginario ha paralizzato l'immaginazione. Macchine di produzione omologata dell'Immaginario hanno infiltrato la mente collettiva, e l'hanno cablata introducendovi automatismi psichici, linguistici, relazionali. Dobbiamo «riconoscerlo: la società reale non è più capace di immaginare nulla che non sia stato prodotto nei laboratori del Sistema Globale Omologato.
Questo effetto di omologazione dell'immagin/azione da parte dell'Immaginario Debord lo chiamò (nell'opera sua più celebrata) "spettacolo". Spettacolo è ciò che deve essere visto, ma non può essere in nessun caso vissuto.
La generazione del '68 lascia dietro di sé un'eredità tragica. L'attesa di felicità era costitutiva della cultura di quella generazione che, nata dopo la guerra più devastante della storia, si riprometteva di non subire mai più una violenza così disumana.
Ma quella attesa è stata delusa, e delusa due volte. Anzitutto la costruzione di comunità singolari di felicità extrastorica (situazioni) non è stata perseguita, non è stata organizzata scientificamente, perché ci si attendeva (dialetticamente) la felicità dalla storia, dall'inverarsi del Comunismo, dal sopravvenire di una totalità non alienata. In secondo luogo perché la storia non è il luogo della felicità, e ciò garantisce l'infelicità dei dialettici.
Sottrarsi alla storia, sottrarsi alla sua pretesa totalizzante, e così svuotare la totalità dello sfruttamento e della guerra. Questo è ciò che il situazionismo avrebbe potuto indicare, se non fosse stato hegeliano. Cosa altro vuol dire d'altronde "situazione" se non proprio questo: uno spazio esistenziale immaginato e costruito secondo regole che non obbediscono a nessun principio di totalità? Ma il '68 (e il situazionismo con lui) non ha saputo pensarsi come fuga, come sottrazione, come diserzione attiva. Ha voluto concepirsi come nuova totalità da instaurare.
Debord è stato l'ultimo degli hegeliani, l'ultimo grande dialettico, anche se ha saputo paradossalmente percepire il formarsi di un campo nel quale la dialettica non ha più alcuna efficacia, né interpretativa né pratica.
La realtà attuale del semio-capitalismo che si dispiega attraverso la trasformazione digitale della produzione comunicativa non assomiglia affatto a una negazione dialettica, e non procede a nessun processo di totalizzazione. Al contrario, è la frammentazione che prende il sopravvento nell'universo sociale della rete. E l'attesa dialettica è divenuta una trappola, ha impedito di volgere al positivo in forma di situazioni felicemente singolari, la potenza conoscitiva produttiva immaginaria esistenziale di cui la società post sessantottarda è divenuta capace.
E così la potenza produttiva del lavoro cognitivo si è rivolta contro l'esistenza e la felicità dei lavoratori cognitivi, la potenza spettacolare della comunicazione sociale si è rivolta contro la comunicazione sociale intesa come processo di condivisione vissuta.
Debord ha visto il limite della dialettica, ma non ha voluto superarlo, andare oltre, uscire dall'ossessione della totalità storica, e andarsene libero per la sua strada. Quando qui dico Debord voglio dire tutti noi, che non abbiamo saputo (né sappiamo né forse sapremo mai) liberarci da Hegel, liberarci dall'orizzonte storico. Il punk, che continuò consapevolmente il percorso del movimento situazionista, ha percepito il dissolversi di ogni possibile totalità futura. Il grido "no future" segnalò che nessuna totalità tollerabile sembra più essere possibile. E il suicidio è divenuto un comportamento socialmente diffuso, o addirittura un'arma contro gli altri e contro se stessi, l'unica via di fuga dalla intollerabile sofferenza di un esistere di cui è cancellato il senso.
Chi era Guy Debord
Il 30 novembre del 1994 muore suicida il filosofo francese Guy Debord. Nato il 28 dicembre del 1931 Debord è stato il cofondatore nel ’52 dell’Internazionale Lettrista e nel ’57 dell’Internazionale situazionista, il movimento che metteva in stretta relazione il pensiero e l’azione, l’arte e la vita. Il suo saggio più famoso, “La società dello spettacolo”, è stato un importante punto di riferimento per i movimenti del ’68 e degli anni Settanta, francesi e italiani
Emanuele Severino
embrioni e Aristotele
Corriere della Sera 1.12.04
Da dove comincia la natura umana?
Una risposta alla questione che divide laici e cattolici, alla luce della filosofia
L’embrione e la vita, il paradosso di Aristotele
di Emanuele Severino
Che l’embrione prodotto dal seme dell’uomo e dall’ovulo della donna sia essere umano in potenza - ossia qualcosa che in condizioni «normali» ha la capacità di diventare un essere umano - è un principio accettato sia da coloro che sostengono, sia da coloro che negano che l’embrione sia già un essere umano. I due opposti schieramenti si scontrano infatti in relazione a un ulteriore carattere della «potenza». Gli uni (ad esempio i cattolici) intendono che l’embrione sia un esser-già-uomo , ma, appunto, un esserlo già «in potenza». Gli altri intendono che l’embrione, sebbene sia «in potenza» un essere umano, sia tuttavia un non-essere-ancora-uomo . In questo secondo caso la sua soppressione non è omicidio; nel primo caso sì, è omicidio - e questo primo caso esprime la compiuta concezione aristotelica della «potenza». Ma nel secondo caso ci si limita ad esprimere un dogma, o una tesi scientifica, che, appunto perché scientifica, non può essere più che un’ipotesi sia pure altamente confermata. Ciò nonostante la Chiesa fa dipendere dalle ipotesi della scienza quella che dovrebbe essere la verità assoluta, cioè non ipotetica, del proprio insegnamento. In favore del carattere umano dell’embrione suona invece il principio che il suo esser uomo «in potenza» è il suo esser-già-uomo , sebbene, appunto, «in potenza». E se già un modo di esser uomo, la sua soppressione è un omicidio.
Sennonché, quanti sostengono il carattere umano dell’embrione sostengono anche che il processo che conduce dall’embrione all’uomo compiutamente esistente (uomo «in atto», dice Aristotele) non è garantito, non è inevitabile, non ha un carattere deterministico , ossia tale da non ammettere deviazioni o alternative. Ancora una volta, è Aristotele a rilevare che «ciò che è in potenza è in potenza gli opposti». Questo vuol dire che, se l’embrione può diventare un uomo in atto , allora, proprio perché «lo può» (e non lo diventa ineluttabilmente), proprio per questo può anche diventare non-uomo , cioè qualcosa che uomo non è. E siamo al tratto decisivo del discorso (che andrebbe letto al rallentatore). L’embrione - si dice - è in potenza un-esser-già-uomo . Ma, si è visto, proprio perché è «in potenza» uomo, l’embrione è in potenza anche non-uomo. Pertanto è in potenza anche un esser-già-non-uomo . È già uomo e, anche, è già non uomo. Nell’embrione questi due opposti sono uniti necessariamente.
Proprio per questo, l’embrione non è un esser uomo . Infatti - anche per coloro che pensano alla luce dell’idea di «potenza» - l’uomo autentico è uomo, e non è insieme non-uomo. Se un colore è insieme un rosso e un non-rosso, tale (mostruoso) colore non è il color rosso. Analogamente, se l’embrione è, in potenza, quell’esser già uomo che è necessariamente unito all’esser già non-uomo, ne viene che l’embrione non è già un uomo - non è cioè quell’esser autenticamente uomo che rifiuta di unirsi all’esser non-uomo. Questo autentico esser uomo non è pertanto «contenuto» nell’unità potenziale dell’esser uomo e del non esser uomo: così come lo scapolo - l’uomo che non è unito a una donna - non è «contenuto» nell’ammogliato - cioè nell’uomo che invece è unito a una donna.
Non essendo, l’uomo, «contenuto» nell’embrione, non si può quindi dire che sopprimendo l’embrione si uccide l’uomo. Sia pure inconsapevolmente, ad affermare che l’embrione non è un essere umano, e che la sua soppressione a fini terapeutici o eugenetici non è omicidio, son dunque proprio coloro che dell’embrione, alla luce dell’idea di «potenza», intendono essere gli amici più fedeli.
Da dove comincia la natura umana?
Una risposta alla questione che divide laici e cattolici, alla luce della filosofia
L’embrione e la vita, il paradosso di Aristotele
di Emanuele Severino
Che l’embrione prodotto dal seme dell’uomo e dall’ovulo della donna sia essere umano in potenza - ossia qualcosa che in condizioni «normali» ha la capacità di diventare un essere umano - è un principio accettato sia da coloro che sostengono, sia da coloro che negano che l’embrione sia già un essere umano. I due opposti schieramenti si scontrano infatti in relazione a un ulteriore carattere della «potenza». Gli uni (ad esempio i cattolici) intendono che l’embrione sia un esser-già-uomo , ma, appunto, un esserlo già «in potenza». Gli altri intendono che l’embrione, sebbene sia «in potenza» un essere umano, sia tuttavia un non-essere-ancora-uomo . In questo secondo caso la sua soppressione non è omicidio; nel primo caso sì, è omicidio - e questo primo caso esprime la compiuta concezione aristotelica della «potenza». Ma nel secondo caso ci si limita ad esprimere un dogma, o una tesi scientifica, che, appunto perché scientifica, non può essere più che un’ipotesi sia pure altamente confermata. Ciò nonostante la Chiesa fa dipendere dalle ipotesi della scienza quella che dovrebbe essere la verità assoluta, cioè non ipotetica, del proprio insegnamento. In favore del carattere umano dell’embrione suona invece il principio che il suo esser uomo «in potenza» è il suo esser-già-uomo , sebbene, appunto, «in potenza». E se già un modo di esser uomo, la sua soppressione è un omicidio.
Sennonché, quanti sostengono il carattere umano dell’embrione sostengono anche che il processo che conduce dall’embrione all’uomo compiutamente esistente (uomo «in atto», dice Aristotele) non è garantito, non è inevitabile, non ha un carattere deterministico , ossia tale da non ammettere deviazioni o alternative. Ancora una volta, è Aristotele a rilevare che «ciò che è in potenza è in potenza gli opposti». Questo vuol dire che, se l’embrione può diventare un uomo in atto , allora, proprio perché «lo può» (e non lo diventa ineluttabilmente), proprio per questo può anche diventare non-uomo , cioè qualcosa che uomo non è. E siamo al tratto decisivo del discorso (che andrebbe letto al rallentatore). L’embrione - si dice - è in potenza un-esser-già-uomo . Ma, si è visto, proprio perché è «in potenza» uomo, l’embrione è in potenza anche non-uomo. Pertanto è in potenza anche un esser-già-non-uomo . È già uomo e, anche, è già non uomo. Nell’embrione questi due opposti sono uniti necessariamente.
Proprio per questo, l’embrione non è un esser uomo . Infatti - anche per coloro che pensano alla luce dell’idea di «potenza» - l’uomo autentico è uomo, e non è insieme non-uomo. Se un colore è insieme un rosso e un non-rosso, tale (mostruoso) colore non è il color rosso. Analogamente, se l’embrione è, in potenza, quell’esser già uomo che è necessariamente unito all’esser già non-uomo, ne viene che l’embrione non è già un uomo - non è cioè quell’esser autenticamente uomo che rifiuta di unirsi all’esser non-uomo. Questo autentico esser uomo non è pertanto «contenuto» nell’unità potenziale dell’esser uomo e del non esser uomo: così come lo scapolo - l’uomo che non è unito a una donna - non è «contenuto» nell’ammogliato - cioè nell’uomo che invece è unito a una donna.
Non essendo, l’uomo, «contenuto» nell’embrione, non si può quindi dire che sopprimendo l’embrione si uccide l’uomo. Sia pure inconsapevolmente, ad affermare che l’embrione non è un essere umano, e che la sua soppressione a fini terapeutici o eugenetici non è omicidio, son dunque proprio coloro che dell’embrione, alla luce dell’idea di «potenza», intendono essere gli amici più fedeli.
i torturatori
Yahoo! Salute martedì 30 novembre 2004
Psichiatria, Psicologia e Neurologia
Torturatori in Iraq: uomini o mostri?
Il Pensiero Scientifico Editore
Gli atti di tortura perpetrati dai militari Usa nella prigione irachena di Abu Graib alcuni mesi fa che tante proteste e disgusto hanno suscitato nell’opinione pubblica mondiale sono un esempio del potere del contesto sociale secondo un team di psicologi dell’Università di Princeton nel New Jersey.
I ricercatori spiegano che le persone coinvolte non possono essere semplicisticamente liquidate come ‘mele marce’: si tratta di uomini e donne comuni influenzati da complesse forze sociali.
“La gente ama descrivere il comportamento altrui in termini di personalità unica, ma il contesto sociale conta più di quanto si creda”, spiega Susan T. Fiske, che insegna Psicologia a Princeton. “In breve, individui normali, sotto l’influenza di complesse forze sociali, possono commettere azioni malvagie”, spiega il team della Fiske sulla rivista Science.
Precedenti ricerche avevano dimostrato che praticamente tutti diventano molto aggressivi in certe condizioni, specialmente se sottoposti a grave stress: i soldati ad Abu Graib non fanno eccezione: impauriti dalla guerra, circondati dall’odio, inadatti al lavoro assegnato loro e mal supervisionati dai loro superiori.
Altra costante emersa da vari studi è che gli individui si uniformano ai loro pari e obbediscono alle figure autorevoli, anche in circostanze estreme. Nel famoso Stanford Prison Study, per esempio, un gruppo di studenti di college sono stati assegnati randomicamente al ruolo di guardie o prigionieri e diventarono in breve tempo torturatori e vittime. Le guardie tendevano a conformarsi al comportamento delle altre guardie. Negli studi Milgram, nell’ambito dei quali ad un gruppo di individui è stato assegnato il compito di ‘punire’ altri individui con degli shock elettrici, è stato dimostrato che uomini e donne sono capaci di indicibile crudeltà se credono di essere legittimati da un’autorità superiore.
Ciononostante la maggior parte delle persone rifiutano di credere che sarebbero mai capaci di commettere atti così estremi o di fare del male ad altri esseri umani: “Tutti dicono io non lo farei, ma non possono avere tutti ragione. Gli studi dimostrano che le persone sono capaci di fare tutto. Abbiamo tutti bisogno di vivere in gruppi sociali e questo può spingerci ai comportamenti più efferati e malvagi”, aggiunge la Fiske.
Le persone che ricoprono posizioni di potere devono sapere che hanno un controllo sul contesto sociale. Che creano l’atmosfera, la cultura, il background dei loro sottoposti e li influenzano. E da grandi poteri derivano grandi responsabilità, come tutti i lettori de “L’Uomo Ragno” ben sanno.
Psichiatria, Psicologia e Neurologia
Torturatori in Iraq: uomini o mostri?
Il Pensiero Scientifico Editore
Gli atti di tortura perpetrati dai militari Usa nella prigione irachena di Abu Graib alcuni mesi fa che tante proteste e disgusto hanno suscitato nell’opinione pubblica mondiale sono un esempio del potere del contesto sociale secondo un team di psicologi dell’Università di Princeton nel New Jersey.
I ricercatori spiegano che le persone coinvolte non possono essere semplicisticamente liquidate come ‘mele marce’: si tratta di uomini e donne comuni influenzati da complesse forze sociali.
“La gente ama descrivere il comportamento altrui in termini di personalità unica, ma il contesto sociale conta più di quanto si creda”, spiega Susan T. Fiske, che insegna Psicologia a Princeton. “In breve, individui normali, sotto l’influenza di complesse forze sociali, possono commettere azioni malvagie”, spiega il team della Fiske sulla rivista Science.
Precedenti ricerche avevano dimostrato che praticamente tutti diventano molto aggressivi in certe condizioni, specialmente se sottoposti a grave stress: i soldati ad Abu Graib non fanno eccezione: impauriti dalla guerra, circondati dall’odio, inadatti al lavoro assegnato loro e mal supervisionati dai loro superiori.
Altra costante emersa da vari studi è che gli individui si uniformano ai loro pari e obbediscono alle figure autorevoli, anche in circostanze estreme. Nel famoso Stanford Prison Study, per esempio, un gruppo di studenti di college sono stati assegnati randomicamente al ruolo di guardie o prigionieri e diventarono in breve tempo torturatori e vittime. Le guardie tendevano a conformarsi al comportamento delle altre guardie. Negli studi Milgram, nell’ambito dei quali ad un gruppo di individui è stato assegnato il compito di ‘punire’ altri individui con degli shock elettrici, è stato dimostrato che uomini e donne sono capaci di indicibile crudeltà se credono di essere legittimati da un’autorità superiore.
Ciononostante la maggior parte delle persone rifiutano di credere che sarebbero mai capaci di commettere atti così estremi o di fare del male ad altri esseri umani: “Tutti dicono io non lo farei, ma non possono avere tutti ragione. Gli studi dimostrano che le persone sono capaci di fare tutto. Abbiamo tutti bisogno di vivere in gruppi sociali e questo può spingerci ai comportamenti più efferati e malvagi”, aggiunge la Fiske.
Le persone che ricoprono posizioni di potere devono sapere che hanno un controllo sul contesto sociale. Che creano l’atmosfera, la cultura, il background dei loro sottoposti e li influenzano. E da grandi poteri derivano grandi responsabilità, come tutti i lettori de “L’Uomo Ragno” ben sanno.
Bibliografia. Science 26, november 2004
Corriere della Sera 30.11.04
La prima volta che l'Icrc si esprime in termini così forti
«Torture sui detenuti a Guantanamo»
Nel rapporto la Croce Rossa denuncia «l’uso intenzionale da parte dei militari Usa della coercizione fisica e psicologica»
ROMA - Abusi a Guantanamo. Questa volta lo dice la Croce Rossa. New York Times e Financial Times aprono le loro edizioni on-line con il medesimo articolo a firma di Neil A. Lewis dal titolo «La croce rossa denuncia abusi a Guantanamo». Non si tratta di una notizia vecchia, sebbene ormai la frequenza delle denunce di abusi su detenuti può indurre a confusione, bensì di un rapporto confidenziale dell’Icrc (Comitato internazionale della Croce rossa) indirizzato al governo di Washington nel quale si denuncia l’uso intenzionale da parte dei militari americani della coercizione fisica e psicologica, «equivalente a tortura», sui detenuti di Guantanamo. Il rapporto, che si riferisce a una visita effettuata nel giugno 2004, è stato consegnato ai legali della Casa Bianca, al Pentagono e al Dipartimento di stato e ai comandi del centro di detenzioni di Guantanamo. Il Nyt è riuscito ad ottenere un memorandum, basato sul rapporto, che ne riporta ampi stralci.
E’ la prima volta che la Croce Rossa, che ha effettuato visite a Guantanamo fin dal gennaio 2002, si esprime in termini così forti sul trattamento dei prigionieri. Gli inviati dell’Icrc hanno verificato un sistema volto a fiaccare la volontà dei prigionieri di Guantanamo, ora circa 550, e di renderli completamente dipendenti dai loro «inquisitori» tramite «azioni umilianti, isolamento, temperature estreme, posizioni fisiche obbligate». I metodi utilizzati sono stati definiti via via più «repressivi e raffinati» che nelle visite precedenti. Interrogato sulle denunce contenute nel rapporto, un portavoce del Pentagono ha risposto: «Gli Stati uniti svolgono un’operazione di detenzione inoffensiva, umana e professionale, atta a procurare importanti informazioni nella lotta al terrorismo».
La prima volta che l'Icrc si esprime in termini così forti
«Torture sui detenuti a Guantanamo»
Nel rapporto la Croce Rossa denuncia «l’uso intenzionale da parte dei militari Usa della coercizione fisica e psicologica»
ROMA - Abusi a Guantanamo. Questa volta lo dice la Croce Rossa. New York Times e Financial Times aprono le loro edizioni on-line con il medesimo articolo a firma di Neil A. Lewis dal titolo «La croce rossa denuncia abusi a Guantanamo». Non si tratta di una notizia vecchia, sebbene ormai la frequenza delle denunce di abusi su detenuti può indurre a confusione, bensì di un rapporto confidenziale dell’Icrc (Comitato internazionale della Croce rossa) indirizzato al governo di Washington nel quale si denuncia l’uso intenzionale da parte dei militari americani della coercizione fisica e psicologica, «equivalente a tortura», sui detenuti di Guantanamo. Il rapporto, che si riferisce a una visita effettuata nel giugno 2004, è stato consegnato ai legali della Casa Bianca, al Pentagono e al Dipartimento di stato e ai comandi del centro di detenzioni di Guantanamo. Il Nyt è riuscito ad ottenere un memorandum, basato sul rapporto, che ne riporta ampi stralci.
E’ la prima volta che la Croce Rossa, che ha effettuato visite a Guantanamo fin dal gennaio 2002, si esprime in termini così forti sul trattamento dei prigionieri. Gli inviati dell’Icrc hanno verificato un sistema volto a fiaccare la volontà dei prigionieri di Guantanamo, ora circa 550, e di renderli completamente dipendenti dai loro «inquisitori» tramite «azioni umilianti, isolamento, temperature estreme, posizioni fisiche obbligate». I metodi utilizzati sono stati definiti via via più «repressivi e raffinati» che nelle visite precedenti. Interrogato sulle denunce contenute nel rapporto, un portavoce del Pentagono ha risposto: «Gli Stati uniti svolgono un’operazione di detenzione inoffensiva, umana e professionale, atta a procurare importanti informazioni nella lotta al terrorismo».
stress e invecchiamento
Ansa.it
RICERCA:STRESS FA INVECCHIARE CELLULE DONNE DI 10 ANNI /ANSA
Data: 30.11.2004 - 13:51 - ROMA
(ANSA) - ROMA, 29 NOV - Le donne stressate sono in media 'piu' vecchie di 10 anni' rispetto alla loro eta' anagrafica, infatti sulle loro cellule sono molto piu' marcati i 'segni' del tempo rispetto a coetanee meno stressate. La notizia, giunta sulle pagine della rivista dell'Accademia Americana delle Scienze 'Pnas', e' merito delle ricerche dell'equipe di Elissa Epel, dell Universita' della California, a San Francisco. Per la prima volta, come supposto da molti esperti, si dimostra che lo stress, oltre ad angustiare la nostra quotidianita', ha effetti deleteri sul corpo tali da farlo invecchiare prima del tempo. Gli esperti hanno studiato lo 'stato di salute' del Dna di cellule immunitarie di 58 donne tra i 20 e i 50 anni, che lamentavano differenti livelli di stress psicologico nella loro vita quotidiana. Di tutto il campione, inoltre, 39 donne erano mamme di bimbi con malattie croniche quindi, ha spiegato la Epel, plausibilmente piu' stressate. I ricercatori hanno sottoposto l'intero campione a questionari di autovalutazione dello stress (per misurare la percezione soggettiva dello stress) ed hanno poi misurato oggettivamente lo stress considerando gli anni che ciascuna donna aveva speso fino a quel momento ad accudire i propri bimbi malati. Cosi' gli scienziati hanno visto che la percezione individuale dello stress e il livello di stress cronico per le mamme dei bimbi malati, sono entrambi correlati all'invecchiamento cellulare. In ambedue i casi nelle donne piu' colpite da stress le cellule esaminate apparivano in media dieci anni piu' vecchie dell'eta' anagrafica, ha riferito la Epel. Infatti le cellule mostravano tutti i segni tipici dell'invecchiamento: avevano le estremita' dei loro cromosomi, i 'telomeri', erano piu' corte e mancava un'adeguata quantita' dell'enzima protettivo dei telomeri stessi, la 'telomerasi'. Inoltre queste cellule manifestavano un forte stress ossidativo, anche questo un tratto tipico del peso degli anni. I telomeri sono come 'cappucci' protettivi che mantengono intatto il materiale genetico impedendo la perdita di Dna alle estremita' dei cromosomi. Sono quindi importantissimi per le cellule perche' la perdita di materiale ereditario sarebbe loro fatale. Via via che una cellula invecchia i telomeri si accorciano e diventano meno efficienti nell'assolvere al loro compito, cosi' alla lunga la cellula perde Dna fino a una condizione incompatibile con la sua vita. Numerosi studi, svolti in diversi laboratori del mondo con l'intento di svelare i segreti dell'invecchiamento, hanno dimostrato il nesso tra accorciamento dei telomeri, invecchiamento cellulare e invecchiamento anagrafico dell individuo. In questo caso i ricercatori si sono invece chiesti se fattori psicologici negativi come lo stress influenzassero a loro volta il benessere fisico e accelerassero il normale processo di invecchiamento e hanno mostrato per la prima volta il legame tra stress e invecchiamento, elucidando anche i meccanismi biochimici mediante i quali lo stress cospira contro di noi. Al momento la Epel e i suoi colleghi stanno conducendo uno studio a lungo termine per vedere se la velocita' di accorciamento telomerico e' proporzionale al grado di stress dell'individuo, ovvero se piu' e' alto il livello di stress sopportato, piu' e' rapido l'accorciamento dei telomeri. come ci si aspetterebbe dai risultati appena pubblicati. E poi, ha concluso la Epel, l'idea e' di ripetere questo stesso lavoro su tanti altri tipi cellulari, per esempio sulle cellule cardiache, per vedere se lo stress fa ammalare il cuore predisponendolo a un invecchiamento piu' accelerato. (ANSA).
RICERCA:STRESS FA INVECCHIARE CELLULE DONNE DI 10 ANNI /ANSA
Data: 30.11.2004 - 13:51 - ROMA
(ANSA) - ROMA, 29 NOV - Le donne stressate sono in media 'piu' vecchie di 10 anni' rispetto alla loro eta' anagrafica, infatti sulle loro cellule sono molto piu' marcati i 'segni' del tempo rispetto a coetanee meno stressate. La notizia, giunta sulle pagine della rivista dell'Accademia Americana delle Scienze 'Pnas', e' merito delle ricerche dell'equipe di Elissa Epel, dell Universita' della California, a San Francisco. Per la prima volta, come supposto da molti esperti, si dimostra che lo stress, oltre ad angustiare la nostra quotidianita', ha effetti deleteri sul corpo tali da farlo invecchiare prima del tempo. Gli esperti hanno studiato lo 'stato di salute' del Dna di cellule immunitarie di 58 donne tra i 20 e i 50 anni, che lamentavano differenti livelli di stress psicologico nella loro vita quotidiana. Di tutto il campione, inoltre, 39 donne erano mamme di bimbi con malattie croniche quindi, ha spiegato la Epel, plausibilmente piu' stressate. I ricercatori hanno sottoposto l'intero campione a questionari di autovalutazione dello stress (per misurare la percezione soggettiva dello stress) ed hanno poi misurato oggettivamente lo stress considerando gli anni che ciascuna donna aveva speso fino a quel momento ad accudire i propri bimbi malati. Cosi' gli scienziati hanno visto che la percezione individuale dello stress e il livello di stress cronico per le mamme dei bimbi malati, sono entrambi correlati all'invecchiamento cellulare. In ambedue i casi nelle donne piu' colpite da stress le cellule esaminate apparivano in media dieci anni piu' vecchie dell'eta' anagrafica, ha riferito la Epel. Infatti le cellule mostravano tutti i segni tipici dell'invecchiamento: avevano le estremita' dei loro cromosomi, i 'telomeri', erano piu' corte e mancava un'adeguata quantita' dell'enzima protettivo dei telomeri stessi, la 'telomerasi'. Inoltre queste cellule manifestavano un forte stress ossidativo, anche questo un tratto tipico del peso degli anni. I telomeri sono come 'cappucci' protettivi che mantengono intatto il materiale genetico impedendo la perdita di Dna alle estremita' dei cromosomi. Sono quindi importantissimi per le cellule perche' la perdita di materiale ereditario sarebbe loro fatale. Via via che una cellula invecchia i telomeri si accorciano e diventano meno efficienti nell'assolvere al loro compito, cosi' alla lunga la cellula perde Dna fino a una condizione incompatibile con la sua vita. Numerosi studi, svolti in diversi laboratori del mondo con l'intento di svelare i segreti dell'invecchiamento, hanno dimostrato il nesso tra accorciamento dei telomeri, invecchiamento cellulare e invecchiamento anagrafico dell individuo. In questo caso i ricercatori si sono invece chiesti se fattori psicologici negativi come lo stress influenzassero a loro volta il benessere fisico e accelerassero il normale processo di invecchiamento e hanno mostrato per la prima volta il legame tra stress e invecchiamento, elucidando anche i meccanismi biochimici mediante i quali lo stress cospira contro di noi. Al momento la Epel e i suoi colleghi stanno conducendo uno studio a lungo termine per vedere se la velocita' di accorciamento telomerico e' proporzionale al grado di stress dell'individuo, ovvero se piu' e' alto il livello di stress sopportato, piu' e' rapido l'accorciamento dei telomeri. come ci si aspetterebbe dai risultati appena pubblicati. E poi, ha concluso la Epel, l'idea e' di ripetere questo stesso lavoro su tanti altri tipi cellulari, per esempio sulle cellule cardiache, per vedere se lo stress fa ammalare il cuore predisponendolo a un invecchiamento piu' accelerato. (ANSA).
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