domenica 14 novembre 2004

Marco Bellocchio

lospettacolo.it 4 novembre 2004 (h.12:46)
BELLOCCHIO I FILM NASCONO DA UN'IMMAGINE
Il regista di "Buongiorno, notte" parla dei suoi nuovi progetti

«Ogni mio film nasce sempre da una immagine ed è su di essa che costruisco, o almeno tento di costruire una storia che ha a che fare con vissuti personali ma che possono essere universali», parole di Marco Bellocchio che durante un incontro con il pubblico di Roma svoltosi alla "Casa del cinema" ha parlato di cinema e dei suoi prossimi progetti.
"Il regista dei matrimoni", questo il titolo del prossimo film del regista italiano che vedrà protagonista Sergio Castellitto.
Una storia avventurosa ambientata in Sicilia e che ha qualche riferimento con i Promessi Sposi, anche se quello del romanzo di Manzoni è «solo un pretesto, un vago riferimento per raccontare l'ennesima storia di un rapporto umano dal quale però il protagonista si vuole separare», ha aggiunto Bellocchio.
Una storia che avrà come tema determinante quello della separazione com'è stato anche nei film precedenti del regista di "L'ora di religione": «Ci si può separare dal passato - ha osservato Bellocchio - senza far vittime, senza autodistruzione: all'idea di abbattere l'avversario non ci credo più». Una separazione dolorosa che porta inevitabilmente per la via della solitudine e dalla quale se ne può uscire senza perdere gli affetti che sono alla base del benessere degli uomini, fin dalle prime ore di vita.

sinistra
su Liberazione di martedì scorso un articolo citava l'incontro di villa Piccolomini

una segnalazione di Anna Maria Novelli

Liberazione 9.11.04

Dibattito con Bertinotti, Revelli, Menapace, autori del libro edito da Fazi
Nonviolenza, la speranza della sinistra radicale

«La nostra ricerca sulla nonviolenza ha sicuramente un vantaggio: ci si accompagna bene». Alla presentazione del libro Nonviolenza. Le ragioni del pacifismo (Fazi Editore, euro 10) con saggi di Fausto Bertinotti, Lidia Menapace, Marco Revelli, il segretario di Rifondazione comunista inizia dai compagni di strada, dal percorso che fa della nonviolenza un concetto frutto dell'intelligenza collettiva. «Oggi siamo qui con Lidia e Marco, venerdì scorso stavamo con Ingrao e tanti giovani che si interrogano. E' un elemento interessante di verifica».

Nel dibattito, coordinato dal direttore di Liberazione, Piero Sansonetti, arriva l'eco delle polemiche sulle manifestazioni di sabato. Il segretario del Prc prima di entrare nella Protomoteca del Campidoglio ribadisce la posizione del partito a proposito del cosiddetto "esproprio proletario", ma durante la discussione l'eco diventa solo l'occasione per tracciare con nettezza che cosa significhi "qui e ora" la nonviolenza.

Nel saluto iniziale il sindaco Walter Veltroni, che in mattinata ha condannato le azioni di sabato, ritorna sull'attualità: «Il libro ripropone la scelta senza riserve di una pratica politica ispirata alla nonviolenza. Non c'è mai nessuna ingiustizia che giustifichi l'uso della violenza». Veltroni chiarisce la sua posizione: non necessariamente, a differenza da quanto sostenuto da Bertinotti all'inizio del suo saggio, la nonviolenza è sposata a una critica radicale del mondo. Per il sindaco di Roma è importante sottolineare che «il rispetto delle leggi non è un optional della democrazia», che la legalità non può essere infranta. Nel corso del dibattito la risposta arriva direttamente da Revelli: «L'assimilazione della nonviolenza a posizioni concilianti o moderate, ad un abbassamento della guardia, è quanto di più sbagliato si possa sostenere». Revelli si serve degli scritti di Aldo Capitini: la nonviolenza è lotta, è assunzione di responsabilità, è dire no all'ingiustizia.

Che cosa sia la nonviolenza lo spiega bene il libro che riassume nove mesi di dibattito, squadernandone tutti i temi ancora aperti, con tre approcci diversi. Bertinotti analizza il rapporto tra nonviolenza e la sfida che questa rappresenta per la sinistra. Menapace ricostruisce la storia del movimento pacifista in relazione soprattutto con il movimento delle donne. Nel saggio di Revelli si affronta l'aspetto filosofico del rapporto tra nonviolenza e marxismo.

Il direttore di Liberazione fa la prima domanda a Revelli. A partire da un'obiezione di fondo sul titolo del libro: «Perché far coincidere nonviolenza e pacifismo, quando non si tratta della stessa cosa?». E poi una seconda domanda: «Invece di compiere lo sforzo di inscrivere la nonviolenza dentro la filosofia della prassi, non era meglio cogliere l'occasione per una revisione profonda della marxismo?» Revelli non sfugge alle questioni. «E' vero - risponde alla prima domanda - le due cose non coincidono. Ma fotografano bene il clima del seminario del Prc sulla nonviolenza del febbraio scorso a Venezia. Si è creato un cortocircuito tra una rete di persone, che, pur essendo tutte contrarie alla guerra, non hanno le stesse posizioni sulla nonviolenza. Si aveva l'idea che eravamo davanti a un nuovo inizio. E' qui che si colloca il rapporto con la filosofia della prassi: di un pensiero che si misura con la storia. Dobbiamo interrogare il rapporto tra mezzi e fini: se facciamo nostro l'obiettivo di un nuovo mondo possibile, non possiamo servirci dei metodi di questo brutto mondo impossibile. Si deve inventare una nuova prassi».

La sfida diventa sempre più radicale. «Si può - chiede Sansonetti a Menapace - costruire la politica senza l'idea del nemico?». L'intellettuale femminista rilancia: «Non solo si può ma si deve». Il riferimento è a San Francesco. Esempio di un pacifismo capace di mediare e di proporre le gradazioni necessarie. Menapace fa due esempi. Uno sul passato: «San Francesco non dice a papa Innocenzo di non fare le crociate, ma gli propone di offrire gli stessi vantaggi a chi invece va in pellegrinaggio ad Assisi. In molti seguono questa seconda strada». Un secondo esempio: «Se, in Usa, i referendum sui matrimoni per gli omosessuali fossero stati fatti sulle unioni civili, probabilmente la sconfitta non sarebbe stata così schiacciante».

La nonviolenza per Bertinotti è uno dei pilastri su cui costruire una nuova ideologia della sinistra. «Perché - gli chiede però Sansonetti - non considerarla di per sé l'ideologia di questo secolo?». Il segretario del Prc spiega: «In questi anni ci siamo fatti convincere che le ideologie erano morte, mentre la destra ha costruito una ideologia forte. Grazie a questa Bush ha vinto. Dobbiamo però stare attenti - avverte Bertinotti -. Dobbiamo evitare di rispondere in maniera speculare, proponendo un sistema compatto in cui noi facciamo come loro. A loro non interessa costruire un senso comune, una egemonia. Gli interessa vincere. La nonviolenza fa invece riferimento a una sistema di relazioni, a una comunità. Non è una ideologia: è "quasi una ideologia". Come è quasi un'"ideologia" l'idea di uguaglianza. La non violenza è quello che dicono gli zapatisti con la frase "camminare domandando"». Rispondendo a Veltroni, Bertinotti rivendica la radicalità della critica alla società capitalistica. La nonviolenza inscrive questa radicalità dentro la società, i suoi processi, dentro una idea di convivenza: è una griglia critica che permette di mettere in discussione la cultura della "presa del potere", senza rinunciare alla trasformazione della società.

nuovi libri
una giovane donna, in Palestina

La Stampa 14 Novembre 2004
IL ROMANZO DELLA GIORNALISTA RULA JEBREAL
Visioni di donne dalla Palestina
di Francesca Paci

La Palestina non compare su nessun atlante geografico ma si estende, definita come uno Stato reale, nelle mappe mentali dei palestinesi, quelli che vivono in Cisgiordania e nella striscia di Gaza e gli esuli della diaspora. Nomi di villaggi scomparsi e tramandati oralmente, costumi tradizionali da museo etnografico, volti e paesaggi spesso poco più nitidi di un ricordo infantile. Evocazioni, come le protagoniste di Rula Jebreal, la bella conduttrice del telegiornale della 7 che ha raccontato le sue origini e l’infanzia a Haifa, in Israele, in un romanzo appena pubblicato da Rizzoli, La strada dei fiori di Miral.
Dall’attualità alla memoria. La giornalista Jebral rendiconta ogni giorno le cronache dal Medio Oriente, dove la violenza è routine e l’appuntamento con la pace tarda da un secolo. Eppure, con gli occhi della fantasia, la palestinese Jebreal vede una terra capace ancora di produrre storie d’amore, amicizia, solidarietà, una Gerusalemme liberata dal destino bellicoso, «con le sue pietre ancora bianchissime nonostante fossero state imbrattate di sangue innumerevoli volte nel corso dei secoli».
La strada dei fiori di Miral comincia nel 1948 con la nascita dello Stato d’Israele, la nakba secondo gli arabi, che con questa parola descrivono la «catastrofe» seguita a quell’evento, e attraversa il ‘900 tracciando, contromano rispetto al conflitto permanente, un percorso di speranza.
Miral è il nome di un fiore del deserto ma anche quello di una giovane palestinese che vive in Israele e viene accolta nel collegio-orfanotrofio Dar Al Tifel fondato da Hind Husseini, una fanciulla di straordinario coraggio appartenente a una delle maggiori famiglie arabe di Gerusalemme. Nella giovane vita della protagonista confluiscono i destini di tante donne infelici. La mamma Nadia, adolescente ribelle morta in circostanze misteriose. La zia paterna, responsabile di un grave attentato a causa del quale Miral deve cambiare cognome. Fatima, la prima palestinese a piazzare un ordigno in un cinema frequentato da soldati israeliani, che paga con l’ergastolo l’illusione di porre fine all’odio con l’odio. La compagna di classe Amal costretta ad abortire dopo che il suo ragazzo è rimasto ucciso durante uno scontro tra civili e militari a Ramallah. La sorella Randa che in silenzio segue da vicino il suo debutto nel teatro della prima Intifada. La stessa Hind, dolcissima ma ferma madre adottiva che prende Miral per mano e l’allontana dalla tentazione dell’estremismo politico.
La storia si apre con i funerali di Hind Husseini e sfuma sulle note del suo corteo funebre. La scomparsa della maestra, che insegnava alle studentesse come «il vero leader è colui che lascia eredi», riporta Miral alla realtà. Tante volte, nelle visite da volontaria nei campi profughi palestinesi, Miral aveva ripetuto, citando Hind, che la rabbia non avrebbe portato alla vittoria: «Siamo nati nel posto sbagliato nel momento sbagliato, ma non dobbiamo rinunciare a farci una vita, conquistandola ogni giorno, con fatica e sacrifici. Un popolo che non riesce a vedere un futuro per sé e per i suoi figli ha perso in partenza». Eppure, poi, adolescente appassionata, si era lasciata dominare dall’istintiva reazione alle ingiustizie, aveva lanciato pietre contro i tank israeliani, aveva incitato le compagne di collegio alla rivolta. Alla morte di Hind, la ragazza decide di continuare a combattere lasciando il paese: andrà a studiare in Europa in compagnia dell’amica Lisa, la nuova fidanzata israeliana di suo cugino Samer con cui ha maturato l’insofferenza comune per un destino che le divide nonostante siano tanto simili.

sinistra
Imma Barbarossa: dal punto di vista delle donne

Liberazione 13.11.04
Espropri, visti dalla parte delle donne
di Imma Barbarossa

Era inevitabile che l'evento "conclusivo" della grande giornata di "San Precario" suscitasse perplessità, discussioni, prese di posizione nel movimento, nel Prc e in quanti/e (io tra questi/e) ritengono la disobbedienza un'esperienza e una pratica molto importante per la crescita diffusa di soggettività critiche dell'ordine capitalistico, dello sfruttamento globalizzato, del pensiero unico.

Ma, proprio perché la ritengo importante, credo che discuterne sia utile tra quanti/e praticano il movimento sia quello contro la guerra, le basi militari, gli inceneritori e gli strumenti di morte sia quello delle azioni dirette di occupazioni di case, spazi etc.

Anch'io come tanti/e ritengo politicamente sbagliata la conclusione della "liberazione delle merci", ma per ragioni un po' asimmetriche rispetto a tante che sono state fin qui esposte.

Non mi convince del tutto la ragione della semplice inefficacia: anche un'azione immediatamente efficace può risultare di corto respiro. Né l'accostamento (per disprezzo o per ammirazione) al '77 mi convince: l'assenza di passamontagna e di, sia pure gestuali, P38 è decisiva, nel profondo. Qui non c'entra la questione della legalità e illegalità: la critica dell'esistente si è affermata proprio perché ci sono state azioni "illegali", cioè contrarie alla legge vigente, anzi le leggi sono cambiate proprio perché c'è stato chi ha disobbedito. Né si tratta della questione violenza/nonviolenza: i "liberatori di merci" non hanno usato violenza, non hanno picchiato (spero!), non hanno compiuto vandalismi (spero!).

Ma allora? Tralascio le volgari demonizzazioni della destra e dei benpensanti, anzi credo che il nostro partito debba impegnarsi a contrastare ogni possibile strumentalizzazione e criminalizzazione del dissenso. E premetto che sono favorevole ad azioni di gruppo o individuali, come fermare i treni che portano armi e scorie, occupare basi militari, smontare le strutture dei lager per immigrati, boicottare, smontare i palchi dove si apprestano a parlare i ministri di guerra, ecc. Molte/i di noi sia da studenti che da docenti abbiamo partecipato ad azioni "illegali" e dirette nelle scuole: personalmente l'ho fatto molte volte. Ma ho anche "salvato" studenti fascisti dai pestaggi nelle assemblee. Questo è il punto: se l'azione diretta non suscita consenso, anzi suscita paura (ho visto in Tv una cassiera terrorizzata), non appartiene alla pratica della disobbedienza, ma ad una semplice e ahimè banale prevaricazione. Se domenica 7 novembre tutt'Italia smette di commentare le partite e commenta "l'esproprio proletario", non abbiamo ottenuto un gran risultato.

Mi si dice: il potere è violento, quello sì è violento, ci uccide, ci rapina, affama milioni e milioni di persone. E allora? Non dobbiamo non solo essere altro, ma anche "apparire" altro? Mi viene anche detto: usiamo i nostri corpi per rendere visibile l'oppressione. Non mi pare sia così. E per dire questo ho un punto di vista "privilegiato", quello di genere. Le donne sono state le prime disobbedienti nella storia dell'umanità, in gruppo e da singole. Hanno disobbedito al padrone che le sfruttava, ai giudici, alla morale repressiva. Si sono autodenunciate per interruzione volontaria di gravidanza, hanno aiutato le altre donne a trasgredire le leggi e la morale degli uomini. Hanno messo in gioco il loro corpo per rendere visibile la loro oppressione. Ma si sono anche ribellate ai loro compagni proletari ("la donna è il proletario dell'uomo", scriveva il buon vecchio Engels): ricordate "compagni nella lotta, fascisti nella vita? ".

Ecco, appunto: la rivoluzione più lunga è l'unica rivoluzione nonviolenta, l'unica pratica alternativa, almeno finora, ed è l'unica che ha davvero messo in discussione lo stato di cose presente, l'ordine costituito, l'ordine patriarcale. Ha disvelato la "neutralità" e la "naturalità" del patriarcato. Marx, che aveva disvelato la non "naturalità" dell'ordine capitalistico, non aveva potuto e saputo analizzare il patriarcato. Quanto di patriarcale c'è nella sinistra e nel movimento? Molto, e lo riconosco gli stessi compagni del movimento. Quanto di maschile c'è nell'esibizionismo, nella forzatura, in una radicalità tutta messa in scena, persino gettata sui media, più in superficie e meno in profondità, più nell'azione e meno nel vissuto? Un progetto politico di costruzione di soggetti critici non deve partire proprio dai soggetti? E la liberazione può prescindere dall'autoliberazione? Mi piacerebbe discuterne, a partire dalla "buona fede" di tutte e tutti, e soprattutto fuori dalle etichette.