Vita 16.12.03
Legge 180: la proposta di riforma torna in pista a gennaio
di Benedetta Verrini (b.verrini@vita.it)
Lo riferisce la cooperativa Itaca di Pordenone, a cui lo psichiatra Tonino Cantelmi ha confermato la notizia della redazione di un nuovo testo base
Un nuovo testo unificato di legge n.174 denominato "Norme per la prevenzione e tutela delle malattie mentali", noto ai più come "Burani Procaccini", sarà portato a breve all'attenzione della XII Commissione Affari sociali per la discussione.
Ne dà notizia, dal proprio sito www.itaca.coopsoc.it la cooperativa Itaca di Pordenone, in prima linea nel dibattito che in questi mesi ha accompagnato le proposte di riforma della psichiatria e nella difesa della famosa legge 180.
Secondo le fonti di Itaca, il testo unificato di legge che dispone la riforma legislativa in materia di salute mentale in Italia, sarà portato in Aula per la discussione presso la XII Commissione Affari sociali in tempi brevissimi.
La discussione del nuovo testo sarebbe, infatti, imminente e prevista per la prima metà di gennaio, immediatamente dopo la conclusione dei lavori per la Finanziaria e la pausa delle festività natalizie, ossia nella prima seduta utile della Commissione.
La proposta di legge "Burani Procaccini" è stata infatti nuovamente riformulata, tanto che il nuovo testo accorperà anche altre proposte presentate dalla sinistra e dalle Associazioni dei familiari. Predisposta nell'aprile 2003 (anche se il testo non è al momento ufficialmente disponibile), sarebbe stata firmata da più deputati, si parla di tre o quattro, anche di schieramenti politici differenti.
"Un nuovo testo che sarà frutto della messa in comune di una riflessione molto più profonda - ha confermato a Itaca Tonino Cantelmi-. Numerosi gli elementi innovativi, tra cui l'istituzione della figura del 'garante' per quanto concerne le fasi di ricovero".
Come si ricorderà, il 27 novembre dell'anno scorso la XII Commissione, nel corso della sua ultima seduta, aveva deciso di congelare la deliberazione sull'adozione del testo base "Burani Procaccini" in attesa della legge sulla devolution, mettendo in stand-by così il processo di revisione della legge 180/1978, meglio nota come 'legge Basaglia'.
In quella sede, il relatore on. Maria Burani Procaccini aveva manifestato "la più ampia disponibilità nel valutare le proposte emendative -si legge nella verbalizzazione della seduta-, in vista della predisposizione di un testo il più ampiamente condivisibile".
Disponibilità che si è poi tradotta, concretamente, nella redazione di una nuova edizione del testo di legge che, tra pochi giorni, sarà portato all'attenzione dell'XII Commissione Affari sociali
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
martedì 16 dicembre 2003
il poeta Giovanni Raboni sulla poesia e il linguaggio
una segnalazione di Paolo Izzo
Corriere della Sera 14 dicembre, 2003
LETTERATURA LIBRI POESIA
I sogni della ragione dove nasce la poesia
Surrealismo e psicoanalisi: così il '900 rivoluzionò il modo di scrivere versi
RIME Il peso dell'inconscio nell'arte
IL CONNUBIO Pensiero notturno e leggi linguistiche
di Giovanni Raboni
Nella generale ripresa d'interesse per i fatti e i protagonisti della cultura (ripresa di cui tanto si è parlato, negli ultimi mesi, a partire dal successo di manifestazioni come il Festival della letteratura di Mantova o il Festival della filosofia di Modena) c'è spazio, a quanto pare, persino per la poesia. Gli incontri, le letture, i dibattiti ai quali mi capita di partecipare sono, in effetti, più affollati e animati che in passato; e quasi mai mancano, da parte del pubblico quelle domande «massimalistiche» del tipo, per intenderci, «Cos'è la poesia?» o «A cosa serve la poesia?» - alle quali è tanto difficile rispondere a caldo quanto, più tardi, non tornare ad arrovellarsi in privato. Dài e dài, mi è venuta un' idea: perché non provare a rispondere in anticipo, a freddo, organizzando in forma scritta e con la maggior chiarezza e semplicità possibile gli argomenti cui, di solito, si pensa solo dopo, troppo tardi, mentre si torna a casa o si aspetta d' addormentarsi? Ecco un primo abbozzo, o forse una prima parte, della mia risposta preventiva. «Fino a che punto il canto appartiene alla voce, e la poesia ai poeti?»: si può partire da qui, da una famosa domanda di Victor Hugo, e chiederci a nostra volta cosa intendesse dire, un secolo e mezzo fa, l'autore della Légende des siècles con questo interrogativo apparentemente sibillino. Le interpretazioni possibili sono, a mio avviso, sostanzialmente due. La prima - la più compatibile con l'ideologia romantica allora imperante - è questa: il singolo poeta è il portatore di emozioni collettive, dei sentimenti di un intero popolo: non lui - o, almeno, non lui soltanto - è dunque il «titolare» di ciò cui dà forma e voce. La seconda interpretazione, storicamente meno fondata, è in compenso più utile a metterci sulle tracce del «cos'è», dell'essenza del fenomeno: la poesia non appartiene soltanto al poeta perché non è lui a deciderne il senso, perché il poeta sa soltanto in parte, a volte in minima parte, ciò che la poesia finirà col dire. A questo punto possiamo abbandonare il vecchio Hugo e proseguire per conto nostro. La questione della relativa autonomia del testo poetico rispetto alle intenzioni del poeta è una questione che attraversa l'intera cultura moderna; e per quanto riguarda, in particolare, il '900, è impossibile affrontare l'argomento senza imbattersi in due dei maggiori avvenimenti culturali del secolo: la psicoanalisi e il surrealismo. La psicoanalisi introduce la nozione di inconscio; il surrealismo si appropria di tale nozione e la mette al centro della teoria e della pratica della letteratura e, più in generale, dell'arte. In che senso? Nel senso che compito specifico e caratterizzante della letteratura (e dell'arte) è, per i surrealisti, quello di dare forma, appunto, a una (presunta) «creatività dell'inconscio» liberandola dalle inibizioni e censure della ragione. Di qui, in arte, l'uso generalizzato di accostamenti oggettuali sorprendenti, inspiegabili, scioccanti; di qui, in letteratura e più particolarmente in poesia, l'uso di un libero flusso di immagini che nascono l'una dall' altra obbedendo solo a processi associativi non volontari e non razionali. È la famosa «scrittura automatica»; sin troppo famosa, verrebbe voglia di dire pensando ai risultati estetici ottenuti. Ma le teorie valgono, il più delle volte, soprattutto per la loro carica di sollecitazione, di scatenamento: e se è vero che l'applicazione dell' idea di scrittura automatica ha dato, al momento, esiti modesti, tutt'altro discorso si deve fare per l'onda d'urto provocata, per gli effetti fatti registrare nel tempo: basti pensare al dilagare, in tutto il '900, del «flusso di coscienza» e del «monologo interiore».
Una cosa, comunque, è certa: dopo la psicoanalisi, dopo il surrealismo, non è più lecito dubitare del ruolo che l'attività dell' inconscio svolge nella costituzione, nel concreto farsi dell'oggetto poetico. Quale ruolo? Molto sinteticamente, renderla comunicazione di cui l'oggetto poetico è la fonte (o, se si preferisce, il veicolo) più ricca, più completa, più impressionante nella misura in cui nasce o sgorga non solo dall' intelligenza e dalla volontà dell'autore, ma dalla totalità del suo essere nel senso anche biologico del termine; in altre parole, non solo dal pensiero della veglia, ma anche dal pensiero del sogno, dal pensiero notturno. E basta un altro passo (un passo quasi obbligato) per arrivare a dire che l'essenza della poesia consiste nel far confluire e intrecciare fra loro in un unico accadimento verbale due diverse logiche, due diversi linguaggi, due diversi ordini o categorie di contenuti; e che il suo «scopo» è dar vita a un'immagine intera, non parziale, non dimidiata tanto di colui che parla quanto (per contagio) di colui che ascolta e (per generalizzazione) dell' intero genere umano.
Ma attenzione: se il contributo del pensiero notturno è indispensabile (e, al tempo stesso, spiega) perché la comunicazione poetica abbia queste caratteristiche e svolga questa funzione, altrettanto indispensabile per fissarla, per depurarla di ogni arbitrarietà o futilità, per renderla, insomma, davvero fruibile, è il contributo della ragione. La scarsa significatività degli esempi di scrittura automatica «grezza», lasciata, per così dire, a se stessa, ne sono - in negativo - la prova più evidente. Ed ecco, allora, imporsi come insuperabilmente perfetta la definizione di poesia data tre secoli fa da un trattatista italiano, il gesuita Tommaso Ceva: «un sogno fatto in presenza della ragione». Un sogno, sì, ma controllato e sanzionato dall' intelligenza; uno spazio concesso al pensiero notturno ma garantito, sorvegliato, reso frequentabile dal rigore del pensiero diurno...
Resta da dire - ma è impossibile dirlo se non in presenza di effettivi esempi testuali - come funzioni, come avvenga in concreto questo fondersi, questo fatale e fecondo ibridarsi di due pensieri, di due logiche, di due tipi di messaggio. Mi limito ad annotare, a futura memoria, due punti essenziali. Primo: contenitore-trasmettitore del processo è, ovviamente, la lingua; e ogni testo poetico è di fatto innervato da una rete di microeventi linguistici involontari e spesso subliminali (lapsus, anagrammi spontanei, simmetrie e rimandi occulti ecc.) che oltre a convogliare le incursioni e gli apporti del pensiero notturno dentro il pensiero della veglia contribuiscono ad assicurare alla superficie testuale compattezza, coerenza, continuità sonora, insomma «bellezza». Secondo: essenziale è la funzione dalla forma o, per essere più precisi, dal sistema di regole che danno evidenza sensibile alla forma ideale del testo. A prima vista si direbbe che dover rispettare, per esempio, un numero di sillabe date, o essere costretti a far coincidere in luoghi fissi l'esito di una parola con quello di altre parole, limiti la libertà dell'espressione. In realtà, è vero il contrario: è proprio grazie alla ricerca di un suono che combini con un altro suono, di una parola che abbia quella durata e quell'accento, è proprio grazie a questo sforzo dell'intelligenza e, perché no? del mestiere che scattano «automaticamente» associazioni, collegamenti, richiami altrimenti inattivi o irraggiungibili. Se è vero che il pensiero notturno non diventa esteticamente credibile se non passa attraverso il filtro della ragione è altrettanto vero che in poesia la massima libertà si ottiene, spesso, attraverso un massimo controllo e di rigore se non addirittura (la parola non sembri eccessiva) di repressione formale.
Quattro autori intorno a una domanda "Che cos' è la poesia?" Oltre a quella di Tommaso Ceva, ecco le definizioni di altri tre autori: «Un delirio che sgombra le pazzie», Gian Vincenzo Gravina (1664-1718) «L'amore realizzato del desiderio rimasto desiderio», René Char (1907-1988) «I poeti e gli schizofrenici tendono a includere molte cose - al limite: l'universo - anche quando parlano di piccoli oggetti ben circoscritti», Ignacio Matte Blanco (1907-1995).
Corriere della Sera 14 dicembre, 2003
LETTERATURA LIBRI POESIA
I sogni della ragione dove nasce la poesia
Surrealismo e psicoanalisi: così il '900 rivoluzionò il modo di scrivere versi
RIME Il peso dell'inconscio nell'arte
IL CONNUBIO Pensiero notturno e leggi linguistiche
di Giovanni Raboni
Nella generale ripresa d'interesse per i fatti e i protagonisti della cultura (ripresa di cui tanto si è parlato, negli ultimi mesi, a partire dal successo di manifestazioni come il Festival della letteratura di Mantova o il Festival della filosofia di Modena) c'è spazio, a quanto pare, persino per la poesia. Gli incontri, le letture, i dibattiti ai quali mi capita di partecipare sono, in effetti, più affollati e animati che in passato; e quasi mai mancano, da parte del pubblico quelle domande «massimalistiche» del tipo, per intenderci, «Cos'è la poesia?» o «A cosa serve la poesia?» - alle quali è tanto difficile rispondere a caldo quanto, più tardi, non tornare ad arrovellarsi in privato. Dài e dài, mi è venuta un' idea: perché non provare a rispondere in anticipo, a freddo, organizzando in forma scritta e con la maggior chiarezza e semplicità possibile gli argomenti cui, di solito, si pensa solo dopo, troppo tardi, mentre si torna a casa o si aspetta d' addormentarsi? Ecco un primo abbozzo, o forse una prima parte, della mia risposta preventiva. «Fino a che punto il canto appartiene alla voce, e la poesia ai poeti?»: si può partire da qui, da una famosa domanda di Victor Hugo, e chiederci a nostra volta cosa intendesse dire, un secolo e mezzo fa, l'autore della Légende des siècles con questo interrogativo apparentemente sibillino. Le interpretazioni possibili sono, a mio avviso, sostanzialmente due. La prima - la più compatibile con l'ideologia romantica allora imperante - è questa: il singolo poeta è il portatore di emozioni collettive, dei sentimenti di un intero popolo: non lui - o, almeno, non lui soltanto - è dunque il «titolare» di ciò cui dà forma e voce. La seconda interpretazione, storicamente meno fondata, è in compenso più utile a metterci sulle tracce del «cos'è», dell'essenza del fenomeno: la poesia non appartiene soltanto al poeta perché non è lui a deciderne il senso, perché il poeta sa soltanto in parte, a volte in minima parte, ciò che la poesia finirà col dire. A questo punto possiamo abbandonare il vecchio Hugo e proseguire per conto nostro. La questione della relativa autonomia del testo poetico rispetto alle intenzioni del poeta è una questione che attraversa l'intera cultura moderna; e per quanto riguarda, in particolare, il '900, è impossibile affrontare l'argomento senza imbattersi in due dei maggiori avvenimenti culturali del secolo: la psicoanalisi e il surrealismo. La psicoanalisi introduce la nozione di inconscio; il surrealismo si appropria di tale nozione e la mette al centro della teoria e della pratica della letteratura e, più in generale, dell'arte. In che senso? Nel senso che compito specifico e caratterizzante della letteratura (e dell'arte) è, per i surrealisti, quello di dare forma, appunto, a una (presunta) «creatività dell'inconscio» liberandola dalle inibizioni e censure della ragione. Di qui, in arte, l'uso generalizzato di accostamenti oggettuali sorprendenti, inspiegabili, scioccanti; di qui, in letteratura e più particolarmente in poesia, l'uso di un libero flusso di immagini che nascono l'una dall' altra obbedendo solo a processi associativi non volontari e non razionali. È la famosa «scrittura automatica»; sin troppo famosa, verrebbe voglia di dire pensando ai risultati estetici ottenuti. Ma le teorie valgono, il più delle volte, soprattutto per la loro carica di sollecitazione, di scatenamento: e se è vero che l'applicazione dell' idea di scrittura automatica ha dato, al momento, esiti modesti, tutt'altro discorso si deve fare per l'onda d'urto provocata, per gli effetti fatti registrare nel tempo: basti pensare al dilagare, in tutto il '900, del «flusso di coscienza» e del «monologo interiore».
Una cosa, comunque, è certa: dopo la psicoanalisi, dopo il surrealismo, non è più lecito dubitare del ruolo che l'attività dell' inconscio svolge nella costituzione, nel concreto farsi dell'oggetto poetico. Quale ruolo? Molto sinteticamente, renderla comunicazione di cui l'oggetto poetico è la fonte (o, se si preferisce, il veicolo) più ricca, più completa, più impressionante nella misura in cui nasce o sgorga non solo dall' intelligenza e dalla volontà dell'autore, ma dalla totalità del suo essere nel senso anche biologico del termine; in altre parole, non solo dal pensiero della veglia, ma anche dal pensiero del sogno, dal pensiero notturno. E basta un altro passo (un passo quasi obbligato) per arrivare a dire che l'essenza della poesia consiste nel far confluire e intrecciare fra loro in un unico accadimento verbale due diverse logiche, due diversi linguaggi, due diversi ordini o categorie di contenuti; e che il suo «scopo» è dar vita a un'immagine intera, non parziale, non dimidiata tanto di colui che parla quanto (per contagio) di colui che ascolta e (per generalizzazione) dell' intero genere umano.
Ma attenzione: se il contributo del pensiero notturno è indispensabile (e, al tempo stesso, spiega) perché la comunicazione poetica abbia queste caratteristiche e svolga questa funzione, altrettanto indispensabile per fissarla, per depurarla di ogni arbitrarietà o futilità, per renderla, insomma, davvero fruibile, è il contributo della ragione. La scarsa significatività degli esempi di scrittura automatica «grezza», lasciata, per così dire, a se stessa, ne sono - in negativo - la prova più evidente. Ed ecco, allora, imporsi come insuperabilmente perfetta la definizione di poesia data tre secoli fa da un trattatista italiano, il gesuita Tommaso Ceva: «un sogno fatto in presenza della ragione». Un sogno, sì, ma controllato e sanzionato dall' intelligenza; uno spazio concesso al pensiero notturno ma garantito, sorvegliato, reso frequentabile dal rigore del pensiero diurno...
Resta da dire - ma è impossibile dirlo se non in presenza di effettivi esempi testuali - come funzioni, come avvenga in concreto questo fondersi, questo fatale e fecondo ibridarsi di due pensieri, di due logiche, di due tipi di messaggio. Mi limito ad annotare, a futura memoria, due punti essenziali. Primo: contenitore-trasmettitore del processo è, ovviamente, la lingua; e ogni testo poetico è di fatto innervato da una rete di microeventi linguistici involontari e spesso subliminali (lapsus, anagrammi spontanei, simmetrie e rimandi occulti ecc.) che oltre a convogliare le incursioni e gli apporti del pensiero notturno dentro il pensiero della veglia contribuiscono ad assicurare alla superficie testuale compattezza, coerenza, continuità sonora, insomma «bellezza». Secondo: essenziale è la funzione dalla forma o, per essere più precisi, dal sistema di regole che danno evidenza sensibile alla forma ideale del testo. A prima vista si direbbe che dover rispettare, per esempio, un numero di sillabe date, o essere costretti a far coincidere in luoghi fissi l'esito di una parola con quello di altre parole, limiti la libertà dell'espressione. In realtà, è vero il contrario: è proprio grazie alla ricerca di un suono che combini con un altro suono, di una parola che abbia quella durata e quell'accento, è proprio grazie a questo sforzo dell'intelligenza e, perché no? del mestiere che scattano «automaticamente» associazioni, collegamenti, richiami altrimenti inattivi o irraggiungibili. Se è vero che il pensiero notturno non diventa esteticamente credibile se non passa attraverso il filtro della ragione è altrettanto vero che in poesia la massima libertà si ottiene, spesso, attraverso un massimo controllo e di rigore se non addirittura (la parola non sembri eccessiva) di repressione formale.
Quattro autori intorno a una domanda "Che cos' è la poesia?" Oltre a quella di Tommaso Ceva, ecco le definizioni di altri tre autori: «Un delirio che sgombra le pazzie», Gian Vincenzo Gravina (1664-1718) «L'amore realizzato del desiderio rimasto desiderio», René Char (1907-1988) «I poeti e gli schizofrenici tendono a includere molte cose - al limite: l'universo - anche quando parlano di piccoli oggetti ben circoscritti», Ignacio Matte Blanco (1907-1995).
Vitaletti sul concordato preventivo
da clorofilla.it
clorofilla.it 15.12.03
(l'originale dell'articolo, con le immagini, è disponibile QUI)
«E’ stato finalmente raggiunto un assetto soddisfacente salvo una macchia, eliminabile con facilità». Parola di consigliere economico del ministero dell’Economia e delle Finanze, Giuseppe Vitaletti che commenta così la Manovra che nelle ultime ore ha modificato in profondità il Concordato. Con alcune importanti discrasie che penalizzano soprattutto gli artisti. Ma anche quei medici considerati "sensibili" per la privacy che dovrebbero poter garantire durante l'esercizio delle loro funzioni
Finanziaria, non sparate sul pianista
di ns
Roma - «E' stata raggiunta una configurazione ottimale». Non ha dubbi il prof. Giuseppe Vitaletti, consulente di Tremonti. La soddisfazione riguarda il dato dei vincoli per l’adesione nel 2003 e nel 2004, per tutte le attività interessate, quelle cioè con fatturato a meno di 10 miliardi di vecchie lire.
Nei due anni il reddito imponibile deve crescere rispetto al 2001 almeno come l’evoluzione media del Pil da tale data, con piena possibilità di adeguamento in dichiarazione. I ricavi devono attestarsi su un minimo un po’ superiore a detta evoluzione, in particolare circa due punti e mezzo in più nel 2004.
Tuttavia, «rispetto alla versione del decreto legge, la maggior dinamica dei ricavi è stata ridotta - spiega il consulente su Italia oggi in edicola domani (martedì) - di oltre mezzo punto; il baricentro della variazione è stato spostato sul 2004, anno per cui gli operatori possono agire sulle vendite con politiche attive; nel 2004 il calcolo è stato impostato sui ricavi 2003 concordati e non (come si indicava nella precedente stesura evidenziata criticamente a più riprese da Clorofilla.it) su quelli effettivi; per il 2004, infine, è stata raddoppiata la percentuale di piccolo adeguamento in dichiarazione, con una sanzione del tutto ragionevole».
«In definitiva - aggiunge - sul fronte dei vincoli il provvedimento ha forse trovato appeal sia per i contribuenti che possono attingere a “riserve” di evasione, sia per quelli che evadono ma vogliono beneficiare ugualmente dei vantaggi che essa offre. Sul lato dei suddetti vantaggi il discorso può essere meglio condotto facendo riferimento separatamente alle tre grandi platee cui il concordato si rivolge: i piccoli imprenditori, i professionisti, gli artisti».
Ma se per i primi il provvedimento, stando al parere dell’economista, risulta qualitativamente pari almeno all’Ires, la riforma relativa alle imprese più grandi che diviene operativa nella stessa data del concordato, ovvero il primo gennaio 2004, per quanto riguarda professionisti e artisti, secondo Vitaletti, il concordato presenta forti discrasie sul fronte degli obblighi di documentazione: «Permane infatti – spiega – per i professioni l’obbligo di documentare le prestazioni verso i privati cittadini, specificamente mediante fatturazione, indipendentemente dalla richiesta di questi: non viene ciò ripresa l’indicazione coerente con la Fiera delle tasse, nonostante che molte attività professionali siano altamente sensibili dal punto di vista della privacy».
E’ per queste ragioni si è levata nei giorni scorsi la voce indignata di Giuseppe Del Barone presidente dell’Ordine nazionale dei medici che auspica una correzione del testo in modo da consentire a quelle categorie più sensibili (come ginecologi e psicoanalisti e psichiatri) di operare nel rispetto della loro specifica deontologia professionale che impone di “curare” sempre e comunque chiunque, anche tutelando l’anonimato qualora fosse richiesto.
«Tale discrasia – si difende Giuseppe Vitaletti – non era presente né nella versione originale del decreto che ha introdotto il concordato né nella formulazione iniziale dell’emendamento governativo (e di alcuni parlamentari d’opposizione ndr), che è stato addirittura votato e approvato dalla Camera in Commissione referente. Per ben due volte – aggiunge il consulente del Ministro - essa è stata introdotta dal governo in sede di richiesta della fiducia».
Il Parlamento può, però, secondo Vitaletti rimediare, nelle ultime votazioni della Finanziaria. «Un’altra fonte di ripristino dell’equiparazione – avverte l’economista - tra trattamento dei professionisti e delle piccole imprese potrebbe essere la Corte Costituzionale».
Un’altra categoria che pare non godere di particolare attenzioni da parte del legislatore (o di chi per lui si occupa della materia) è quella degli artisti. La situazione in quel caso, sostiene Vitaletti, non solo è simile a quella dei professionisti, ma assume maggior rilievo lo squilibrio sul lato dei contributi previdenziali, dato che molte attività degli artisti non sono previdenzialmente coperte, senza contare anche questo caso la discrasia sul piano della fatturazione: «Un musicista – spiega Vitaletti – al termine dell’esecuzione, un pittore dopo aver illustrato dipinti, un poeta dopo una recitazione, ove scelgano di chiedere al pubblico compensi su base volontaria e anonima, continuano ad essere costretti, per essere in regola con il fisco, a chiedere il nome ai paganti, emettere fattura, registrare nome ed importi in apposito registro.
Si tratta di casi quantitativamente poco rilevanti (e per questo forse non interessano ai politici ndr) - sottolinea l’esperto di scienze tributarie – ma con una qualità enorme. Viene infatti per essi in rilievo quel mix tra logica individuale e logica collettiva, che i grandi cultori della Scienza delle finanze italiane, De Viti De Marco ed Einaudi su tutti, pensavano dovesse essere il segno caratteristico della fiscalità».
Il docente universitario conclude prevedendo esiti nefasti qualora il legislatore continuasse a operare in sfregio di quelle impostazioni teoriche. Ma Vitaletti si dice, comunque, infine anche ottimista e soddisfatto che la correzione al testo non sia stata fatta alla «chetichella», ma che – si augura - possa essere introdotta «come si merita, ovvero con il massimo dell’attenzione».
Leggi anche il punto di vista dell'Onorevole Vincenzo Visco
(l'originale dell'articolo, con le immagini, è disponibile QUI)
«E’ stato finalmente raggiunto un assetto soddisfacente salvo una macchia, eliminabile con facilità». Parola di consigliere economico del ministero dell’Economia e delle Finanze, Giuseppe Vitaletti che commenta così la Manovra che nelle ultime ore ha modificato in profondità il Concordato. Con alcune importanti discrasie che penalizzano soprattutto gli artisti. Ma anche quei medici considerati "sensibili" per la privacy che dovrebbero poter garantire durante l'esercizio delle loro funzioni
Finanziaria, non sparate sul pianista
di ns
Roma - «E' stata raggiunta una configurazione ottimale». Non ha dubbi il prof. Giuseppe Vitaletti, consulente di Tremonti. La soddisfazione riguarda il dato dei vincoli per l’adesione nel 2003 e nel 2004, per tutte le attività interessate, quelle cioè con fatturato a meno di 10 miliardi di vecchie lire.
Nei due anni il reddito imponibile deve crescere rispetto al 2001 almeno come l’evoluzione media del Pil da tale data, con piena possibilità di adeguamento in dichiarazione. I ricavi devono attestarsi su un minimo un po’ superiore a detta evoluzione, in particolare circa due punti e mezzo in più nel 2004.
Tuttavia, «rispetto alla versione del decreto legge, la maggior dinamica dei ricavi è stata ridotta - spiega il consulente su Italia oggi in edicola domani (martedì) - di oltre mezzo punto; il baricentro della variazione è stato spostato sul 2004, anno per cui gli operatori possono agire sulle vendite con politiche attive; nel 2004 il calcolo è stato impostato sui ricavi 2003 concordati e non (come si indicava nella precedente stesura evidenziata criticamente a più riprese da Clorofilla.it) su quelli effettivi; per il 2004, infine, è stata raddoppiata la percentuale di piccolo adeguamento in dichiarazione, con una sanzione del tutto ragionevole».
«In definitiva - aggiunge - sul fronte dei vincoli il provvedimento ha forse trovato appeal sia per i contribuenti che possono attingere a “riserve” di evasione, sia per quelli che evadono ma vogliono beneficiare ugualmente dei vantaggi che essa offre. Sul lato dei suddetti vantaggi il discorso può essere meglio condotto facendo riferimento separatamente alle tre grandi platee cui il concordato si rivolge: i piccoli imprenditori, i professionisti, gli artisti».
Ma se per i primi il provvedimento, stando al parere dell’economista, risulta qualitativamente pari almeno all’Ires, la riforma relativa alle imprese più grandi che diviene operativa nella stessa data del concordato, ovvero il primo gennaio 2004, per quanto riguarda professionisti e artisti, secondo Vitaletti, il concordato presenta forti discrasie sul fronte degli obblighi di documentazione: «Permane infatti – spiega – per i professioni l’obbligo di documentare le prestazioni verso i privati cittadini, specificamente mediante fatturazione, indipendentemente dalla richiesta di questi: non viene ciò ripresa l’indicazione coerente con la Fiera delle tasse, nonostante che molte attività professionali siano altamente sensibili dal punto di vista della privacy».
E’ per queste ragioni si è levata nei giorni scorsi la voce indignata di Giuseppe Del Barone presidente dell’Ordine nazionale dei medici che auspica una correzione del testo in modo da consentire a quelle categorie più sensibili (come ginecologi e psicoanalisti e psichiatri) di operare nel rispetto della loro specifica deontologia professionale che impone di “curare” sempre e comunque chiunque, anche tutelando l’anonimato qualora fosse richiesto.
«Tale discrasia – si difende Giuseppe Vitaletti – non era presente né nella versione originale del decreto che ha introdotto il concordato né nella formulazione iniziale dell’emendamento governativo (e di alcuni parlamentari d’opposizione ndr), che è stato addirittura votato e approvato dalla Camera in Commissione referente. Per ben due volte – aggiunge il consulente del Ministro - essa è stata introdotta dal governo in sede di richiesta della fiducia».
Il Parlamento può, però, secondo Vitaletti rimediare, nelle ultime votazioni della Finanziaria. «Un’altra fonte di ripristino dell’equiparazione – avverte l’economista - tra trattamento dei professionisti e delle piccole imprese potrebbe essere la Corte Costituzionale».
Un’altra categoria che pare non godere di particolare attenzioni da parte del legislatore (o di chi per lui si occupa della materia) è quella degli artisti. La situazione in quel caso, sostiene Vitaletti, non solo è simile a quella dei professionisti, ma assume maggior rilievo lo squilibrio sul lato dei contributi previdenziali, dato che molte attività degli artisti non sono previdenzialmente coperte, senza contare anche questo caso la discrasia sul piano della fatturazione: «Un musicista – spiega Vitaletti – al termine dell’esecuzione, un pittore dopo aver illustrato dipinti, un poeta dopo una recitazione, ove scelgano di chiedere al pubblico compensi su base volontaria e anonima, continuano ad essere costretti, per essere in regola con il fisco, a chiedere il nome ai paganti, emettere fattura, registrare nome ed importi in apposito registro.
Si tratta di casi quantitativamente poco rilevanti (e per questo forse non interessano ai politici ndr) - sottolinea l’esperto di scienze tributarie – ma con una qualità enorme. Viene infatti per essi in rilievo quel mix tra logica individuale e logica collettiva, che i grandi cultori della Scienza delle finanze italiane, De Viti De Marco ed Einaudi su tutti, pensavano dovesse essere il segno caratteristico della fiscalità».
Il docente universitario conclude prevedendo esiti nefasti qualora il legislatore continuasse a operare in sfregio di quelle impostazioni teoriche. Ma Vitaletti si dice, comunque, infine anche ottimista e soddisfatto che la correzione al testo non sia stata fatta alla «chetichella», ma che – si augura - possa essere introdotta «come si merita, ovvero con il massimo dell’attenzione».
Leggi anche il punto di vista dell'Onorevole Vincenzo Visco
Aby Warburg, uno studioso delle immagini a Kreuzlingen
una segnalazione di Sergio Grom
La Repubbica 16.12.03
WARBURG LA NINFA E IL SERPENTE
il ritorno del mito
Anche il Ghirlandaio aveva ritratto una fanciulla che veniva da un mondo remoto eppure era assai viva al punto da far invaghire André Jolles
Il grande studioso avvertì la presenza dell'antichità pagana nel gesto e nei capelli scompigliati di una figura femminile dipinta da Botticelli
Sulla Ninfa dipinta dal Ghirlandaio tra Warburg e Jolles ci fu una corrispondenza fittizia rimasta praticamente inedita
di ROBERTO CALASSO
Anticipiamo parte dell'intervento di sul tema "Origini dell´Occidente: l'eterno ritorno del mito" con cui si chiude oggi a Brescia un ciclo di conferenze presso l'Auditorium di San Barnaba.
Intorno al 1890, a Firenze, il giovane Aby Warburg studia Botticelli, in rapporto a quella che allora si chiamava "sopravvivenza" (Nachleben) dell'antichità. E presto arrivò a una conclusione che si sarebbe poi rivelata il perno di tutta la sua opera. Nel tardo Quattrocento fiorentino l'antichità riaffiorava. Ma non già come «nobile semplicità» e «quieta grandezza», secondo la formula di Winckelmann, ancora dominante. Al contrario: Warburg avvertì la presenza dell'antichità pagana nell'improvviso intensificarsi del gesto in una figura femminile - e soprattutto, come se il gesto in sé fosse qualcosa di troppo brusco e avesse bisogno di defluire attorno, nell'improvviso movimento del drappeggio e dei capelli di quella figura, scompigliati da un soffio. Questo Warburg riconobbe in Botticelli. Era il «gesto vivo» dell'antichità che riappariva. Da quel momento la scena sarebbe mutata per sempre. Con l'acume di chi sa trovare «il buon Dio nel dettaglio» Warburg attribuì quella scoperta ai suggerimenti di Poliziano, che nella sua Giostra aveva ricalcato l'inno omerico ad Afrodite, ma aggiungendo alcuni elementi che si riferiscono «quasi esclusivamente alla raffigurazione dei particolari e degli accessori (Beiwerk)»: i capelli sciolti e serpentini, una veste gonfiata dal vento, un tremito dell'aria. Questa - e soltanto questa - è l'antichità che sommuove il teatro mentale della civiltà fiorentina. È una «brise imaginaire», come Warburg dirà commentando un disegno botticelliano di Chantilly. E quella locuzione francese sembra avere nel suo testo la stessa funzione della grisaille per il Ghirlandaio e in Mantegna: «essa confina gli influssi dei revenants nel lontano e umbratile regno della metafora esplicita». Così si crea una distanza tra «formula del páthos» e raffigurazione: distanza che è contrassegno della memoria, della presenza fantomatica di ciò che riemerge.
Pochi anni dopo, sempre a Firenze, Warburg inventò quello che Edgar Wind ha definito «un jeu d'esprit» con un amico, lo scrittore olandese André Jolles. Si trattava di uno scambio di lettere fondato su una donnée: l'innamoramento di Jolles per una figura femminile che appare nell'affresco del Ghirlandaio "Visita alla camera della puerpera" in S. Maria Novella. I due corrispondenti chiamarono questa figura «la Ninfa». Nella stanza della puerpera Ghirlandaio mostra, sulla destra, quattro figure che avanzano: tre dal portamento severo, la prima - che sembra una fanciulla fiorentina dell'epoca - vestita con una stoffa pesante e preziosa, che forma pieghe perpendicolari. Dietro di loro, come sospinta da un soffio (ma non si capisce da dove possa provenire) incede una fanciulla di grande bellezza, dalle vesti ondeggianti e dal passo lieve, fluente e fremente. Dietro le sue spalle la veste s'inarca come in una vela. È la Ninfa. Nella sua figura ritroviamo tutti i tratti che Poliziano aveva aggiunto all'inno omerico e trasmesso a Botticelli. Con lei mette piede nell'austero interno fiorentino un essere che ha traversato indenne i secoli e ora insuffla in quel nuovo mondo la sua brise imaginaire. È una «pagana procellaria», scrive Warburg, che irrompe «in questa lenta rispettabilità, in questo controllato cristianesimo». Nella solenne partizione dell'affresco quella figura è come una tarsia che appartiene a un altro strato della realtà, insieme alieno e pervasivo. «Ho perso la ragione», annota Jolles, ma è la voce di Warburg che parla in lui.
La corrispondenza fittizia Warburg-Jolles sulla Ninfa è ancora inedita. Solo alcuni frammenti ne sono stati pubblicati nella monografia dedicata a Warburg da Ernst Gombrich, priva di qualsiasi congenialità con il soggetto. Ma tanto basta per farci capire che la Ninfa svelata in Botticelli continuava ad agire in lui come immagine-fonte di quella demoniaca esaltazione del «gesto vivo» con cui gli antichi simulacri tornavano a manifestare la loro potenza. Così non meraviglia che nel progetto più ambizioso di Warburg, "Mnemosyne", questo atlante dei simulacri che dovevano parlare quasi da soli, come le citazioni ammassate da Benjamin in quell'altra immensa opera incompiuta che doveva essere il libro sui passages parigini, un intero pannello fosse dedicato alla Ninfa - e lì puntualmente ritroviamo la fanciulla del Ghirlandaio. Ma, con gli anni, l'«onda mnemica» aveva fatto affiorare in Warburg un altro aspetto di quella incantevole figura, che ne mostrava la variante sinistra e terrorizzante: quella che Warburg chiamava la «cacciatrice di teste», la Giuditta, la Salomè, la Menade. Sarebbe sviante attribuire questo a una tarda manifestazione del culto che ebbe la grande décadence per le dark ladies. Come scrisse Edgar Wind, con delicatezza e penetrazione, per Warburg «ogni scossa che egli subiva su se stesso e superava attraverso la riflessione diventava organo della sua conoscenza storica». La minaccia delle «cacciatrici di teste» era per lui un evento mentale che si riferiva alla potenza delle immagini in genere, quale gli si era dischiusa nel fremito delle vesti della Ninfa. Warburg sapeva che la sua testa poteva essere da un momento all'altro rapita dalle Ninfe e rimanere prigioniera della follia.
L'equilibrio psichico di Warburg, sempre precario, sembrò spezzarsi nel 1918. Fra il 1920 e il 1924 visse a Kreuzlingen, nella clinica di Binswanger, luogo storico della schizofrenia. Aveva l'impressione, come un giorno confessò a Cassirer, che «i demoni, il cui imperio nella storia dell'umanità aveva tentato di esplorare, si fossero vendicati catturandolo». Nel 1923, moderno nymphóleptos, Warburg escogitò un katharmós per se stesso: scrisse a Kreuzlingen la Lecture on serpent ritual e comunicò agli psichiatri che sarebbe stato un passo importante per la sua guarigione se fosse riuscito a leggere quel testo davanti agli altri pazienti. Così avvenne. Quando, nel 1939, a dieci anni dalla morte di Warburg, il Journal of the Warburg Institute pubblicò la Lecture, si poteva leggere alla fine una nota in calce: «letto per la prima volta davanti a una unprofessional audience». Parole che dovremmo ascoltare in risonanza con altre che Warburg lasciò scritte in un appunto sulla Lecture: «Queste sono le confessioni di uno schizoide (incurabile), depositate negli archivi degli psichiatri».
Dopo aver sperimentato per anni la potenza dei simulacri sulla vita mentale, Warburg volle dedicare quella conferenza al serpente, il simbolo che più di ogni altro serve, secondo la formula di Saxl, a «circoscrivere un terrore informe». Così la Ninfa e il serpente, Telfusa e Pitone, ancora una volta agirono insieme, l'una sigillando l'inizio, l'altro la fine della ricerca di Warburg. Tornò con la memoria a un viaggio in New Mexico di quasi trent'anni prima, la sua unica esperienza primitiva. Allora aveva visto, in atto, che cosa può essere la conoscenza metamorfica. Guardando la danza rituale in cui gli indiani Pueblo imitano le antilopi, l'aveva intesa come un «atto cultuale della più devota perdita di se stessi nella trasformazione in un altro essere». Ma c'era un altro rituale su cui ora rifletteva: la danza in cui gli indiani Moki danzano con serpenti a sonagli fino a prenderli in bocca per evocare la pioggia salvatrice. Nella danza il serpente viene trattato, scrive Warburg, come «un novizio che si inizia ai misteri». Così diventa un «messaggero» che deve raggiungere le anime dei morti e lì suscitare la folgore. Così il serpente, la più immediata immagine del male, diventa il salvatore. E qui Warburg fa scoccare la scintilla della connessione decisiva, accostando questo rituale all'episodio biblico di Mosè che, per guarire gli Ebrei torturati nel deserto dai «serpenti ardenti», su ordine di Iahvè innalzò un serpente di bronzo su un'asta di legno. Si legge nel libro dei Numeri: «Ora, se uno dei serpenti mordeva un uomo e questi guardava verso il serpente di bronzo, viveva». Questo passo misterioso contraddice brutalmente la condanna biblica, sempre reiterata, degli idoli, degli eídola. Ma è proprio questo il passo che Warburg, tormentato dagli eídola, scelse per salvarsi. O trósas iásetai, «colui che ha ferito guarirà»: l'antico proverbio greco tornava anch'esso ad agire. Ciò che avveniva nella sala della clinica di Kreuzlingen non era nell'essenza diverso da ciò che un giorno era avvenuto sulle rive dell'Ilisso, sotto un alto platano, quando Socrate, rapito dalle Ninfe, aveva parlato a Fedro di come, attraverso il «giusto delirare», si possa raggiungere la «liberazione» dai mali. E a un tratto aveva detto, con la rapidità di chi scocca la freccia ultima, che «la manía è più bella della sophrosyne», di quel sapiente controllo di sé, di quell'intensità media, protetta dalle temibili punte, che i Greci si erano conquistati con immensa fatica e che poi, per un immenso malinteso storico, sarebbe stata identificata da tanti con la Grecia stessa. Ma perché la manía è più bella? Socrate aggiunge: «perché la manía nasce dal dio», mentre la sophrosyne «nasce presso gli uomini».
La Repubbica 16.12.03
WARBURG LA NINFA E IL SERPENTE
il ritorno del mito
Anche il Ghirlandaio aveva ritratto una fanciulla che veniva da un mondo remoto eppure era assai viva al punto da far invaghire André Jolles
Il grande studioso avvertì la presenza dell'antichità pagana nel gesto e nei capelli scompigliati di una figura femminile dipinta da Botticelli
Sulla Ninfa dipinta dal Ghirlandaio tra Warburg e Jolles ci fu una corrispondenza fittizia rimasta praticamente inedita
di ROBERTO CALASSO
Anticipiamo parte dell'intervento di sul tema "Origini dell´Occidente: l'eterno ritorno del mito" con cui si chiude oggi a Brescia un ciclo di conferenze presso l'Auditorium di San Barnaba.
Intorno al 1890, a Firenze, il giovane Aby Warburg studia Botticelli, in rapporto a quella che allora si chiamava "sopravvivenza" (Nachleben) dell'antichità. E presto arrivò a una conclusione che si sarebbe poi rivelata il perno di tutta la sua opera. Nel tardo Quattrocento fiorentino l'antichità riaffiorava. Ma non già come «nobile semplicità» e «quieta grandezza», secondo la formula di Winckelmann, ancora dominante. Al contrario: Warburg avvertì la presenza dell'antichità pagana nell'improvviso intensificarsi del gesto in una figura femminile - e soprattutto, come se il gesto in sé fosse qualcosa di troppo brusco e avesse bisogno di defluire attorno, nell'improvviso movimento del drappeggio e dei capelli di quella figura, scompigliati da un soffio. Questo Warburg riconobbe in Botticelli. Era il «gesto vivo» dell'antichità che riappariva. Da quel momento la scena sarebbe mutata per sempre. Con l'acume di chi sa trovare «il buon Dio nel dettaglio» Warburg attribuì quella scoperta ai suggerimenti di Poliziano, che nella sua Giostra aveva ricalcato l'inno omerico ad Afrodite, ma aggiungendo alcuni elementi che si riferiscono «quasi esclusivamente alla raffigurazione dei particolari e degli accessori (Beiwerk)»: i capelli sciolti e serpentini, una veste gonfiata dal vento, un tremito dell'aria. Questa - e soltanto questa - è l'antichità che sommuove il teatro mentale della civiltà fiorentina. È una «brise imaginaire», come Warburg dirà commentando un disegno botticelliano di Chantilly. E quella locuzione francese sembra avere nel suo testo la stessa funzione della grisaille per il Ghirlandaio e in Mantegna: «essa confina gli influssi dei revenants nel lontano e umbratile regno della metafora esplicita». Così si crea una distanza tra «formula del páthos» e raffigurazione: distanza che è contrassegno della memoria, della presenza fantomatica di ciò che riemerge.
Pochi anni dopo, sempre a Firenze, Warburg inventò quello che Edgar Wind ha definito «un jeu d'esprit» con un amico, lo scrittore olandese André Jolles. Si trattava di uno scambio di lettere fondato su una donnée: l'innamoramento di Jolles per una figura femminile che appare nell'affresco del Ghirlandaio "Visita alla camera della puerpera" in S. Maria Novella. I due corrispondenti chiamarono questa figura «la Ninfa». Nella stanza della puerpera Ghirlandaio mostra, sulla destra, quattro figure che avanzano: tre dal portamento severo, la prima - che sembra una fanciulla fiorentina dell'epoca - vestita con una stoffa pesante e preziosa, che forma pieghe perpendicolari. Dietro di loro, come sospinta da un soffio (ma non si capisce da dove possa provenire) incede una fanciulla di grande bellezza, dalle vesti ondeggianti e dal passo lieve, fluente e fremente. Dietro le sue spalle la veste s'inarca come in una vela. È la Ninfa. Nella sua figura ritroviamo tutti i tratti che Poliziano aveva aggiunto all'inno omerico e trasmesso a Botticelli. Con lei mette piede nell'austero interno fiorentino un essere che ha traversato indenne i secoli e ora insuffla in quel nuovo mondo la sua brise imaginaire. È una «pagana procellaria», scrive Warburg, che irrompe «in questa lenta rispettabilità, in questo controllato cristianesimo». Nella solenne partizione dell'affresco quella figura è come una tarsia che appartiene a un altro strato della realtà, insieme alieno e pervasivo. «Ho perso la ragione», annota Jolles, ma è la voce di Warburg che parla in lui.
La corrispondenza fittizia Warburg-Jolles sulla Ninfa è ancora inedita. Solo alcuni frammenti ne sono stati pubblicati nella monografia dedicata a Warburg da Ernst Gombrich, priva di qualsiasi congenialità con il soggetto. Ma tanto basta per farci capire che la Ninfa svelata in Botticelli continuava ad agire in lui come immagine-fonte di quella demoniaca esaltazione del «gesto vivo» con cui gli antichi simulacri tornavano a manifestare la loro potenza. Così non meraviglia che nel progetto più ambizioso di Warburg, "Mnemosyne", questo atlante dei simulacri che dovevano parlare quasi da soli, come le citazioni ammassate da Benjamin in quell'altra immensa opera incompiuta che doveva essere il libro sui passages parigini, un intero pannello fosse dedicato alla Ninfa - e lì puntualmente ritroviamo la fanciulla del Ghirlandaio. Ma, con gli anni, l'«onda mnemica» aveva fatto affiorare in Warburg un altro aspetto di quella incantevole figura, che ne mostrava la variante sinistra e terrorizzante: quella che Warburg chiamava la «cacciatrice di teste», la Giuditta, la Salomè, la Menade. Sarebbe sviante attribuire questo a una tarda manifestazione del culto che ebbe la grande décadence per le dark ladies. Come scrisse Edgar Wind, con delicatezza e penetrazione, per Warburg «ogni scossa che egli subiva su se stesso e superava attraverso la riflessione diventava organo della sua conoscenza storica». La minaccia delle «cacciatrici di teste» era per lui un evento mentale che si riferiva alla potenza delle immagini in genere, quale gli si era dischiusa nel fremito delle vesti della Ninfa. Warburg sapeva che la sua testa poteva essere da un momento all'altro rapita dalle Ninfe e rimanere prigioniera della follia.
L'equilibrio psichico di Warburg, sempre precario, sembrò spezzarsi nel 1918. Fra il 1920 e il 1924 visse a Kreuzlingen, nella clinica di Binswanger, luogo storico della schizofrenia. Aveva l'impressione, come un giorno confessò a Cassirer, che «i demoni, il cui imperio nella storia dell'umanità aveva tentato di esplorare, si fossero vendicati catturandolo». Nel 1923, moderno nymphóleptos, Warburg escogitò un katharmós per se stesso: scrisse a Kreuzlingen la Lecture on serpent ritual e comunicò agli psichiatri che sarebbe stato un passo importante per la sua guarigione se fosse riuscito a leggere quel testo davanti agli altri pazienti. Così avvenne. Quando, nel 1939, a dieci anni dalla morte di Warburg, il Journal of the Warburg Institute pubblicò la Lecture, si poteva leggere alla fine una nota in calce: «letto per la prima volta davanti a una unprofessional audience». Parole che dovremmo ascoltare in risonanza con altre che Warburg lasciò scritte in un appunto sulla Lecture: «Queste sono le confessioni di uno schizoide (incurabile), depositate negli archivi degli psichiatri».
Dopo aver sperimentato per anni la potenza dei simulacri sulla vita mentale, Warburg volle dedicare quella conferenza al serpente, il simbolo che più di ogni altro serve, secondo la formula di Saxl, a «circoscrivere un terrore informe». Così la Ninfa e il serpente, Telfusa e Pitone, ancora una volta agirono insieme, l'una sigillando l'inizio, l'altro la fine della ricerca di Warburg. Tornò con la memoria a un viaggio in New Mexico di quasi trent'anni prima, la sua unica esperienza primitiva. Allora aveva visto, in atto, che cosa può essere la conoscenza metamorfica. Guardando la danza rituale in cui gli indiani Pueblo imitano le antilopi, l'aveva intesa come un «atto cultuale della più devota perdita di se stessi nella trasformazione in un altro essere». Ma c'era un altro rituale su cui ora rifletteva: la danza in cui gli indiani Moki danzano con serpenti a sonagli fino a prenderli in bocca per evocare la pioggia salvatrice. Nella danza il serpente viene trattato, scrive Warburg, come «un novizio che si inizia ai misteri». Così diventa un «messaggero» che deve raggiungere le anime dei morti e lì suscitare la folgore. Così il serpente, la più immediata immagine del male, diventa il salvatore. E qui Warburg fa scoccare la scintilla della connessione decisiva, accostando questo rituale all'episodio biblico di Mosè che, per guarire gli Ebrei torturati nel deserto dai «serpenti ardenti», su ordine di Iahvè innalzò un serpente di bronzo su un'asta di legno. Si legge nel libro dei Numeri: «Ora, se uno dei serpenti mordeva un uomo e questi guardava verso il serpente di bronzo, viveva». Questo passo misterioso contraddice brutalmente la condanna biblica, sempre reiterata, degli idoli, degli eídola. Ma è proprio questo il passo che Warburg, tormentato dagli eídola, scelse per salvarsi. O trósas iásetai, «colui che ha ferito guarirà»: l'antico proverbio greco tornava anch'esso ad agire. Ciò che avveniva nella sala della clinica di Kreuzlingen non era nell'essenza diverso da ciò che un giorno era avvenuto sulle rive dell'Ilisso, sotto un alto platano, quando Socrate, rapito dalle Ninfe, aveva parlato a Fedro di come, attraverso il «giusto delirare», si possa raggiungere la «liberazione» dai mali. E a un tratto aveva detto, con la rapidità di chi scocca la freccia ultima, che «la manía è più bella della sophrosyne», di quel sapiente controllo di sé, di quell'intensità media, protetta dalle temibili punte, che i Greci si erano conquistati con immensa fatica e che poi, per un immenso malinteso storico, sarebbe stata identificata da tanti con la Grecia stessa. Ma perché la manía è più bella? Socrate aggiunge: «perché la manía nasce dal dio», mentre la sophrosyne «nasce presso gli uomini».
sulla fecondazione assistita
Agenzia Radicale 16.12.03
www.quaderniradicali.it
Tuteliamo i gamèti!
di Paolo Izzo
Il paradosso della legge sulla fecondazione assistita sta tutto nell'assunto secondo il quale l'embrione, ammasso (anzi, coppia) di cellule, sarebbe persona e come tale andrebbe tutelato sin dalla sua formazione, per legge. Nessun estraneo dunque negli affari di una coppia di esseri umani, nessun bombardamento cellulare, nessuna ricerca su quello che accadrà, in seguito, alla creatura in questione...
Il mondo laico, ancora una volta sconfitto dalla maggioranza cattolica, perde due volte. E le battaglie vinte un tempo vengono aggirate con abile mossa strategica.
Ricapitoliamo, e mi si corregga se sbaglio: un massimo di tre embrioni possono essere "inoculati" nel ventre materno, attraverso fecondazione omologa cioè utilizzando il seme del solo aspirante padre e l’ovulo dell’aspirante madre. Su detti embrioni non può essere svolta alcuna analisi medica; nel senso che "o la va o la spacca": un embrione malato, che porterà a un feto malato, ma quel che più interessa ad un neonato malato, dovrà essere utilizzato lo stesso. Qui arriva un’aberrante contraddizione: allora e solo allora che si sia stabilito che l'embrione malato si è evoluto in un feto malato, si potrà ricorrere all'aborto! Ricerca no, aborto sì? Ovviamente si può sempre optare, citando un brutto ma efficace luogo comune, per mettere al mondo un infelice...
Tutto questo, come dicevo e come confermano le cronache, altro non è se non una strategia per aggirare l'ostacolo dell'interruzione di gravidanza ponendo l'inizio della vita sempre prima nel tempo: quando la faccenda della fecondazione assistita troverà la sua codificazione naturale e laica, allora si farà un altro passo indietro e si ricorrerà all'idea che anche lo spermatozoo e l'ovulo siano persone e come tali vadano tutelate! Rimarranno soltanto i problemi teologici su come e quando battezzare questi corpuscoli aventi diritto. Con buone probabilità si sfrutteranno i consigli di Laurence Sterne, il quale così scriveva nel suo geniale "La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo": "Il signor Tristram Shandy (...) Chiede di sapere se, dopo la cerimonia del matrimonio, e prima della consumazione, battezzare tutti gli Homuncoli in una volta, zic-zac, per iniezione, non sarebbe un metodo ancora più rapido e sicuro. A condizione, come sopra, che se gli Homuncoli fanno il loro dovere e vengono felicemente al mondo in seguito, ognuno di loro sia ribattezzato (...) E la cosa si possa fare par le moyen d'une petite canulle e sans faire aucun tort au père (...)!
Chi scrive non ritiene che la vita umana cominci prima della nascita, che da tante e tali deformazioni vuole essere invece negata. Né mi sembra valido affermare che chi la pensa così debba dimostrare scientificamente la propria teoria, quando la teoria opposta – dio, anima e compagnia discorrendo – non sono affatto materia di esami scientifici.
La vita comincia quando l’individuo entra in rapporto con altri individui: il neonato incontra la madre, il padre e così via: pensare il contrario è sì un appiattimento della società su cui vigerebbe la sola regola divina, unica in grado di fare il bello e il cattivo tempo…
D’altro canto, il progresso si avvicina sempre di più alla vera scoperta dell’origine umana: frenarlo non servirà, come non serviranno le scuse quando tra cent’anni si vorranno riabilitare i vari Galilei che a questa scoperta saranno giunti!
www.quaderniradicali.it
Tuteliamo i gamèti!
di Paolo Izzo
Il paradosso della legge sulla fecondazione assistita sta tutto nell'assunto secondo il quale l'embrione, ammasso (anzi, coppia) di cellule, sarebbe persona e come tale andrebbe tutelato sin dalla sua formazione, per legge. Nessun estraneo dunque negli affari di una coppia di esseri umani, nessun bombardamento cellulare, nessuna ricerca su quello che accadrà, in seguito, alla creatura in questione...
Il mondo laico, ancora una volta sconfitto dalla maggioranza cattolica, perde due volte. E le battaglie vinte un tempo vengono aggirate con abile mossa strategica.
Ricapitoliamo, e mi si corregga se sbaglio: un massimo di tre embrioni possono essere "inoculati" nel ventre materno, attraverso fecondazione omologa cioè utilizzando il seme del solo aspirante padre e l’ovulo dell’aspirante madre. Su detti embrioni non può essere svolta alcuna analisi medica; nel senso che "o la va o la spacca": un embrione malato, che porterà a un feto malato, ma quel che più interessa ad un neonato malato, dovrà essere utilizzato lo stesso. Qui arriva un’aberrante contraddizione: allora e solo allora che si sia stabilito che l'embrione malato si è evoluto in un feto malato, si potrà ricorrere all'aborto! Ricerca no, aborto sì? Ovviamente si può sempre optare, citando un brutto ma efficace luogo comune, per mettere al mondo un infelice...
Tutto questo, come dicevo e come confermano le cronache, altro non è se non una strategia per aggirare l'ostacolo dell'interruzione di gravidanza ponendo l'inizio della vita sempre prima nel tempo: quando la faccenda della fecondazione assistita troverà la sua codificazione naturale e laica, allora si farà un altro passo indietro e si ricorrerà all'idea che anche lo spermatozoo e l'ovulo siano persone e come tali vadano tutelate! Rimarranno soltanto i problemi teologici su come e quando battezzare questi corpuscoli aventi diritto. Con buone probabilità si sfrutteranno i consigli di Laurence Sterne, il quale così scriveva nel suo geniale "La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo": "Il signor Tristram Shandy (...) Chiede di sapere se, dopo la cerimonia del matrimonio, e prima della consumazione, battezzare tutti gli Homuncoli in una volta, zic-zac, per iniezione, non sarebbe un metodo ancora più rapido e sicuro. A condizione, come sopra, che se gli Homuncoli fanno il loro dovere e vengono felicemente al mondo in seguito, ognuno di loro sia ribattezzato (...) E la cosa si possa fare par le moyen d'une petite canulle e sans faire aucun tort au père (...)!
Chi scrive non ritiene che la vita umana cominci prima della nascita, che da tante e tali deformazioni vuole essere invece negata. Né mi sembra valido affermare che chi la pensa così debba dimostrare scientificamente la propria teoria, quando la teoria opposta – dio, anima e compagnia discorrendo – non sono affatto materia di esami scientifici.
La vita comincia quando l’individuo entra in rapporto con altri individui: il neonato incontra la madre, il padre e così via: pensare il contrario è sì un appiattimento della società su cui vigerebbe la sola regola divina, unica in grado di fare il bello e il cattivo tempo…
D’altro canto, il progresso si avvicina sempre di più alla vera scoperta dell’origine umana: frenarlo non servirà, come non serviranno le scuse quando tra cent’anni si vorranno riabilitare i vari Galilei che a questa scoperta saranno giunti!
"La Danza del Drago giallo"
una recensione
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Corriere di Siena lunedì 15 dicembre 2003
di Caterina Aloisio
Una vicenda artistica e terapeutica tradotta in un volume, in un video e in opere pittoriche
IL PONTE CHE UNISCE ARTE E PSICHIATRIA
Presentato il libro di Fargnoli "La danza del drago giallo"
Un’immagine nota, un arco di pietra, sobrio, saldo ed essenziale, che si compenetra con una natura quasi incontaminata, sopra un fiume che scorre, tranquillo… Il ponte della Pia, immagine semplice e di grande potere evocativo, appare fra le prime sequenze del video “La danza del drago giallo”, realizzato dallo psichiatra senese Domenico Fargnoli in collaborazione con lo Studio Videodocumentazione di Siena. Quell’immagine, quasi metafora di un possibile ponte che unisca arte e psichiatria, se all’inizio trasmette un senso di calma e di pace, immediatamente, dietro al gioco sapiente della telecamera, si deforma e si scompone, quasi fosse un’immagine di sogno, scandita da un ritmo che sembra essere il battito di un cuore… e così turba la nostra quiete e da nota diventa sconosciuta.
“L’arte sconvolge il senso comune” - così recita la didascalia che introduce quel gioco di luci e di linee – “La bellezza non è consolazione per anime afflitte e tormentate”.
Di arte e del rapporto fra creazione artistica e ricerca psichiatrica si è parlato il 5 Dicembre scorso durante la presentazione del libro di Fargnoli, “La danza del drago giallo”, presso la Sala degli Specchi dell’Accademia dei Rozzi. L’evento, che ha suscitato notevole interesse, a giudicare dall’affluenza di pubblico, è stato curato dall’Associazione culturale “Senza Ragione”(www.senzaragione.it). Il volume, pubblicato dalla casa editrice Titivillus, specialista in opere di teatro, deriva il proprio titolo dall’omonimo testo teatrale in esso contenuto e da cui è stato tratto anche il video. Ma non solo: comprende anche un altro testo teatrale (“Una notte d’amore”, rappresentato più volte negli anni scorsi) e poi saggi, interviste, pensieri, poesie; infine circa cinquanta immagini di dipinti, sculture, disegni, che sono stati esposti a Firenze, nel mese di Ottobre, presso la Limonaia di Villa Strozzi. Chi, dunque, abbia pensato di trovarsi di fronte ad un classico testo di psichiatria, scritto con un linguaggio rigorosamente scientifico, per “addetti ai lavori”, è forse rimasto quantomeno sorpreso davanti ad un’opera così variegata. Eppure, come afferma l’Autore, essa è frutto di una ricerca approfondita, con salde basi teoriche e metodologiche, che apre nuove strade per esplorare il territorio dell’irrazionale. Terreno comune sia alla psichiatria, il cui oggetto specifico sono le dinamiche inconsce interumane, che all’arte, che si realizza nei “momenti imprevedibili del fare senza sapere”.Il lavoro di Domenico Fargnoli si basa sulla prassi originale di aver riunito intorno a sé un gruppo di persone, fra cui artisti, psichiatri, attori, con cui ha sperimentato e attuato forme di collaborazione artistica. Libro, video, opere plastiche e pittoriche, alcune delle quali esposte nella sala della prestigiosa Accademia senese, rappresentano i tre momenti di questa ricerca. Essi possiedono un intento narrativo, sono il racconto, come ha sottolineato l’Editore, di una vicenda artistica e terapeutica e, come ha aggiunto l’Autore, di un movimento collettivo che ha lasciato la traccia di una trasformazione
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Corriere di Siena lunedì 15 dicembre 2003
di Caterina Aloisio
Una vicenda artistica e terapeutica tradotta in un volume, in un video e in opere pittoriche
IL PONTE CHE UNISCE ARTE E PSICHIATRIA
Presentato il libro di Fargnoli "La danza del drago giallo"
Un’immagine nota, un arco di pietra, sobrio, saldo ed essenziale, che si compenetra con una natura quasi incontaminata, sopra un fiume che scorre, tranquillo… Il ponte della Pia, immagine semplice e di grande potere evocativo, appare fra le prime sequenze del video “La danza del drago giallo”, realizzato dallo psichiatra senese Domenico Fargnoli in collaborazione con lo Studio Videodocumentazione di Siena. Quell’immagine, quasi metafora di un possibile ponte che unisca arte e psichiatria, se all’inizio trasmette un senso di calma e di pace, immediatamente, dietro al gioco sapiente della telecamera, si deforma e si scompone, quasi fosse un’immagine di sogno, scandita da un ritmo che sembra essere il battito di un cuore… e così turba la nostra quiete e da nota diventa sconosciuta.
“L’arte sconvolge il senso comune” - così recita la didascalia che introduce quel gioco di luci e di linee – “La bellezza non è consolazione per anime afflitte e tormentate”.
Di arte e del rapporto fra creazione artistica e ricerca psichiatrica si è parlato il 5 Dicembre scorso durante la presentazione del libro di Fargnoli, “La danza del drago giallo”, presso la Sala degli Specchi dell’Accademia dei Rozzi. L’evento, che ha suscitato notevole interesse, a giudicare dall’affluenza di pubblico, è stato curato dall’Associazione culturale “Senza Ragione”(www.senzaragione.it). Il volume, pubblicato dalla casa editrice Titivillus, specialista in opere di teatro, deriva il proprio titolo dall’omonimo testo teatrale in esso contenuto e da cui è stato tratto anche il video. Ma non solo: comprende anche un altro testo teatrale (“Una notte d’amore”, rappresentato più volte negli anni scorsi) e poi saggi, interviste, pensieri, poesie; infine circa cinquanta immagini di dipinti, sculture, disegni, che sono stati esposti a Firenze, nel mese di Ottobre, presso la Limonaia di Villa Strozzi. Chi, dunque, abbia pensato di trovarsi di fronte ad un classico testo di psichiatria, scritto con un linguaggio rigorosamente scientifico, per “addetti ai lavori”, è forse rimasto quantomeno sorpreso davanti ad un’opera così variegata. Eppure, come afferma l’Autore, essa è frutto di una ricerca approfondita, con salde basi teoriche e metodologiche, che apre nuove strade per esplorare il territorio dell’irrazionale. Terreno comune sia alla psichiatria, il cui oggetto specifico sono le dinamiche inconsce interumane, che all’arte, che si realizza nei “momenti imprevedibili del fare senza sapere”.Il lavoro di Domenico Fargnoli si basa sulla prassi originale di aver riunito intorno a sé un gruppo di persone, fra cui artisti, psichiatri, attori, con cui ha sperimentato e attuato forme di collaborazione artistica. Libro, video, opere plastiche e pittoriche, alcune delle quali esposte nella sala della prestigiosa Accademia senese, rappresentano i tre momenti di questa ricerca. Essi possiedono un intento narrativo, sono il racconto, come ha sottolineato l’Editore, di una vicenda artistica e terapeutica e, come ha aggiunto l’Autore, di un movimento collettivo che ha lasciato la traccia di una trasformazione
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