La Repubblica 8.1.04
Pagina 42 - Cultura
IL FASCINO DI UN VERO MAESTRO
un nuovo saggio di George Steiner
Che cosa vuol dire insegnare? Dai mitici esempi di Socrate e di Gesù alle esperienze moderne
Una società che non onora i suoi insegnanti è profondamente guasta e corruttrice
Nella tensione del nodo pedagogico si esprimono passioni di varia natura
Dante sa tutto di quel rapporto: la Commedia è la vera epica dell'apprendimento
di NADIA FUSINI
Invitato ad Harvard nell'anno accademico 2001-02 per tenervi le prestigiose Charles Eliot Norton Lectures, con piega barocca George Steiner dedica le medesime all'idea di lezione, e con intenso spirito autoriflessivo si interroga intorno al senso dell'azione che ha compiuto (ora è in pensione) per un quarto di secolo. Fa esplicito riferimento al seminario che teneva a Ginevra ogni giovedì mattina e la nostalgia, il rimpianto sono palpabili e commoventi.
Steiner rievoca quei giorni nella piena consapevolezza che, riguardo a quell'atto, tutto è cambiato. Per dirla con Pound, "insegnare? È impossibile!". Pound lo diceva circa un secolo fa riferendosi a una università prestigiosa, e cioè Harvard; per il grande poeta, nemmeno lì poteva accadere lo specialissimo incontro tra chi insegna e chi impara. Del quale rapporto - che lo si chiami istruzione, educazione, apprendistato, formazione, paideia - Steiner indaga con insistenza le sinuosità simboliche e le particolari versione storiche in cui si è incarnato. Nella convinzione teorica che la libido sciendi sia un istinto proprio alla specie umana, inscritto in natura; ma che, come sempre con gli istinti, la cultura vi abbia un peso, e dunque una società possa arrivare a pervertire la propria Wissenschaft, a tradirla in radice. A tale trionfo staremmo assistendo in tutte le scuole del mondo nella nostra epoca.
Il libro Lessons of the Masters (Harvard University Press, pagg. 198, $19,95) comincia da lontano. Inizia da quei maestri greci, con cui nasce la sapienza alla quale ancora oggi ci abbeveriamo. Empedocle, Eraclito, Pitagora - sono i nomi e i volti che stanno all'origine. Sono loro gli antichi Maestri. E dopo di loro vengono i nuovi - i Sofisti, e i loro discepoli. E Socrate e Gesù: maestri vocali, che a viva voce ammaestrano, i quali non avrebbero mai vinto una cattedra in America, perché, così recita una freddura accademica, saranno pure stati bravi ad insegnare, ma che cosa mai hanno pubblicato?
E tuttavia Socrate ad Atene, Gesù a Gerusalemme, l'uno per parabole, l'altro per miti, incarnano quanto vi è di più decisivo e inspiegabile in quell'arte. E dopo Socrate e Gesù, Plotino. E Agostino. E Dante. Dante, afferma Steiner, è scolastico in ogni senso. La Commedia è l'epica dell'apprendimento. Del rapporto maestro-discepolo la Commedia è l'anatomia. Dante sa tutto della felicità e della tristezza intrinseca a quel rapporto, della fedeltà e del tradimento, della dolcezza della dipendenza e dell'amarezza della separazione. È una stella di discepolo, un allievo modello di Virgilio, di Beatrice, e prima ancora di Brunetto Latini, il quale gli insegnò «come l'uomo s'etterna». Ecco la vera lezione, la vera paideia, il vero proposito dell'insegnamento.
Proseguendo nei tempi moderni Steiner osserva che a Shakespeare tale tema è indifferente. Ne sa invece qualcosa Marlowe: ne scrive nel suo Faust. Ne sa molto, sempre rimanendo in Inghilterra, la coltissima George Eliot, la quale declina il tema dalla parte delle donne e con Dorothea Brooke dipinge una specie di meravigliosa e moderna Eloisa. C'è dell'eros, c'è un che di mistico in ogni vera paideia: tra maestro e allievo e allieva si esprimono passioni e desideri che rendono il rapporto carico di tensioni erotiche, senza le quali il rapporto stesso sarebbe povero. Epperò, tali tensioni è importante che non passino all'atto. Il passaggio all'atto, se accade, è un vero peccato, perché le cose prenderanno una piega, che dire?, senza meno più volgare.
Altrettanto sapiente Nietzsche definisce Lou Andreas-Salomé. Senz'altro Heidegger considera Hannah Arendt uno dei suoi studenti migliori. E lei ricambierà facendogli da impresario nel nuovo mondo, organizzando per lui traduzioni, convegni. Pur consapevole della di lui mendacità, della agghiacciante vanagloria che impedisce al maestro di riconoscere la qualità degli scritti dell'allieva, la sua fama internazionale.
Nella tensione del nodo pedagogico passioni di varia natura si esprimono: c'è l'odio e l'amore. Dante quando si separa da Virgilio soffre. È destino che gli allievi tradiscano il Maestro, lo superino, lo oltrepassino. A volte, in tale senso, eccedono, e per invidia attaccano i loro maestri: sono gli irriconoscenti, gli incapaci di gratitudine. Heidegger umilia Husserl. Ma ci sono anche maestri che distruggono i proprii allievi: sono vampiri. E maestri che rifiutano di essere tali, che non vogliono discepoli, perché nessuno è degno del loro insegnamento.
I volti della relazione tra maestro e discepolo possono cambiare. Steiner osserva il modo dell'incontro in filosofia, in letteratura, nella musica. È puntuale, preciso, ed elabora un ricco calendario storico di figure. Ambisce inoltre a individuare l'essenza della figura stessa: quale l'eccellenza della sua funzione, o missione? Giunge in questo campo a conclusioni ineccepibili, anche se non originali e sempre affermate con accenti fin troppo enfatici. E cioè: il vero insegnamento non può non essere anche una cura dell'anima. È inconcepibile una società nella quale non si coltivi tale attenzione. Né tantomeno una cultura, dove non si abbia cura dello scambio implicito nel contatto tra un adulto e un bambino, un adolescente, un giovane. Una società che non onora i suoi insegnanti è profondamente guasta. È una società che non ama i giovani, ma li corrompe. È una società pornografa, di pedofili. I giovani non li ama, li sfrutta, ne abusa.
E ancora: insegnare sul serio è imporre le mani su ciò che c'è di più vitale in un essere umano. Il maestro è un taumaturgo. Il rispetto del maestro è salutare. Cura. Ci sarebbe meno bisogno di pseudo-terapeuti, ci fossero dei veri maestri. Ma, ahimé, la nostra è l'età dell'irriverenza, siamo drogati di invidia, di denigrazione.
E ancora: è una relazione di potere. Come in ogni relazione che contempli la diseguaglianza tra i soggetti implicati, tra maestro e discepolo c'è gioco di potere. E tuttavia - dico io - nell'indagare le forme del potere sarebbe sbagliato fare di tutta l'erba un fascio, e non investigare le differenze. E non rendersi conto, in omaggio a un anti-autoritarismo vago, che il modello di riferimento qui non è lo schema hegeliano del servo-padrone. Il paradigma - Steiner ne converrebbe - è un altro. Tra maestro e allievo il legame è tra affini. L'invidia dovrebbe curarsi con l'ammirazione, la distanza risolversi in vicinanza spirituale, il desiderio colmarsi. È questo il caso in cui se l´uno vuole quel che l'altro ha, l'altro è per l'appunto lì per darglielo. Il maestro non profitta, dona. E non è neppure quella cosa così difficile in amore, dove l'uno chiede all'altro quel che l'altro non ha. No, qui si domanda qualcosa di cui l'uno è ricco, l'altro è desideroso. L'uno colmo, l'altro vuoto. E nel modo del dare non c'è perdita.
A dirlo nel modo più semplice, il maestro è una persona che parla. Non solo in epoche che non conoscono la scrittura: ancora oggi il modo viva voce della trasmissione è fondamentale all'atto. Il maestro è voce, è corpo, è lì in carne ed ossa e dimostra agli allievi il suo rapporto alla materia di cui tratta, la sua capacità di contatto con la cosa. La lezione è una performance. C'è ostentamento nell'atto. C'è anche esibizionismo. E soprattutto il senso dell'esclusione, dell'iniziazione. Solo una banda di eletti ricevono il vero significato del maestro. Tra il maestro e gli adepti il legame è religioso, nel senso proprio: quello dell'insegnare è, al fondo, un gesto che lega. Lega il nuovo essere a quel che lo precede; lo stringe al suo passato, alla sua tradizione; la sua società, la sua cultura sono la sua vera famiglia spirituale.
Detto questo, guardandoci intorno, come non disperare di tale rapporto? Come non vedere che la società oggi stringe a sé i suoi figli in modi più mediatici?
E tuttavia Steiner è ottimista: professa la sua fede che l'aura, il carisma del maestro ispirato resisteranno, anche se in cerchie sempre più ristrette. Ed esoteriche. Intanto, in Europa, come in America, i maestri si confondono sempre più con le star mediatiche. E i discepoli si trasformano in fan.
Una cosa si capisce leggendo questo libro. A Steiner non dispiacerebbe il titolo di maître. Anche se tale titolo, qualora gli venisse conferito, non avrebbe a che fare con i suoi seminari a Ginevra, né con gli allievi che ha fecondato (se lo ha fatto). A ben pensarci, non c'è bisogno oggi che il maître faccia allievi, né che lo si incontri faccia a faccia. Sempre più basta che si favoleggi di lui, che se ne scriva, se ne crei l'ombra; basta che passi una volta in televisione. È altrettanto chiaro a chi legga il suo libro (in particolare i ringraziamenti) che Steiner è per ora un accademico illustre e ha una famiglia accademica, una moglie accademica, un figlio, una nuora accademici, che tutti graziosamente con i loro differenti titoli accademici ringrazia. Accanto a questa famiglia vanta una intima parentela con i grandi del pensiero e dell'arte, vicino ai quali si colloca. Ne prende lezione, ma soprattutto tramanda la lezione dei maestri, consapevole, però, che l'appellativo di cher maître non si traduce nella lingua in cui gli è capitato per lo più di scrivere e insegnare. "Dear master" non ha lo stesso senso e suono, e il nativo inglese per la sua vocazione all'understatement deriderà chi si fregi di tale titolo, tenderà a sospettarlo di ciarlataneria. A un americano verranno addirittura in mente gli schiavi. Eppure, il titolo del libro Steiner lo riprende da un americano, ovvero, da Henry James, il quale, se non ha paura di fregiarsi di tale vocabolo "imperiale", è perché a lui vengono in mente Flaubert, Turgenev. Ma si sa, James è un eccentrico. E rimane che nel discorso inglese e americano tale titolo non "passa".
Il che non significa che non ci sia un buon livello di istruzione, in America, in Inghilterra. Solo che è stata assunta in pieno dall'istituzione, dall'accademia, e lì non ci sono maestri, ma professori. I quali se si chiamano così è perché professano qualcosa, qualcosa che ha a che vedere con la fede. Bisogna vedere a chi prestano fede, se all'oggetto, o al ruolo. A chi risponde chi insegna? Al mistero di quel nodo erotico, passionale, o, nel caso nostro, al Ministero? Al mistero dell'incontro con l'allievo, voglio dire? O alle circolari di un ministro?
Per restare a casa nostra, tutti sappiamo per esperienza che ci sono molti modi di insegnare, quanti insegnanti in carne e ossa. Lo si può fare nel modo più routiniero del mondo. O più esaltato. C'è un insegnamento povero, che genera un invincibile tedio. C'è una resistenza all'apprendimento strafottente, insuperabile. C'è molta stupidità e molto cinismo da entrambi le parti. A me sono capitati, come allieva, insegnanti i più diversi. E come insegnante gli allievi più differenti. E dirò senza remore e senza troppe illusioni che oggi come oggi c'è più bisogno di buoni insegnanti, che di maestri. Un buon insegnante non sarà esaltante, ma vi assicuro - ce n´est déjà pas mal.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
giovedì 8 gennaio 2004
Forugh Farrokhzad, poetessa e cineasta persiana
una segnalazione di Daniela Venanzi
il manifesto 8.1.02
Poesie per una rivoluzione
La rivista francese «Cinéma» rilancia la figura di Forugh Farrokhzad, poeta e cineasta morta a Tehran in un incidente d'auto nel 67, a trentadue anni. Massacrata dalla critica iraniana ufficiale per le sue scelte radicali d'arte e vita, i versi che parlano d'amore e desiderio, le immagini che scavano nelle pieghe invisibili dell'Iran ai tempi dello scià, è ancora oggi un mito e un riferimento per le generazioni di artiste che vogliono inventare nuovi spazi di libertà
di CRISTINA PICCINO
La rivista Cinéma (dirige con invenzione in progress Bernard Eisenchitz, e-mail: editionsleoscheer@wanadoo.fr) pubblica nel suo ultimo numero, imperdibile anche perché accompagnato da un dvd con rari corti di Jean Eustache, Le Jardin des delices de Jerome Bosch e Offre d'emploi, due articoli a firma di Chris Marker e Jonathan Rosenbaum dedicati a Forugh Farrokhzad cineasta e poetessa iraniana morta in un incidente d'auto nel 67, a trentadue anni. Il primo, Délivrée des méprises (Libera dal disprezzo) è infatti un ricordo scritto in quell'occasione, Marker aveva incontrato Forugh a Tehran: «nera, brusca, bruciante. Queste parole vaghe la descrivono in modo così preciso che la riconoscerai fra mille mi avevano detto». E più avanti: «Forugh era uno dei più grandi poeti persiani contemporanei e era anche una cineasta... In lei si mescolavano magia e energia, era una regina di Saba scritta da Stendhal. Coraggiosa, non cercava né alibi né difese, come i professionisti del dolore conosceva da vicino l'orrore del mondo e come gli esperti della giustizia sentiva la necessità della lotta senza mai tradire la sua ispirazione profonda» In Forugh Farrokhzad e La casa è nera pensato in occasione di un convegno su "Donne e cinema iraniano" all'università della Virginia curato tra gli altri proprio da Farzaneh Milani (vedi intervista, ndr) Rosenbaum, occhio autorevole della critica americana (Filmcomment, Trafic...) individua nel percorso artistico di Forugh l'origine di quella che sarà la nuova onda del cinema iraniano, in particolare del cinema di Abbas Kiarostami anche se La casa è nera rimane l'unico film della regista. Ma la potenza (e la seduzione) di Forugh che in Iran, ci dice ancora Rosenbaum è un mito tanto che tutti la chiamano per nome, ha radici ancora più lontane: è nel cinema, il fatto ad esempio che sia la prima a usare il suo in presa diretta - pure se ne attribuiscono la «scoperta» a Ebrahim Golestan autore del Mattone e lo specchio (1965), altro film di riferimento per il cinema iraniano contemporaneo - nei suoi poemi e soprattutto in quell'urgenza irrequieta di sperimentazione che mescola senza confine arte e esistenza.
Golestan che in Iran traduce Cecov, Hemingway, Faulkner è il produttore della Casa è nera, i due sono complici nella vita e nel lavoro, Forugh è la sua assistente sul set, firma il montaggio dei film di Golestan a cominciare dal Fuoco, un documentario girato nel 1959 vicino Ahvaz durante l'incendio di un pozzo di petrolio che brucia per due mesi finché non arrivano a spegnerlo i pompieri americani. Prima studia inglese e produzione in Inghilterra, ha esperienze come attrice, produttrice, riprende il quotidiano con la superotto. Non è casuale insomma che Forugh sia artista amata da un cineasta come Marker, stessa imprevedibilità, stessa onda-nouvelle vague di scoperta, dolcezza provocatoria, curiosità, radicalismo di linguaggi.
Quando gira La casa è nera Forugh Farrokhzad ha ventisette anni. Il soggetto fa paura: protagonisti sono i lebbrosi, la macchina da presa entra in un istituto dove vivono nascosti al resto del mondo e libera volti, corpi, ossa, mani deformi senza clamori, con la compassione della sensibilità e quella distanza necessaria a un'immagine poetica-politica. La critica iraniana accusa la regista di strumentalizzare i malati, di usarli per scrivere una metafora dell'Iran ai tempi dello scià, un luogo di isolamento e repressione. Ma di sicuro Forugh sarebbe stata in prima linea anche contro ogni oscurantismo religioso-politico a venire. Il punto è che l'ufficialità la odiava già per le sue poesie, è la prima donna in Iran a scrivere di amore, desiderio, sensualità, e questo è intollerabile. Come il fatto che nell'arte entri sempre il vissuto senza compiacimenti ma come gesto di libertà. Perché quel vissuto mescola erotismo e religione, parla di privilegi e povertà trasformando la poesia in uno spazio politico senza perdere il piacere della scrittura. È insomma importante questa riscoperta (La casa è nera era stato presentato due anni fa a Parigi, al festival del documentario Cinéma du réel) come la geografia di memorie e affinità che cercano quelle artiste tra cui Milani, al centro di nuove esplosioni di immaginario. Un bel punto di partenza in Iran e nel resto del mondo.
il manifesto 8.1.02
Poesie per una rivoluzione
La rivista francese «Cinéma» rilancia la figura di Forugh Farrokhzad, poeta e cineasta morta a Tehran in un incidente d'auto nel 67, a trentadue anni. Massacrata dalla critica iraniana ufficiale per le sue scelte radicali d'arte e vita, i versi che parlano d'amore e desiderio, le immagini che scavano nelle pieghe invisibili dell'Iran ai tempi dello scià, è ancora oggi un mito e un riferimento per le generazioni di artiste che vogliono inventare nuovi spazi di libertà
di CRISTINA PICCINO
La rivista Cinéma (dirige con invenzione in progress Bernard Eisenchitz, e-mail: editionsleoscheer@wanadoo.fr) pubblica nel suo ultimo numero, imperdibile anche perché accompagnato da un dvd con rari corti di Jean Eustache, Le Jardin des delices de Jerome Bosch e Offre d'emploi, due articoli a firma di Chris Marker e Jonathan Rosenbaum dedicati a Forugh Farrokhzad cineasta e poetessa iraniana morta in un incidente d'auto nel 67, a trentadue anni. Il primo, Délivrée des méprises (Libera dal disprezzo) è infatti un ricordo scritto in quell'occasione, Marker aveva incontrato Forugh a Tehran: «nera, brusca, bruciante. Queste parole vaghe la descrivono in modo così preciso che la riconoscerai fra mille mi avevano detto». E più avanti: «Forugh era uno dei più grandi poeti persiani contemporanei e era anche una cineasta... In lei si mescolavano magia e energia, era una regina di Saba scritta da Stendhal. Coraggiosa, non cercava né alibi né difese, come i professionisti del dolore conosceva da vicino l'orrore del mondo e come gli esperti della giustizia sentiva la necessità della lotta senza mai tradire la sua ispirazione profonda» In Forugh Farrokhzad e La casa è nera pensato in occasione di un convegno su "Donne e cinema iraniano" all'università della Virginia curato tra gli altri proprio da Farzaneh Milani (vedi intervista, ndr) Rosenbaum, occhio autorevole della critica americana (Filmcomment, Trafic...) individua nel percorso artistico di Forugh l'origine di quella che sarà la nuova onda del cinema iraniano, in particolare del cinema di Abbas Kiarostami anche se La casa è nera rimane l'unico film della regista. Ma la potenza (e la seduzione) di Forugh che in Iran, ci dice ancora Rosenbaum è un mito tanto che tutti la chiamano per nome, ha radici ancora più lontane: è nel cinema, il fatto ad esempio che sia la prima a usare il suo in presa diretta - pure se ne attribuiscono la «scoperta» a Ebrahim Golestan autore del Mattone e lo specchio (1965), altro film di riferimento per il cinema iraniano contemporaneo - nei suoi poemi e soprattutto in quell'urgenza irrequieta di sperimentazione che mescola senza confine arte e esistenza.
Golestan che in Iran traduce Cecov, Hemingway, Faulkner è il produttore della Casa è nera, i due sono complici nella vita e nel lavoro, Forugh è la sua assistente sul set, firma il montaggio dei film di Golestan a cominciare dal Fuoco, un documentario girato nel 1959 vicino Ahvaz durante l'incendio di un pozzo di petrolio che brucia per due mesi finché non arrivano a spegnerlo i pompieri americani. Prima studia inglese e produzione in Inghilterra, ha esperienze come attrice, produttrice, riprende il quotidiano con la superotto. Non è casuale insomma che Forugh sia artista amata da un cineasta come Marker, stessa imprevedibilità, stessa onda-nouvelle vague di scoperta, dolcezza provocatoria, curiosità, radicalismo di linguaggi.
Quando gira La casa è nera Forugh Farrokhzad ha ventisette anni. Il soggetto fa paura: protagonisti sono i lebbrosi, la macchina da presa entra in un istituto dove vivono nascosti al resto del mondo e libera volti, corpi, ossa, mani deformi senza clamori, con la compassione della sensibilità e quella distanza necessaria a un'immagine poetica-politica. La critica iraniana accusa la regista di strumentalizzare i malati, di usarli per scrivere una metafora dell'Iran ai tempi dello scià, un luogo di isolamento e repressione. Ma di sicuro Forugh sarebbe stata in prima linea anche contro ogni oscurantismo religioso-politico a venire. Il punto è che l'ufficialità la odiava già per le sue poesie, è la prima donna in Iran a scrivere di amore, desiderio, sensualità, e questo è intollerabile. Come il fatto che nell'arte entri sempre il vissuto senza compiacimenti ma come gesto di libertà. Perché quel vissuto mescola erotismo e religione, parla di privilegi e povertà trasformando la poesia in uno spazio politico senza perdere il piacere della scrittura. È insomma importante questa riscoperta (La casa è nera era stato presentato due anni fa a Parigi, al festival del documentario Cinéma du réel) come la geografia di memorie e affinità che cercano quelle artiste tra cui Milani, al centro di nuove esplosioni di immaginario. Un bel punto di partenza in Iran e nel resto del mondo.
Tahmineh Milani, cineasta persiana
una segnaazione di Daniela Venanzi
il manifesto 8.1.03
Iran, la ragazza che danzava tra i girasoli
Intervista con Tahmineh Milani, vincitrice al festival di Ginevra con «La quinta reazione»
di NICOLA FALCINELLA
GINEVRA. Non ha la popolarità internazionale della giovanissima Samira Makhmalbaf, né è stata una apripista come Rakhshan Bani-Etemad. Tahmineh Milani, nata nel 1960, laurea in architettura, cinque lungometraggi all'attivo, è una delle più significative registe iraniane. I suoi film, avversati in patria (la cineasta è stata pure imprigionata nel 2001) e di circolazione limitata all'estero - dove rare volte sono usciti al di fuori dei circuiti festivalieri - raccontano sempre storie di donne e sono denunce della condizione femminile nel suo paese. Il suo lavoro più recente, La quinta reazione ha vinto la nona edizione di Cinema Tout-Ecràn a Ginevra. È la vicenda di un'insegnante di Tehran rimasta vedova che, secondo la tradizione, dovrebbe abbandonare la casa e i figli al suocero. La donna trova la forza di ribellarsi e di intraprendere una lunga fuga in compagnia di un'amica. Nella città svizzera abbiamo incontrato Tahmineh Milani.
La scena centrale del suo film simboleggia una illusione di libertà che dura pochissimo. È d'accordo?
Fereshteh, donna in fuga che si vede danzare tra i girasoli, è libera ma lo è per pochi istanti. Poi sente l'arrivo del camion e subito il suo pensiero ritorna al suocero che la insegue. Assapora appena uno stato d'animo positivo e subito viene richiamata alla sua condizione difficile...
L'inizio del film ha un tono da commedia ma volge al dramma quando entra in scena uno dei mariti.
All'inizio mostro cinque donne divertenti che sembrano spensierate e felici, si dicono quanto amano i rispettivi mariti, quanto i loro uomini sono gentili e generosi con loro. Quando nel locale dove stanno pranzando compare il marito di una di loro in compagnia della segretaria e le ordina di andare subito a casa, tutto cambia. Basta un niente e le loro vite reali escono fuori. Di solito le donne iraniane non parlano di loro stesse, parlano di tutto tranne rivelare la loro infelicità. Ho voluto mostrare le due facce delle donne nella nostra società. In fondo sono tristi, ma quando sono fuori indossano delle maschere e nascondono ciò che le tormenta.
Quali sono i problemi delle donne iraniane?
Le donne non hanno tutte lo stesso tipo di problemi, anche se la maggior parte sono riconducibili alla società patriarcale. Ad esempio non possono divorziare, anche quando sarebbe necessario e lo desiderano, perché la società le giudica. Il caso della mia protagonista Fereshteh è diverso. Lei è una donna povera perché ha perso il marito che amava e ora il suocero le vuole portare via il figlio. Il suo non è un problema con il marito ma con una mentalità. Tutto per lei crolla con la morte del suo uomo e la domanda da porsi è: «perché»? Perché deve succedere questo a una donna?.
Sta cambiando qualcosa?
Le donne iraniane sono rimaste in silenzio per molto tempo, solo ora cominciano a farsi sentire e a protestare. Adesso sanno che possono cambiare le cose. Il premio nobel a Shirin Ebadi è stata una notizia bellissima. È un sostegno importante, un incentivo, ha reso le donne consapevoli di essere forti, che qualcosa può cambiare. Io sono convinta che cambierà molto.
Come avverrà il cambiamento?
Il cambiamento è lento, sarà lento. Non credo alle rivoluzioni, tutto va fatto attraverso le riforme.
Eppure, nel suo film precedente, «La metà nascosta», aveva raccontato i guai di una giovane militante comunista poco dopo la rivoluzione islamica nel '79.
Un anno dopo la rivoluzione chiusero le università per quattro anni e uccisero molti oppositori politici, soprattutto comunisti. Altri fuggirono in occidente da rifugiati. Mi interessava raccontare quel periodo, ancora non capisco perché li condannassero. Però è la mia generazione, anch'io ero all'università all'epoca a studiare architettura, è un periodo che conosco bene. È stata la nostra rivoluzione e abbiamo pagato. Quelle uccisioni e quelle repressioni sono rimaste tabù, il governo di allora non voleva che se ne parlasse.
Anche negli ultimi mesi ci sono state proteste degli studenti. La voce di chi chiede cambiamenti potrà essere soffocata a lungo?
Non si possono più schermare le giovani generazioni. Sono collegate con tutto il mondo, sono preparate, vogliono farsi sentire. Non è giusto che non possano esprimersi. Ma la situazione ora è diversa, le cose devono trasformarsi. Con gradualità, ma sono convinta che ciò accadrà.
E la posizione del presidente Khatami?
Khatami è ok, non è forte abbastanza per riuscire a cambiare, ma può andare bene...
Conosce di persona il premio nobel Shirin Ebadi?
Conosco Shirin Ebadi, è una persona fantastica. Ci sono due donne incredibili in Iran, l'altra è Mehrangir Kar, che ora sta a Washington e ha il marito in prigione nel nostro paese. Le ammiro molto perché cercano di cambiare la situazione delle donne e dei bambini in Iran. Hanno scritto libri e sono state in carcere più volte e a lungo. Io solo una settimana.
L'ha colpita questa esperienza?
No, mi sento forte e l'incarcerazione mi ha irrobustita nelle mie convinzioni e nel mio impegno.
Come sono i suoi rapporti con le altre registe del suo paese?
Amo le altre registe iraniane, ho ottimi rapporti con tutte loro. Abbiamo bisogno di tante voci differenti. Io faccio film in maniera diversa, ma l'obiettivo di tutte è lo stesso: vogliamo cambiare la situazione in Iran attraverso il nostro lavoro.
Negli ultimi anni alcuni registi iraniani, penso a Jafar Panahi, hanno cominciato a fare film sulle donne...
Sì, qualche regista ha fatto film sulla condizione femminile in Iran. È un buon segno ma non è una tendenza, l'ultimo film di Panahi, Sangue e oro, non parla di donne ma di uomini. Il cerchio mi era piaciuto ma ciascuno fa i film sui temi che gli interessano. Qualcuno sulla guerra, o sui bambini poveri oppure su altri problemi della società. A me premono i diritti delle donne e racconto storie su di loro. Sono lo spunto di tutto il mio cinema.
il manifesto 8.1.03
Iran, la ragazza che danzava tra i girasoli
Intervista con Tahmineh Milani, vincitrice al festival di Ginevra con «La quinta reazione»
di NICOLA FALCINELLA
GINEVRA. Non ha la popolarità internazionale della giovanissima Samira Makhmalbaf, né è stata una apripista come Rakhshan Bani-Etemad. Tahmineh Milani, nata nel 1960, laurea in architettura, cinque lungometraggi all'attivo, è una delle più significative registe iraniane. I suoi film, avversati in patria (la cineasta è stata pure imprigionata nel 2001) e di circolazione limitata all'estero - dove rare volte sono usciti al di fuori dei circuiti festivalieri - raccontano sempre storie di donne e sono denunce della condizione femminile nel suo paese. Il suo lavoro più recente, La quinta reazione ha vinto la nona edizione di Cinema Tout-Ecràn a Ginevra. È la vicenda di un'insegnante di Tehran rimasta vedova che, secondo la tradizione, dovrebbe abbandonare la casa e i figli al suocero. La donna trova la forza di ribellarsi e di intraprendere una lunga fuga in compagnia di un'amica. Nella città svizzera abbiamo incontrato Tahmineh Milani.
La scena centrale del suo film simboleggia una illusione di libertà che dura pochissimo. È d'accordo?
Fereshteh, donna in fuga che si vede danzare tra i girasoli, è libera ma lo è per pochi istanti. Poi sente l'arrivo del camion e subito il suo pensiero ritorna al suocero che la insegue. Assapora appena uno stato d'animo positivo e subito viene richiamata alla sua condizione difficile...
L'inizio del film ha un tono da commedia ma volge al dramma quando entra in scena uno dei mariti.
All'inizio mostro cinque donne divertenti che sembrano spensierate e felici, si dicono quanto amano i rispettivi mariti, quanto i loro uomini sono gentili e generosi con loro. Quando nel locale dove stanno pranzando compare il marito di una di loro in compagnia della segretaria e le ordina di andare subito a casa, tutto cambia. Basta un niente e le loro vite reali escono fuori. Di solito le donne iraniane non parlano di loro stesse, parlano di tutto tranne rivelare la loro infelicità. Ho voluto mostrare le due facce delle donne nella nostra società. In fondo sono tristi, ma quando sono fuori indossano delle maschere e nascondono ciò che le tormenta.
Quali sono i problemi delle donne iraniane?
Le donne non hanno tutte lo stesso tipo di problemi, anche se la maggior parte sono riconducibili alla società patriarcale. Ad esempio non possono divorziare, anche quando sarebbe necessario e lo desiderano, perché la società le giudica. Il caso della mia protagonista Fereshteh è diverso. Lei è una donna povera perché ha perso il marito che amava e ora il suocero le vuole portare via il figlio. Il suo non è un problema con il marito ma con una mentalità. Tutto per lei crolla con la morte del suo uomo e la domanda da porsi è: «perché»? Perché deve succedere questo a una donna?.
Sta cambiando qualcosa?
Le donne iraniane sono rimaste in silenzio per molto tempo, solo ora cominciano a farsi sentire e a protestare. Adesso sanno che possono cambiare le cose. Il premio nobel a Shirin Ebadi è stata una notizia bellissima. È un sostegno importante, un incentivo, ha reso le donne consapevoli di essere forti, che qualcosa può cambiare. Io sono convinta che cambierà molto.
Come avverrà il cambiamento?
Il cambiamento è lento, sarà lento. Non credo alle rivoluzioni, tutto va fatto attraverso le riforme.
Eppure, nel suo film precedente, «La metà nascosta», aveva raccontato i guai di una giovane militante comunista poco dopo la rivoluzione islamica nel '79.
Un anno dopo la rivoluzione chiusero le università per quattro anni e uccisero molti oppositori politici, soprattutto comunisti. Altri fuggirono in occidente da rifugiati. Mi interessava raccontare quel periodo, ancora non capisco perché li condannassero. Però è la mia generazione, anch'io ero all'università all'epoca a studiare architettura, è un periodo che conosco bene. È stata la nostra rivoluzione e abbiamo pagato. Quelle uccisioni e quelle repressioni sono rimaste tabù, il governo di allora non voleva che se ne parlasse.
Anche negli ultimi mesi ci sono state proteste degli studenti. La voce di chi chiede cambiamenti potrà essere soffocata a lungo?
Non si possono più schermare le giovani generazioni. Sono collegate con tutto il mondo, sono preparate, vogliono farsi sentire. Non è giusto che non possano esprimersi. Ma la situazione ora è diversa, le cose devono trasformarsi. Con gradualità, ma sono convinta che ciò accadrà.
E la posizione del presidente Khatami?
Khatami è ok, non è forte abbastanza per riuscire a cambiare, ma può andare bene...
Conosce di persona il premio nobel Shirin Ebadi?
Conosco Shirin Ebadi, è una persona fantastica. Ci sono due donne incredibili in Iran, l'altra è Mehrangir Kar, che ora sta a Washington e ha il marito in prigione nel nostro paese. Le ammiro molto perché cercano di cambiare la situazione delle donne e dei bambini in Iran. Hanno scritto libri e sono state in carcere più volte e a lungo. Io solo una settimana.
L'ha colpita questa esperienza?
No, mi sento forte e l'incarcerazione mi ha irrobustita nelle mie convinzioni e nel mio impegno.
Come sono i suoi rapporti con le altre registe del suo paese?
Amo le altre registe iraniane, ho ottimi rapporti con tutte loro. Abbiamo bisogno di tante voci differenti. Io faccio film in maniera diversa, ma l'obiettivo di tutte è lo stesso: vogliamo cambiare la situazione in Iran attraverso il nostro lavoro.
Negli ultimi anni alcuni registi iraniani, penso a Jafar Panahi, hanno cominciato a fare film sulle donne...
Sì, qualche regista ha fatto film sulla condizione femminile in Iran. È un buon segno ma non è una tendenza, l'ultimo film di Panahi, Sangue e oro, non parla di donne ma di uomini. Il cerchio mi era piaciuto ma ciascuno fa i film sui temi che gli interessano. Qualcuno sulla guerra, o sui bambini poveri oppure su altri problemi della società. A me premono i diritti delle donne e racconto storie su di loro. Sono lo spunto di tutto il mio cinema.
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