domenica 24 aprile 2005

25 APRILE
DOMANI

L'Unità 24 Aprile 2005
Chi si sente liberato e chi no
25 aprile

Vincenzo Consolo

Due nazionalismi, due fascismi speculari sono An e Lega. Sono due partiti che rivelano oggi, dismettendo finzioni, strappando veli - ammesso che non l’abbiano fatto prima, da sempre - la loro vera natura: autocratica, illiberale, violenta, razzista, incolta, incivile... Rivelano oggi la loro natura, dichiarando, An e Lega, di non partecipare, il 25 aprile, alla manifestazione di Milano per la celebrazione del 60° anniversario della liberazione del nostro Paese dal nazifascismo. È incredibile a sessant’anni da quel sollevamento di popolo, dalla lotta partigiana, dal sacrificio di migliaia e migliaia di vittime innocenti.
E di eroi caduti per ridare all’Italia libertà, democrazia, civiltà e dignità, dopo il vergognoso e disastroso ventennio nero e l’ancor più disastrosa guerra, dopo le criminali violenze dei nazisti e dei repubblichini di Salò (stragi di Boves, Sant’Anna di Stazzema, di Marzabotto, deportazioni nei campi di sterminio...), è incredibile che ancora oggi paleo o neo fascisti possano offendere la Liberazione. Perché oltraggiose suonano le dichiarazioni di due politici dei rispettivi schieramenti, di due che siedono oggi, grazie al sistema democratico riconquistato con la lotta partigiana, nel Parlamento; di due, i cui camerati, nel governo Berlusconi (governo appena caduto, distruttore dei fondamentali princìpi della Costituzione, governo di interessi personali e degli amici degli amici), occupavano fino a ieri poltrone di ministri, di sottoministri e di sottogoverno. Tornano in mente allora le parole che Livio Bianco, capo partigiano nel Cuneese, con Duccio Galimberti, Nuto Revelli, Giorgio Bocca, Beppe Fenoglio, Pompeo Colajanni, pronunciò nel lontano 1947: «Quelle forze, che credevamo di aver per sempre debellato, e verso cui abbiamo avuto il torto di essere stati troppo indulgenti, sono sempre vive, e rialzano la testa, e cercano baldanzosamente la loro rivincita».
Sollevamento di popolo, dicevamo, è stata la lotta contro il nazifascismo, lotta di contadini, di operai, professionisti, intellettuali, di militari sbandati dopo l’8 settembre, di donne e di ragazzi; lotta che dal Sud si propagò al Nord man mano che le truppe alleate avanzavano. Nelle Quattro Giornate di Napoli furono gli studenti del Liceo Sannazzaro e ragazzetti, scugnizzi di dodici anni, come Gennaro Capuozzo, a morire combattendo. Robert Capa, entrato in città con gli americani, fotografa il pianto delle madri e le misere bare dei ragazzi uccisi. Scrive nel suo diario: «Mi tolsi il cappello e tirai fuori l’apparecchio. Puntai l’obbiettivo sui volti delle donne affrante, che avevano piccole foto dei loro bambini morti, finché le bare non furono portate via. Le più vere e sincere immagini della vittoria furono queste, prese a un semplice funerale in una scuola».
Dal Sud al Nord dunque la Resistenza, man mano che gli angloamericani avanzano e i nazisti sono costretti a ritirarsi divenendo sempre più feroci, seminando distruzione e morte. Ma al Centro e al Nord, nell’Abruzzo, nelle Marche,nell’Umbria, in Emilia Romagna, in Toscana, in Liguria, in Piemonte, in Lombardia, nel Veneto, i partigiani si organizzano militarmente. E Milano, scrive Roberto Battaglia nella sua Storia della Resistenza italiana è «la capitale politica della Resistenza», la Milano di Curiel, Parri, Bauer, Pertini, Longo Valiani, la Milano dei dirigenti politici e degli intellettuali, ma soprattutto della classe operaia, la Milano delle lapidi sulle facciate delle case dei martiri della lotta partigiana, le lapidi di Giancarlo Puecher, dei fratelli Bruno e Fofi Vivarelli, di Alfonso Gatti, di Mario Greppi e di tantissimi altri (la mappa “Itinerari della Resistenza” è stata redatta dal Comitato Permanente Antifascista contro il terrorismo per la difesa dell’ordine repubblicano). La Milano di Uomini e no di Vittorini, di Col piede straniero sopra il cuore di Quasimodo, di Foglio di via di Fortini, e di Per i compagni fucilati in piazzale Loreto di Alfonso Gatto, la lirica pubblicata clandestinamente qualche giorno dopo l’eccidio. Diceva:
«Ed era l’alba, poi tutto fu fermo
La città, il cielo, il fiato del giorno
Restarono i carnefici soltanto
vivi davanti ai morti...».
Dunque in questa città che è stata la «capitale politica» della Resistenza si commemora con la presenza del presidente della Repubblica Ciampi, il 60° anniversario della Liberazione. E sia l’occasione, questo anniversario, perché Milano, la Lombardia, il Paese tutto, possano ritrovare la loro dignità, il loro orgoglio, il loro bisogno di libertà, di democrazia, di verità. Tutto quanto le elezioni regionali del 3-4 aprile, come un’alba luminosa, ci hanno fatto intravedere.


Il 25 aprile per la Costituzione
L'appello alla mobilitazione in occasione del 60° anniversario della Liberazione

Appello
"Il 25 aprile, per la Costituzione"

Coronando un'azione sistematicamente volta a cancellare le conquiste civili e sociali maturate in sessant'anni di vita democratica, una maggioranza estranea alla storia, ai valori e alla cultura della Resistenza ha sancito lo smantellamento definitivo dei beni pubblici repubblicani generati dalla lotta di liberazione. Il governo Berlusconi ha imposto, a colpi di maggioranza, una riscrittura eversiva della Seconda parte della Carta che compromette l'equilibrio tra i poteri costituzionali posto dai Padri costituenti a salvaguardia della vita democratica della Repubblica.

Nessuno aveva mai osato tanto. Le conquiste della democrazia nel nostro Paese non sono mai state completamente attuate. Spesso sono state insidiate. Ma mai, sino ad ora, ne era stata propugnata l'abrogazione.

Questa "riforma" mette a repentaglio l'unità sociale e politica del Paese e sconvolge le basi della democrazia parlamentare, determinando le premesse per un perenne caos istituzionale, politicizzando la Corte costituzionale e conferendo al capo dell'esecutivo un cumulo di poteri tale da ridurre il Parlamento e il Presidente della Repubblica al ruolo di comparse. Ove il disegno delle destre si realizzasse, la Repubblica italiana non sarebbe più un ordinamento democratico-parlamentare, fondato sulla divisione e il bilanciamento dei poteri: diventerebbe un ordinamento fondato sul governo personale di un capo politico. Si tratterebbe di una sorta di premierato assoluto. La stessa unità nazionale verrebbe messa a rischio, sacrificata alle pulsioni dissolutrici di un nuovo fascismo padano.

Di fronte a un tornante di tale gravità, tacere o minimizzare sarebbe una imperdonabile colpa.

È indispensabile un forte sussulto di tutte le culture democratiche del nostro Paese, al di là di ogni particolare appartenenza. Occorre impedire che entri in vigore un provvedimento esiziale per la democrazia repubblicana. Perciò - in vista del referendum che dovrà cancellare questa "riforma" - esortiamo tutti gli Italiani che hanno a cuore le sorti della Repubblica, già in passato minacciate da oscure trame, a mobilitarsi in occasione del prossimo 25 aprile, e poi ogni 25 aprile, una volta sventata questa minaccia, trasformando la celebrazione dell'anniversario della Liberazione in una manifestazione nazionale in difesa dei valori e dei principi inscritti nell'unica vera Costituzione della Repubblica: quella del 1948, nata dalla Resistenza antifascista.

Promotori:
Giorgio Bocca, Alessandro Curzi, Raniero La Valle, Lidia Menapace, Giovanni Pesce, Massimo Rendina, Paolo Ricca, Rossana Rossanda, Paolo Sylos Labini, Carla Voltolina Pertini, Tullia Zevi

verso il referendum

Da Avvenimenti n 16, in edicola dal 21 aprile
Verso il referendum del 12 giugno
I figli illegali La storia di Stephen, Michele, Angelo e di altri che hanno scelto l’eterologa
di Simona Maggiorelli

"Non avranno i suoi occhi, non avranno il suo colore di capelli, ma i nostri due bambini hanno il suo sorriso. E mio marito quando sta con loro è felice". Federica racconta così l’esperienza di aver avuto due figli con la fecondazione eterologa, accettando il seme di un donatore. Ha scelto di raccontare in pubblico la propria storia. Ha preso un aereo dall’Alsazia, dove vive e lavora, per essere a Roma, al convegno della onlus L’Altra Cicogna. "Mi è sembrato importante -dice, con la piccola Clara di appena 40 giorni, in braccio -. Questa legge sembra parlare di concetti astratti, ma chi si vive sulla pelle le sue conseguenze, sa quanto siano pesanti". La storia di Federica e Stephen - lei italiana, lui scozzese, entrambi ricercatori - comincia quando decidono di avere un figlio. Dopo i primi sei mesi di tentativi hanno cominciato a capire che qualcosa non andava. "Ci siamo divisi i compiti- racconta Federica -, ognuno si è fatto le sue visite specialistiche, per capire la causa". La spiegazione arriva presto: "Scoprii - racconta Stephen - che per la risalita di un testicolo scoperta a 9 anni, nel mio sperma non c’erano spermatozoi. Non riuscivo a crederci, pensavo che a me una cosa del genere non sarebbe potuta succedere. Avevo sempre creduto - dice - che diventare papà fosse una cosa scontata e semplice. Ma quando è arrivata la diagnosi definitiva di azoospermia secretiva, il mondo mi è crollato addosso". "La scoperta di non poter avere figli è stata un dolore - prosegue Federica - ma non ci siamo isolati. Ne abbiamo discusso con le nostre famiglie, con gli amici, non ci siamo nascosti, neanche quando abbiamo scelto di “adottare” uno spermatozoo". Federica e Stephen sono andati in Svizzera a cercare il seme di un donatore che fosse compatibile "di certo - dicono - non andavamo a cercare figli con gli occhi azzurri e i capelli biondi". Federica ce li ha davvero, di suo, gli occhi azzurri, "ma la somiglianza fisica - dice - non c’entra molto con l’essere genitore, c’entra qualchealtra cosa che ha a che fare con l'amore". Di certo Clara e Samuele, di 3 anni, sono stati molto voluti, cercati con tenacia. Basta dire che nel 2000 la coppia fece il primo tentativo con l’eterologa, seguito da altri sei andati a vuoto. Ogni volta la speranza, ogni volta una delusione. Via, via sempre più cocente. Finché, al settimo tentativo, quando Stephen e Federica stavano quasi per mollare, la fecondaione andò a buon fine. "La scelta dell’eterologa, per persone sterili come me -racconta Stephen - è semplicemente accettare un dono grande e generoso. Non c’è niente di male, niente di cattivo, niente di cui vergognarsi. A me il dono di uno spermatozoo ha permesso di vivere insieme a mia moglie la stupenda esperienza della nascita di un figlio". "Geneticamente parlando - dice - non sono il papà di Samuele e Clara, ma in realtà mi sento e sono al 100 per cento il loro papà". "I nostri figli sapranno come sono venuti al mondo –aggiunge Federica -. Non è vero che i bambini non capiscono. Capiscono moltissimo. Raccontargli come sono nati non è complicato. Difficile sarà spiegare loro perché in Italia sono fuorilegge". La preoccupazione di Federica e Stephen, nel caso di un eventuale rientro in Italia, non è senza motivo. L’eterologa è legalizzata in pressoché tutti i paesi del mondo. Eccetto che in Egitto, in Turchia, in Arabia Saudita e, dal 10 marzo 2004, in Italia. Come sarebbero guardati? Che giudizi dovrebbero sopportare Samuele e Clara, si domanda la loro madre. Che ambiente troverebbero in Italia, se dovesse trovare ascolto la pesante campagna ideologica e di disinformazione compiuta dalle gerarchie ecclesiastiche, ma anche da ministri come Carlo Giovanardi che in tv, a Porta a porta, ha detto esplicitamente che i figli dell’eterologa "sono fuori legge".Per altro gnorando un vistoso paradosso: che prima della legge 40, da noi, sono nati migliaia di bambini con l’eterologa. "Nel caso malaugurato che il referendum fallisse - afferma Angelo Aiello, psicoterapeuta e autore del sito www.unbambino.it -, chiederei al re Juan Carlos la cittadinanza spagnola per i miei figli, nati grazie all’eterologa fatta in Spagna. Come provocazione - spiega -, ma anche come gesto di tutela. Rispetto a quanto sta accadendo in Italia dove rischiano di prendere sempre più piede le posizioni oscurantiste e gli anatemi del neo papa Ratzinger". Angelo e sua moglie sono ricorsi all’eterologa per problemi genetici e, con l’entrata in vigore della legge 40, sono andati all’estero per continuare il percorso intrapreso con il Sismer, il noto centro di medicina della riproduzione diretto da Luca Gianaroli. "Siamo andati in Spagna - racconta Angelo -, sapendo che in quel centro lavoravano specialisti formati da lui. Il che, era già un’importante garanzia". Questa coppia bolognese fa parte di quel 20 per cento in più di “turismo terapeutico”, dall’Italia all’estero, che si è venuto a creare con la nuova legge. I costi? "In tutto abbiamo speso circa 6200 euro - rivela Angelo -, ma da un anno a questa parte i prezzi sono molto lievitati e c’è chi se ne vede chiedere anche più di 9mila". Senza contare che i trattamenti di fecondazione assistita raramente vanno subito a buon fine, e bisogna fare più cicli. Inoltre, "rivolgendosi, come molti fanno, a quei centri che oltre confine stanno nascendo rapidamente, nella ex Jugoslavia, come a Lugano, - denuncia lo psicologo bolognese - non sempre si ha la garanzia di adeguati controlli sui donatori". Un allarme lanciato anche dal dottor Andrea Borini, presidente del Cecos, un centro che si occupa da anni di eterologa e che solo, tra il 1997 e il 2002, ha praticato l’eterologa su quasi tremila coppie, facendo nascere 1178 bambini. "Una fase importante del nostro lavoro - dice Borini - era lo screening dei donatori, per vedere eventuali infezioni o altre patologie". In Italia l’eterologa si praticava con controlli severissimi sugli spermatozoi e ovociti donati, ci spiega Guido Ragni direttore del centro di infertilità dell’Università di Milano, "ma oggi una coppia che faccia l’eterologa in Albania o in Svizzera che garanzie ha?". "Con questa legge - denuncia il professore - l’Italia delega ad altri stati il controllo e l’accurata selezione dei donatori, abdicando così alla difesa della coppia e del nascituro. Senza contare che il proibizionismo crea facilmente il mercato nero, al di fuori di ogni controllo". In molti paesi la legislazione prevede la possibilità di compensi in denaro per chi dona i gameti. In Italia, prima della 40, erano soprattutto le donne che si erano sottoposte a fecondazione assistita a donare gli ovociti. Ma oggi storie come quella di Michele che, dopo aver avuto dei gemelli grazie l’eterologa, vorrebbero a sua volta farsi donatore, si confrontano con i duri stop della legge, che non permette più nemmeno di congelare gli embrioni."Una legge insensata, piena di assurdi divieti – dice il professor Ragni -, una norma in cui già i nomi stessi sono del tutto sbagliati. Definire la fecondazione che avviene con gameti donati, “eterologa”, è un errore anche linguistico perché eterologo, per definizione, è ciò che appartiene a una specie diversa e porta con sé una valutazione negativa che esclude, per esempio, l’atto della donazione solidale. Quando dal punto di vista medico non c’è nessuna controindicazione a questa donazione, anzi, spesso è l’unico modo per offrire una soluzione ad un partner del tutto sterile". Casi sempre meno rari, avvertono gli specialisti. Per i cambiamenti sociali che spingono sempre più a ritardare la nascita di un figlio, ma anche per malattie genetiche o oncologiche che, che con obbligando a cicli di radioterapia e chemio, riducono drasticamente spermatozoi e oviciti. Così tornano in mente le parole di Federica, che tenendo stretta la sua bambina, ripeteva: "Certo non pretendiamo l’approvazione degli altri, ma chiediamo la possibilità di scegliere".

Bellocchio e Castellitto

Repubblica di Palermo 24.4.05
CINEMA
Ultimo ciak a Cefalù per il nuovo film di Bellocchio
Castellitto: "Io, regista in crisi che trova la svolta in Sicilia"
PAOLA NICITA

Il regista di matrimoni è sulla spiaggia di Cefalù per incontrare un regista di cinema ben più importante ma in fase di crisi. Dietro la macchina da presa, a riprendere quest´ultima scena, c'è Marco Bellocchio che da due mesi è in Sicilia per realizzare il suo nuovo film, "Il regista di matrimoni", che vede protagonista Sergio Castellitto. Ieri si sono concluse le riprese a Cefalù, che ha offerto spiagge, litorali e stradine antiche per le scenografie naturali della narrazione.
«Questo è proprio il luogo che cercavamo - dice Marco Bellocchio - per intrecciare l'avventura di un artista in crisi con la forza straordinaria di questi luoghi».
Da piazza Duomo a corso Ruggero, dalla Rocca alla spiaggia, è in questi luoghi che prende corpo la crisi di un celebre regista che giunge in Sicilia per caso: qui inizierà a ridisegnare il suo progetto di vita, incontrando tra l'altro anche un collega meno famoso, il regista di matrimoni per l'appunto, interpretato a Bruno Cariello. Nel cast c'è anche Gianni Cavina, stremato per avere girato fino alle cinque della mattina. «Non capisco dove Bellocchio trovi la forza - dice Cavina - lui è perfetto, noi attori dopo due mesi di riprese un po' meno». Il film sarà pronto alla fine dell'anno, probabilmente andrà a Berlino, anche se Bellocchio sottolinea il suo non eccessivo amore per i festival: «Arriva un momento in cui hai una tua identità e alla fine ti riferisci a te stesso. Ho un po' di distacco in questo momento».
Un nota polemica arriva dal sindaco di Cefalù, Simona Vicari, che sottolinea come sia mancata la collaborazione da parte della Curia, che si è rifiutata di aprire chiese e Duomo per le riprese. «Il film di Bellocchio - dice il sindaco - è un'occasione unica per far conoscere ancora di più la bellezza della nostra terra».
Già, una terra che sa riservare anche qualche sorpresa. Dice Sergio Castellitto: «Certo, mentre giravamo le scene per la verità ci aspettavamo più sole, ma per quanto riguarda l'accoglienza in questi luoghi abbiamo solo ricordi positivi».
Proprio ieri si è girata la scena dell'incontro, sulla spiaggia di Cefalù, del regista famoso, Castellitto, appena arrivato in Sicilia, con il suo collega che per "sopravvivere" ha scelto di immortalare matrimoni.
Castellitto racconta di una Sicilia in primo piano, vissuta scena dopo scena: «È lei la vera protagonista, è qui che il personaggio che interpreto trova una chiave importante per comprendere la necessità del cambiamento nella sua esistenza. È qui che sperimenterà il suo rapporto con l'amore. E poi che posso dire, dopo "L'uomo delle stelle" sono spesso tornato in questo posto, ho affittato per molti anni una casa alle Eolie. E durante le riprese sono stato benissimo».

Friedrich Schiller e Goethe

L'Unità 24 Aprile 2005
Friedrich Schiller, la rivincita
Stefano Vastano

È partita da anni in Italia una rumorosa lavatrice della storia. Dalla centrifuga della signora Moratti sono usciti programmi in cui i partigiani e la Resistenza in blocco si ritrovano mischiati ai «ragazzi di Salò». E nell’ultimo, davvero geniale affondo storico di uno Storace, persino «Teopompo» ­ come Marx sfotteva l’ispirato Mazzini ­ si ritrova allineato allo squadrismo fascista. Fanno bene studenti e docenti a contestare ­ come di recente Tranfaglia su questo giornale ­ la spaventosa arbitrarietà di tanto revisionistico risciacquo della storia. Eppure, se dalle nostrane lavandaie del Risorgimento e Novecento italiano saltiamo in Germania alla storia che dall’Ottocento porta nel 1933 alla catastrofe del nazismo, ci accorgiamo che anche lì son stati per lo più le Moratti e gli Storaci locali ad interpretare ad libitum la cultura patria. Nulla infatti meglio dello strampalato rapporto della Germania di Bismarck e soprattutto del Terzo Reich con le classiche fonti letterarie evidenzia un sistematico stravolgimento della storia. Un «fraintendimento» continuo e viscerale a cui, dalle guerre anti-napoleoniche alla fondazione del Reich sino al 1945, specie i due Grandi di Weimar, Goethe e Schiller, son stati sottoposti. Solo oggi i padri della poesia tedesca, dimenticati in libreria e nei programmi scolastici, riposano in pace nei loro sepolcri nella cittadella della Turingia (quelle tombe che nell’aprile del ’45 i nazisti volevano far saltar in aria, e che nella Rdt furono profanate per analizzarne le spoglie). Solo i turisti giapponesi, cinesi e coreani ne riempiono oggi le loro case-museo, per immortalarsi dopo la visita-blitz sotto la loro statua col teatro di Weimar alle spalle. Già quel celebre monumento ­ in cui il bassino Goethe è alto quanto Schiller, che lo superava dell’intera testa ­ è una pia finzione. Amena però se confrontata agli usi ed abusi a cui i Due, senza pietà però per Schiller, servirono alla propaganda del Terzo Reich.
Il 9 maggio si celebrano in Germania i duecento anni dalla morte del darammaturgo dei Masnadieri e del Tell. Drammi che i ragazzi tedeschi di oggi non leggono più: a scuola, se va bene, leggiucchiano due delle sue pompose ballate (Il guanto; La campana). Versi d’occasione che Schiller compose in fretta ­ come lo stesso inno Alla gioia, venuto giù in stato di ebbrezza in una taverna presso Dresda ­ per riempire i buchi di una delle sue sfortunate riviste. Composizioni talmente auliche che «per le risate ci facevano cascar giù dalla sedia», come Caroline Schlegel ricorda sprezzante la reazione dei scapigliati romantici di Jena. È per ricordare allo smemorato pubblico, almeno nel bicentenario della morte, fatti del genere che le edizioni Insel hanno pubblicato La vita di Friedrich Schiller. Una biografia di 470 pagine a firma di Sigrid Damm, la germanista che ha già ricostruito con successo la vita, all’ombra di Goethe, di Christiane Vulpius (concubina del sommo). E che ora ripercorre minuto per minuto i 46 anni della via crucis di Fritz, come la madre Elisabetha chiamava Schiller. Venuto al mondo nel 1759 nel paesino di Marbach (ove oggi è il famoso archivio). E cresciuto slanciato, magro come un’acciuga, coi capelli rosso rame e - come racconta il suo amico, compagno di fuga e biografo Andreas Streicher - «cosparso ovunque, persino sulle mani, di una miriade di lentiggini». Suo padre, basso e tarchiato invece, è un soldato di Carl Eugen, conte di Württenberg. Arriverà al grado di capitano per trasformarsi poi nel giardiniere della Solitude, il maniero del conte. Quella che per i giovani Hölderlin, Hegel e Schelling sarà l’angustia, nella vicina Tubinga, del colleggio teologico, per il giovane Fritz sono gli otto anni all’accademia militare «Carlsschule»: li passerà senza vedere nemmeno un giorno genitori e sorelle. Per diventare, dopo una laurea in medicina (in latino) e per delibera del sovrano, mediconzolo di un reggimento d’invalidi. Reagirà alla squallida routine di caserma scrivendo di getto, a 22 anni, I masnadieri. Gli costeranno, oltre che le spese di pubblicazione, due settimane in gattabuia: Carl Eugen (a cui Schiller deve rivolgersi come «rappresentante di Dio in terra») non ha gradito che il suddito si sia recato senza il suo licet da Stoccarda a Mannheim per la prima dell’opera. Seguita dalla spericolata fuga «all’estero» - a Mannheim appunto - dello scrittore inseguito, più che dalle guardie, dai debiti (contratti giocando a carte in prigione). Per tutta la sua breve vita, pur quando si fregerà del titolo di von, Schiller sarà tormentato dai debiti. «È il primo scrittore in Germania che ha provato a vivere del suo lavoro intellettuale», ricorda Siegrid Damm.
Goethe, di dieci anni più anziano, fu al confronto baciato dalla sorte: non solo visse (con qualche colica renale e acciacchi alla schiena) sino ad 82 anni. Ma, oltre a due case e sin troppi incarichi, Carlo Augusto di Weimar gli assicurava 1800 talleri all’anno. A Schiller invece, anche all’apogeo della gloria, non più di 400. È per tenersi a galla che il «primo intellettuale» s’inventò una specialità dopo l’altra (non potendo contare a quei tempi sui diritti d’autore). A Jena, ad esempio, dove Goethe per toglierselo dai piedi a Weimar gli fa ottenere nel 1789 laurea e cattedra (in filosofia), il dottorino si trasforma in storico. Gli studenti accorrono il 26 maggio del rivoluzionario anno alla sua altisonante prolusione Che significa e a quale scopo si studia la storia universale. Incuriositi più che altro dalla ribelle nomea dell’autore dei Masnadieri (e del suo incomprensibile dialetto svevo). Nonostante la fama e carriera, Schiller è sempre più in canna: la cattedra gliel’ha conferita il tirchio Carlo Augusto, a gratis. Ecco perché l’ex-drammaturgo si butta a scrivere a nastro «opere di storia per il gran pubblico», come confessa alla futura moglie Charlotte von Lengefeld. Opere oggi pressoché illeggibili e al limite dello storiografico (come la sua dozzinale Storia della guerra dei Trent’anni o la precedente Sollevazione dei Paesi Bassi). Pure e semplici, già a quei tempi, «operazioni commerciali», come commenta la Damm, da cui Schiller uscirà solo per tuffarsi a capofitto, dal 1791, in Kant (che l’anno prima pubblicò la Critica del giudizio). Ne uscirà un ciclo di concettuosi poemi (Sul sublime) e l’idealistica pedagogia delle Lettere sull’educazione estetica. Tutti astratti filosofemi che lo stesso poeta («sono un dilettante in filosofia», dirà di sé) rifiuterà nel magico momento in cui ­ il 14 settembre 1794 ­ Goethe, dopo sei anni di anticamera, gli aprirà la porta di casa. Da quel connubio, che anche a Goethe (dall’Egmont alle Xenie) ridarà verve poetica, nascono a ritmo frenetico i gioielli del suo teatro: la trilogia del Wallenstein, Maria Stuarda, la Pulcella d’Orleans sino all’incompiuto Demetrius nel 1805. Storico e filosofo (d’ispirazione kantiana); poeta, giornalista, traduttore e drammaturgo della sacra idea della libertà: difficile immaginarsi un intellettuale più poliedrico di Friedrich Schiller. Che fu soprattutto, nonostante il viziaccio della pipa e tabacco da fiuto (che tanto molestava Goethe), un uomo malato. Di quella polmonite cronica che, al contrario del girovago Goethe, lo costrinse «a guardare il mondo dalle mie finestre di carta», come scrisse. Rinchiuso nella mansarda sulla Esplanade di Weimar a strappare ­ di notte, dato che si alzava a mezzogiorno - ogni verso al duro legno della sua scrivania. «Scrivania in legno di melo; rifinita; classicismo»: così si legge oggi in un angolo della sua casa-museo a Weimar. Dietro al tavolo color miele, il letto ove morì due secoli orsono. E sul tavolo coi sette cassetti (in uno dei quali ­ come Goethe ricorda - Schiller aveva il tic di riporre mele marce per inebriarsi) due candelabri, un mappamondo, il tagliacarte e la tabacchiera.
Il 10 novembre 1934, a 175 anni dalla nascita del poeta, così si legge sul Völkische Beobachter, organo del Terzo Reich: «Il Führer ha visitato col Dottor Goebbels la casa di Schiller. È rimasto a lungo nella stanza del poeta ponendovi sul letto di morte rosse rosse con la scritta: Adolf Hitler pose». Ancora in piena guerra, nel febbraio del ’42 e in uno dei suoi sproloqui notturni nel bunker della Wolfschanze, Hitler ricorda quell’omaggio a Schiller. «Nella casa di Goethe», filosofeggiò il dittatore-imbianchino, «s‘è accerchiati da cose morte, in quella di Schiller si è umanamente commossi». Non che l’autore del Mein Kampf fosse navigato nei Classici (nelle sue tiritere notturne confessò «di dovere a Karl May», il Salgari tedesco, «tutte le mie nozioni letterarie»). È comunque tra questi due estremi - la storia della scrivania di Schiller e l’uso fattone dai nazisti dei testi lì scritti - che si muove il libro di Dieter Kühn appena uscito (per le edizioni Fischer): La scrivania di Schiller a Buchenwald. E già perché i gerarchi di Weimar, dopo Monaco la città più intrisa di nazismo nel Terzo Reich, pensarono bene di proteggere la mobilia di Schiller dalle bombe degli Alleati. Trasportando il 14 maggio del ’42 la sedia e la famosa scrivania, il letto di morte e la spinetta dalla mansarda nel vicino Lager di Buchenwald. Le bombe, nell’agosto del ’44, piovvero anche nella città dei Classici, uccidendo 315 prigioneri del Lager, e ferendone oltre 1400. Non una scheggia però scalfì la venerabile mobilia di Schiller: quella autentica se ne stava dal 18 ottobre del ’43 nel Bunker dell’archivio-Nietzsche (dove i Bonzi del Terzo Reich progettavano, anche col supporto di Mussolini, un mega «Tempio dello spirito tedesco»). I visitatori di casa-Schiller a Weimar invece ­ aperta anche durante la guerra ­ ammiravano la perfetta copia della scrivania eseguita nella falegnemeria di Buchenwald. «L’officina si trovava all’interno del lager - scrive Dieter Kühn - nei pressi del crematorio, nelle cui cantine le SS eseguivano fucilazioni ed impiccagioni». È in questo inferno che le mani d’oro del falegname tedesco Willy Werth ­ veterano del campo col numero 647 e con la categoria di «criminale» ­ ricostruirono il tavolo che Schiller comprò a Jena nel 1789.
Termina nell’orrore del lager la lunga storia che, a partire dalle guerre anti-napoleoniche, trasformò Schiller «nel primo poeta nazionale», come disse Riemer, il segretario di Goethe, «nell’uomo dei nostri soldati». Anzi, a differenza dell’apolitico e cosmopolitico Goethe, «nel più nazionalista dei poeti tedeschi», come Hebbel appuntò nel suo diario del 1859. Gli stessi versi del Wallenstein, gli stessi inni alla libertà del Tell che a Nietzsche ­ nella sua polemica contro «il bonario idealismo dai luccicori d’argento» di Schiller - suonavano pacchiani e piccolo-borghesi, finirono già nel 1932 per fare di «Schiller, il compagno di battaglia di Hitler». È il titolo del saggio che Hans Fabricius pubblicò, un anno prima della scalata al potere, nella casa editrice dei nazisti (la Kultur-Verlag di Bayreuth). Un anno dopo, nel ’34, uno dei primi film commissionati da Goebbels fu un pessimo Tell del regista Hanns Johst (con Emmy Sonnemmann, futura consorte di Hermann Göring, nei panni della moglie del Tell). E dell’olimpico Goethe che ne fecero i nazisti? Non si azzardarono, come progettato, a chiamare il Lager di Weimar KZ-Ettersberg: il monte tanto caro alla vita e poesia di Goethe. L’incredibile però, come Kühn svela nel libro, è che di nessun tavolo di Goethe la falegnameria di Buchenwald approntò mai delle copie. Segno evidente di quella verità scappata nell’aprile ’45 a Walter Schulze, presidente della polizia di Jena (dove in un Bunker erano nascoste le tombe dei due Classici): «Noi odiamo Goethe ed è ora di toglierselo di mezzo». Di farne cioè saltare in aria anche la tomba dopo che, il 9 febbraio, le bombe degli Alleati ne avevano sventrato la casa a Weimar. Ci pensò il maggiore americano William Brown, il 12 maggio ’45, a riportare le spoglie di Goethe e Schiller nella cripta di Weimar. Stendendo sulle tombe dei poeti un ramoscello di sambuco: segno di pace e misericordia per le torture inferte ad entrambi dai loro furiosi pronipoti.

storia: novant'anni falo sterminio degli Armeni

Il Messaggero Domenica 24 Aprile 2005
Armeni, il primo genocidio
di FULVIO CAMMARANO

«DAL 24 giugno non ho più dormito né mangiato - scrive nel 1915 Giovanni Gorrini, console italiano a Trebisonda -. Ero preso da crisi di nervi e da nausea al tormento di dover assistere all'esecuzione di massa di quelle innocenti ed inermi persone. Le crudeli cacce all’uomo, le centinaia di cadaveri sulle strade, le donne ed i bambini caricati a bordo delle navi e poi fatti annegare, le deportazioni nel deserto: questi sono i ricordi che mi tormentano l’anima e quasi fanno perdere la ragione».
Quella a cui l’atterrito testimone italiano stava assistendo era solo la fase iniziale di una più vasta operazione che, avviata nella primavera del 1915, si concluse nell’autunno del 1916 con il primo genocidio del XX secolo, quello del popolo armeno. Il 24 aprile del 1915, data simbolo di questo crimine, tutti i notabili armeni di Costantinopoli vennero arrestati, deportati e massacrati. A partire dal gennaio del 1915, i turchi cominciarono a deportare la popolazione armena verso il deserto di Der-Es-Zor. Il decreto di deportazione è del maggio 1915, seguito da quello di confisca dei beni, decreti mai ratificati dal parlamento. I maschi chiamati a prestare servizio militare furono fucilati. Non mancarono poi massacri e violenze sulla popolazione civile; i superstiti dovettero affrontare una terribile marcia verso il deserto, nel corso della quale furono depredati di tutti i loro averi. Quelli che al deserto ci arrivarono non ebbero alcuna possibilità di sopravvivere, molti furono gettati in caverne e bruciati vivi, altri annegati nel fiume Eufrate e nel Mar Nero. In pratica, i due terzi della popolazione armena residente nell’Impero Ottomano erano stati annientati, “liberando” così intere regioni. 100.000 bambini vennero invece rapiti e affidati a famiglie turche o curde, perdendo in tal modo cultura, religione e lingua.
All’ombra della Prima guerra mondiale, dunque, è stato progettato un genocidio destinato a far scuola nella Seconda, se è vero, come riferiscono alcune fonti, che Hitler, il 22 agosto 1939, di fronte all’obiezione sulle possibili ricadute negative del progettato sterminio degli ebrei, dichiarò: «Insomma, chi parla ancora, oggi, dello sterminio degli armeni?». Di quale colpa si era macchiata questa civilissima popolazione che viveva in quella regione dal 3000 a.C.? Semplice: oltre ad essere cristiani, gli armeni avevano lingua e cultura millenarie, e la loro presenza avrebbe impedito il ricongiungimento di Istanbul ai popoli turcofoni dell’Asia centrale, all’epoca sotto il dominio zarista. Gli armeni, situati a mo’ di cuneo fra i turchi dell'Anatolia e quelli del Caucaso, costituivano un’isola in mezzo al grande mare delle popolazioni turche. Erano perciò un ostacolo da spazzare sulla via della realizzazione di questo progetto.
Parlare di questo dramma, però, è stato per decenni, se non proibito, quanto meno ostacolato. All’ostinato negazionismo politico e storiografico sul tema, adottato dai diversi regimi della Turchia moderna, si è accompagnato l’ambiguo comportamento dei governi europei, portati, per esigenze di realpolitik, sin dalla fine del XIX secolo, ad ignorare le richieste di indipendenza degli armeni. D’altronde, anche per questa mostruosità, come per molte delle altre efferatezze messe in atto nel XX secolo, le radici vanno cercate nel secolo precedente.
Il sultano Abdul Hamid II, tra il 1895 ed il 1897, preoccupato dall’attivismo, anche economico, di questo popolo refrattario alla legge coranica, assecondò alcuni pogrom durante i quali vennero uccisi circa 300.000 armeni. Il tutto sotto lo sguardo “distratto” delle potenze europee. Solo il leader liberale inglese Gladstone, negli ultimi anni di vita, fu un fiero assertore dei diritti degli armeni. Peraltro, anche dopo il genocidio del 1915-16, perpetrato dalla nuova classe dirigente dei cosiddetti Giovani Turchi (le responsabilità, in particolare, sembrano ricadere sul partito “Unione e Progresso” che operò attraverso una struttura paramilitare, l’Organizzazione Speciale, in perfetta sintonia con il governo), le potenze europee rimasero a guardare, cercando di attenuare, distinguere, negare la realtà dei fatti accaduti in Asia minore durante la Prima guerra mondiale.
Le cose per gli armeni non andarono meglio dopo la caduta dell’Impero Ottomano: Kemal Ataturk cercò di completare, tra il 1920 ed il 1922, il genocidio. Solo negli anni Settanta il caso armeno è stato riaperto nelle sedi internazionali e sia l’Onu sia il Parlamento europeo hanno riconosciuto la realtà storica dell’olocausto armeno. Ora, nessuno la può più ignorare e forse anche i nuovi turchi “europei” dovranno avviarsi, come minimo, verso una doverosa autocritica. Se l’hanno fatta la Chiesa cattolica, la Germania e il Giappone, possono farla anche loro, o no?

la mostra di Malevic a Roma

Corriere della Sera 24.4.05
AVANGUARDIE Una diecina d’anni dopo le mostre di Firenze e Milano, esposti da ieri a Roma oltre 40 quadri dell’artista russo
E Malevic indossò un quadrato nero
Scrisse il manifesto del Suprematismo con il poeta Vladimir Majakovsky
Sebastiano Grasso

Roma, Museo del Corso
sino al 17 luglio. Tel. 06 6786209


Avete presente il periodo cubista di Braque e Picasso? Uno degli strumenti musicali più amati e ritratti allora è certamente il violino. Ed è proprio un violino che, assieme ad una vacca, campeggia nel dipinto di Kazimir Malevic (1878-1935) eseguito nel 1913. Sul retro della tavola, il pittore ha scritto: «Contrapposizione alogica di due forme come momento di lotta contro la logica, l'ordine naturale, il senso comune e il pregiudizio». La stessa lotta che, nel 1905, l'aveva portato a salire sulle barricate. Il quadro, assieme adc altri 40 (oltre ad alcuni oggetti di arte applicata, come una teiera e tre tazze di porcellana dipinta, qualche litografia, un paio di gessi e alcuni costumi realizzati per l'opera Vittoria sul sole, del 1913, di Aleksei Krucenyc, musicata da Mihail Mutjushin) fa parte della mostra inaugurata ieri a Roma, dedicata al teorizzatore del Suprematismo, il movimento artistico russo creato verso il 1913, da Malevic appunto, e concretizzato nel manifesto del 1915, scritto in collaborazione con Vladimir Majakovsky (all'inizio, infatti, il poeta russo si cimenta anche con la ricerca coloristica, tipica della «pittura sonora», tant'è che nel 1911, a Pietroburgo espone un Ritratto di Kogan ).
Malevic sosteneva la necessità di un'arte libera da fini pratici e descrizioni naturalistiche. Occorreva puntare sulla «supremazia - da cui il Suprematismo - della sensibilità pura» e delle «forme assolute», diceva.
Esempio di forme assolute? Quadrato nero (immagine simbolo del movimento, definita «lo zero delle forme»), Croce nera e Cerchio nero. Dipinti nel 1913, vennero scelti da Malevic per la XIV Biennale veneziana, e rappresentano la cosiddetta «fase nera» del Suprematismo, espressa con tre forme: quadrato, croce e cerchio.
I tre quadri, così come tutti gli altri esposti a Roma, provengono dal Museo di Stato di San Pietroburgo, che, assieme allo Stedelijk di Amsterdam, detiene la maggior parte delle opere di Malevic: un centinaio di tele, qualche decina di disegni ed alcuni oggetti di arte applicata. La selezione, a cura di Eugenia Petrova, direttrice del museo russo, dà una panoramica dell' iter creativo di Malevic: dal 1907 (con un paio di studi per affresco) al 1933, due anni prima della morte, toccando le varie fasi creative. Da un certo simbolismo iniziale al momento post-impressionista, dal neoprimitivismo di ispirazione fauve all'influenza che su di lui ebbe, anche se più giovane di tre anni, Fernand Léger.
Si tenga conto anche dell'interesse di Malevic per Cubismo e Futurismo (nel 1914, nel corso d'una manifestazione s'era appeso un cucchiaio di legno al bavero della giacca), dei suoi rapporti coi poeti Majakovsky e Krucenyc, col gruppo dei pittori del Fante di Quadri di Mosca e del Blaue Reiter di Monaco. La parentesi astratta non dura a lungo.
Con l'avvento del realismo socialista, nel '29 viene incarcerato per circa due mesi con l’accusa di avere dipinto opere «piccolo-borghesi». Negli anni successivi, con la nuova politica culturale di Stalin, Malevic torna al figurativo. Talvolta, di «ispirazione» rinascimentale, come testimoniano il Ritratto di Natalija moglie del pittore e l' Autoritratto. Più spesso sviluppando i temi cari all’ideologia ormai dilagante: il culto del lavoro, la retorica dell’Armata rossa, il nuovo mondo dei soviet. Triste epilogo per un grande interprete delle avanguardie europee che, per non soccombere come la maggior parte dei poeti e artisti contemporanei, ha dovuto piegarsi al «vento della Storia».

ibidem
Se tacere è un’arte ecco l’arte del tacere
S.Gr.

La mostra di Malevic presenta «una retrospettiva completa» di opere del Museo di San Pietroburgo. «Un comitato scientifico internazionale, mai raccolto prima, costituito da Bowlt a Marcadé, dalla Misler a Kiblisky, dalla Petrova a… ». Ed ancora: «Una selezione operata dalla direttrice del museo, Petrova, a ideale completamento dell'esposizione del 1959». Frasi enfatiche che lasciano perplessi. Non tanto per le cose dette, quanto per quelle taciute. Per esempio, non un minimo cenno all’antologica di circa 10 anni fa a Firenze e a Milano: 61 dipinti 1900-1934 contro i 41 attuali (di cui 23 presentati allora). Anche quella mostra era curata dalla Petrova. Inoltre, adesso, metà degli autori dei saggi in catalogo sono gli stessi (così come l’editore: Artificio). La Petrova e la Misler ne hanno scritti due nuovi; quello di John E. Bowlt è ristampato così com’era. Perché non riproporre lo scritto di Giovanni Carandente, pubblicato nel 1959, in occasione della rassegna alla Gam di Roma, di cui, appunto, la mostra dovrebbe essere «l'ideale completamento». Forse che con queste precisazioni sarebbe cambiato qualcosa? No. Bastava solo dirlo. Così, magari, qualcuno non avrebbe pensato che l'ultima mostra di Malevic in Italia risale al 1959. Furbizia o dimenticanza?

«ciò che non si spiega»

Corriere della Sera 24.4.05
ELZEVIRO

Le poesie di Viviani
Frammenti di vite anonime

di Paolo Di Stefano
Una voce interiore capace di indagare nei labirinti dell'esistenza
«Il poeta - ha scritto Cesare Viviani - è colui che pone al centro della propria esistenza ciò che non si spiega». In effetti, Viviani ci ha abituati a un esercizio ostinato sull’indicibile che si traduceva agli inizi in una poesia libera da preoccupazioni di razionalità sintattica. La sua sperimentazione oggi non è più radicalità ludico-formale, ma inquietudine, «coraggio di non riposare in una comoda accoglienza». E infatti si tratta, incredibilmente, di un poeta che riesce a rinnovarsi senza mai ripudiare nulla delle esperienze passate. Così, dopo oltre trent’anni dagli esordi, ci troviamo con La forma della vita (Einaudi) a esiti allora imprevisti e forse imprevedibili: a una sorta di «romanzo» costituito di infiniti microintrecci, un poemetto di frammenti tenuti insieme da una voce sospesa e tenace, quella voce interiore, tipica di Viviani, capace di indagare nei labirinti dell’esistenza e dell’incomprensibile. A dire il vero, la tentazione narrativa era già ben riconoscibile in precedenti raccolte, come L’opera lasciata sola , racconto di un’amicizia perduta, e il viaggio spirituale di Silenzio dell’universo . Ma si direbbe che qui, sull’esempio del maestro Mario Luzi, anche Viviani abbia voluto battezzare i nostri frammenti. Sono frammenti di cronaca, di quotidianità, frantumi di vite anonime appena accennate, o con nomi e cognomi, macerie di voci raccolte in una portineria, nella metropolitana, per strada, resti di luoghi comuni, frasi apparentemente inerti che ritrovano come per miracolo, nel flusso della narrazione poetica, una loro capacità di rigenerazione. Viviani sfida e attraversa i paesaggi più consumati dalla comunicazione, accenna al lavoro, alla politica, al sindacato, alla globalizzazione, agli immigrati, alla moda, alle relazioni di coppia, alla violenza, all’università, ai telefonini, ai giovani, a Internet, insomma a tutti i nodi e gli oggetti della postmodernità, ai temi ricorrenti nei giornali, nelle tv, nelle cronache nere e rosa e bianche, quasi volesse offrir loro un’estrema chance di vitalità e di senso attraverso una continua interrogazione.
Così, nel flusso della narrazione è possibile imbattersi in accostamenti sorprendenti sul piano della visione ma anche sul piano dei linguaggi: dal marciapiede su cui cammina l’impiegato Franchini si passa senza soluzione di continuità alla «primordiale vicenda del Paradiso terrestre che si ripete in ogni esistenza». Dalla «scandalosa imparzialità del male» a Vanni, il pittore sessantottino nel suo studio-scantinato. Dal rassicurante rituale quotidiano al vuoto sospeso dell’interrogazione, dalla familiarità dei giorni e dall’inesausta attività umana all’enigma indicibile dell’universo. Frasi logore: «Mi interessa Internet / perché lì si possono creare cose». E pensieri sublimi, aforismi: «L’affidamento non è incoscienza, / ma è conoscenza». E invettive: «Questi pragmatici, lombardo-veneti, / che dicono di costruire e invece distruggono».
Trasparenza del racconto e densità del pensiero, flusso e coagulo. Basso e alto, fare e pensare, costruire e annientare. Attraversare i luoghi più vicini come fossero passaggi assoluti. Prestare ascolto ai rumori dell’oggi cercando di recuperarli al silenzio dell’universo. Seguire gli «intrecci di animo e materia». Preghiera verso l’assoluto e fedeltà alla terra (a quegli «ampi, dolci declivi», dove «legge il sole la terra», gli splendidi paesaggi collinari con cui si chiude il libro), devozione all’animo umano e alla materia, come quella che fu del padre di Viviani, bellissima figura cui il poeta dedica questa raccolta.

Edoardo Boncinelli a Milano

Adnkronos 22.4.05
CULTURA: A MILANO INCONTRO CON EDOARDO BONCINELLI

"La poesia della scienza" è il titolo dell'incontro con Edoardo Boncinelli che si terrà nella Sala Conte Biancamano del Museo della Scienza e della Tecnologia, il prossimo 26 aprile alle ore 18.30. Assieme a Fiorenzo Galli, direttore del Museo, Boncinelli spiegherà che cosa s'intende con il "meraviglioso nella scienza". La conversazione al Museo della Scienza si avvale del patrocinio del ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, della regione Lombardia, della Camera di Commercio di Milano, del Segretariato Sociale Rai, di Assolombarda ed in collaborazione con Boroli editore, Raffaello Cortina Editore e la rivista Quark.

insonnia

Corriere della Sera Salute 24.4.05
L' insonnia
Danilo Di Diodoro

Il vero guaio per chi dorme male di notte è lo scotto da pagare durante il giorno. Oltre a stanchezza, sonnolenza e colpi di sonno, l'insonne spesso lamenta mancanza di concentrazione, irritabilità, calo del rendimento e minore efficienza: tutti inconvenienti che rendono più difficile sia la vita di relazione sia quella lavorativa. Ma alla lunga l'insonnia se non controllata in modo adeguato si può ripercuotere negativamente sull'organismo in generale, aumentando la suscettibilità verso patologie di varia natura come mal di testa, dolori muscolari, disturbi gastrointestinali, alterazioni cardiocircolatorie fino a sfociare in disturbi invalidanti di natura psichiatrica quali l'ansia e la depressione.

L’insonnia è sì invalidante essa stessa, ma il problema maggiore è che spesso è presente in concomitanza con altre patologie che vanno sempre individuate perché il cattivo sonno ne può influenzare negativamente il decorso naturale. Tra le malattie per le quali è più evidente una correlazione con l'insonnia sono senza dubbio da annoverare quelle cardiovascolari e quelle psichiatriche. Come già accennato, il 67 per cento degli insonni presenta problemi cardiovascolari, mentre il 70 per cento degli insonni con ripercussioni negative sulla funzionalità diurna mostra sintomi depressivi.
Ma è il paziente cardiopatico o psichiatrico a dormire male a causa della sua patologia o è il paziente che dorme male a poter sviluppare una cardiopatia o sindromi psichiatriche?
«Gli studi finora condotti in ambito cardiologico indicano chiaramente come è l'insonnia che può essere determinante per le patologie cardiocircolatorie e non viceversa», riferisce il professor Ferini-Strambi. «Ma anche alcuni studi prospettici fatti in ambito psichiatrico evidenziano un fatto importante, ossia che curare l'insonnia può voler dire ridurre il rischio di ricadute depressive».

L' insonnia colpisce a livello mondiale circa un miliardo e mezzo di individui. Non tutti i Paesi sono però colpiti allo stesso modo. Lo dice uno studio internazionale condotto da un gruppo di ricercatori greci guidati dal professor Constantin Soldatos della Sleep reasearch unit dell'Athens University Medical School di Atene e pubblicata sulla rivista Sleep Medicine. I ricercatori, con interviste telefoniche e rilevazioni dirette per strada o sui posti di lavoro, hanno coinvolto oltre 35 mila persone: si tratta, quindi, di una delle più ampie indagini internazionali realizzate sulla popolazione generale sui comportamenti legati al sonno. Ne è emerso che particolarmente male dormono i belgi, seguiti dai sudafricani, dai cinesi, dagli slovacchi e dagli spagnoli, almeno stando al campione di nazioni studiato, che comprendeva anche Portogallo, Giappone, Germania, Brasile e Austria. Quest'ultima nazione è risultata quella con minore prevalenza di insonnia, circa il 10% della popolazione, contro una media di quasi il 25%.
La ricerca ha individuato anche molte altre caratteristiche delle abitudini di sonno delle popolazioni studiate. Se l’ora più frequente alla quale si va a letto durante la settimana, weekend esclusi, oscilla tra le 10 e la mezzanotte, i primi a infilarsi sotto le coperte sono austriaci, brasiliani, tedeschi, slovacchi e sudafricani, mentre portoghesi e spagnoli raramente vanno a letto prima di mezzanotte, anche quando il giorno dopo si lavora.
La sveglia suona alle sei per la maggioranza della popolazione, tranne che per spagnoli, portoghesi, cinesi e belgi, che si concedono il lusso di puntarla alle sette. Per tutti la tendenza è quella di dormire tra le sette ore e mezza e le otto ore e mezza per notte, mentre i tempi di addormentamento possono variare dal quarto d'ora degli austriaci ai quasi 40 minuti dei sudafricani.
Interessante anche notare che, contrariamente a quanto si crede normalmente, il sonnellino pomeridiano è un'abitudine ancora largamente diffusa. E se l'immaginario collettivo non si stupisce al dato secondo il quale fanno la siesta il 42 per cento dei brasiliani e quasi il 23 per cento degli spagnoli, colpisce invece il riposino del 25 per cento dei tedeschi e del 32 per cento dei cinesi. I giapponesi sono i più inflessibili, e in media solo poco più di uno su dieci si concede la siesta durante la settimana lavorativa.
Considerato che la ricerca ha avuto un supporto organizzativo da un'azienda farmaceutica che produce anche farmaci contro l'insonnia, non poteva mancare la rilevazione di quante persone ne assumono. Si è scoperto così che solo un terzo delle persone che soffre di insonnia assume farmaci e che molti non si rendono conto del disturbo che deriva alla loro giornata dall'aver dormito male.

"bullismo"

Corriere della Sera Salute 24.4.05
Piccoli "bulli" a causa dell’eccesso di televisione

Più aggressivi a scuola, con i compagni e gli insegnanti, litigiosi e prepotenti a casa, coi genitori: questi i rischi per i bambini che in età prescolare guardano troppa TV. A sostenerlo sono ricercatori americani, che hanno seguito 1.266 bambini. E’ emerso che quanto più i bambini avevano guardato la televisione attorno ai 4 anni, quanto più in età scolare si comportavano poi da "bulli". Il rischio di sviluppare un comportamento prepotente e aggressivo è particolarmente elevato per i bimbi che a quell'età stanno davanti al televisore 5 ore al giorno o anche più. Viceversa, il rischio si riduce decisamente se i genitori stimolano e supportano i bambini, parlando e stando spesso con loro, portandoli fuori casa, leggendo loro racconti e favole, prestando loro attenzione.
L'ambiente familiare nei primi anni di vita, la stimolazione cognitiva e il supporto emotivo che ne derivano, proteggono il bambino da un comportamento aggressivo e prepotente nei confronti altrui, mentre, al contrario, le ore passate a guardare la TV lo favoriscono.
Il tempo davanti al televisore non solo favorisce nei bambini l'obesità, ma influisce anche sul loro comportamento: senza le dovute attenzioni da parte dei genitori, i piccoli sono più sensibili ai messaggi aggressivi che giungono dalla TV, meno capaci di elaborarli.

Archives of Pediatrics and Adolescent Medicine, 2005; 159: 384-388

"aspettare con pazienza"..?

Corriere della Sera Salute 24.4.05
Quando arriva la terribile età dei «no»

Martina, che ha appena compiuto i due anni, è sempre stata una bimba molto ragionevole, per niente bizzosa. Ultimamente ha cominciato a fare capricci incredibili. Ha preso l’abitudine di fare esattamente l’opposto di quello che mamma o papà le chiedono. Il "no" è diventato la sua parola preferita, che spesso usa senza neanche ascoltare ciò che le viene proposto. Il più delle volte ha l’aria di non sapere ciò che vuole, ma insiste comunque per vincere, innervosendosi sempre più se non le si dà retta. Se i genitori non capiscono le sue intenzioni, poi, si butta a terra dimenandosi come un ossessa: un vero attacco isterico. E a questo punto, non importa cosa si faccia per pacificarla, la scenata continua, suscitando in chi le sta intorno impulsi inconfessabili. Ma quali sono i motivi di questo comportamento? Questa svolta "capricciosa" nel modo di fare del bambino è così caratteristica dell’età da aver spinto gli psicologi anglosassoni a coniare l’espressione "i terribili due anni". Il primo motivo del fenomeno è che il piccolo di quest’età comincia (legittimamente) ad avere un fortissimo bisogno d’indipendenza: vuole fare da sé e non seguire sempre le imposizioni dei genitori. Spesso poi, preso da impulsi contraddittori, si irrita proprio perché non riesce a capire lui stesso cosa vuole. Infine, molte volte, cercando di esprimere un bisogno o un desiderio, gli mancano le parole per farlo, così che i genitori non lo capiscono, cosa che lo manda in bestia. Insomma, non sono facili neanche per lui questi "terribili due anni". Quando arrivano, è inopportuno e ingiusto reagire con rabbia. Meglio munirsi di un’immensa pazienza e aspettare l’arrivo dei tre anni.

la memoria dello sterminio nazista

Liberazione 23.4.05
Metà dei giovani tedeschi
non sa cos'è l'Olocausto


Che cos'è stato l'Olocausto? Alla domanda circa l'80% dei tedeschi è in grado di rispondere: la campagna dei nazisti che ha portato allo sterminio degli ebrei europei. Ma la percentuale scende drammaticamente al 51,4% quando a rispondere sono i giovani sotto i 24 anni. Lo rivela un sondaggio del Forschungsgruppe Wahlen per la Tv pubblica Zdf e il quotidiano "Die Welt".

Manoel de Oliveira

Liberazione 23.4.05
De Oliveira: «Vorrei fare
il seguito di Bella di giorno»


A 96 anni, Manoel de Oliveira non ha nessuna intenzione di andare in pensione. Il regista portoghese sta pensando a tre nuovi film tra cui un seguito di "Belle de Jour" (Bella di giorno), il capolavoro di Luis Bunuel interpretato da Catherine Deneuve nel '66. «Sto combattendo contro il tempo che passa», ha confessato il regista sul set del suo ultimo film "Specchio magico".