martedì 9 marzo 2004


le lezioni
all'Università di Chieti

14:30 - 6.3.04

Sono disponibili su Internet
all'indirizzo di MAWIVIDEO.IT:
le registrazioni audiovideo

delle prime due lezioni di questo Anno Accademico (II semestre)
del corso di
Psicologia dello sviluppo e dell'educazione
della prof.ssa Francesca Fagioli

e delle prime due lezioni del corso di
Psicologia generale
del prof. Andrea Masini

tenutesi Venerdì 5 Febbraio, e Sabato 6 Febbraio 2004
all'Università di Chieti
www.unich.it


- complimenti vivissimi allo staff di MAWIVIDEO! -

Tony Carnevale

Music Box
TONY CARNEVALE
LIVE ROCK SYMPHONIC CONCERT
CD Artonica Records ARTCD 2/03
di Achille lachino
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Una sera del 1996, al Frontiera di Roma, un gruppo di dodici elementi ha superbamente frastornato il pubblico presente con un'impetuosa performance di rock sinfonico dai fortissimi accenti prog. Nella formazione guidata da Tony Carnevale c'erano, fra gli altri, Rodolfo Maltese e Francesco Di Giacomo del BMS. Live Rock Symphonic Concert documenta il concerto di quella sera. Chiariamo subito che si tratta di roba destinata ad un pubblico di appassionati e amanti del rock sinfonico, che qui troveranno un torrente di musica, la cui fonte è Quadri, vale a dire Pictures At An Exhibition di Mussorsky, rimaneggiata (ma non snaturata). Fra arrangiamenti pomposi e graffianti incursioni nell'abbondanza del rock progressivo, Tony Carnevale si trova nel suo habitat. Ecco allora, scultoree e disorientanti, Ferro e fuoco (bravissimo Rudy Costa alla chitarra) e Le memorie della scogliera. Delicate trame di pianoforte caratterizzano Onde, mentre lsabeau è un pregevole esempio di miscellanea fra strutture rock e partiture classiche. La vita che grida, cantata da un Francesco Di Giacomo in gran forma, chiude questo CD il cui pregio maggiore è quello di riuscire a coniugare, senza mai farle apparire pretestuose, strutture tipicamente rock con (mai eccessivamente) ridondanti arrangiamenti prog e colte forme sinfoniche.

Umberto Galimberti tra Nietzsche e Aristotele

Repubblica 9.3.04
Gli ultimi studi mostrano che i geni c'entrano poco e che lo "star bene" si apprende
La ricetta del buonumore
"DIVENTA CIÒ CHE SEI" E SCOPRIRAI LA FELICITÀ

Il fallimento non dipende dal mondo esterno: il buonumore è un nostro dovere
Non si può misurare la propria realizzazione su modelli estranei o su stereotipi
di UMBERTO GALIMBERTI


IL BUONUMORE è una condizione esistenziale a cui tutti ambiscono e, incapaci di raggiungerla, attribuiscono il fallimento agli altri o alle circostanze del mondo esterno, quali l´amore, la salute, il denaro, l´aspetto fisico, le condizioni di lavoro, l´età, cioè una serie di fattori su cui non esercitiamo praticamente alcun potere di controllo. Ciò consente a ciascuno di noi di esonerarci dal compito di essere non dico felici, ma almeno di buonumore, perché nulla possiamo fare sulle circostanze che non dipendono da noi.
Eppure questa condizione dell´animo è accessibile a qualsiasi essere umano a prescindere dalla sua ricchezza, dalla sua condizione sociale, dalle sue capacità intellettuali, dalle sue condizioni di salute. Non dipende dal piacere, dalla sofferenza fisica, dall´amore, dalla considerazione o dall´ammirazione altrui, ma esclusivamente dalla piena accettazione di sé, che Nietzsche ha sintetizzato nell´aforisma: «Diventa ciò che sei».
Sembra quasi un´ovvietà, ma non capita quasi mai, perché noi misuriamo la felicità, da cui scende il nostro buon o cattivo umore, non sulla realizzazione di noi stessi, che è fonte di energia positiva per quanti ci vivono intorno, siano essi familiari, colleghi, conoscenti, ma sulla realizzazione dei nostri desideri che formuliamo senza la minima attenzione alle nostre capacità e possibilità di realizzazione. Non accettiamo il nostro corpo, il nostro stato di salute, la nostra età, la nostra occupazione, la qualità dei nostri amori, perché ci regoliamo sugli altri, quando non sugli stereotipi che la pubblicità ci offre ogni giorno.
Distratti da noi, fino a diventare perfetti sconosciuti a noi stessi, ci arrampichiamo ogni giorno su pareti lisce per raggiungere modelli di felicità che abbiamo assunto dall´esterno e, naufragando ogni giorno, perché quei modelli probabilmente sono quanto di più incompatibile possa esserci con la nostra personalità, ci facciamo «cattivo sangue» e distribuiamo malumore, che è una forza negativa che disgrega famiglia, associazione, impresa, in cui ciascuno di noi è inserito, perché spezza la coesione e l´armonia, e costringe gli altri a spendere parole di comprensione e compassione per una sorte che noi e non altri hanno reso infelice.
Se il cattivo umore è il risultato di un desiderio lanciato al di là delle nostre possibilità, non ho alcuna difficoltà a dire che chi è di cattivo umore è colpevole, perché è lui stesso causa della sua infelicità, per aver improvvidamente coltivato un desiderio infinito e incompatibile con i tratti della sua personalità, che non si è mai dato la briga di conoscere. A questo punto il buonumore non è più una faccenda di «umori», ma oserei dire un vero e proprio «dovere etico», non solo perché nutre il gruppo che ci circonda di positività, ma perché presuppone una buona conoscenza di sé che automaticamente limita l´ampiezza smodata dei nostri desideri, accogliendo solo quelli compatibili con le proprie possibilità. Infatti, nello scarto tra il desiderio che abbiamo concepito e le possibilità che abbiamo di realizzarlo c´è lo spazio aperto, e talvolta incolmabile, della nostra infelicità, che ci rode l´anima e mal ci dispone di fronte a noi e agli altri.
Le conseguenze sono note: ansia e depressione che, opportunamente coltivate dal rilancio del desiderio, quasi una reiterazione della nostra prevedibile sconfitta, diventano condizioni permanenti della nostra personalità, che abbassano il tono vitale della nostra esistenza, quando non addirittura, a sentire i medici, il nostro sistema immunitario, disponendoci alla malattia, che non è mai solo un´insorgenza fisica, ma anche spesso, e forse soprattutto, una disposizione dell´anima che ha rinunciato a quel dovere etico che Aristotele segnala come scopo della vita umana: la felicità.
Naturalmente Aristotele, da greco, non si lascia ingannare da cieche speranze o da promesse ultraterrene, e perciò pone, tra le condizioni della felicità, la conoscenza di sé, da cui discende, nel nostro spasmodico desiderare, la «giusta misura». Il buonumore lo si guadagna attenendosi alla giusta misura, che i Greci conoscevano perché si sapevano mortali e i cristiani conoscono meno perché ospitati da una cultura che non si accontenta della felicità, perché vuole la felicità eterna, che è una condizione che non si addice a chi ha avuto in dote una sorte mortale. L´accettazione di questa sorte sdrammatizza il dolore e fa accettare quella «giusta misura» dove solamente può nascere buonumore e serena convivenza.

Hieronimus Bosch (1450 ca - 1516)

Corriere della Sera 8.3.03
BOSCH
Adamo e i suoi Arcani
di GILLO DORFLES


molte immagini di Bosch sono visibili qui


Una donna con le sue piccole gambe che fuoriescono dal collo; un pesce che trascina il Carro con stivaletti alle gambe; un grande Orecchio, trapassato da una freccia, solitario e monumentale in mezzo alla desolata pianura infernale; l’uomo-albero che ha per piedi due barche e per torace un tronco... Queste e mille altre sono le fantasmagorie che troviamo illustrate soprattutto nei tre grandi trittici: il Carro di fieno del Prado, le Tentazioni di Sant’Antonio di Lisbona, il Giardino delle delizie o Millannium del Prado.
Queste le più importanti e affascinanti opere di Jheronimus van Aeken, che si firmò sempre Hieronimus Bosch, ricavando il suo nome dal paese natale di s’Hertogenbosch, ossia il Bosco del Duca, dove appunto nacque «attorno» al 1450. Dico «attorno» perché ben poco si sa della sua vita. Nato, cresciuto, e morto nel Brabante, di Bosch si ignorano le vicende e i viaggi, ma si sa - o si suppone - che appartenesse ad una delle tante sette eretiche del tempo: quella del Libero Spirito.
Il che, almeno in parte, potrebbe spiegare il perché del suo costante far ricorso, non solo a scene e argomenti religiosi e mistici (I sette peccati capitali, L’adorazione dei Magi, Il Cristo in croce, l’Ecce homo e Le nozze di Cana, tutti appartenenti a quello che si considera il suo primo periodo); ma soprattutto a figurazioni decisamente blasfeme - almeno rispetto all’ortodossia cattolica del tempo - e oltretutto spesso invischiate nelle maglie d’una figurazione carica di simbologie insolite, di richiami alchemici, e addirittura, di un’atmosfera che non possiamo che definire onirica e surreale (non surrealista) molto lontana da quella degli artisti coevi nelle Fiandre: da Van Eyck a Van der Goes, da Memling a Cornelis Engebrecht.
Sicché persino la vena fantastica di Breughel è totalmente diversa da quella ermetica di Bosch, come del resto lo sono quelle di alcuni suoi seguaci: Met de Bles, Gilles Mostert, Franz Verbeck, per non parlare di un Gossarte o di un Patinir.
Molti studiosi - anche illuminati - si sono accaniti ad analizzare e decriptare l’opera di quest’artista tanto amato anche dagli spagnoli sotto il nome di «El Bosco». Così bisogna ricordare i lavori di von Baldass, di Tolnay, di Combe, soprattutto di Fraenger, molti dei quali si sforzarono di segnalare le analogie esistenti tra alchimia e le figurazioni del Giardino delle delizie, fra magia e sette eretiche specie là dove i simboli religiosi sono accostati a scene libidinose o a simbologie decisamente sessuali. Mentre, da parte di Combe, ad esempio, si tentò di accostare alcune delle immagini boschiane agli Arcani dei Tarocchi.
Così, ad esempio, secondo questo studioso, esiste una netta analogia fra il dipinto del Prestigiatore e il Primo Arcano (il Bagatto); mentre altre analogie si riscontrerebbero fra il Settimo Arcano e Il Carro di Fieno , il Nono Arcano e L’eremita , il Ventesimo e Il Giudizio finale mentre un’analogia ancora più spiccata si può rintracciare fra la tavola del Figlio l prodigo e il Ventiduesimo Arcano (il Matto).
Se si tenta di stendere una vera e propria scheda biografica dell’opera di Bosch ci si imbatte subito nella quasi totale assenza di notizie precise tanto sull’uomo che sulla sua attività pittorica.
Infatti, tutti i suoi esegeti si sono sforzati di tracciare un itinerario attendibile della sua vicenda creativa basandosi più che altro su dati stilistici o contenutistici.
Possiamo ormai accettare come probabile una divisione dei lavori in tre grandi filoni: quelli delle opere ancora legate - lo si diceva più sopra - all’ortodossia religiosa come La cura della follia, I Sette vizi capitali, Le nozze di Cana, Cristo in croce, tutti dipinti molto vicini a quelli degli artisti fiamminghi coevi; mentre già con La nave dei pazzi e con Le nozze di Cana si comincerebbero a notare (anche secondo Fraenger, uno dei più acuti suoi commentatori) i primi accenni a simbologie eterodosse.
Alla seconda e terza fase, invece, apparterrebbero i quadri dell’età matura, quelli che dettero all’artista la sua massima rinomanza. Ed è in questa fase che la fantasia boschiana raggiunge il suo apice in un crescendo drammatico e stupefacente.
Se, infatti, ci limitiamo a considerare anche soltanto uno dei capolavori più noti e certamente quello che racchiude in sé tutti i «misteri» delle ultime opere (dall’ Adorazione dei Magi del Prado al Martirio di Santa Giulia di Venezia, dalle Tentazioni di Sant’Antonio di Lisbona al Giudizio Universale di Vienna) ossia Il giardino delle delizie, constatiamo subito l’incredibile diversità fra questo dipinto e tutti quelli coevi delle Fiandre.
Secondo Fraenger, l’opera gli era stata commissionata dal Gran Maestro della setta del Libero Spirito: una setta che credeva al Mistero di Adamo, all’ermafroditismo iniziale dell’umanità, a una redenzione del peccatore attraverso l’amore sessuale; ecc., tutte situazioni che giustificano le stupefacenti figurazioni del capolavoro: le schiere di uomini e donne nudi, ma non «libidinosi», quasi tornati a uno stato d’innocenza; d’altro canto la presenza di figure sconvolgenti come, all’esterno del trittico, l’immagine d’un globo trasparente, popolato da gigantesche piante antidiluviane, esemplari d’un regno vegetale aberrante.
Quale, in definitiva, il significato complessivo del trittico? Forse davvero la riconquista della purezza iniziale di una umanità che ignora il peccato? Forse le bestie strane, cavalcate da uomini nudi rappresentano i simboli ormai soggiogati dei Peccati mortali? E che dire dell’uomo-albero, dell’orecchia percossa dal coltello, dell’alambicco o «athanor» alchemico?
Certo: i pochi dipinti come questo ci trasportano in un mondo dove piacerebbe aggirarsi all’infinito, cogliendo le bacche - forse velenose, forse afrodisiache - che ci si schiudono davanti, e cavalcando qualcuna delle fiere - mansuete e certo ingannatrici - che conducono verso un Paradiso laico.

su Le Monde

Repubblica 9.3.04
LE MONDE
Cinema italiano "coraggioso"


PARIGI - Che il cinema francese impari da quello italiano, in grado di rivisitare le pagine più buie della storia più recente della Penisola. È l´invito che viene lanciato dalle colonne di "Le Monde", sulla scia del successo in Francia di Buongiorno, notte di Bellocchio e La meglio gioventù di Giordana. Jean-Luc Douin scrive che il cinema italiano «sta dando una lezione al cinema francese»: affronta con coraggio gli anni di piombo «per il bene della democrazia», mentre in Francia prevale «la congiura del silenzio sugli eventi che il paese non giudica degni della sua storia». Come il regime di Vichy, le brutalità dell´era coloniale, i «giorni brucianti del Maggio 68».

ed ecco l'articolo di Le Monde:

Le Monde
ANALYSE
La leçon de politique du cinéma italien
par Jean-Luc Douin
article pau dans l'dition du 09.03.04


Le cinéma italien, qui peine encore à sortir de son asphyxie par la télévision, est en train de donner une leçon au cinéma français. Il existe, on le sait, dans l'Hexagone une conspiration du silence à propos des événements que le pays ne juge pas dignes de son histoire, un refoulement quasi général des pages troubles de l'Occupation, des exactions coloniales, des jours brûlants de Mai 68. Le cinéma français ne parvient pas à transformer l'histoire de la nation en histoires, il répugne à donner au monde des images emblématiques de son passé proche, comme s'il craignait que la peinture de personnages honteux, douteux, révolutionnaires ne brouille la perception d'une identité collective, ne crée une confusion hors de nos frontières, et même à l'intérieur d'un territoire où règne encore l'interdit (jadis dévolu au "service public") à tout ce qui ne représenterait pas "la voix de la France".

Cette amnésie n'a pas été seulement entretenue par la droite. L'arrivée de la gauche au pouvoir semble avoir également anesthésié toute velléité d'évoquer les épisodes les plus marquants de l'histoire du PCF ou de l'extrême gauche, comme par crainte de ternir ses mythologies et de jouer contre son camp.

Un peu tardif dans sa dénonciation des tentations mussoliniennes, un temps prudent dans sa sélection des priorités chronologiques, le cinéma italien, lui, s'est rattrapé depuis. Si le film historique d'Ettore Scola, Nous nous sommes tant aimés, ne commençait qu'avec la résistance antinazie de 1944, il fut l'un de ceux qui marqua un tournant. La cinématographie italienne se révéla dans les années 1960 un témoin attentif de l'évolution politique et économique du pays, utilisant la comédie pour rendre compte de l'évolution des mœurs, s'interrogeant même, à l'image du scénariste de La Terrasse, sur le rôle du rire dans le traitement de la réalité : "transgression ou consensus"?

REVISITER SON HISTOIRE

Après sa douloureuse traversée du désert, le cinéma italien laissait espérer que Nanni Moretti ne serait pas le seul auteur à exhumer son "journal intime". En 1996, La Seconda Volta, de Mimmo Calopresti, apparut comme un coup d'audace. Un universitaire communiste, considéré par les gauchistes comme l'un de ces intellectuels collaborateurs du patronat, y poursuivait une ancienne terroriste des Brigades rouges, coupable de lui avoir tiré une balle dans la tête douze ans plus tôt, pour tenter de comprendre son geste. Le film laissait entendre qu'en osmose avec son personnage le cinéma italien était assez mûr pour réfléchir sur la violence des années 1970. Et, coup sur coup, à l'heure où la menace d'une extradition de l'ancien activiste Cesare Battisti fait polémique en France, trois films viennent prouver que le cinéma italien a aussi retenu les leçons d'un Francesco Rosi (l'auteur de L'Affaire Mattei et de Cadavres exquis) et qu'il n'a plus nécessairement besoin de rester dans le sillage de la commedia dell'arte pour revisiter son histoire.

Chronique des quatre dernières décennies de l'histoire italienne, produite par la télévision, Nos meilleures années, de Marco Tullio Giordana, aborde de front, sous le prisme d'une saga familiale, les soubresauts d'une histoire collective. On y voit une étudiante devenir terroriste. On s'y livre, dit le réalisateur, au même travail qu'en psychanalyse : "Apprendre à s'accepter soi-même." La proposition de Marco Tullio Giordana est d'"accepter l'Italie, même avec ses défauts".

Dès 1970, Bernardo Bertolucci avait osé égratigner le mythe de l'héroïsme antifasciste dans La Stratégie de l'araignée et s'interroger sur la tentation de faire pacte avec les "chemises noires" dans Le Conformiste. Il éprouve aujourd'hui le besoin de retracer dans Innocents les événements de Mai 68, qu'il vécut comme une libération des carcans, un appel au rêve, un geste subversif, un espoir que l'imagination prenne le pouvoir.

Cinéaste engagé, qui milita quelques années au sein de l'Union des communistes italiens par nécessité de "mettre fin à toute une série de compromis, personnels, professionnels, et autres encore...", Marco Bellocchio, enfin, vient, sur une commande de la RAI, de signer Buongiorno, notte, une réflexion sur l'engagement politique à partir d'un fait qui "a changé le visage de l'Italie" : l'enlèvement et l'assassinat d'Aldo Moro par les Brigades rouges en 1978. Un acte qui n'avait guère été traité jusque-là que dans Todo Modo, d'Elio Petri (1976), d'après un livre de Leonardo Sciascia. A l'époque, Elio Petri parlait d'Aldo Moro comme de "l'interprète le plus cohérent des intérêts mesquins de la petite bourgeoisie italienne accrochée à ses privilèges, mais habile à travestir ses basses intentions derrière des finalités très élevées, directement inspirées par le ciel", un "esprit tortueux, duplice". Aujourd'hui, Marco Bellocchio confesse avoir vécu l'enlèvement sanglant d'Aldo Moro "dans le plus grand accablement" et avoir découvert alors que "nous n'avions, en fait, jamais rien compris à la politique".

PÉRIPÉTIE COLLECTIVE

Buongiorno, notte émet l'hypothèse que la mort d'Aldo Moro arrangeait la Démocratie chrétienne. Deux autres films (non sortis en France), consacrés au même drame, La Piazza delle cinque lune, de Renzo Martinelli (2003), et Il Caso Moro, de Giuseppe Ferrara (1986), suivent des pistes différentes, l'un accusant la CIA, l'autre Pie XII et les francs-maçons... Ce qui signifie que, même si les "années de plomb" restent un traumatisme pour les Italiens, qui ne comprennent pas la position des Français, favorables à l'amnistie des terroristes repentis, un tabou a été brisé : cette sombre page d'histoire n'est ni oubliée ni enterrée. Elle est exhumée, sujet d'analyse et de réflexion, pour le bonheur de la démocratie.

On notera même que le cinéma italien se sent si concerné par les remous d'hier qu'il prend en compte la manière dont la péripétie collective a bouleversé des destins individuels. Portrait de famille chez Marco Tullio Giordana, ivresses intimes chez Bertolucci, meurtre du père chez Bellocchio, qui, on l'a peu souligné, insiste dans Buongiorno, notte sur la "mise en scène" de son "héroïne" brigadiste, soucieuse d'apparaître au-dehors de l'appartement où est détenu l'otage comme une jeune femme sans histoires, c'est-à-dire mariée. Cette alliance, qu'elle se passe au doigt dès qu'elle sort et qu'elle ôte dès qu'elle entre, symbolise la nécessité d'un lien public-privé, en même temps que la liberté revendiquée par chaque citoyenne.

un attimo...

L'Eco di Bergamo 9.3.04
Se ci tolgono anche l'attimo, cosa ci resta del tempo?


La scienza ha la capacità di stupirci sempre: in alcuni casi, lo stupore è determinato dai vantaggi che le sue scoperte determinano sul piano dell'evoluzione della conoscenza e soprattutto del miglioramento delle condizioni dell'uomo, ottenute attraverso la crescita del sapere. In altri casi le sue possibilità e i moti che animano la ricerca sono tali da raggiungere «certezze» inimmaginabili anche dal più fantasioso uomo della strada.
Un esempio emblematico di questo atteggiamento, ci  giunge dalla recente scoperta di un fisico ungherese, Ferenc Krausz, che in questi giorni pubblicherà sulla prestigiosa rivista «Nature»  un articolo in cui illustra come è riuscito a misurare l'attimo. Sì, proprio quell'indefinito lasso di tempo che, ognuno di noi utilizza nel linguaggio corrente per indicare un tempo breve, spesso accompagnato a toni anche un po' seccati del tipo: «E aspetta un attimo!».
Il fisico lavora all'Istituto «Max Planck» di Monaco e ha messo a punto una tecnica che, per la prima volta, consente di studiare processi velocissimi e che ha come prospettiva la misurazione della formazione e del dissolversi dei composti chimici. E così, servendosi di complicati sistemi di calcolo, Krausz è riuscito a stabilire che il nostro attimo è pari a cento volte un miliardesimo di un miliardesimo di secondo! In pratica un lasso di tempo che il nostro cervello non riesce a trasferire sul piano concreto e che relega su quello simbolico. Un valore che ricorda un po' l'inafferrabile «Milione» del Signor Buonaventura.
L'attimo, secondo la scienza, corrisponderebbe a cento attosecondi: per avere un'idea di quanto sia breve questo periodo basta pensare che se cento attosecondi fossero un secondo, un minuto corrisponderebbe  al 14 miliardi di anni, l'età del nostro pianeta. (...)

"La sorgente del fiume":
esce venerdì il nuovo film di Theo Angelopoulos

La Stampa 9.3.04

«LA SORGENTE DEL FIUME»
Attimi di bellezza per una Grecia di pioggia e poesia


ROMA. Momenti di bellezza meravigliosa, ne «La sorgente del fiume» di Theo Angelopoulos: una distesa di lenzuola bianche messe ad asciugare palpitanti nel vento, il ricordo «Giorni del '36, notti oscure», la musica di «Amapola», un funerale sull'acqua con bandiere nere che procede solenne e lento su una zattera, le urla atroci della madre sul cadavere del figlio, il dolore civile («Quello che temevamo è accaduto: la democrazia si è suicidata»), e la pioggia che non smette mai di cadere trasformando le strade in rivoli di fango. Nessun regista al mondo fa un cinema più struggente e perfetto, più realista e lirico; nessun autore persegue progetti di tale grandezza. «La sorgente del fiume» è il primo film di una trilogia che vuol narrare gli eventi più importanti che hanno segnato la Grecia nel ‘900, attraverso la vita di due coniugi costretti alla separazione: l'esilio, la lontananza, l'errare, il disfarsi delle ideologie, la morte, le prove della Storia. Per raccontare la Storia, ad Angelopoulos bastano allusioni, note musicali, simboli, immagini evocative, attimi significativi.

PRIME CINEMA
Una Grecia di pioggia e poesia
«La sorgente del fiume» struggente e perfetto
di Lietta Tornabuoni


MOMENTI di bellezza meravigliosa, ne «La sorgente del fiume» di Theo Angelopoulos: una distesa di lenzuola bianche messe ad asciugare palpitanti nel vento, il ricordo «Giorni del '36, notti oscure», la musica di «Amapola», un funerale sull'acqua con bandiere nere che procede solenne e lento su una zattera, le urla atroci della madre sul cadavere del figlio, il dolore civile («Quello che temevamo è accaduto: la democrazia si è suicidata»), e la pioggia che non smette mai di cadere trasformando le strade in rivoli di fango. Nessun regista al mondo fa un cinema più struggente e perfetto, più realista e lirico; nessun autore persegue progetti di tale grandezza.
«La sorgente del fiume» è il primo film di una trilogia che vuol narrare gli eventi più importanti che hanno segnato la Grecia nel Novecento, attraverso la vita di due coniugi costretti alla separazione: l'esilio, la lontananza, l'errare, il disfarsi delle ideologie, la morte, le prove della Storia. Angelopoulos certo non racconta la Storia in vignette e aneddoti cronologicamente ordinati, completati da date o scritte alla maniera televisiva. Come accade nella memoria di ciascuno di noi, gli bastano allusioni, note musicali, simboli, immagini evocative, attimi significativi (due bandiere greche biancazzurre. Uno che va di corsa per le vie della città gettando volantini e gridando «viva il Fronte Popolare», corpi straziati abbandonati inerti dopo la tortura, le barche che salvano i senzatetto dell'inondazione). Il film non fornisce dettagli, ma per capirlo meglio forse è utile ricordare che la prima parte del Novecento portò alla Grecia pronunciamenti e regimi militari come quello di Venizelos, battaglie territoriali per l'Anatolia e la Tracia, guerre civili combattute o scongiurate, colpi di Stato conservatori e dittatura filofascista di Metaxas, restaurazione, occupazione nazifascista, interventi militari francesi e inglesi, reggenza affidata a un arcivescovo: una instabilità perennemente sussultante che frantumava la vita delle persone.
Angelopoulos è autore del soggetto, della sceneggiatura, della regia, è coproduttore insieme con Amedeo Pagani e Jean Labadie. Ha scelto e diretto magnificamente i due protagonisti: specie Alexandra Aidini, ma anche Nikos Poursanidis è davvero bravo come giovane musicista, suonatore di fisarmonica poi emigrato negli Stati Uniti in cerca di fortuna e morto a Okinawa in divisa dell'esercito americano. E' ammirevole come sempre nell'opera di Angelopoulos il modo di collocare nello spazio figure indimenticabili: la ragazza sottile e leggera, i bambini di pessimo umore, ma anche i musicisti sempre in cappotto, cappello, ombrello, anche gli uomini che piangono, sopraffatti dalla desolazione.

«L’amore sfida la storia»
Angelopoulos: credo ancora nell’utopia
di Fulvia Caprara


ROMA. All’indomani delle elezioni che hanno sconfitto i socialisti del Pasok e portato al potere il centrodestra di Costas Karamanlis, il maestro greco Theo Angelopoulos non ha mutato le sue convinzioni: «Gli uomini sono sempre andati avanti con le piccole e grandi utopie. E non poteva essere che così, altrimenti ci sarebbero centinaia di suicidi ogni giorno». Questo per dire che, anche se oggi si trova tra gli sconfitti, l’autore di opere come «La recita», «L’apicoltore», «Lo sguardo di Ulisse», mantiene salde le sue convinzioni e continua a chiedersi, come faceva Marcello Mastroianni nel «Passo sospeso della cicogna», «con quali chiavi sia possibile aprire le porte del sogno collettivo». Una di queste è certo la poesia, strumento fondamentale usato anche in quest’ultima trilogia cinematografica di cui, dopo l’anteprima alla Berlinale, arriva adesso in Italia il primo capitolo, intitolato «La sorgente del fiume». Con i tre film, che si snodano dal 1919 ai giorni nostri, l’autore offre «un riassunto poetico del secolo appena concluso» scegliendo come filo conduttore la forza dell’«amore che sfida il tempo» e «rivendica l’assoluto».

Come interpreta il risultato del voto nel suo Paese?
«C’era da aspettarselo: facendo vincere la destra, la Grecia ha seguito l’esempio della maggior parte dei Paesi d’Europa. Ho votato a sinistra e sono legato, anche sentimentalmente, alla sinistra, ma ho l’impressione che abbia perso perchè, in questa fase, non ha più le parole per fare un discorso nuovo sull’avvenire del mondo. E’ come se si fosse ammutolita e, quando questo accade, le tesi si sbriciolano e si fanno largo i manager. Per questo oggi viviamo nell’epoca dei manager».

Qual è la sua visione del secolo descritto nella trilogia?
«Nella prima parte si assiste ad eventi come l’ascesa del fascismo in Grecia, in Spagna, in Italia, si affermano le dittature e si afferma il comunismo, ma, la cosa singolare è che, in questo secolo di enormi catastrofi e delusioni, ci sono sempre state anche grandi speranze».

Lei ha scelto di parlare della storia con la «S» maiuscola attraverso le vicende di una famiglia e di una coppia. Se avesse avuto a disposizione un budget più elevato, avrebbe girato più battaglie e in modo più epico?
«Al centro della mia storia c’è una donna che attraversa gli avvenimenti del secolo. Perciò il film non è la storia del secolo, ma la storia di lei dentro gli eventi che l’hanno caratterizzato. Quanto al modo con cui ho girato le scene dei conflitti posso dire che il mio non è un film realistico. Anche nella “Recita”, dove era molto presente Brecht, così come il teatro cinese e giapponese, la rappresentazione della guerra è solo indicativa, anzi, ne è un’imitazione. Se volete vedere un vero film di guerra, e non solo, vi consiglio “La sottile linea rossa”, veramente bellissimo».

Il protagonista è un musicista, perchè ha scelto proprio questo mestiere?
«I personaggi al centro delle mie storie sono quasi sempre artisti, registi, scrittori, attori, apicultori, un lavoro che di sicuro contiene una forma d’arte. Credo si tratti di mestieri speciali, insoliti, gli artisti sono persone abituate a lavorare con il nulla, con l’aria».

Nel suo film ci sono riferimenti autobiografici e alla tragedia greca: in che misura?
«Ci sono molte cose di mia madre e della mia famiglia che, proprio come la Grecia, si è trovata a dover vivere spaccata in due parti. Naturalmente ci sono agganci all’”Edipo Re”, ai “Sette contro Tebe” e, soprattutto nel finale, all’”Antigone”».

L'Unità 9.3.04
«La sinistra perde perché è muta»
Parla il regista Anghelopulos dopo la vittoria dei conservatori in Grecia
stralci dall'intervista curata da Gabriella Galluzzi


(...)
è appena arrivato da Atene domenica ha votato per la coalizione di sinistra, Synaspismos, che ha appena superato lo sbarramento del tre per cento

Secondo lei perché la sinistra continua a perdere?

«Perché da tempo ormai le mancano le parole che parlano del futuro, dell'avvenire del mondo. La sinistra ormai è muta. E lo dico da uomo di sinistra che, seppure non sappia bene cosa significhi oggi nella confusione generale, si sente mentalmente a sinistra. Quando finiscono le parole che parlano di speranza, quando i sognatori tacciono, allora arrivano i manager. Ed oggi viviamo in un'epoca dominata dai manager. Nel mio film, Il passo sospeso della cicogna Marcello Mastroianni dice una frase a questo proposito: "con quali parole si potrà aprire la porta per un nuovo sogno collettivo?"
...
Nessuno propone scelte radicali, ma soltanto piccoli assestamenti. Chessò, si parla di aumentare le pensioni del due per cento. E questo può coprire soltanto dei piccoli buchi, ma non basta per colmare il vuoto di una prospettiva politica»

(...)

L'utopia è morta senza appello?

Sa bene come si intitola il secondo episodio della mia trilogia? La terza ala e racconterà dalla morte di Stalin del '53 fino alla guerra del Vietnam [l'ultimo episodio descriverà dalla caduta del muro di Berlino fino ai giorni nostri]. Il titolo è ispirato ad un poemetto che racconta di un angelo che cammina nella confusione e nel frastuono degli uomini fino, ad un certo punto, ad arrivare a toccare il fango con la terza ala, appunto.Cioé l'utopia, l'impossibile. L'umanità va avanti solo attraverso piccole e grandi utopie. Senza di queste non si potrebbe andare avanti e ci sarebbero soltanto suicidi»