lunedì 4 aprile 2005

il Paese è in lutto

La Stampa 3 Aprile 2005
GEGÉ, IL GRANDE PERCUSSIONISTA DI CAROSONE

Muore Di Giacomo il re della batteria

NAPOLI. È morto, all'età di 87 anni, Gegè Di Giacomo. Poeta del tamburo, batterista fantasista, nipote del sommo Salvatore, fu al fianco di Renato Carosone negli anni del suo successo internazionale, contribuendo in maniera determinante all'affermazione di uno stile canoro ironico e contaminato, lontano dalla melassa melodica imperante. I suoi sketch, la sua fantasia iconoclasta e il suo urlo di battaglia «canta Napoli» sono entrati nella storia della canzone napoletana ed italiana. I funerali di Di Giacomo sono stati celebrati ieri mattina nella chiesa di San Giacomo degli italiani a Poggioreale tra i presenti con la sorella Giovanna, i nipoti Carlo Alberto e Manrico anche il presidente della Regione Campania Antonio Bassolino e Nunzio Gallo. A Gegè sarà dedicata il 21 settembre 2005 all'Arena Flegrea di Napoli la quarta edizione del Premio Carosone.
Classe 1918, nonno poeta, padre fine dicitore, le sorelle cantanti, Gennaro Di Giacomo inizia a dieci anni a suonare la batteria. Lavora al cinema Sansone, una sala napoletana di quarta categoria, dove era stato ingaggiato nella piccola formazione orchestrale incaricata di eseguire dal vivo, era l'epoca del muto, le colonne sonore dei film proiettati. Qui Gegè imparò l'arte di inventare suoni e rumori da ogni cosa che si potesse percuotere. Il nome di Gegè Di Giacomo è indissolubilmente legato a quello di Renato Carosone.
I tratti del carattere del grande percussionista si possono facilmente evincere proprio nelle parole di Carosone, che racconta (nell'autobiografia «Un Americano a Napoli): «Con Peter Van Wood provavamo all'hotel Miramare, aspettando di conoscere il nostro nuovo compagno di lavoro. Si presentò Gegè Di Giacomo, il padre di tutta la futura stirpe dei percussionisti-poeti della scuola partenopea (da Tullio De Piscopo a Toni Esposito, Toni Cercola, Rosario Jermano, Giovanni Imparato, Arnaldo Vacca, Peppe Sannino, Prince Hobo, Ciccio Merolla, Maurizio Capone...). Io e Peter non capivamo come quel buffo giovanotto con gli occhiali appannati volesse aggiungersi alla nostra jam session: non aveva con sé la batteria, l'aveva portata a cromare, sono sue testuali parole, «perché si era ossidata dopo la stagione estiva, colpa della salsedine», ma tanto lui poteva suonare lo stesso, sosteneva. «E come?», gli chiesi incuriosito della sua pietosa bugia o della clamorosa intempestività di quella sua scelta, squadrandolo dalla testa ai piedi, che non ci voleva molto. Tomo tomo, Gegè andò dietro il bancone del bar, si impossessò di un vassoio, una sedia di legno, tre bicchieri "intonati" diversamente con un po' d'acqua e un paio di forchette e via, bum, bum, bum. Eccolo, il suono che stavo cercando. Gegè davvero non aveva bisogno della batteria, poteva suonare qualsiasi cosa, far suonare qualsiasi cosa».


Il Mattino 2.4.05
Addio a Gegè, poeta dei tamburi di «canta Napoli»
Federico Vacalebre

Napoli. (...) da bambino a Gennaro Di Giacomo toccò dividere la batteria con il fratello (Pino suonava il rullante, lui cassa e piatti) prima di averne una tutta per lui a 10 anni e di essere assunto al cinema Sansone(...): Gegè inventava suoni, rumori e trovate che gli sarebbero presto tornati utili. In locandina c’era «La grande parata», film sulla prima guerra mondiale? Quando sullo schermo appariva un aeroplano lui doveva usare un tamburello con una leva da girare per simularne il rombo, un colpo di cassa imitava lo scoppio di una bomba, il rullante la mitragliatrice, un lungo fischio la sirena dei bombardamenti. Nel finale qualcuno gridava «Viva Savoia» e aerei, mitragliatrici, bombe, sirene, fucili e cannoni dovevano far sentire tutti insieme la propria voce. Avvilito e quasi in lacrime, Gennarino si lamentò con il proprietario del cinema: «Don Luigi, io ’a guerra ’a sulo nun ’a pozzo fa». Poi con un gruppo di scugnizzi del quartiere mise in piedi un irresistibile campionario di spari, rombi ed esplosioni. Bastava che urlasse «Guagliu’ sfugate» perché la sala si ritrovasse in prima fila al fronte. Nasceva così la sua pirotecnica concezione del ritmo, figlia di un’arte dell’arrangiarsi elevata alla massima potenza, di una clownerie antica e irresistibile che il 18 ottobre 1949 incontrò i partner ideali dopo essere stato al servizio delle orchestre di Gino Campese, Nello Segurini, Armando Del Cupola e Gino Conte. (...) Il merito dello straordinario successo internazionale di Carosone va diviso con Gegè e Nisa. Cantautorato di gruppo, si è scritto, sottolineando la spontaneità fulminante di Di Giacomo: le trovate dell’omino piccino picciò sono diventate parte integrante del canzoniere dell’americano di Napoli. Composto un brano, la coppia Carosone-Salerno lo passava nelle mani di Gegé, che lo trasformava in una gag, usando filastrocche, nonsense, oggetti-feticcio (pistole, campanelli, fischietti, clacson), le vocine di «E la barca tornò sola». Gli bastava un nulla per definire un personaggio, farsi macchietta, fungere da io narrante della canzone: una penna da indiano per «’O pellirossa», un turbante per «Caravan petrol». «Una sera, al Caprice di Milano, volevo un’atmosfera speciale per introdurre “La pansé”, florilegio di doppi sensi vietato alla radio nella versione maliziosa di Beniamino Maggio», ricordava ancora Carosone, «e Gegè improvvisamente urlò: “Canta Napoli, Napoli in fiore”. Aveva trovato il suo grido di battaglia, la sigla del nostro sestetto». Canta Napoli, Napoli in farmacia, Napoli matrimoniale, Napoli petrolifera... Uno spettacolo nello spettacolo, nei night il tavolino vicino alla postazione del batterista era il più richiesto, i camerieri si arricchivano con le mance incassate per riservarlo. Dopo il sorprendente addio di Carosone alle scene nel 1959, Di Giacomo si lanciò per un po’ nell’avventura solista, affacciandosi a qualche festival di Napoli (nel ’61 con «Tutt’’a famiglia», terza classificata, e «Pi-rikì-kukì», l’anno dopo con «Chin’’e fuoco» e «’O monumento») e mettendo in piedi un proprio gruppo per continuare a dispensare ritmo e buonumore tra assoli jazz, espedienti demenziali alla Spike Jones e humour sospeso tra Totò e i fratelli Marx. Ma il successo non fu travolgente e decise di ritirarsi anche lui, scendendo dal carrozzone del mondo dello spettacolo per non risalirci più, se si esclude un’apparizione al fianco dell’amico di sempre Renato. «Voglio che la gente mi ricordi al meglio della mia forma, ai tempi del nostro quartetto e del nostro sestetto, quando eravamo davvero due ragazzi irresistibili», spiegava, «sono stato 40 anni a Milano, adesso sono tornato a Napoli perché non sto bene. Abito a Poggioreale... ma fuori». La sua ultima battuta. Nel 2003, già costretto sulla sedia a rotelle, ha ricevuto il Premio Carosone tra le pareti di casa sua e dalle mani del governatore Bassolino e dell’assessore Armato. I funerali si svolgeranno alle 11 nella chiesa di San Giacomo a Poggioreale: il silenzio di cantaNapoli sarà assordante.

Repubblica 3.4.05
IL RICORDO
Il percussionista Tony Esposito
"Un vero genio che ha ispirato la mia carriera"

«Quando lo vidi scendere dallo sgabello della batteria con le bacchette in mano e poi suonarle sui tavoli, sui bicchieri e sul pavimento ricordo di aver pensato: "ecco cosa voglio fare nella vita"!». Così Tony Esposito ricorda Gegè Di Giacomo, come appariva nei tanti show dell'Italia televisiva in bianco e nero. «Ero un bambino ma ne rimasi segnato. Nessuno aveva lo mai fatto prima e nessuno lo ha più fatto dopo. C'era qualche grande batterista jazz come Gene Krupa che giocava acrobaticamente con le bacchette, ma Gegè era molto di più: le sue erano vere e proprie performance, si era ritagliato uno spazio spettacolare tutto suo, con quell'aria buffa che lo faceva somigliare più a un ginecologo che a un musicista. Se io ho sperimentato suonando padelle e altri strumenti poco ortodossi lo devo interamente a lui», prosegue Esposito. «L'ho incontrato più d'una volta: l'ultima è stata una quindicina d'anni fa, in un locale della Costiera dove Di Giacomo si esibiva quasi in incognito. Credo avesse dei problemi alla vista. "Meno male che non sono un pianista", mi disse. "I tamburi sono molto più grandi dei tasti del pianoforte: difficile non vederli". Perché a un certo punto ha dato le spalle alla celebrità? La musica è uno spazio misterioso, posso capire che la si voglia coltivare nell´intimo della propria solitudine».
Gegè non lascia eredi, soltanto qualche allievo. Come Maurizio Capone, anche lui napoletano, che con il suo gruppo Bungt&Bangt ha portato in scena il suono di scatole, lamiere, "scarti post-industriali" come li chiama lui e altri oggetti. «Nel 2003 all'Arena Flegrea, in occasione del Premio Carosone, abbiamo eseguito "E la barca tornò sola" in suo onore. È stato il primo vero percussionista in senso lato, un innovatore sia come strumentista che come uomo di spettacolo: quando Gegè appariva accanto a Carosone lo sguardo cadeva su di lui, era capace di rubare la scena al suo leader. Aveva ironia, dava dei significati forti a quello che faceva: nel suo gioco e nella sua semplicità riusciva a rompere gli schemi, che negli anni Cinquanta erano molto rigidi. E' stato un guastatore, una sorta di punk ante litteram».
(a.t.)

Repubblica ed. di Napoli 2.4.05
La scomparsa a 87 anni di Di Giacomo, alter ego del grande Renato Carosone
Il ritmo perde il suo padrone la musica dà l'addio a Gegè
Ironico ed elegante contribuì alla rivoluzione della batteria. Con lui il suono divenne sperimentazione
La morte di Di Giacomo che con Carosone cambiò la musica italiana
Addio Gegè, signore del ritmo

ANTONIO TRICOMI

Ogni oggetto ha il suono. La musica si può nascondere ovunque: dentro una sedia, un bicchiere, una mattonella. Basta saperlo. Basta essere in grado di tirarla fuori. Gegè Di Giacomo, l'uomo che più di tutti ebbe questa capacità, è morto a 87 anni e ha salutato ieri mattina amici e parenti nella chiesa di San Giacomo degli Italiani a Poggioreale. Era malato da anni. E da anni aveva rinunciato alle luci della ribalta: devoto alla famiglia e ai suoi ricordi di gioventù, legato fraternamente al suo leader Renato Carosone.
E c'è chi giura che Gegè ha cominciato a spegnersi quattro anni fa, quando a lasciare per sempre la scena fu il suo amico di sempre, il genio elegante della canzone napoletana.
Negli anni Cinquanta il mondo sembrava appartenere a loro. Renato e Gegè (ossia Gennaro, nipote di Salvatore Di Giacomo) sono due musicisti ricchi di talento e di successo. L'amicizia e la collaborazione ha inizio nel dopoguerra: Renato, pianista di formazione classica ma anche compositore e cantante, è appena tornato dall'Africa. Nella sua lunga permanenza ha acquisito familiarità con altri ritmi e altre suggestioni: musica del mondo, si direbbe oggi. Ma nella mente e sulla punta della dita corre anche altro: il jazz, la classica, la melodia partenopea.
Tutto è pronto per quella rivoluzione gentile che rivolta l'Italia canora come un guanto, con le armi dell'ironia e dell'irriverenza. Ma Carosone ha bisogno di complici: di una band, si direbbe sempre oggi, per dare l'assalto alla roccaforte della canzone italica ingessata nelle colombe bianche che volano, nei papaveri e nelle papere, nelle mamme che son tutte belle, nelle barche che tornano sole. Gegè si aggiunge per ultimo a Renato il pianista, Peter Van Wood il chitarrista, Nisa il paroliere. Carosone cerca un batterista ma trova molto di più. Un virtuoso capace di suonare, ma suonare davvero, qualunque cosa. Nel bel mezzo di un concerto Gegè è solito alzarsi dalla batteria e con le bacchette percuotere qualunque cosa incontri: l'asta del microfono, i tavoli e le sedie, i piatti e i bicchieri, la testa dei suoi compagni, il pavimento. Tornando poi al suo posto, dietro i tamburi. Senza interrompersi. È quello che ci vuole per dare uno scossone all'impettita musica leggera, ma leggera si fa per dire, di quegli anni Cinquanta in bianco e nero. Musicisti seri che non si prendono sul serio. Con Gegè che ruba regolarmente la scena a Renato per cantare (sua la voce solista in "Caravan Petrol") e non solo. Diventa celebre il richiamo "Canta Napoli" con cui introduce di volta in volta i brani. Ed è la Napoli "petrolifera" per "Caravan Petrol", "in fiore" per "La pansè", "in farmacia" per "Pigliate ‘na pastiglia". Per non dire della feroce messa alla berlina dello stucchevole successo di Gino Latilla "E la barca tornò sola", che la Carosone Band riprende integralmente avvalendosi però dei sarcastici interventi di Gegè, con i tormentoni "e a me che me ne importa" e "mare crudele, mare crudele".
Un´avventura durata dieci anni. Poi Carosone si ritira, nel 1959, al culmine del successo: motivi familiari, un voto o chissà cosa, le voci corrono. Tornerà nel 1976 e intanto è Gegè a essere sparito dalle scene, dopo aver tentato con scarsa fortuna la carriera solista. Negli anni Novanta si ammala e Renato, l'amico di sempre, scrive per lui "Addò sta Gegè" che non sarà mai incisa e verrà alla luce soltanto nel 2003, per merito di Van Wood e del direttore del Premio Carosone, Federico Vacalebre.
«Tu tieni un amico
un buon amico
e chist'amico
'nu juorno te lassa…'E strade se spartono
e ognuno 'e nuje
va p' 'o destino
che sta scritto…Un buon amico
è semp'amico
comme 'nu mutivo antico».
Mentre scrive questi versi, nella sua casa romana, Renato teme per Gegè, che invece gli sopravviverà di quattro anni. «Mi considero un suo adepto», ricorda Renzo Arbore. «È un modello per tutti noi, ci lascia una grande eredità: l'idea che si può fare musica con humour, che l'ironia e la semplicità resistono al tempo e alle mode».
A Gegè Di Giacomo sarà dedicata la quarta edizione del Premio Carosone, che si svolgerà il 21 settembre all'Arena Flegrea.



...intanto sabato sera a Roma, alle 21.37, è morto anche, dopo lunga malattia e all'età d 85 anni, il cittadino polacco Karol Wojtyla, immigrato nella capitale dal 1978. Anche la sua morte ha suscitato alcuni commenti sulla stampa e sulle televisioni.

la Cina è l'argomento del giorno
e Valerio Massimo Manfredi ipotizza relazioni con l'antica Roma

Il Mattino 3.4.05
La Cina è l’argomento del giorno
Valerio Massimo Manfredi

La Cina è l’argomento del giorno, il problema del giorno,l’incubo del giorno, oppure il futuro, la grande opportunità, a seconda dei punti di vista. Diceva Churchill, «Lasciamo che il drago cinese dorma perché quando si sveglierà farà tremare il mondo». Ora il drago si è svegliato e tutti gli occhi sono puntati su di lui. L’«Economist» gli dedica la copertina, «Time» ha fatto lo stesso di recente e si può stare sicuri che le cose continueranno così. C’è chi si chiede se esistano risorse e materie prime bastanti sul pianeta per alimentare lo sviluppo di un colosso da un miliardo e trecentomila persone (cui va aggiunto un miliardo di indiani anch’essi in sviluppo rampante). C’è chi si chiede dove arriverà il prezzo del petrolio e delle materie prime che i cinesi cercano di accaparrarsi a qualunque prezzo e se questo non finirà per provocare tensioni micidiali e guerre, così come è sempre successo nel passato. C’è chi fa presente che fra dieci anni la Cina avrà quindici milioni di ingegneri e un arsenale militare da far paura, con lo stolto contributo dell’Unione europea che per un pugno di euro rinuncia a un principio fondamentale di rispetto delle libertà individuali da esigere a tutti i costi e da tutti. E finalmente c’è chi considera che in molte realtà economiche cinesi si lavora 60 ore la settimana (con buona pace delle trentacinque ore di Bertinotti) per trenta dollari al mese e che su questa base nessuno può riuscire a batterli, nessuno può permettersi di sfidarli senza uscirne con le ossa rotte. Ma perché la Cina è così formidabile? Come è possibile che tanti milioni di persone accettino di lavorare pazientemente, instancabilmente per così poco e con tanta disciplina? Le ragioni sono molteplici e complesse e certo il ferreo centralismo comunista ha il suo peso, ma non è tutto. Fondamentalmente ciò avviene perché la Cina è antichissima, omogenea e compatta. La sua civiltà, di fatto immutata, resiste da circa cinquemila anni, la sua lingua, il suo sistema di scrittura secondo alcuni risalirebbero addirittura al neolitico. Le sue dinastie imperiali si sono succedute ininterrottamente per venticinque secoli. È come se l’Impero romano avesse superato le crisi delle invasioni barbariche e l’ultimo Cesare fosse stato deposto non nel 476 dopo Cristo ma nel 1936 (controllare) non per mano di invasori stranieri, ma per una evoluzione della politica interna. Come se oggi si parlasse ancora latino in tutto il bacino del Mediterraneo fino all’Inghilterra e al golfo Persico, come se l’Impero romano si preparasse a tornare una superpotenza mondiale, se non l’unica. Ciò che ha consentito un simile sviluppo e una simile longevità è stata una incredibile ricchezza in gran parte basata sull’agricoltura. Per avere un’idea si pensi che in una sola tomba della dinastia Han il corredo funebre era fatto di sette tonnellate di oggetti di bronzo, più del doppio di quanto sia stato trovato in tutte le tombe etrusche fino ad ora scoperte. La tomba del primo imperatore unitario Qin Shi Huangdi era vigilata da un esercito sotterraneo di ottomila guerrieri di terracotta. Il tumulo, tuttora inviolato, è ottanta metri di altezza e seicento di diametro. È probabile che il corredo che contiene sia al di là di ogni immaginazione. Il problema dell’invasione di prodotti cinesi in occidente non è di oggi. Già l’imperatore romano Tiberio nel primo secolo lamentava l’emorragia di denaro per l’acquisto della seta, denaro che in buona parte finiva nelle tasche degli intermediari persiani ma le sue reprimende non approdarono a nulla, le spese voluttuarie continuarono come prima. C’è da chiedersi che cosa sarebbe successo se i due imperi fossero entrati in contatto diretto: forse sarebbe cambiato il corso della storia. Troppo lontani per competere avevano tutto l’interesse a collaborare e in un certo senso ci andarono vicino. Essi infatti sapevano l’uno dell’altro, Nella Tabula Peutingeriana, una mappa del mondo antico giunta fino a noi , è rappresentata la Sera Maior, ossia la Cina. E nelle fonti cinesi l’Impero romano è menzionato con il nome di Taqin Guo, il Paese dell’Occidente. Si sa che un maresciallo cinese, Ban Chao, fratello di un grande storico, giunse fino al Mar Caspio e di là lanciò un’ambasceria guidata da un funzionario di nome Gan Jing per prendere contatto con l’imperatore dei romani. Gan Jing giunse fino a due giorni di cammino dalla frontiera, ma quando le sue guide persiane si resero conto dello scopo della sua missione lo depistarono, lo spaventarono con racconti di ostacoli insuperabili e lo convinsero a tornare indietro. Si sa anche che nel secondo secolo dopo Cristo un viaggiatore romano chiamato Qin Lun nelle fonti cinesi giunse alla corte imperiale e fece una relazione completa sull’Impero dei Cesari che purtroppo è andata perduta. Il suo contenuto sarebbe di eccezionale interesse. L’ultima e più clamorosa notizia è stata rilanciata di recente: un gruppo di soldati romani, forse scampati al massacro delle legioni di crasso a Carre nel 53 avanti Cristo sarebbe giunto, alcuni anni dopo, al confine occidentale della Cina lungo il fiume Talas. L’imperatore Yuandi avrebbe loro concesso di fondare un insediamento che era noto ancora un secolo dopo con il nome di Lijan, un termine che secondo alcuni significherebbe «legione». Altri invece pensano che derivi da Alexandria il termine con cui i cinesi denominavano qualunque insediamento occidentale a occidente dei loro confini. L’ipotesi fu avanzata da Homer Dubas, professore a Oxford, nel 1942 e ripresa ultimamente da ricercatori cinesi e australiani che avrebbero trovato indizi della presenza romana nei pressi dell’antica Lijan e addirittura caratteristiche «occidentali» nella popolazione locale. L’ipotesi è molto audace e certamente necessita di prove più consistenti ma i cinesi sembrano averla sposata in toto. Hanno addirittura eretto una specie di padiglione simil-classico e statue di legionari all’ingresso del villaggio.

storia dell'uomo
antiche navi egiziane, forse di 3500 anni fa

Le Scienze, aprile 05
Antiche navi egiziane
Potrebbero aver fatto parte della flotta della regina Hatshepsut

Un team di archeologi ha annunciato di aver trovato in due grotte sulla costa egiziana del Mar Rosso i primi resti finora recuperati di antiche navi egiziane per la navigazione marina. Presso lo stesso sito i ricercatori hanno anche trovato frammenti di ceramica che potrebbero aiutare a risolvere alcune controversie sull'estensione dei viaggi commerciali degli antichi egizi. Ma i dettagli del ritrovamento restano ancora vaghi.
Kathryn Bard dell'Università di Boston, che ha diretto gli scavi insieme al collega italiano Rodolfo Fattovich nel dicembre 2004, ha rivelato alla newsletter settimanale della propria università che il team ha trovato molti oggetti, fra i quali legname e corde, all'interno delle grotte artificiali situate presso il sito archeologico costiero di Wadi Gawasis. Secondo la ricercatrice, le ceramiche rinvenute potrebbero risalire a una celebre spedizione navale della regina Hatshepsut nel 15esimo secolo a.C. verso la misteriosa terra di Punt dove veniva prodotto incenso. Questo viaggio è descritto in dettaglio nei bassorilievi del tempio di Hatshepsut sulla riva ovest del Nilo, vicino alla moderna Luxor.

il medioevo

La Gazzetta del Sud 4.4.05
Analizzate le ragioni del successo che quel periodo storico incontra nel mondo contemporaneo
Il fascino discreto del Medioevo
Dalla magia ai Templari, dai giullari alle dame di corte
Salvatore Tramontana

I diversi elementi che stanno alla base dei libri di storia si amalgamano in un prodotto editoriale che non sempre va incontro alla curiosità e alle esigenze di quanti cercano nella storia un fattore di identificazione. Di quanti, cioè, scrive Philippe Ariès, chiedono alla storia anche ciò che hanno «domandato in ogni tempo alla metafisica, e non prima di ieri alle scienze umane»: vogliono appunto una storia che riprenda i temi della riflessione filosofica, ma collocandoli nella durata e nell'ostinato rinascere delle imprese umane. Ogni libro, certo, ha la sua identità e la sua più o meno spiccata capacità di dialogare coi lettori, e in tal senso un testo di storia è tanto più valido quanto più riesce a creare legami col mondo che lo circonda. Nel quale, in questi ultimi tempi, sembra via via accentuarsi la disponibilità verso i problemi del passato specie per quel che si riferisce alla vita di ogni giorno, e innanzitutto alle relazioni fra popolazioni e risorse, fra popolazioni e controllo delle forze e dei processi naturali. Ma anche alle questioni della sessualità, della criminalità, delle devozioni popolari, della mentalità religiosa, vale a dire ai problemi del quotidiano e dell'immaginario, cioè del non cosciente collettivo che, specie nella storia medievale, hanno ormai da tempo ritrovato ampio spazio. Oggi il Medioevo è dappertutto, afferma con enfasi Horst Fuhrmann nel volume pubblicato nel 1995 a Monaco e che ha appunto per titolo «Überall ist Mittelalter». Lo si coglie di continuo in tanti propositi di intimità e di approfondimenti morali, nell'emergere della società di fronte allo Stato, nella sempre più accentuata privatizzazione della guerra e anche della sicurezza e nel moltiplicarsi delle polizie private, nell'ossessione per l'ordine dei Templari, nel richiamo, pure in termini politici, alla dimensione misteriosa e magica dei Celti, nella presenza di bande di giovani che, come nel secolo XIII spinti dal «rifiuto viscerale di una società arroccata nei suoi vizi e nei suoi privilegi», quasi terroristi ante litteram , cercano - scriveva Luigi Malerba in un articolo sul "Corriere della Sera" - una conferma «del proprio disadattamento nell'associazione con altri disadattati». L'onnipresenza del Medioevo, scrive infatti Fuhrmann, comincia nella vita quotidiana dal «buongiorno», dal saluto che nel Medioevo, con l'espressione «Dio ti dia un buongiorno», si era sostituito all'ave o al vale dei romani. Ma si riscontra nel sempre più frequente uso, nei caratteri a stampa di libri e manifesti, di forme grafiche gotiche, onciali, semionciali, nella persistenza del celibato del clero cattolico, nelle ideologie di movimenti politici che riconducono le proprie radici ai simboli rappresentati dallo scontro fra particolarismo della Lega lombarda e potere centrale di Federico Barbarossa, in una diffusa e istintiva paura verso la Germania, che il subconscio di tanti europei considera ancora impegnata nel raggiungimento di una superiorità di diritto sugli altri popoli. Come appunto nel Medioevo, quando il re di Germania diveniva anche imperatore del Sacro romano impero, cioè dell'Occidente cristiano, secondo una prassi che non sembra trovasse riscontro nell'ordinamento del tempo. «Chi ha fatto i tedeschi giudici degli altri popoli?», si chiedeva infatti nel 1160 il cronista inglese Giovanni di Salisbury, e aggiungeva: «Chi ha dato a questi uomini maldestri e feroci una tale influenza che essi nominano a volontà il capo dell'umanità?». Abitudini, richiami più o meno inconsci, paure, desideri, angosce, registrano certo la persistenza di un'eredità ancora viva, anche se disuguale e sfuggente e per certi versi sterile e persino dannosa, ma testimoniano, a un tempo, un'immagine del Medioevo che, più che un problema di cultura, finisce per essere un fenomeno di massa. Cioè un Medioevo della cultura comune, anzi dell'acculturazione, che si riscontra nella letteratura, nel teatro, nel cinema, nei fumetti, nella televisione, nel giornalismo. Un Medioevo appiattito su una dimensione fantastica, e fatto, scrive Franco Cardini, «di molti castelli, pochi monasteri e nessuna città: di molti baroni, cavalieri, malvagi guerrieri e splendide dame, ma di pochi poveri contadini e di quasi nessun banchiere e mercante; di molta magia ma di poca scienza e di una tecnologia ora improbabilmente informatizzata, ora inesistente». Insomma, un Medioevo le cui principali fonti non sono neppure Chrétien de Troyes o Wolfram von Eschenbach bensì Walter Scott, la pittura di William Morris e il romanzo gotico. Un Medioevo che anche la scuola ha, talvolta, contribuito a diffondere attraverso un insegnamento del quale Leonardo Sciascia offre incisiva testimonianza in un suo personale ricordo. Del Medioevo, egli dice, nelle menti dei bambini che con lui frequentarono le elementari, «restavano per sempre un concetto e un nome. Il concetto era quello dell'invasione, fatto terribile e quasi contronatura, violenza e repressione, perdita di identità, terra bruciata, carestia. Il nome era, grazie a Giulio Cesare Croce e al suo Bertoldo, quello di Alboino, re dei longobardi». Certo, l'insegnamento della storia nel primo ciclo non è più quello della scuola elementare frequentata negli anni 1926-30 dallo scrittore siciliano, ma l'immagine che del Medioevo ha la società di oggi continua a essere quella di un modello da esecrare o da rimpiangere. Un modello visto da alcuni come luce, come civiltà, come rigenerazione, da altri come tenebre, oscurità, intolleranza, brutale violenza, barbarie, al cui contesto, secondo il noto volume di Roberto Vacca, saremmo condannati a ritornare a causa del sempre più diffuso inquinamento e del collasso tecnologico. A tal proposito non è superfluo citare Umberto Eco che, in un dibattito con Paolo Flores d'Arcais pubblicato su «Civiltà delle macchine», sottolineava la responsabilità di taluni ambienti progressisti e dei sostenitori della «metafisica ecologica» per aver contribuito, con una certa immagine delle società capitalistiche e dei loro modi di vita, al progressivo radicarsi, nell'animo di molti, di un irreversibile precipitare verso il Medioevo prossimo venturo. Un Medioevo allora «come ricerca di ecologia materiale e spirituale? Come impegno, scrive Vittore Branca, a ritrovare istinti, sentimenti, valori ben schietti e motivi da persona umana e non da società massificata?». Nella rivista «Quaderni medievali», che fin dal primo numero riserva una sezione a L'altro Medioevo, si possono cogliere non solo testimonianze ragionate dell'immagine di un Medioevo offerto, decodificato, volgarizzato, spesso deformato, ma anche risposte persuasive dell'immagine speculare e dei meccanismi di informazione che lo producono. E basti scorrere le pagine della rivista per rendersi conto che il Medioevo è un punto costante di riferimento anche da parte di chi con la medievistica non ha rapporti di studio e di ricerca. Ne offre fra l'altro immediata conferma l'abituale e spontaneo ricordo del giornalismo scritto e televisivo al termine Medioevo e all'aggettivo medievale per esprimere gli aspetti più retrivi, più incivili, più nefasti della nostra società. Un Medioevo dunque triplice nella sua immagine: visto da alcuni come l'espressione del «non moderno», dell'oscuro, dell'apocalittico, della fame, delle malattie, dell'insicurezza; da altri come l'anticipazione di quanto avrebbe avuto compimento nell'età moderna: le città, le università, i parlamenti, le cattedrali, le banche, le cambiali, la prospettiva in pittura, il mondo cortese; da altri ancora come l'epoca in cui disfunzioni e ingiustizie venivano sanate dal cavaliere vitale e forte che usava le saette della santa violenza per risolvere i contrasti e riportare la pace nei cuori. E il cavaliere con la sua epopea è l'affascinante e rassicurante simbolo archetipo di quanti, richiamandosi appunto al Medioevo, considerano questo periodo l'età della cavalleria, della tavola rotonda, della lotta fra bene e male, fra Occidente cristiano come espressione di cultura e civiltà di un'epoca e Oriente islamico come sintesi di forze demoniache e magiche da distruggere e da disperdere o, al più, da rieducare e convertire.

storia dell'uomo
i Celtiberi, gli antichi spagnoli

La Provincia 4.4.05
Celtiberi, gli spagnoli nella storia
Viaggio tra gli antichi popoli dell'Europa: così i Romani chiamavano gli abitanti della penisola iberica
Numanzia era la loro capitale e base militare: ci vollero ben 15 estenuanti mesi di assedio per espugnarla
Iole Fargnoli


Gli antichi abitanti della Spagna erano chiamati dai Romani Celtiberi. Il termine Celtiberi, secondo lo storico greco Diodoro Siculo, deriverebbe dalla fusione dei nomi dei due popoli che risiedevano nell'antica Spagna, gli Iberi e i Celti, che combatterono tra loro a causa del territorio, ma, una volta pacificatisi, si sposarono tra loro e ricevettero una denominazione comune. Ma forse Celtiberi sono semplicemente quei Celti che arrivarono nella penisola iberica intorno all'800 a.C., provenendo dal Reno in massa con i loro carri e le loro famiglie, e che colonizzarono la Catalogna, la regione aragonese e in una seconda penetrazione anche l'Andalusia. I Romani li incontrarono per la prima volta nel 218 a.C., quando, per arrestare l'espansionismo cartaginese, sbarcarono in Spagna nel 218 a.C. nell'attuale città di Ampurias, fondata dai Greci sulla costa occidentale, e si trovarono di fronte un vero e proprio mosaico etnico-culturale. Era l'impervia orografia a rendere difficili le comunicazioni e i rapporti e a favorire la divisione in distinte regioni geografiche. Mentre i Celti erano insediati nel centro-nord e in Occidente, le zone meridionali e orientali erano perlopiù occupate dai Tartessi e dagli Iberi. In realtà la penisola iberica, considerata nell'antichità l'ultima appendice a ovest del mondo conosciuto, aveva avuto insediamenti ancora più antichi. Di uno sconosciuto ceppo non indoeuropeo, giunto ancora prima delle ondate indoeuropee, la viva traccia tangibile è oggi la lingua basca parlata nei Paesi Baschi che, proprio rifacendosi alle loro antiche origini, rivendicano ferocemente la loro propria identità, ricorrendo persino - come è tristemente noto - alla violenza terroristica. Le fonti più precise sui Celtiberi sono quelle relative alle guerre di Numanzia (una città nella Spagna centrosettentrionale, poi rasa al suolo dai Romani), nel momento in cui nel II-I sec. a.C. la campagna militare consentì ai Romani di disporre di dati di prima mano. Numanzia era la capitale e base militare dei Celtiberi e i Romani ebbero bisogno di ben 15 estenuanti mesi di assedio per espugnarla. Nel 133 a.C. Scipione l'Emiliano ottenne - praticamente per fame - la resa di 8000 Celti, che preferirono però poi suicidarsi in massa piuttosto che consegnarsi ai Romani. Lo storico di età augustea, Livio, raccontava che i Celtiberi erano valorosi e amanti della guerra, che combattevano con ardore selvaggio e lucida follia e che consacravano la loro vita al capo, sapendo che non era ammesso sopravvivere a lui. Diedero molto filo da torcere ai Romani, che dovettero tribolare per ben due secoli prima di concludere la conquista della Spagna e ottenerne finalmente la pacificazione. Dipese forse anche da ciò l'opinione molto negativa che i Romani ebbero dei Celtiberi: si racconta che i sopravvissuti all'assedio di Numanzia fossero estremamente sporchi, coi capelli lunghi e che fossero selvaggi nel carattere, affatto abituati ad ubbidire agli ordini degli altri. Addirittura si dice che fossero dediti a pratiche di cannibalismo. Con la completa pacificazione della Spagna sotto l'imperatore Augusto la missione di Roma cessò di essere la conquista. Già Cesare per sistemare i veterani del suo esercito fondò le prime città romane, come Tarragona, Valencia, Cordoba e Italica. Augusto fece sorgere altre venti colonie nella penisola, come Merida e Saragozza, che eressero splendidi templi, spaziosi teatri, anfiteatri e terme. Convertiti in agricoltori i soldati romani sposarono le donne indigene, accelerando così l'acculturazione del territorio e l'assimilazione dei Celtiberi. Roma sfruttò i giacimenti minerari di argento, oro, piombo, rame e alabastro, collaborò nelle opere di ingegneria, favorì l'agricoltura e l'allevamento del bestiame. La romanizzazione degli ispanici fu tale che la Spagna diede a Roma personalità insigni come Marziale, i due Seneca e Quintiliano e persino degli imperatori come Traiano, Adriano e Teodosio. Ma non ovunque gli Ispanici si assimilarono ai Romani. Se la Betica, la costiera orientale, la valle dell'Ebro e l'Aragona assorbirono rapidamente la cultura di Roma, nei territori estremi del nord si sviluppò una duplicità culturale così profonda che l'appartenenza alla rete amministrativa dell'Impero e la lingua latina non impedirono la conservazione dei costumi celtiberi. Ancora oggi la comunità autonoma della Galizia (la capitale è Santiago de Compostela) rivendica tenacemente le sue origini celtiche, imponendo l'uso della lingua galiziana come lingua ufficiale accanto allo spagnolo nell'accanita rincorsa di una maggiore autonomia dal governo di Madrid.

i rischi dei farmaci

Il Sole 24ore, Sanità 4.4.05
Contro i rischi dei farmaci una rete europea di farmacisti ospedalieri

Effetti collaterali dei farmaci sotto stretta sorveglianza grazie a una rete di farmacie ospedaliere che punta a integrare i sistemi di farmacovigilanza nazionali, per meglio monitorare i medicinali più a rischio. Ma anche un 'Risk manager' negli ospedali che, attraverso nuovi strumenti di controllo, qualità e sicurezza analizzi i pericoli legati a ciascun medicinale per garantire più sicurezza ai pazienti. È la proposta dei farmacisti ospedalieri del Vecchio Continente, riuniti oggi e domani a Roma per il I convegno internazionale su molecole orfane e a rischio, "Current challenge in hospital pharmacy: the role of the pharmaceutical industry".
Un progetto, quello proposto dagli esperti europei, ancora in embrione ma che ha l'obiettivo ambizioso di migliorare gli standard di sicurezza dei farmaci. E il primo passo sarà quello di definire categorie omogenee di medicinali sulla base dei loro rischi potenziali. Alla fine dell'incontro romano, infatti, sarà stilato un documento comune sulle matodologie da adottare per tre categorie di farmaci 'sorvegliati speciali': molecole orfane, in sperimentazione e quelle ad alto rischio (di cui sono giá noti i potenziali effetti negativi sui pazienti).
Un caso particolare è rappresentato dai farmaci orfani, per la cura delle malattie rare, che, secondo gli esperti, necessitano di molta attenzione: la tutela dei pazienti deve essere massima e deve estendersi al controllo della distribuzione.
"Oggi - spiega Luigi Giuliani, presidente del congresso romano e direttore della farmacia dell'ospedale di Novara - molti 'orphan drugs' sono ordinati via Internet o attraverso esportatori esteri, modalità distributive non certificate che non dovrebbero essere consentite per i farmaci più a rischio e per quelli destinati a persone colpite da patologie rare".
In Europa, nonostante la situazione allarmante, manca ancora un'integrazione e un'armonizzazione dei sistemi di sorveglianza per la gestione, il monitoraggio e il controllo di molecole orfane, a rischio e in sperimentazione.
"L'obiettivo di questo incontro - ha detto Giuliani durante la conferenza stampa di presentazione del convegno in corso nella capitale - è dare un forte segnale alle istituzioni sanitarie di tutta Europa attraverso un documento di consenso sulla gestione del rischio in tre importanti aree: i farmaci orfani, con le implicazioni sociali, economiche, di qualità della produzione e legislative legate alle esigenze di cura di una minoranza. E poi la sperimentazione clinica, con l'impatto delle direttive comunitarie, le difformitá di applicazione, l'esigenza di eticità e sicurezza. Infine, la distribuzione dei farmaci ad alto rischio, con la particolare esigenza di monitoraggio".
Tra i farmaci a rischio gli esperti hanno ricordato il caso della talidomide, ritirata nel 1962. Ma nel 1998 la Food and Drug Administration statunitense ha ridato l'autorizzazione a patto che l'azienda titolare della licenza attivasse a proprie spese un programma di gestione del rischio specifico. In Europa, l'Emea mette in guardia contro i rischi di teratogenicità della molecola, affidando alle Agenzie nazionali il compito di sviluppare sistemi di sicurezza. Oggi la talidomide è impiegata prevalentemente nel mieloma multiplo, malattia che colpisce circa 2.500 italiani l'anno, soprattutto dopo i 65 anni.

uomini e topi
anche l'Unità...!

L'Unità 4.4.05
La risata del topo
e quella dell’uomo

Ridere, possono ridere solo gli uomini. Ma altri animali hanno espressioni simili e fanno rumori vicini a quelli delle nostre risate. Tra questi, scimmie e topi. Studiare le loro espressioni di divertimento potrà aiutarci a capire l'origine evolutiva del nostro ridere. Lo dice il psicologo americano Jaak Panksepp della Bowling Green State University in Ohio (USA) sull'ultimo numero della rivista «Science».
Panksepp e il suo gruppo si sono occupati della risata dei ratto, che emette dei suoni acuti alla frequenza di 50 kilohertz mentre sta giocando. Lo stesso tipo di suoni viene emesso dai topi mentre si fa loro il solletico. I circuiti neuronali che usiamo noi umani quando ridiamo, spiega lo psicologo, sono verosimilmente situati in zone molto antiche del cervello. Lo dimostra anche il fatto che gli esseri umani cominciano a ridere da piccoli, senza che nessuno glielo insegni.

a Napoli: «I contemporanei del futuro sono i classici»

Repubblica ed. di Napoli 4.4.05
Ciclo di letture al Suor Orsola
I contemporanei del futuro sono i classici
MARCO LOMBARDI

"I contemporanei del futuro. Letture di classici" è il titolo, sottratto a Giuseppe Pontiggia dall´organizzatore Gennaro Carillo, del ciclo di incontri che parte domani, alle 10,30, nella Sala degli Angeli del Suor Orsola Benincasa. Mario Vegetti, antichista sodo e arguto, si cimenterà con " Lo ‘Ierone´ di Senofonte".

Nel pomeriggio, alle 15,30, la psicoanalista Silvia Vegetti Finzi ripercorrerà " Il lungo cammino di Edipo", che è sempre la via regia per entrare nel maestoso edificio costruito da Freud. Il giorno dopo, Vegetti completerà la sua lezione, ricostruendo "La discussione sulla tirannide tra Strauss e Kojève ": il dibattito tra due giganti del Novecento prese spunto proprio dalla diversa interpretazione di Senofonte; e la Vegetti Finzi lascerà scorgere " I nuovi cammini di Edipo". Il 19, 20 e 21 aprile, Franco Montanari parlerà di Pindaro, mentre Guido Avezzù s´intratterrà su Sofocle, il 27 e il 28 dello stesso mese. Maggio vedrà Diego Lanza su Aristofane (3 e 4); Carillo su Aristofane e Platone (10 e 11); Luciano Canfora su Tucidide e Sallustio (il 31). Carillo è un consumatore di letteratura: al Suor Orsola insegna, infatti, Storia delle dottrine politiche. La regina delle arti e la filosofia civile non devono guardarsi in cagnesco. È necessario, anzi, che si interroghino reciprocamente. Una radicata convinzione di Carillo, grazie alla quale è nato "Katechein" (Editoriale Scientifica), volume pubblicato qualche mese fa: uno studio sulle contraddizioni, ancora attualissime, della democrazia greca, nel quale non si esita a contaminare Platone con Aristofane. Perché i classici - saccheggiando Italo Calvino - sono "quei testi che non riescono mai ad esaurire tutto quanto hanno da dirci". Le diverse generazioni li adoperano, rivolgendo loro quelle domande che il proprio tempo rende urgenti e necessarie. L'appuntamento inaugurale con Mario Vegetti è la dimostrazione di questa legge: Senofonte parla alla modernità per bocca di Strauss e di Kojève, che lo tirano per la giacchetta, cercando, nella sua opera, le pezze d'appoggio per conclusioni radicalmente diverse sui nostri destini politici. C'è una sorta di straniamento, nell´aprire un libro che, scavalcando i secoli, sembra scritto proprio per noi: per le nostre ansie e per i nostri bisogni. Giuseppe Pontiggia era un formidabile accumulatore di tali tesori. La felice formula "contemporanei del futuro" sintetizza il giusto approccio ai capolavori del passato: "solamente la coscienza della distanza può avvicinare i classici e insieme conservarli nella loro lontananza: due atteggiamenti difficili da fondere in un sentimento unico. Non sono nostri contemporanei: sostenerlo è un conforto idealistico e una menzogna pubblicitaria. Siamo noi che lo diventiamo di loro. Dimenticarli in nome del futuro sarebbe il fraintendimento più grande. Perché i classici sono la riserva del futuro". La biblioteca di Pontiggia è collegata con quella napoletana. Da un lato, confina con i fornitissimi ripiani occupati dalle opere di Croce. La contemporaneità della Storia può anche sottintendere che compulsare un classico è, spesso, il modo migliore per rivolgere domande più intelligenti alla propria epoca. Dall'altro, comunica con gli scaffali di quella vichiana: che cosa sarebbe stata "La Scienza Nuova", senza quel filo diretto con Platone e gli altri "autori " di Giambattista? Da esegeta (anche) di Vico, Carillo lo sa. Augurargli sale affollate ci lascia immaginare oasi sottratte a un presente appiattito sulla televisione: gramo, insomma.

The Guardian di oggi
un papa con le mani sporche di sangue

The Guardian Monday April 4, 2005
Comment
The Pope has blood on his hands
Terry Eagleton
(Terry Eagleton is professor of cultural theory at Manchester University)

John Paul II became Pope in 1978, just as the emancipatory 60s were declining into the long political night of Ronald Reagan and Margaret Thatcher. As the economic downturn of the early 70s began to bite, the western world made a decisive shift to the right, and the transformation of an obscure Polish bishop from Karol Wojtyla to John Paul II was part of this wider transition. The Catholic church had lived through its own brand of flower power in the 60s, known as the Second Vatican Council; and the time was now ripe to rein in leftist monks, clap-happy nuns and Latin American Catholic Marxists. All of this had been set in train by a pope - John XIII - whom the Catholic conservatives regarded as at best wacky and at worst a Soviet agent.

What was needed for this task was someone well-trained in the techniques of the cold war. As a prelate from Poland, Wojtyla hailed from what was probably the most reactionary national outpost of the Catholic church, full of maudlin Mary-worship, nationalist fervour and ferocious anti-communism. Years of dealing with the Polish communists had turned him and his fellow Polish bishops into consummate political operators. In fact, it turned the Polish church into a set-up that was, at times, not easy to distinguish from the Stalinist bureaucracy. Both institutions were closed, dogmatic, censorious and hierarchical, awash with myth and personality cults. It was just that, like many alter egos, they also happened to be deadly enemies, locked in lethal combat over the soul of the Polish people.

Aware of how little they had won from dialogue with the Polish regime, the bishops were ill-inclined to bend a Rowan-Williams-like ear to both sides of the theological conflict that was raging within the universal church. On a visit to the Vatican before he became Pope, the authoritarian Wojtyla was horrified at the sight of bickering theologians. This was not the way they did things in Warsaw. The conservative wing of the Vatican, which had detested the Vatican Council from the outset and done its utmost to derail it, thus looked to the Poles for salvation. When the throne of Peter fell empty, the conservatives managed to swallow their aversion to a non-Italian pontiff and elected one for the first time since 1522.

Once ensconced in power, John Paul II set about rolling back the liberal achievements of Vatican 2. Prominent liberal theologians were summoned to his throne for a dressing down. One of his prime aims was to restore to papal hands the power that had been decentralised to the local churches. In the early church, laymen and women elected their own bishops. Vatican 2 didn't go as far as that, but it insisted on the doctrine of collegiality - that the Pope was not to be seen as capo di tutti capi, but as first among equals.

John Paul, however, acknowledged equality with nobody. From his early years as a priest, he was notable for his exorbitant belief in his own spiritual and intellectual powers. Graham Greene once dreamed of a newspaper headline reading "John Paul canonises Jesus Christ". Bishops were summoned to Rome to be given their orders, not for fraternal consultation. Loopy far-right mystics and Francoists were honoured, and Latin American political liberationists bawled out. The Pope's authority was so unassailable that the head of a Spanish seminary managed to convince his students that he had the Pope's personal permission to masturbate them.

The result of centring all power in Rome was an infantilisation of the local churches. Clergy found themselves incapable of taking initiatives without nervous glances over their shoulders at the Holy Office. It was at just this point, when the local churches were least capable of handling a crisis maturely, that the child sex abuse scandal broke. John Paul's response was to reward an American cardinal who had assiduously covered up the outrage with a plush posting in Rome.

The greatest crime of his papacy, however, was neither his part in this cover up nor his neanderthal attitude to women. It was the grotesque irony by which the Vatican condemned - as a "culture of death" - condoms, which might have saved countless Catholics in the developing world from an agonising Aids death. The Pope goes to his eternal reward with those deaths on his hands. He was one of the greatest disasters for the Christian church since Charles Darwin.

Margherita Hack si è infuriata

ricevuto da Melina Sutton

Repubblica 4.4.05
"Non è più uno Stato laico"

Sindaco ds sospende spettacolo a Jesi, protesta la Hack
la polemica
La replica del comune: "È una questione di stile"
L'astrofisica: "Dov'è la divisione tra Chiesa e Stato?"
SILVIO BUZZANCA

ROMA - Siamo uno stato laico, non è giusto sospendere uno spettacolo perché è morto il Papa. E poi, pur importante, Wojtyla «non è stato certo della grandezza di Giovanni XXIII». Parole controcorrente, che in giorni come questi solo alcune personalità con il marchio di laico doc come Margherita Hack si possono permettere. «A chiacchiere siamo in uno stato laico!», dice infatti la scienziata triestina. Ma nei fatti non lo siamo per niente, se il sindaco ds di Jesi, Fabiano Belcecchi, blocca la messa in scena di "Variazioni sul cielo", un'opera teatrale tratta da un testo della stessa Hack. «In un paese laico quale l'Italia dichiara di essere - insiste la scienziata - non si dovrebbero sospendere gli spettacoli. La Chiesa fa i fatti suoi e lo Stato i fatti suoi».
Ma ora, visti gli eventi, il sipario a Jesi non si alza. «È una questione di stile: per la morte del Papa si è fermato il mondo intero, può fermarsi tranquillamente anche Margherita Hack», replica il sindaco. L'astrofisica spiega però che non si tratta però di una messinscena «dissacrante ed oscena». Anzi, metterla in scena era «il modo migliore per onorare» un Papa impegnato nel dialogo fra le religioni. Infatti l'opera, secondo l'Hack, «diffonde un messaggio di pace universale, vuole far capire che tutti noi abbiamo un'origine comune, siamo tutti figli dell'evoluzione dell'universo, e quindi siamo davvero tutti fratelli».
Alla fine il discorso si allarga ad un giudizio complessivo sul pontifcato di Wojtyla. E il giudizio non è certo positivo. «Questo Papa ha avuto importanza nel mondo per i suoi tentativi di riunire le grandi religioni monoteistiche, di farle parlare tra loro. Non è stato però certo della grandezza di Papa Giovanni XXIII, perché lui sì che ha cambiato il mondo in un momento in cui c'era ancora la guerra fredda», dichiara secca l'astrofisica.
In un clima di imperante "pensiero unico" sul Papa un'altra voce critica si alza dalle colonne del "Manifesto". Rossana Rossanda ieri ha scritto un fondo in cui lamenta: «In un crescendo alimentato dai soliti conduttori siamo stati informati che piangevano e pregavano tutti i cattolici, anzi tutte le chiese cristiane, tutto l'ebraismo, tutti i musulmani; ci mancavano solo i sentimenti dei buddisti. Il presidente della Repubblica della quale sono anch'io cittadina, ha partecipato alle messe di veglia e fatto dichiarazioni un tempo impensabili per uno stato laico e che non mi rappresentano».
Una presa di distanza dall'operato di Carlo Azeglio Ciampi accompagnata dalla condanna dei media. «Non so - continua la Rossanda - se questa spettacolarizzazione sia stata da lui desiderata o se sia frutto della curia e dei personaggi che lo circondavano. Certo Karol Wojtyla ha accettato e cercato tutti i media, per introdurre la Chiesa nel terzo millennio, ci dicono i vaticanisti, e alla fine è stato vittima delle loro smoderatezze, che nessuno ormai ignora». «Lo si è consumato - conclude la giornalista - come un rockstar quando lo si sarebbe dovuto proteggere. Morire è un duro lavoro, e più in una fibra come la sua che sfidava la montagna e le nevi, e ha a lungo resistito. Andava accompagnato con discrezione e pietà».

l'Unità:
La scienza come processo di conoscenza deve godere di una libertà assoluta

L'Unità 4.4.05
Scienza e fede, riemergono le antiche ambiguità
Pietro Greco

Il pontificato di Giovanni Paolo II sarà (anche) ricordato come quello in cui la Chiesa di Roma ha riabilitato, con qualche secolo di ritardo, Galileo Galilei. In realtà, l'attenzione che Karol Wojtyla ha dedicato al rapporto tra scienza e fede nel corso della sua lunga gestione della cattedra di Pietro va ben oltre la pur significativa rivisitazione dell'affaire Galileo. La riflessione di Giovanni Paolo II intorno al significato della ricerca scientifica è stata così costante, articolata e profonda da diventare uno dei caratteri distintivi del suo pontificato.
Questa riflessione pubblica - dal discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze del 1979, in occasione dei cent'anni dalla nascita di Albert Einstein, all'enciclica Fides et ratio del 1998 - non ha prodotto, è vero, novità clamorose. Né avrebbe potuto. Tuttavia si è dipanata in maniera così analitica e rigorosa da espungere dalla discussione la gran parte dei dettagli secondari, degli errori e delle ambiguità per far emergere l'essenza del rapporto tra scienza e fede. Solo negli ultimi tempi, quando a dominare il pensiero del Papa polacco intorno alle questioni scientifiche è stata la biologia dell'embrione, le vecchie ambiguità e le antiche diffidenze sono riemerse.
Ma non al punto tale da ribaltare la convinzione, propria di Karol Wojtyla, che la scienza sia la dimensione culturale dell'uomo che caratterizza maggiormente il nostro tempo. Giovanni Paolo II pensa che questa cultura, almeno nelle interpretazioni che egli definisce scientiste e materialiste, abbia dato un formidabile contributo alla «desacralizzazione del mondo». Tuttavia ritiene che la causa di gran lunga principale che ha portato l'uomo contemporaneo a smarrire il sacro non siano stati né la scienza né lo scientismo, bensì la «perdita di senso». L'uomo, distratto da falsi idoli, ha smarrito il senso della vita. Così è rimasto privo di un progetto di vita. E privo di fondamenta su cui radicare il suo progetto di vita.
La ricerca del senso perduto è la prospettiva che Wojtyla indica all'uomo per salvarsi. E in questa rinnovata ricerca proprio la scienza può dare un contributo, ancora una volta formidabile, a patto che recuperi un rapporto di dialogo e persino di integrazione con la filosofia e la teologia, su una base di reciproca autonomia e pari dignità.
Già perché la scienza, anzi la «scienza pura», scrive Wojtyla a padre George Coyne, direttore della Specola Vaticana, il primo giugno del 1988, ricerca l'intima unità del mondo. E in questa sua ricerca, comune alla filosofia e alla teologia, si propone come uno degli strumenti più potenti in mano all'uomo per recuperare quella «frammentazione dei saperi» che Wojtyla colloca tra le fonti principali della perdita di senso (vedi discorso al Cern del 15 giugno 1982). Certo, pensa e quasi avverte Wojtyla, il mondo di cui la scienza cerca con perizia l'ordine implicato e l'intima unità è il mondo fisico. Non può e non deve essere il mondo spirituale, ambito proprio della religione. Ma in questa sua ricerca nella dimensione fisica del mondo, la scienza può dare un contributo formidabile alla religione, scrive ancora Giovanni Paolo II a padre Coygne, perché la «può purificare (…) dall'errore e dalla superstizione». Naturalmente anche la religione ha qualcosa da dare alla scienza, perché la «può purificare (…) dall'idolatria e dai falsi assoluti».
Eccolo, dunque, il progetto di Wojtyla: creare un'alleanza tra le grandi dimensioni culturali dell'uomo (la scienza, la filosofia e la teologia) per riprendere la ricerca razionale del senso della vita. Quest'alleanza non è scontata. E non è priva di conflitti. Ma, Giovanni Paolo II ne era convinto, i conflitti non sono mai di fondo. Né la fisica, né la biologia, neppure quando cercano l'origine del cosmo e l'origine della vita, producono conflitti insanabili né con la teologia, né con la fede. Quando i conflitti nascono è perché qualcuno, tra i teologi o gli scienziati, sta sbagliando. In quest'ottica di dialogo e persino di integrazione, scienza e teologia non devono cadere in tentazione. La teologia non deve farsi tentare dalla suggestione di reinterpretare la verità rivelata alla luce delle nuove e contingenti verità rilevate dalla scienza, né tantomeno negare dommaticamente le verità della scienza in nome delle dalle Sacre Scritture. Da parte sua la scienza, sostiene Wojtyla, non deve farsi tentare dalla voglia di fornire un'interpretazione morale delle conoscenze acquisite.
Per tutti questi motivi, la scienza deve essere una custode gelosa della propria libertà di ricerca. Una libertà minacciata non più dalla prepotenza della religione, bensì dall'invadenza dell'economia. Già, perché oggi il vero attentato alla libertà di ricerca, sostiene Wojtyla parlando agli scienziati dell'università di Colonia il 15 novembre del 1980, è il tentativo di ridurre la scienza a mero «fatto tecnico», per farne strumento di «dominazione economica e politica». Giovanni Paolo II pone particolare insistenza nel distinguere tra la dimensione culturale della scienza e la sua dimensione tecnica. La scienza come processo di conoscenza deve godere di una libertà assoluta e ha come unico limite quello, semantico, di non poter dare un significato pieno né al cosmo, né, soprattutto, all'uomo. La scienza come fonte di innovazione tecnologica, invece, ha grandi limiti e una doppia faccia, spiega agli scienziati convenuti a Hiroshima il 25 febbraio del 1981. Una è quella, progressiva, che la vede promuovere tecnologie che vanno a beneficio dell'uomo e dell'ambiente in cui vive. L'altra è quella, regressiva, che la vede ispiratrice di tecnologie che sono un rischio per l'uomo e l'ambiente in cui vive. Giovanni Paolo II ha un approccio verso la tecnologia davvero diverso da quello che ha verso la scienza. È convinto che la moderna tecnologia abbia rotto un equilibrio millenario. E che questo equilibrio può essere ricostituito solo armonizzando i valori della tecnica con i valori della coscienza. Gli scienziati, sostiene papa Wojtyla, non hanno né possono pretendere di avere una responsabilità diretta nell'applicazione tecnica delle conoscenze che producono. Non sono responsabili dell'equilibrio infranto né depositari del segreto per ricostruirlo. Il governo della tecnica spetta alla società nel suo complesso e alla sua dimensione religiosa. Tuttavia gli scienziati «vedono» dove può portare la scienza, madre della tecnica, prima e meglio degli altri. Per questo una responsabilità ce l'hanno: quella di informare costantemente e compiutamente il resto della società. Questa visione complessa della scienza e del rapporto tra scienza e fede proposta, in tutto il suo pontificato, da Giovanni Paolo II potrebbe essere tranquillamente sottoscritta da uno scienziato non credente. Però ci sono due grossi ostacoli che impediscono tuttora a un ricercatore laico di guardare alla scienza nell'ottica di Wojtyla.
La ricerca moderna è strettamente informata di tecnologia. E non sempre è possibile distinguere tra «scienza pura» e «pura tecnica». Uno scienziato laico non è facilmente disponibile a demandare ad altri le scelte in materia di innovazione tecnica. Soprattutto se queste scelte hanno profonde implicazioni sulla libertà di ricerca scientifica. Giovanni Paolo II è intervenuto spesso per porre limiti allo sviluppo di tecnologie innovative, soprattutto in campo biologico. Entrando così spesso in contrasto con vaste comunità di scienziati da delineare, di fatto, una nuova frontiera del conflitto tra scienza e religione. E quando, poi, papa Wojtyla ha indicato agli scienziati precisi percorsi di ricerca da seguire (per esempio, lo studio delle cellule staminali adulte) e precisi percorsi di ricerca da chiudere (per esempio, lo studio delle cellule staminali embrionali) ecco che il passato - quello dei limiti posti da Urbano VIII alla libera ricerca di Galileo - è sembrato rifare capolino.
Il secondo ostacolo ha una natura ancor più fondamentale. Nella sua enciclica Fides et Ratio, nel 1998, Giovanni Paolo II riconosce il valore della ragione (scientifica, filosofica e teologica) capace di cogliere come nessun'altra dimensione umana, le manifestazioni di Dio nel mondo. La ragione non è una minaccia, sostiene Wojtyla, ma uno strumento prezioso per avvicinare l'uomo a Dio. Ma, sebbene dotata di ampia autonomia, la ragione resta ancella della fede. È questa dimensione ancillare della ragione che uno scienziato (o un filosofo) laico non può accettare. E uno scienziato non credente non può neppure capire. Anche quando la rivendicazione di primazia della fede rispetto alla ragione dovesse riguardare solo (solo?) lo spazio dell'etica.

in morte di Wojtyla
il comunicato della Federazione Anarchica Italiana
e quello dell'UAAR

(ricevuto da Pino Di Maula)

dalla Federazione Anarchica Italiana


È morto un uomo. Noi anarchici amiamo la vita e non possiamo che dispiacercene. Specie per l'inenarrabile crudeltà di un'agonia esibita indecentemente al mondo dalle gerarchie ecclesiastiche.
Tuttavia in questo giorno che vede tutti i politici, da Fausto Bertinotti ad Alessandra Mussolini, inginocchiati di fronte al trono di Pietro vogliamo ricordare chi era l'uomo a capo di una monarchia assoluta distintasi nei secoli per la sua barbarie. La chiesa che ha perpetrato e benedetto il massacro di milioni e milioni di uomini e donne torturate, bruciate, uccise in nome della croce non è il ricordo di un passato ormai rinnegato, ma ha trovato in Wojtila un degno epigono.

Karol Wojtila per 27 anni si è distinto per le sue scelte reazionarie.

Karol Wojtila è stato responsabile della diffusione dell'AIDS in Africa, dove la pubblicizzazione e l'uso dei preservativi avrebbero potuto salvare dalla malattia milioni di persone, fra cui tantissimi bambini.

Karol Wojtila ha dato copertura al dittatore, torturatore ed assassino cileno Augusto Pinochet, cui ha stretto la mano durante il viaggio nel martoriato paese sudamericano, nelle cui carceri venivano straziati migliaia di oppositori politici. Non una parola per le vittime ma la benedizione per il carnefice e la sua famiglia.

Karol Wojtila ha indossato le vesti della pecora e quelle del lupo a seconda degli interessi dell'organizzazione di cui è stato il sovrano. La sinistra lo osanna per il suo pacifismo in Iraq, ma dimentica che egli sostenne e giustificò le guerre che hanno insanguinato la ex Jugoslavia. Con la Croazia cattolica, contro musulmani e ortodossi, il papa dell'"ecumenismo" religioso ha fatto santo Stepinac, il cardinale che a fianco dei fascisti croati si schierò con Hitler, "inviato da dio" e benedisse le innumerevoli atrocità perpetrate dagli ustascia con la complicità delle truppe di occupazione italiane.

Karol Wojtila ha protetto e sostenuto il cardinale Pio Laghi, già nunzio apostolico in Argentina ai tempi della dittatura che massacrò 30.000 persone. Laghi benedisse e coprì i torturatori e gli assassini.

Karol Wojtila è stato il capo di una multinazionale con interessi ramificati in tutto il mondo e redditi elevatissimi in un pianeta dove la maggioranza della popolazione sopravvive con meno di due dollari al giorno.

Karol Wojtila, un "paladino della vita" che ha mantenuto un atteggiamento ambiguo nei confronti della pena capitale, è stato l'alfiere di una cultura di oppressione. Una cultura che vorrebbe la mortificazione della vita delle donne, condannate a partorire ad ogni costo bambini malformati o destinati alla morte per fame. Una cultura che preferisce una vita di dolore ad una di gioia e salute, una cultura che criminalizza i gay, che trasforma il desiderio e l'amore in colpa, che difende chi non è nato e perseguita i vivi.

Karol Wojtila ha santificato i preti spagnoli che si schierarono in armi con le truppe del catto-fascista Francisco Franco. Questi santi martiri volevano rinverdire i fasti della chiesa di Torquemada e dei quemaderos, i "forni collettivi" dove gli eretici erano cotti a fuoco lento.

Come gli anarchici e libertari del '36 che si battevano per la vita e la libertà contro il fascismo e l'oppressione clericale, noi, anarchici e libertari di oggi, pur nel rispetto della morte di un uomo, non ci inchiniamo, non ci uniamo al coro dei tanti, che a destra come a sinistra si inginocchiano di fronte al feretro del capo di una delle organizzazioni più feroci, sanguinarie e liberticide che la storia ricordi. La nostra lotta contro le religioni e le chiese si alimenta della consapevolezza che solo l'emancipazione dalla follia religiosa e dai preti che la alimentano potrà consentire agli uomini ed alle donne una vita piena, gioiosa, vissuta in libertà nel rispetto delle diversità, nella solidarietà tra eguali.

La Commissione di Corrispondenza della Federazione Anarchica Italiana-FAI


Comunicato UAAR

Giovanni Paolo II è morto: con la sua scomparsa i cattolici perdono la loro attuale guida. Gli atei e gli agnostici rispettano il loro dolore per la morte dell’uomo Wojtyla. Il suo ruolo di papa, tuttavia, non può, non deve essere confuso con la sua umana sofferenza, come a doverne stemperare i limiti istituzionali nella pietas umanitaria.

Giovanni Paolo II è stato un papa che molti cattolici, non tutti, hanno giudicato grande, dimenticandone gli umani errori. Karol Wojtyla è stato anche un papa che ha riportato la Chiesa cattolica a un’era preconciliare, a una sfrenata prassi canonizzatrice, discutibile anche per i modelli di santità proposti ai fedeli (Escrivá, Carlo I, padre Pio, Stepinac, Pio IX). Un papa attentissimo alle forme di comunicazione, anche quando ha chiesto scusa (a Dio, non alle vittime) per gli errori dei figli della Chiesa, mai per gli errori della Chiesa cattolica, da lui considerata una società perfetta. Una Chiesa cattolica chiusa nei confronti di nuove realtà come l’eutanasia, il controllo delle nascite, la prevenzione dell’AIDS, le unioni di fatto, i diritti dei gay. E per contro orgogliosa nel rivendicare privilegi secolari, attraverso un nuovo interventismo politico di cui il nostro Paese è purtroppo stato il principale destinatario. Interventismo che spesso ha assunto la forma dell’ingerenza e ha trovato nelle istituzioni repubblicane un interlocutore disposto ad assecondare il clero oltre i limiti dettati dalla laicità dello Stato.

Gli atei non dimenticano come Giovanni Paolo II abbia sempre considerato l’ateismo un banale sinonimo di comunismo, e abbia più volte equiparato l’apostasia alla degradazione morale. Valga per tutte l’affermazione contenuta nell’enciclica Centesimus Annus: «La negazione di Dio priva la persona del suo fondamento». Un fondamento che,a suo dire, avrebbe invece l’embrione. Ma si ricordi anche quando, nella famosa omelia di “Confessione dei peccati”, inserì l’ateismo tra «i mali di oggi». Affermazioni, riportate a puro titolo esemplificativo, che non possiamo facilmente sottacere. Affermazioni che i mass media, per completezza d’informazione, dovrebbero riproporre: anche in queste ore di lutto per il mondo cattolico.