Virgilio Notizie 29/10/2004 - 17:50
Un test d'intelligenza per bebe' tra 6 e 12 mesi
Realizzato da psicologa inglese
(ANSA)- LONDRA, 29 OTT - E' stato realizzato un test che permette ai genitori di conoscere il grado l'intelligenza dei figli di eta' compresa tra i 6-12 mesi. Messo a punto dalla psicologa Dorothy Einon, e' stato commissionato dalla società di giocattoli Fisher Price. Consiste in una serie di domande rivolte ai genitori sui comportamenti dei figli in diverse situazioni. «Molti genitori - spiega la Einon - vogliono sapere come stimolare al massimo l'intelligenza dei figli anche attraverso i giocattoli giusti».
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
venerdì 29 ottobre 2004
a Firenze
Luciano Canfora ha presentato il suo nuovo libro sulla democrazia
Repubblica edizione di Firenze 29.10.04
L'INCONTRO
Luciano Canfora presenta "La democrazia, storia di una ideologia" a Leggere per...
La democrazia? Rinviata ad altra epoca
NOSTRO SERVIZIO
I fallimenti e le incompiutezze della democrazia. È l'ultimo libro di Luciano Canfora, antichista e politologo, che oggi alle 17.30 viene presentato alla Biblioteca comunale di via Sant'Egidio, nuova tappa di «Leggere per non dimenticare», il ciclo d'incontri curato da Anna Benedetti. «La democrazia, storia di un'ideologia», è il titolo del libro: un viaggio provocatorio dall'Atene di Pericle fino alla Costituzione europea che sarà presentato dallo stesso Canfora. Sollecitato e interrogato dalla giornalista Sandra Bonsanti, firma prestigiosa della Repubblica diretta da Scalfari ed ex direttrice del Tirreno, e da Vittoria Franco, la parlamentare diessina che ha pubblicato numerosi saggi di teoria morale e politica.
Nel suo libro, Canfora demolisce certezze e luoghi comuni arrivando a sostenere che la democrazia non può esistere. Che la storia ha sempre fatto i conti con i diritti dei molti e lo strapotere dei pochi. Una conclusione provocatoria che, secondo Canfora, è già insita nella democrazia degli esordi, quella della «polis» greca. Come dire, la democrazia è rinviata ad altre epoche future. «Democrazia nel senso etimologico del termine, cioè predominio dei non possidenti, e socialismo sono concetti molto vicini. Ma invece l'equivoco diffuso nel linguaggio politico corrente consiste nel considerare democrazia e parlamentarismo come nozioni coincidenti», sostiene Canfora. Il ciclo «Leggere per non dimenticare» è patrocinato dall´assessorato alla cultura.
Il discorso di Pericle visto dai costituenti europei
Dal saggio di Canfora ho scelto le righe iniziali sul significato della parola democrazia nell'Atene di Pericle e quelle conclusive che a quel brano direttamente si ricollegano.
Pag. 13 «Pericle riuscì a guidare quasi per un trentennio la città di Atene retta a "democrazia". Democrazia era il termine con cui gli avversari del governo "popolare" definivano tale governo, intendendo metterne in luce proprio il carattere violento (kràtos indica per l'appunto la forza nel suo violento esplicarsi.) Per gli avversari del sistema politico ruotante intorno all'assemblea popolare, democrazia era dunque un sistema liberticida. Ecco perché Pericle, nel discorso ufficiale e solenne che Tucidide gli attribuisce, ridimensiona la portata del termine, ne prende le distanze, ben sapendo peraltro che non è parola gradita alla parte popolare, la quale usa senz'altro popolo (démos) per indicare il sistema in cui si riconosce. Prende le distanze, il Pericle tucidideo, e dice: si usa democrazia per definire il nostro sistema politico semplicemente perché siamo soliti far capo al criterio della "maggioranza", nondimeno da noi c'è libertà».
Pag. 367: ... i bravi costituenti di Strasburgo, i quali si dedicano all´esercizio di scrittura di una "costituzione europea", (...) mentre pensavano, tirando in ballo il Pericle dell'epitafio, di compiere non più che un esercizio retorico, hanno invece, senza volerlo, visto giusto. Quel Pericle infatti adopera con molto disagio la parola democrazia e punta tutto sul valore della libertà. Hanno fatto ricorso - senza saperlo - al testo più nobile che si potesse utilizzare per dire non già quello che doveva servire, come retorica edificante, bensì quello che effettivamente si sarebbe dovuto dire. Che cioè ha vinto la libertà - nel mondo ricco - con tutte le terribili conseguenze che ciò comporta e comporterà per gli altri. La democrazia è rinviata ad altre epoche, e sarà pensata, daccapo, da altri uomini. Forse non più europei».
L'INCONTRO
Luciano Canfora presenta "La democrazia, storia di una ideologia" a Leggere per...
La democrazia? Rinviata ad altra epoca
NOSTRO SERVIZIO
I fallimenti e le incompiutezze della democrazia. È l'ultimo libro di Luciano Canfora, antichista e politologo, che oggi alle 17.30 viene presentato alla Biblioteca comunale di via Sant'Egidio, nuova tappa di «Leggere per non dimenticare», il ciclo d'incontri curato da Anna Benedetti. «La democrazia, storia di un'ideologia», è il titolo del libro: un viaggio provocatorio dall'Atene di Pericle fino alla Costituzione europea che sarà presentato dallo stesso Canfora. Sollecitato e interrogato dalla giornalista Sandra Bonsanti, firma prestigiosa della Repubblica diretta da Scalfari ed ex direttrice del Tirreno, e da Vittoria Franco, la parlamentare diessina che ha pubblicato numerosi saggi di teoria morale e politica.
Nel suo libro, Canfora demolisce certezze e luoghi comuni arrivando a sostenere che la democrazia non può esistere. Che la storia ha sempre fatto i conti con i diritti dei molti e lo strapotere dei pochi. Una conclusione provocatoria che, secondo Canfora, è già insita nella democrazia degli esordi, quella della «polis» greca. Come dire, la democrazia è rinviata ad altre epoche future. «Democrazia nel senso etimologico del termine, cioè predominio dei non possidenti, e socialismo sono concetti molto vicini. Ma invece l'equivoco diffuso nel linguaggio politico corrente consiste nel considerare democrazia e parlamentarismo come nozioni coincidenti», sostiene Canfora. Il ciclo «Leggere per non dimenticare» è patrocinato dall´assessorato alla cultura.
Il discorso di Pericle visto dai costituenti europei
Dal saggio di Canfora ho scelto le righe iniziali sul significato della parola democrazia nell'Atene di Pericle e quelle conclusive che a quel brano direttamente si ricollegano.
Pag. 13 «Pericle riuscì a guidare quasi per un trentennio la città di Atene retta a "democrazia". Democrazia era il termine con cui gli avversari del governo "popolare" definivano tale governo, intendendo metterne in luce proprio il carattere violento (kràtos indica per l'appunto la forza nel suo violento esplicarsi.) Per gli avversari del sistema politico ruotante intorno all'assemblea popolare, democrazia era dunque un sistema liberticida. Ecco perché Pericle, nel discorso ufficiale e solenne che Tucidide gli attribuisce, ridimensiona la portata del termine, ne prende le distanze, ben sapendo peraltro che non è parola gradita alla parte popolare, la quale usa senz'altro popolo (démos) per indicare il sistema in cui si riconosce. Prende le distanze, il Pericle tucidideo, e dice: si usa democrazia per definire il nostro sistema politico semplicemente perché siamo soliti far capo al criterio della "maggioranza", nondimeno da noi c'è libertà».
Pag. 367: ... i bravi costituenti di Strasburgo, i quali si dedicano all´esercizio di scrittura di una "costituzione europea", (...) mentre pensavano, tirando in ballo il Pericle dell'epitafio, di compiere non più che un esercizio retorico, hanno invece, senza volerlo, visto giusto. Quel Pericle infatti adopera con molto disagio la parola democrazia e punta tutto sul valore della libertà. Hanno fatto ricorso - senza saperlo - al testo più nobile che si potesse utilizzare per dire non già quello che doveva servire, come retorica edificante, bensì quello che effettivamente si sarebbe dovuto dire. Che cioè ha vinto la libertà - nel mondo ricco - con tutte le terribili conseguenze che ciò comporta e comporterà per gli altri. La democrazia è rinviata ad altre epoche, e sarà pensata, daccapo, da altri uomini. Forse non più europei».
il pensiero razionalistico da sempre si allea al pensiero religioso
il «sacro»!?
Repubblica 29.10.04
NOSTRO SACRO UNIVERSO
Anticipazione/ Esce "Siate saggi, diventate profeti"
Si scopre che la scienza più aggiornata non può fare a meno della poesia
Due illustri fisici si confrontano con i grandi e irrisolti perché dell´umanità
Steven Weinberg di fronte alle meraviglie del mondo non riesce a trovare un senso
Il neurobiologo Antonio Damasio pone i sentimenti alla base della coscienza
di GEORGES CHARPAK E ROLAND OMNÈS
Il testo che pubblichiamo è tratto da «Siate saggi, diventate profeti», un libro di Georges Charpak e Roland Omnès in uscita presso l'editore Codice (traduzione di Federica Niola, pagg. 190, euro 24). Domani Roland Omnès sarà uno dei protagonisti del Festival della Scienza di Genova che si è aperto ieri e che durerà fino all'8 novembre. Il Festival prevede 250 incontri, laboratori didattici, conferenze e tavole rotonde. Il tema conduttore è quello dell'esplorazione. Fra gli studiosi che partecipano agli incontri vanno segnalati Jean-Pierre Changeaux, Alain Berthoz, Luca Cavalli Sforza e inoltre Carlo Petrini, Folco Quilici, il filosofo Giulio Giorello, Stefano Benni e Alessandro Bergonzoni.
Qual è il senso di questo Universo smisurato in cui apparentemente non siamo niente, di queste leggi che assillano la ragione umana, di tutto quello che ci domina a partire dalla sua altera e suprema estraneità? C´è solo un senso? Questa è la domanda, la domanda che affrontiamo ora con un certo timore. Timore, evidentemente, che le nostre menti non siano all'altezza, timore che sia senza risposta, o che i tempi non siano maturi per comprenderla, timore, infine, di parlare a sproposito di speranza e di saggezza.
La filosofia non ci aiuta minimamente in questo ambito, l'abbiamo appena visto. E la scienza? Steven Weinberg, un grande fisico contemporaneo, ci dice, dopo aver descritto le incontestabili meraviglie dell'universo, che, per quanto ne sa, questo Universo gli sembra privo di senso, pointless: non conduce a nulla. Che confessione! Altri (e lui stesso) si esaltano per lo splendore delle leggi e per la loro magnifica unità, per la gioia di scoprirle. Ma hanno un senso per noi umani, per coloro che soffrono di disperazione e di vuoto interiore? I cantori dell'astratto non ne dicono niente.
Di fatto la questione è insolubile se ci si aspetta una spiegazione dell'Universo e delle leggi che diano ad esso un significato. Questo significato sarebbe in effetti, se fosse verificato, una verità al di là di quelle della scienza e dell'esperienza: una verità metafisica. Ma una verità di questo genere è inaccessibile alla ragione, Kant rimane incontestabile su questo punto, poiché non è scientifica e sfugge all'esperienza.
Siamo profondamente coscienti della bellezza delle leggi e della gioia che danno a chi si accosta ad esse: e non siamo meno sensibili al desiderio insopprimibile di trovare un senso al mondo. Bertrand Jordan, un biologo di qualità, ha trovato le parole per esprimere questo desiderio o questo bisogno, questa richiesta, in Le Chant d´amour des concombres de mer: «Il fatto inaudito, eppure verificato è che questo edificio (della vita) è stato costruito dal gioco di mutazioni aleatorie. Malgrado l'abbondanza delle prove di cui disponiamo, continua talvolta ad essere difficile credere che sistemi così interconnessi derivino da un processo governato dal caso. Il caso (...) e la necessità (delle leggi) (...). Faccio fatica a credere che la meccanica perfetta del mio corpo, questi occhi che abbracciano il paesaggio nella quiete mattutina, queste orecchie piene del rumore delle onde, questo stesso cervello che riflette (...) derivino da un gioco di mutazioni senza un fine predefinito, da innumerevoli tiri di dadi successivi avvenuti nel corso di un'evoluzione che si perde nella notte di milioni, di miliardi di anni. Lo so intellettualmente, le prove ci sono, e non potrebbero essere più certe, le ho riconosciute anche io stesso nel mio lavoro di ricercatore. (...) È possibile anche analizzare le ragioni stesse della mia incredulità, eppure qualcosa in me è restio ad ammettere questa costruzione del caso: mi sembra che sottragga al mondo ogni significato profondo e, tra l'altro, che neghi la mia esistenza».
Non possiamo che unirci a Jordan. Intellettualmente, sappiamo che la domanda sul senso è senza risposta, o almeno che la risposta è al di là dell'orizzonte dell'attuale sapere. Eppure, quali parole sono uscite dalla nostra penna e da quella di Jordan? Sofferenza, vuoto interiore, bellezza, gioia, desiderio, ripugnanza, fatica a credere... Appartengono tutte alla sfera del sentimento; un sentimento che lotta con l'intelletto. Si potrebbe dire che la questione non consiste nel trovare il significato intellettuale dell'Universo e delle leggi, ma nell'integrare questa conoscenza alla coscienza, una coscienza più vasta della pura conoscenza, che ingloba i sentimenti, compreso il sentimento di sé. È in me, tramite me, per me che voglio fare della conoscenza una parte vivente di me, e non un'estranea assoluta.
Un grande neurobiologo, Antonio Damasio, ci aiuterà a dare corpo a questa idea ancora vaga, alla luce dei recenti risultati riguardanti il cervello e la coscienza. Ecco che cosa dice: «Forse l'idea più sorprendente (derivata dalle ricerche a questo proposito) è che, in conclusione, la coscienza inizia come un sentimento. (...) Considerare la coscienza come un sentire di sapere è coerente con l'importante dato di fatto che ho citato a proposito delle strutture cerebrali legate più strettamente alla coscienza. (...) Presentare le radici della coscienza come un sentimento dà modo di mettere insieme una spiegazione del senso di sé. (...) Se si sostiene che i sentimenti sono gli elementi costitutivi della coscienza, si è costretti a indagare la natura intima dei sentimenti. Di che cosa sono fatti i sentimenti? (Notiamo che precedentemente l'autore ha esposto il supporto biologico, umorale delle emozioni, che sono primarie rispetto ai sentimenti). I sentimenti sono la percezione di cosa? Quanto possiamo scavare dietro i sentimenti? Sono domande alle quali per il momento è impossibile rispondere in modo completo. (...) La realizzazione della coscienza umana potrebbe richiedere l'esistenza dei sentimenti».
L'ultima frase appariva in occasione di una breve discussione su ciò che distingue la conoscenza registrabile da una macchina (un computer) e quella stessa conoscenza nella coscienza umana. Si potrebbero concepire macchine che facciano esperienze, che ricorrano a un'intelligenza artificiale e arrivino ad accrescere la conoscenza dell'Universo e delle leggi, ma «la realizzazione della coscienza umana potrebbe richiedere l'esistenza dei sentimenti». Non sarà forse questa la chiave della nostra domanda?
L'Universo, le leggi, suscitano evidentemente sentimenti forti nei ricercatori impegnati nel loro lavoro. Ne derivano piacere, certo, anche se André Lichnerowicz ha giustamente notato: «La ricerca? Apporta grandi momenti di gioia, ma sempre dopo mesi o anni di frustrazione». Ciononostante, non si tratta dei sentimenti dei ricercatori, si tratta di quelli dell'uomo in generale. Qual è il senso più vasto, come sentimento generatore di una coscienza, che corrisponde a quello che c'è di più elevato nella conoscenza, le leggi elaborate dell'Universo? La nostra risposta, quella che sentiamo profondamente, è la seguente: è il senso del sacro.
Il sacro! «Ma non si tratta di religione?», direte voi. Sì, si tratta proprio di questo, ma anche di qualcosa di più. Occorre credere in Dio per sentire la presenza del sacro ascoltando alcuni pezzi di Bach o di Mozart? Non c'è forse una componente sacra nella natura dell'uomo anche agli occhi di molti atei? Bertrand Russell, agnostico dichiarato e lucido, se ce ne sono stati, ha riferito le sue esperienze per così dire "mistiche" dell'insorgere del sacro. Il fatto non è del resto così strano. Di che cosa si tratta? Per rispondere rivolgiamoci a Mircea Eliade, ritenuto un valido giudice in materia: «L'esperienza del sacro (...) implica le nozioni di essere, di significato e di verità. (...) È difficile immaginare (...) come lo spirito umano potrebbe funzionare senza la convinzione che nel mondo vi sia qualcosa di irriducibilmente reale; ed è impossibile immaginare come la coscienza potrebbe manifestarsi senza conferire un significato agli impulsi e alle esperienze dell'uomo. La coscienza di un mondo reale e dotato di significato è legata intimamente alla scoperta del sacro. Mediante l'esperienza del sacro, lo spirito umano ha colto la differenza tra ciò che si rivela reale, potente, ricco e dotato di significato, e ciò che è privo di queste qualità: il flusso caotico e pericoloso delle cose, le loro apparizioni e le loro scomparse fortuite e vuote di significato (...). Il "sacro" è insomma un elemento della struttura della coscienza, e non uno stadio nella storia della coscienza stessa».
NOSTRO SACRO UNIVERSO
Anticipazione/ Esce "Siate saggi, diventate profeti"
Si scopre che la scienza più aggiornata non può fare a meno della poesia
Due illustri fisici si confrontano con i grandi e irrisolti perché dell´umanità
Steven Weinberg di fronte alle meraviglie del mondo non riesce a trovare un senso
Il neurobiologo Antonio Damasio pone i sentimenti alla base della coscienza
di GEORGES CHARPAK E ROLAND OMNÈS
Il testo che pubblichiamo è tratto da «Siate saggi, diventate profeti», un libro di Georges Charpak e Roland Omnès in uscita presso l'editore Codice (traduzione di Federica Niola, pagg. 190, euro 24). Domani Roland Omnès sarà uno dei protagonisti del Festival della Scienza di Genova che si è aperto ieri e che durerà fino all'8 novembre. Il Festival prevede 250 incontri, laboratori didattici, conferenze e tavole rotonde. Il tema conduttore è quello dell'esplorazione. Fra gli studiosi che partecipano agli incontri vanno segnalati Jean-Pierre Changeaux, Alain Berthoz, Luca Cavalli Sforza e inoltre Carlo Petrini, Folco Quilici, il filosofo Giulio Giorello, Stefano Benni e Alessandro Bergonzoni.
Qual è il senso di questo Universo smisurato in cui apparentemente non siamo niente, di queste leggi che assillano la ragione umana, di tutto quello che ci domina a partire dalla sua altera e suprema estraneità? C´è solo un senso? Questa è la domanda, la domanda che affrontiamo ora con un certo timore. Timore, evidentemente, che le nostre menti non siano all'altezza, timore che sia senza risposta, o che i tempi non siano maturi per comprenderla, timore, infine, di parlare a sproposito di speranza e di saggezza.
La filosofia non ci aiuta minimamente in questo ambito, l'abbiamo appena visto. E la scienza? Steven Weinberg, un grande fisico contemporaneo, ci dice, dopo aver descritto le incontestabili meraviglie dell'universo, che, per quanto ne sa, questo Universo gli sembra privo di senso, pointless: non conduce a nulla. Che confessione! Altri (e lui stesso) si esaltano per lo splendore delle leggi e per la loro magnifica unità, per la gioia di scoprirle. Ma hanno un senso per noi umani, per coloro che soffrono di disperazione e di vuoto interiore? I cantori dell'astratto non ne dicono niente.
Di fatto la questione è insolubile se ci si aspetta una spiegazione dell'Universo e delle leggi che diano ad esso un significato. Questo significato sarebbe in effetti, se fosse verificato, una verità al di là di quelle della scienza e dell'esperienza: una verità metafisica. Ma una verità di questo genere è inaccessibile alla ragione, Kant rimane incontestabile su questo punto, poiché non è scientifica e sfugge all'esperienza.
Siamo profondamente coscienti della bellezza delle leggi e della gioia che danno a chi si accosta ad esse: e non siamo meno sensibili al desiderio insopprimibile di trovare un senso al mondo. Bertrand Jordan, un biologo di qualità, ha trovato le parole per esprimere questo desiderio o questo bisogno, questa richiesta, in Le Chant d´amour des concombres de mer: «Il fatto inaudito, eppure verificato è che questo edificio (della vita) è stato costruito dal gioco di mutazioni aleatorie. Malgrado l'abbondanza delle prove di cui disponiamo, continua talvolta ad essere difficile credere che sistemi così interconnessi derivino da un processo governato dal caso. Il caso (...) e la necessità (delle leggi) (...). Faccio fatica a credere che la meccanica perfetta del mio corpo, questi occhi che abbracciano il paesaggio nella quiete mattutina, queste orecchie piene del rumore delle onde, questo stesso cervello che riflette (...) derivino da un gioco di mutazioni senza un fine predefinito, da innumerevoli tiri di dadi successivi avvenuti nel corso di un'evoluzione che si perde nella notte di milioni, di miliardi di anni. Lo so intellettualmente, le prove ci sono, e non potrebbero essere più certe, le ho riconosciute anche io stesso nel mio lavoro di ricercatore. (...) È possibile anche analizzare le ragioni stesse della mia incredulità, eppure qualcosa in me è restio ad ammettere questa costruzione del caso: mi sembra che sottragga al mondo ogni significato profondo e, tra l'altro, che neghi la mia esistenza».
Non possiamo che unirci a Jordan. Intellettualmente, sappiamo che la domanda sul senso è senza risposta, o almeno che la risposta è al di là dell'orizzonte dell'attuale sapere. Eppure, quali parole sono uscite dalla nostra penna e da quella di Jordan? Sofferenza, vuoto interiore, bellezza, gioia, desiderio, ripugnanza, fatica a credere... Appartengono tutte alla sfera del sentimento; un sentimento che lotta con l'intelletto. Si potrebbe dire che la questione non consiste nel trovare il significato intellettuale dell'Universo e delle leggi, ma nell'integrare questa conoscenza alla coscienza, una coscienza più vasta della pura conoscenza, che ingloba i sentimenti, compreso il sentimento di sé. È in me, tramite me, per me che voglio fare della conoscenza una parte vivente di me, e non un'estranea assoluta.
Un grande neurobiologo, Antonio Damasio, ci aiuterà a dare corpo a questa idea ancora vaga, alla luce dei recenti risultati riguardanti il cervello e la coscienza. Ecco che cosa dice: «Forse l'idea più sorprendente (derivata dalle ricerche a questo proposito) è che, in conclusione, la coscienza inizia come un sentimento. (...) Considerare la coscienza come un sentire di sapere è coerente con l'importante dato di fatto che ho citato a proposito delle strutture cerebrali legate più strettamente alla coscienza. (...) Presentare le radici della coscienza come un sentimento dà modo di mettere insieme una spiegazione del senso di sé. (...) Se si sostiene che i sentimenti sono gli elementi costitutivi della coscienza, si è costretti a indagare la natura intima dei sentimenti. Di che cosa sono fatti i sentimenti? (Notiamo che precedentemente l'autore ha esposto il supporto biologico, umorale delle emozioni, che sono primarie rispetto ai sentimenti). I sentimenti sono la percezione di cosa? Quanto possiamo scavare dietro i sentimenti? Sono domande alle quali per il momento è impossibile rispondere in modo completo. (...) La realizzazione della coscienza umana potrebbe richiedere l'esistenza dei sentimenti».
L'ultima frase appariva in occasione di una breve discussione su ciò che distingue la conoscenza registrabile da una macchina (un computer) e quella stessa conoscenza nella coscienza umana. Si potrebbero concepire macchine che facciano esperienze, che ricorrano a un'intelligenza artificiale e arrivino ad accrescere la conoscenza dell'Universo e delle leggi, ma «la realizzazione della coscienza umana potrebbe richiedere l'esistenza dei sentimenti». Non sarà forse questa la chiave della nostra domanda?
L'Universo, le leggi, suscitano evidentemente sentimenti forti nei ricercatori impegnati nel loro lavoro. Ne derivano piacere, certo, anche se André Lichnerowicz ha giustamente notato: «La ricerca? Apporta grandi momenti di gioia, ma sempre dopo mesi o anni di frustrazione». Ciononostante, non si tratta dei sentimenti dei ricercatori, si tratta di quelli dell'uomo in generale. Qual è il senso più vasto, come sentimento generatore di una coscienza, che corrisponde a quello che c'è di più elevato nella conoscenza, le leggi elaborate dell'Universo? La nostra risposta, quella che sentiamo profondamente, è la seguente: è il senso del sacro.
Il sacro! «Ma non si tratta di religione?», direte voi. Sì, si tratta proprio di questo, ma anche di qualcosa di più. Occorre credere in Dio per sentire la presenza del sacro ascoltando alcuni pezzi di Bach o di Mozart? Non c'è forse una componente sacra nella natura dell'uomo anche agli occhi di molti atei? Bertrand Russell, agnostico dichiarato e lucido, se ce ne sono stati, ha riferito le sue esperienze per così dire "mistiche" dell'insorgere del sacro. Il fatto non è del resto così strano. Di che cosa si tratta? Per rispondere rivolgiamoci a Mircea Eliade, ritenuto un valido giudice in materia: «L'esperienza del sacro (...) implica le nozioni di essere, di significato e di verità. (...) È difficile immaginare (...) come lo spirito umano potrebbe funzionare senza la convinzione che nel mondo vi sia qualcosa di irriducibilmente reale; ed è impossibile immaginare come la coscienza potrebbe manifestarsi senza conferire un significato agli impulsi e alle esperienze dell'uomo. La coscienza di un mondo reale e dotato di significato è legata intimamente alla scoperta del sacro. Mediante l'esperienza del sacro, lo spirito umano ha colto la differenza tra ciò che si rivela reale, potente, ricco e dotato di significato, e ciò che è privo di queste qualità: il flusso caotico e pericoloso delle cose, le loro apparizioni e le loro scomparse fortuite e vuote di significato (...). Il "sacro" è insomma un elemento della struttura della coscienza, e non uno stadio nella storia della coscienza stessa».
Traduzione di Federica Niola
sinistra
un'intervista ad Asor Rosa
Liberazione 29.10.04
Asor Rosa: «La mia idea di sinistra radicale»
intervista di di Tonino Bucci
«La mia idea è una "camera" di discussione, verifica e dibattito. Una "camera permanente" dove le sigle della sinistra radicale siano in grado di confrontarsi per elaborare proposte e, naturalmente, anche di distinguersi ma a ragion veduta». Questa è la veste organizzativa che Alberto Asor Rosa immagina per l'ipotesi di una ricomposizione della sinistra alternativa, lanciata dalle pagine del "manifesto" in due articoli, l'ultimo dei quali pubblicato sabato scorso.
Esiste oggi in Italia un'area raggruppabile sotto la definizione di «sinistra radicale»? E la sua capacità di condizionare la vita politica è pari oppure inferiore - come è ragionevole supporre - alle potenzialità virtualmente contenute nelle classi sociali cui fa riferimento? E quale partita, infine, si profila per questo universo di partiti, correnti organizzate, sigle sindacali, movimenti e associazioni all'interno della coalizione di centrosinistra e del futuro scontro elettorale con le destre?
Tutti questi interrogativi aleggiano nella sollecitazione di Alberto Asor Rosa, la cui formulazione non sfugge però alla regola della chiarezza: «far dialogare e agire unitariamente quella sinistra che sta a sinistra delle convergenze riformiste-moderate (triciclo, partito unico riformista, ecc)». Un primo livello del ragionamento riguarda il profilo di un programma allo stato attuale ancora indefinito e che una sinistra radicale capace di «agire unitariamente» potrebbe contribuire a rendere più chiaro. Si può, anzi, facilmente prevedere un indirizzo programmatico tanto più di rottura con il neoliberismo di stampo berlusconiano, quanto più la sinistra alternativa sarà in grado di portare le proprie idee nel confronto con la sinistra riformista-moderata. L'intesa elettorale contro le destre non significa indistinzione di progetti politici e strategici, né l'azzeramento, per causa di forza maggiore, di identità culturali differenti. Va da sé che lo stato di frammentazione attuale delle forze anticapitalistiche riduce la possibilità di incidere nella scrittura del programma.
Preso sotto l'aspetto più evidente il ragionamento svolto da Asor Rosa sul "manifesto" esprime il bisogno elementare - ma non per questo scontato - di mettere ordine in un quadro politico altrimenti frastagliato e decisamente sfavorevole, quanto a rapporti di forza, alla sinistra alternativa. Ma non c'è soltanto l'urgenza del passaggio elettorale a sollecitare la riflessione. Parlare di una ricomposizione della sinistra radicale significa, anche, riconoscere l'esistenza di un problema "oggettivo": restituire uno spazio politico alle classi popolari - quelle maggiormente colpite dalla crisi economica - e spostare una parte dell'elettorato a sinistra. Cos'altro tradisce il distacco tra politica e società se non il fatto che larghi strati sociali - le «classi subalterne», si sarebbe detto un tempo - hanno finito per essere esclusi dalla rappresentanza politica?
Mettere assieme i pezzi della sinistra alternativa richiede anche un disegno strategico. Quali sono i fattori "oggettivi" che rendono l'operazione necessaria, oltre che possibile?
Nella mia proposta ci sono due livelli. Il primo riguarda la prospettiva di un cartello elettorale, di una presenza più forte nelle istituzioni di questo settore del sistema politico italiano che attualmente è frammentato e più debole rispetto alla forza sociale che virtualmente rappresenta. L'altra faccia è strategica e di più lunga durata. Consiste nell'interrogarsi se all'evoluzione socio-economica del mondo globalizzato, e anche dell'Italia in questo ultimo ventennio, non debba corrispondere un soggetto politico, diverso da tutti quelli esistenti allo stato attuale delle cose, che interpreti a più alto livello, al di là delle formule organizzative, la contraddizione fra capitale e lavoro. Quel lavoro che oggi è sottorappresentato. Ognuno può scegliere e interpretare l'una o l'altra faccia come se fossero due momenti di un processo. Oppure può rovesciare la direzione: invece di cominciare dal discorso organizzativo-elettoralistico si può iniziare dal riflettere sulle grandi questioni di fondo. Ma nell'uno come nell'altro caso, oppure in tutti e due - visto che sono collegati - è necessario avviare la discussione e un confronto paritario tra le varie forze interessate perché prenda inizio il processo. In molti - molti di più di quanto pensassi - diamo un valore positivo all'inizio di questo percorso.
I problemi organizzativi riflettono i problemi teorici. L'universo della sinistra alternativa è frastagliato non solo per sigle e partiti, ma anche per paradigmi teorici: l'ambientalismo, il femminismo, il marxismo, il pacifismo... Come ricondurre tutti questi discorsi alla contraddizione principale tra capitale e lavoro?
Questo è un problema necessariamente ricorrente in tutte le fasi di transizione. Mi stupirei che non ci fosse un dibattito su questi temi. È nell'ordine naturale delle cose. La discussione è ricorrente in tutte le fasi storiche di transizione nel movimento operaio. Quello che io osservo è che la fase di transizione della quale stiamo parlando, dura da tanto, da troppo tempo: ha il suo punto di partenza nell'89, ma comincia da prima, dagli anni '70. Io porrei il problema in questi termini: in che forma è pensabile una sinistra - se è pensabile, perché anche questo interrogativo più radicale è legittimo - in una situazione di classe come quella che stiamo vivendo da venti o trent'anni a questa parte? Contraddizioni di fondo, contrasti insanabili, opzioni contrapposte all'interno di questo mondo della sinistra radicale o alternativa - come talvolta è già accaduto in passato nel movimento operaio - io francamente non ne vedo. Sono culture diverse, anche tradizioni organizzative diverse, che nella situazione globale attuale tendono più a convergere che a divergere. Parlo, ad esempio, delle due opzioni culturali che potrebbero apparire più divaricate: quella ambientalista e quella marxista classica che punta sullo sviluppo anche in termini di denegazione ambientalistica - anche questo è accaduto talvolta in passato. Ma le due cose, allo stato attuale dei problemi, tendono a convergere, non a contrapporsi. Bisogna ragionare a livello mondiale sul rapporto che esiste tra sviluppo e ambiente. Questo è uno dei tre o quattro problemi di fondo.
Si profila quindi una fase di battaglia culturale, per l'egemonia si potrebbe dire, tra la sinistra radicale e la sinistra moderata, spesso incantata dalle sirene dell'ideologia liberista?
Non c'è dubbio che esista anche questo aspetto. Tuttavia quando sento il termine «egemonia» rabbrividisco perché viene spesso evocata - non in questo caso - in termini scorretti e dispregiativi. Preferisco parlare di identità culturali. Se la seconda faccia della proposta emergesse di più - come io spererei - allora dovremmo parlare di idee, culture, di atteggiamenti progettuali e costruttivi. Ora, questo si può fare solo se si smette di soggiacere supinamente a una fase di "liberismo mentale" che ha contagiato anche larghi settori della sinistra italiana ed europea.
Che fisionomia potrà avere questa ricomposizione della sinistra alternativa dal punto di vista delle formule organizzative? Iniziative comuni dal basso su singoli temi unificanti oppure un processo di avvicinamento "dall'alto", per opera dei ceti politici?
Bertinotti, non io, ha parlato di «contenitore». La mia proposta è più modesta, dotata sicuramente di minore capacità propositiva. Io penso che la convergenza su singole iniziative sia troppo poco. Preferirei la creazione di una "camera" di discussione, verifica e dibattito, una "camera permanente", dove le sigle - ma anche quello che non è ancora siglato, che sta oltre le organizzazioni frammentarie di cui stiamo parlando - siano in grado di confrontarsi per elaborare proposte. Naturalmente anche di distinguersi ma a ragion veduta.
Quindi, non una semplice sommatoria, ma la nascita di una soggettività politica diversa dalle parti che la compongono?
Secondo me è uno strumento di riorganizzazione dell'esistente ma anche di mutamento dell'esistente. Ho una "illuministica" fiducia nel fatto che la creazione di uno strumento cosiffatto tenderebbe più a fare evidenziare gli elementi di convergenza che non quelli di divisione.
Prima ancora di mettere in cantiere la nascita di questo soggetto emergono però anche le critiche di chi paventa il venir meno della coalizione di centrosinistra. L'alleanza con le forze democratiche e riformiste rimane nell'orizzonte della proposta?
La dò per scontata. Il presupposto del ragionamento che io credo d'aver fatto con estrema chiarezza in ambedue gli articoli pubblicati dal manifesto, è che questo semmai va concepito come uno strumento di rafforzamento del centrosinistra - io continuo a preferire questa dizione all'"orribile" Gad. Perché dovrebbe mettere in crisi la coalizione? Se uno si organizza, lo scopo è di rafforzare le posizioni della sinistra radicale rispetto a quelle della sinistra moderata. Questo fa parte di qualsiasi gioco politico che si rispetti.
Al di fuori dei calcoli geopolitici il consolidamento dell'area della sinistra radicale potrebbe persino riconquistare alla politica settori della società che finora sono sprovvisti di rappresentanza. E' così?
Il primo atto che dovrebbe assumere questa camera della sinistra radicale non è rinchiudersi in se stessa, ma stabilire fili di collegamento e sollecitazione con l'esterno.
E' qui che i vecchi organismi stentano a farcela, nonostante si siano posti il problema. Rifondazione sicuramente se l'è posto. Non è una critica schematica a quanto è stato fatto finora, ma è l'idea che ci sono i margini per fare di più.
Questa "camera permanente" potrebbe funzionare nell'immediato anche come luogo di elaborazione di un programma comune alle forze della sinistra alternativa da portare in dote in un ipotetico, futuro governo antitetico a quello del centrodestra?
Assolutamente sì. Finora si è discusso poco di contenuti programmatici. Dovrebbe essere il luogo altresì rispetto al lungo periodo, in cui questa sinistra radicale si chiarisce le idee sul pacchetto di proposte da portare al confronto con il resto del centrosinistra. Naturalmente con quella flessibilità che è necessaria in tutte le alleanze, ma con una maggiore chiarezza di idee e anche con una maggiore uniformità di proposte, il che - mi pare incontrovertibile - rafforzerebbe la posizione.
Asor Rosa: «La mia idea di sinistra radicale»
intervista di di Tonino Bucci
«La mia idea è una "camera" di discussione, verifica e dibattito. Una "camera permanente" dove le sigle della sinistra radicale siano in grado di confrontarsi per elaborare proposte e, naturalmente, anche di distinguersi ma a ragion veduta». Questa è la veste organizzativa che Alberto Asor Rosa immagina per l'ipotesi di una ricomposizione della sinistra alternativa, lanciata dalle pagine del "manifesto" in due articoli, l'ultimo dei quali pubblicato sabato scorso.
Esiste oggi in Italia un'area raggruppabile sotto la definizione di «sinistra radicale»? E la sua capacità di condizionare la vita politica è pari oppure inferiore - come è ragionevole supporre - alle potenzialità virtualmente contenute nelle classi sociali cui fa riferimento? E quale partita, infine, si profila per questo universo di partiti, correnti organizzate, sigle sindacali, movimenti e associazioni all'interno della coalizione di centrosinistra e del futuro scontro elettorale con le destre?
Tutti questi interrogativi aleggiano nella sollecitazione di Alberto Asor Rosa, la cui formulazione non sfugge però alla regola della chiarezza: «far dialogare e agire unitariamente quella sinistra che sta a sinistra delle convergenze riformiste-moderate (triciclo, partito unico riformista, ecc)». Un primo livello del ragionamento riguarda il profilo di un programma allo stato attuale ancora indefinito e che una sinistra radicale capace di «agire unitariamente» potrebbe contribuire a rendere più chiaro. Si può, anzi, facilmente prevedere un indirizzo programmatico tanto più di rottura con il neoliberismo di stampo berlusconiano, quanto più la sinistra alternativa sarà in grado di portare le proprie idee nel confronto con la sinistra riformista-moderata. L'intesa elettorale contro le destre non significa indistinzione di progetti politici e strategici, né l'azzeramento, per causa di forza maggiore, di identità culturali differenti. Va da sé che lo stato di frammentazione attuale delle forze anticapitalistiche riduce la possibilità di incidere nella scrittura del programma.
Preso sotto l'aspetto più evidente il ragionamento svolto da Asor Rosa sul "manifesto" esprime il bisogno elementare - ma non per questo scontato - di mettere ordine in un quadro politico altrimenti frastagliato e decisamente sfavorevole, quanto a rapporti di forza, alla sinistra alternativa. Ma non c'è soltanto l'urgenza del passaggio elettorale a sollecitare la riflessione. Parlare di una ricomposizione della sinistra radicale significa, anche, riconoscere l'esistenza di un problema "oggettivo": restituire uno spazio politico alle classi popolari - quelle maggiormente colpite dalla crisi economica - e spostare una parte dell'elettorato a sinistra. Cos'altro tradisce il distacco tra politica e società se non il fatto che larghi strati sociali - le «classi subalterne», si sarebbe detto un tempo - hanno finito per essere esclusi dalla rappresentanza politica?
Mettere assieme i pezzi della sinistra alternativa richiede anche un disegno strategico. Quali sono i fattori "oggettivi" che rendono l'operazione necessaria, oltre che possibile?
Nella mia proposta ci sono due livelli. Il primo riguarda la prospettiva di un cartello elettorale, di una presenza più forte nelle istituzioni di questo settore del sistema politico italiano che attualmente è frammentato e più debole rispetto alla forza sociale che virtualmente rappresenta. L'altra faccia è strategica e di più lunga durata. Consiste nell'interrogarsi se all'evoluzione socio-economica del mondo globalizzato, e anche dell'Italia in questo ultimo ventennio, non debba corrispondere un soggetto politico, diverso da tutti quelli esistenti allo stato attuale delle cose, che interpreti a più alto livello, al di là delle formule organizzative, la contraddizione fra capitale e lavoro. Quel lavoro che oggi è sottorappresentato. Ognuno può scegliere e interpretare l'una o l'altra faccia come se fossero due momenti di un processo. Oppure può rovesciare la direzione: invece di cominciare dal discorso organizzativo-elettoralistico si può iniziare dal riflettere sulle grandi questioni di fondo. Ma nell'uno come nell'altro caso, oppure in tutti e due - visto che sono collegati - è necessario avviare la discussione e un confronto paritario tra le varie forze interessate perché prenda inizio il processo. In molti - molti di più di quanto pensassi - diamo un valore positivo all'inizio di questo percorso.
I problemi organizzativi riflettono i problemi teorici. L'universo della sinistra alternativa è frastagliato non solo per sigle e partiti, ma anche per paradigmi teorici: l'ambientalismo, il femminismo, il marxismo, il pacifismo... Come ricondurre tutti questi discorsi alla contraddizione principale tra capitale e lavoro?
Questo è un problema necessariamente ricorrente in tutte le fasi di transizione. Mi stupirei che non ci fosse un dibattito su questi temi. È nell'ordine naturale delle cose. La discussione è ricorrente in tutte le fasi storiche di transizione nel movimento operaio. Quello che io osservo è che la fase di transizione della quale stiamo parlando, dura da tanto, da troppo tempo: ha il suo punto di partenza nell'89, ma comincia da prima, dagli anni '70. Io porrei il problema in questi termini: in che forma è pensabile una sinistra - se è pensabile, perché anche questo interrogativo più radicale è legittimo - in una situazione di classe come quella che stiamo vivendo da venti o trent'anni a questa parte? Contraddizioni di fondo, contrasti insanabili, opzioni contrapposte all'interno di questo mondo della sinistra radicale o alternativa - come talvolta è già accaduto in passato nel movimento operaio - io francamente non ne vedo. Sono culture diverse, anche tradizioni organizzative diverse, che nella situazione globale attuale tendono più a convergere che a divergere. Parlo, ad esempio, delle due opzioni culturali che potrebbero apparire più divaricate: quella ambientalista e quella marxista classica che punta sullo sviluppo anche in termini di denegazione ambientalistica - anche questo è accaduto talvolta in passato. Ma le due cose, allo stato attuale dei problemi, tendono a convergere, non a contrapporsi. Bisogna ragionare a livello mondiale sul rapporto che esiste tra sviluppo e ambiente. Questo è uno dei tre o quattro problemi di fondo.
Si profila quindi una fase di battaglia culturale, per l'egemonia si potrebbe dire, tra la sinistra radicale e la sinistra moderata, spesso incantata dalle sirene dell'ideologia liberista?
Non c'è dubbio che esista anche questo aspetto. Tuttavia quando sento il termine «egemonia» rabbrividisco perché viene spesso evocata - non in questo caso - in termini scorretti e dispregiativi. Preferisco parlare di identità culturali. Se la seconda faccia della proposta emergesse di più - come io spererei - allora dovremmo parlare di idee, culture, di atteggiamenti progettuali e costruttivi. Ora, questo si può fare solo se si smette di soggiacere supinamente a una fase di "liberismo mentale" che ha contagiato anche larghi settori della sinistra italiana ed europea.
Che fisionomia potrà avere questa ricomposizione della sinistra alternativa dal punto di vista delle formule organizzative? Iniziative comuni dal basso su singoli temi unificanti oppure un processo di avvicinamento "dall'alto", per opera dei ceti politici?
Bertinotti, non io, ha parlato di «contenitore». La mia proposta è più modesta, dotata sicuramente di minore capacità propositiva. Io penso che la convergenza su singole iniziative sia troppo poco. Preferirei la creazione di una "camera" di discussione, verifica e dibattito, una "camera permanente", dove le sigle - ma anche quello che non è ancora siglato, che sta oltre le organizzazioni frammentarie di cui stiamo parlando - siano in grado di confrontarsi per elaborare proposte. Naturalmente anche di distinguersi ma a ragion veduta.
Quindi, non una semplice sommatoria, ma la nascita di una soggettività politica diversa dalle parti che la compongono?
Secondo me è uno strumento di riorganizzazione dell'esistente ma anche di mutamento dell'esistente. Ho una "illuministica" fiducia nel fatto che la creazione di uno strumento cosiffatto tenderebbe più a fare evidenziare gli elementi di convergenza che non quelli di divisione.
Prima ancora di mettere in cantiere la nascita di questo soggetto emergono però anche le critiche di chi paventa il venir meno della coalizione di centrosinistra. L'alleanza con le forze democratiche e riformiste rimane nell'orizzonte della proposta?
La dò per scontata. Il presupposto del ragionamento che io credo d'aver fatto con estrema chiarezza in ambedue gli articoli pubblicati dal manifesto, è che questo semmai va concepito come uno strumento di rafforzamento del centrosinistra - io continuo a preferire questa dizione all'"orribile" Gad. Perché dovrebbe mettere in crisi la coalizione? Se uno si organizza, lo scopo è di rafforzare le posizioni della sinistra radicale rispetto a quelle della sinistra moderata. Questo fa parte di qualsiasi gioco politico che si rispetti.
Al di fuori dei calcoli geopolitici il consolidamento dell'area della sinistra radicale potrebbe persino riconquistare alla politica settori della società che finora sono sprovvisti di rappresentanza. E' così?
Il primo atto che dovrebbe assumere questa camera della sinistra radicale non è rinchiudersi in se stessa, ma stabilire fili di collegamento e sollecitazione con l'esterno.
E' qui che i vecchi organismi stentano a farcela, nonostante si siano posti il problema. Rifondazione sicuramente se l'è posto. Non è una critica schematica a quanto è stato fatto finora, ma è l'idea che ci sono i margini per fare di più.
Questa "camera permanente" potrebbe funzionare nell'immediato anche come luogo di elaborazione di un programma comune alle forze della sinistra alternativa da portare in dote in un ipotetico, futuro governo antitetico a quello del centrodestra?
Assolutamente sì. Finora si è discusso poco di contenuti programmatici. Dovrebbe essere il luogo altresì rispetto al lungo periodo, in cui questa sinistra radicale si chiarisce le idee sul pacchetto di proposte da portare al confronto con il resto del centrosinistra. Naturalmente con quella flessibilità che è necessaria in tutte le alleanze, ma con una maggiore chiarezza di idee e anche con una maggiore uniformità di proposte, il che - mi pare incontrovertibile - rafforzerebbe la posizione.
Le Scienze, edizione italiana dello Scientific American
«lo stress dei neonati»
Le Scienze 28.10.2004
Lo stress nei neonati
Il neuropeptide CRH è coinvolto nello sviluppo dei dendriti
Elevati livelli di stress nei neonati e durante l’infanzia possono portare a uno scarso sviluppo delle zone del cervello responsabili della comunicazione fra i neuroni, una caratteristica che si osserva in disturbi quali l’autismo, la depressione e il ritardo mentale. Sono i risultati di uno studio di Tallie Z. Baram e colleghi dell’Università della California di Irvine, della Neurocrine Biosciences, Inc. e del Max-Planck-Institut di psichiatria.
Per la prima volta, i ricercatori hanno stabilito che l’aumento quantitativo di un messaggero chimico associato allo stress, il neuropeptide CRH, può inibire la normale crescita dei dendriti, le protrusioni ramificate dei neuroni che inviano e ricevono messaggi dalle altre cellule del cervello. Secondo gli scienziati, CRH potrebbe essere il responsabile dello scarso sviluppo di queste regioni neuronali. I risultati dello studio sono stati pubblicati sull’edizione online della rivista “Proceedings of the National Academy of Sciences”.
“Queste scoperte - afferma Baram - potrebbero dimostrarsi estremamente importanti per comprendere le origini di numerosi disturbi cerebrali, oltre che suggerire possibili trattamenti preventivi. L’attivazione di ormoni e molecole in seguito allo stress sembrerebbe dare il via a una complessa cascata di eventi associati alla depressione e alla demenza. Il nostro studio rivela il possibile ruolo di CRH in questa cascata”.
Lo stress nei neonati
Il neuropeptide CRH è coinvolto nello sviluppo dei dendriti
Elevati livelli di stress nei neonati e durante l’infanzia possono portare a uno scarso sviluppo delle zone del cervello responsabili della comunicazione fra i neuroni, una caratteristica che si osserva in disturbi quali l’autismo, la depressione e il ritardo mentale. Sono i risultati di uno studio di Tallie Z. Baram e colleghi dell’Università della California di Irvine, della Neurocrine Biosciences, Inc. e del Max-Planck-Institut di psichiatria.
Per la prima volta, i ricercatori hanno stabilito che l’aumento quantitativo di un messaggero chimico associato allo stress, il neuropeptide CRH, può inibire la normale crescita dei dendriti, le protrusioni ramificate dei neuroni che inviano e ricevono messaggi dalle altre cellule del cervello. Secondo gli scienziati, CRH potrebbe essere il responsabile dello scarso sviluppo di queste regioni neuronali. I risultati dello studio sono stati pubblicati sull’edizione online della rivista “Proceedings of the National Academy of Sciences”.
“Queste scoperte - afferma Baram - potrebbero dimostrarsi estremamente importanti per comprendere le origini di numerosi disturbi cerebrali, oltre che suggerire possibili trattamenti preventivi. L’attivazione di ormoni e molecole in seguito allo stress sembrerebbe dare il via a una complessa cascata di eventi associati alla depressione e alla demenza. Il nostro studio rivela il possibile ruolo di CRH in questa cascata”.
© 1999 - 2004 Le Scienze S.p.A.
poesia
intervista con Adonis
il più grande poeta arabo vivente
il manifesto - 28 Ottobre 2004 CULTURA
IL RITMO DEI SENSI/INTERVISTA
Ogni poesia sta alla lingua come l'onda al mare
I suoni di Adonis
INCONTRO CON IL POETA SIRIANO.
«Da quando ho imparato a camminare mi sono percepito come albero, pietra, nuvola, acqua. Sentivo di far parte di un mondo vivo, sensoriale, che mi avvolgeva. Man mano che passano gli anni mi rendo conto sempre di più della complessa forza della lingua araba, e mi chiedo se ne siamo degni»
WASIM DAHMASH
A volte, quando le parole si affiancano le une alle altre in modo che i significati, seppure parzialmente, si sovrappongono, si determina un passaggio di senso fino a stabilire una relazione d'identità nel punto estremo in cui quei significati arrivano a convergere. In questi casi le parole si sfiorano, e in qualche modo si costituscono in un rapporto sinonimico tale da evocare quel fenomeno chiamato «coscienza mitologica», una logica preesistente a quella razionale e vigente ancora oggi se tra l'oggetto e il suo nome si stabilisce un legame così stretto da renderli non più scindibili: succede, per esempio, quando abbiamo paura di evocare una malattia pronunciandone il nome e, evitando di nominarla, la esorcizziamo. Così, gli oggetti verbali sarebbero legati strettamente alla realtà, resa concreta attraverso la parola. Chi, come noi al giorno d'oggi, non possiede la logica intrinseca al mito, è indotto a tradurre quegli «oggetti verbali» in immagini metaforiche e simboliche invece di imboccare le strade che ci permettono di recuperare quell'antica unità, facendone riemergere il retaggio di sensi. In una forma moderna, anche se non raggiunge l'asciuttezza che esigerebbero questi tempi in cui vige l'estetica della «postmoderità», le parole che formano i versi di Adonis, immerse come sono in una antica cultura, araba e non solo, vorrebbero essere legate strettamente alla realtà, come al tempo in cui le «parole» ancora non erano separate dalle «cose». Così recita, nell'ottima traduzione di Fawzi AL Delmi, una poesia di Adonis titolata Albero d'Oriente e inclusa nella raccolta appena uscita da Mondadori, Libro delle metamorfosi e della migrazione nelle regioni del giorno e della notte:
Nella lirica di Adonis l'eredità culturale agisce in un dinamismo continuo: non è qualcosa che si trova in un certo punto del passato, piuttosto è il tempo che si condensa, pensato come un'unità. E nel rivisitare la storia, Adonis concilia l'esigenza di riprendere possesso di quel patrimonio delineandolo con i mezzi che la modernità ha impresso, livellandolo, alle forme della poesia. Come il mistico sufi nel suo cammino verso l'«unione», il poeta è in viaggio, in scoperta continua: di sé, dell'altro, della realtà, dell'ignoto, di un altrove che riecheggia, inaspettatamente, con la voce di una memoria viva, che è al tempo stesso irrinunciabile frammento d'identità. Piuttosto che un obiettivo da raggiungere, è il cammino da seguire che si rinnova perennemente, sintomo di un'aspirazione inestinguibile, come avviene a uno degli alter ego di Adonis, Mihyar, personaggio di un lungo componimento ormai lontano nel tempo (Agani Mihyar al-dimashqi «I canti di Mihyar il damasceno», Beirut 1961).
In un suo libro titolato «Sufismo e surrealismo» (al-Sufiyya wa l-suriyaliyya, Beirut 1992) poi ripreso in un breve saggio tradotto all'interno della raccolta La preghiera e la spada (Guanda, Parma 2002) Adonis riconosce ai surrealisti una linea di pensiero comune a quella seguita dai mistici musulmani. Tra demolizione e ricostruzione, atti di libertà e di purificazione del pensiero e della lingua, nel suo ruolo di poeta si prefigge lo scopo di raggiungere la conoscenza dell'«io» e dell'ignoto, la sua unità nascosta, con la coscienza sia di doversi liberare totalmente delle «dimore» poetiche istituite socialmente, sia di dovere perseguire la purezza nell'ignoto della lingua e del mondo.
In questo senso, il poeta è un visionario, mistico, sufi, ma soprattutto è un rivoluzionario: «Ogni poeta è un rivoluzionario e un gran demolitore di ciò che è noto, perché è un grande creatore di ciò che noto non è» (Zaman al-shi'r , «Il tempo della poesia», Beirut 1978).
Con Adonis, più che mai si ripropone quindi l'interrogativo sull'enigma dello scaturire del pensiero dall'ascolto, o dalla lettura, delle parole. Nel leggere la sua poesia, ci avviciniamo a quella tensione massima che si risolve nella significazione della parola. Le radici nel passato, nella sua poetica, sono ancorate al presente, come lo stesso Adonis mi diceva in una conversazione che ha preceduto il nostro incontro recente, dato che la cultura è «un patrimonio vivo in noi, la cui comunicabilità è continua: ciò che ha la capacità di continuare, è parte di noi».
Quale nesso le sembra di potere stabilire tra la formazione della sua infanzia, in un ambiente contadino, e la mediazione fortemente intellettuale che emerge dai suoi versi?
Non è facile per un poeta essere il critico di se stesso. La sua domanda merita un chiarimento: nell'ambiente in cui sono cresciuto prevaleva una cultura che operava una cesura tra Dio e il mondo, tra Dio, l'uomo e la natura. In questa cultura, Dio è un'astrazione. Ma fin dall'infanzia avevo la tendenza a umanizzarlo, a vederlo espresso in tutte le cose e quindi nella natura. Avvertivo che l'esistenza, e ciò che c'è oltre, è un'unità. È subentrata poi la conoscenza del sufismo. Se nella mia poesia sono presenti gli elementi della natura, questo si deve non solo a quella prima spinta a contraddire l'insegnamento religioso, ma anche al fatto di essere nato nel grembo della natura. Da quando ho imparato a camminare mi sono percepito come albero, pietra, nuvola, come acqua, parte di un'onda. Sentivo di far parte di un mondo vivo, sensoriale, che mi avvolgeva.
Vorrei ci fermassimo, un momento, sulla percezione degli elementi naturali, non mediati da concetti che intervengono a posteriori. Intanto, la percezione dell'ambiente circostante passa attraverso i propri genitori...
Mio padre leggeva e scriveva poesia: è stato lui, che faceva il contadino e lavorava la terra, a insegnarmela e a insegnarmi a leggere e scrivere. Nel nostro villaggio non c'era una scuola come la intendiamo oggi. Si imparava dovunque: le lezioni, il «kuttab», si svolgevano sotto un albero. E sotto quell'albero io studiavo insieme agli altri bambini. Mio padre è stato il mediatore, per così dire, dell'aspetto intellettuale; da lui ho appreso i grandi autori arabi della classicità e della poesia sufica. A mia madre, che non sapeva né leggere né scrivere, devo il rapporto con la natura, anche lei ne faceva parte. Ma, per la verità, entrambi i miei genitori hanno contribuito a dare forza alla mia percezione dei fenomeni naturali. Fin da piccolo mi ritrovai a seminare, piantare, mietere e vivere nella terra. Prima dei tredici anni, quando andai in città, non avevo mai visto un cinema, né una radio o una macchina. Da noi non c'era nemmeno la corrente elettrica.
Nei suoi versi funziona una sorta di «surrealismo»: è un argomento su cui lei ha indagato a lungo dedicandogli anche un saggio titolato «al-Sufiyya wa l-surialiyya» (Sufismo e surrealismo). Ce ne vuole parlare?
Il legame con la natura mi ha insegnato a ricercare l'«oltre» e a interrogarmi continuamente. È un atteggiamento che è stato rafforzato, in me, dal sufismo, inteso come dottrina mistica islamica. La realtà, nella concezione sufica del mondo, non è solo quella percepita attraverso i sensi, ma consiste in ciò che c'è oltre. Questa idea, che è sempre presente nel mio pensiero, si è riproposta quando ho conosciuto l'opera dei surrealisti. Qui ho ritrovato il sufismo, privo dell'aspetto religioso e al di fuori dell'ambito della fede: l'ho ritrovato nella forma di una particolare concezione del mondo. Il sufismo, anche se spesso viene interpretato come rinuncia dei sensi, è invece un'esperienza sensoriale con cui si percepiscono, nella mente, l'universo, l'uomo, i fiori, i fiumi. Mette in opera una «naturalizzazione» di Dio, lo vede non al di fuori del mondo, ma in ogni cosa. Corrisponde a ciò che Ibn Arabi chiamava «wahdat al-wugud» (l'unità dell'essere). Coincide con quanto Hallag - il grande poeta sufi di Baghdad che fu ucciso per le sue idee - nominava come «al-hulul» (incarnazione) nel senso che Dio prende dimora, sia nell'uomo, sia nella natura. Il sufismo ricerca l'ignoto a partire dalla natura stessa, cioè a partire da ciò che è noto, contrariamente a quanto vorrebbe la lettura più comune, che è quella della tradizione religiosa, la più superficiale. Nel corso del tempo i giurisperiti musulmani hanno mutilato il sufismo, accusandolo di miscredenza e di eresia. Invece di discuterne per conoscerlo, l'hanno posto fuori della religione e dunque eliminato. Nel mio libro discuto quindi del rapporto tra sufismo e surrealismo, dandone una lettura che si può definire, semplificandola molto, una sorta di «surrealismo naturale», di contro all'aspetto intellettuale che prevale nel surrealismo. Un surrealista, arabo, non può non essere sufi.
Secondo questa lettura, come descriverebbe i tratti del sufismo presenti nella sua poesia?
Sono essenzialmente cinque: l'universo è un'unità indivisibile che comprende il noto e l'ignoto. Quest'ultima è la parte più importante, ma bisogna comprenderle entrambe. La conoscenza nasce dall'ignoto ed è ricerca continua e interrogazione infinita. La verità, inoltre, è una scoperta e non discende per insegnamento come indica invece la religione: non è nascosta all'uomo, gli sta davanti. E ancora, l'identità non è data a priori e definitivamente: tocca a ognuno di noi inventare la propria. Per finire, l'universo è un infinito che si crea continuamente e non è creato una volta per tutte e per sempre.
Qual è il suo atteggiamento nei confronti della poesia classica, per esempio in rapporto al ritmo?
Un poeta deve conoscere la storia estetica della propria lingua, perciò il poeta arabo deve conoscere a fondo la lingua araba. Il mio rapporto con la classicità araba si delinea da una parte in una rilettura del passato e dall'altra nella ricerca di ciò che non si conosce, nel tentativo di aggiungere qualcosa: è forse il contrario dell'imitazione. La mia poesia è araba, lo è in ogni suo granello, ma non vuole essere paragonata a quella di nessun altro poeta arabo. L'acqua nel mare crea le onde. La lingua araba è il mare, la produzione poetica è l'ondeggiare dell'acqua nel mare. Non è dato al poeta ripetere nessuna onda precedente. Il rapporto del poeta è con l'acqua e non col movimento delle onde. Con quell'acqua deve creare nuove onde, tutte sue. Man mano che passano gli anni mi rendo conto sempre meglio di quanto sia complessa la forza della mia lingua e se penso alle condizioni in cui versa la cultura araba oggi, mi chiedo se siamo degni di un tale strumento. La poesia è un linguaggio dei sensi, dunque il mio rapporto con il ritmo è essenziale. Non quello prodotto dalla rima o dalla metrica, ma quello che si genera dalle relazioni tra un vocabolo e l'altro, tra una lettera e l'altra, tra un suono e l'altro. Queste relazioni producono frasi diverse, lontane dall'ordinamento classico.
Sono relazioni che si possono ricreare in un testo tradotto?
Cercherò di rispondere evitando di restare intrappolato nella «impasse» secondo la quale la traduzione poetica è «impossibile». Parliamo, piuttosto, di acquisti e di perdite. Se non è possibile trasportare una lingua, con le proprie strutture e le proprie particolarità in un'altra lingua, la traduzione non può che essere una «destrutturazione» del testo che va «ristrutturato» nella lingua d'arrivo. Facendo questo, il testo poetico perde necessariamente l'elemento linguistico del ritmo originale. Il traduttore quindi deve trovare un ritmo equivalente nella lingua d'arrivo, ma per quanto bravo possa essere, qualcosa va sempre perduto.
Lei accennava prima alle condizioni in cui versa la cultura araba oggi...
La cultura, e quindi la letteratura, nelle società arabe non fa parte organica della vita sociale. Non è il pane quotidiano. La cultura è spesso ornamento della politica. Esiste però in molti la volontà di trasformarla in ricerca, non dipendente dal potere politico e religioso.
IL RITMO DEI SENSI/INTERVISTA
Ogni poesia sta alla lingua come l'onda al mare
I suoni di Adonis
INCONTRO CON IL POETA SIRIANO.
«Da quando ho imparato a camminare mi sono percepito come albero, pietra, nuvola, acqua. Sentivo di far parte di un mondo vivo, sensoriale, che mi avvolgeva. Man mano che passano gli anni mi rendo conto sempre di più della complessa forza della lingua araba, e mi chiedo se ne siamo degni»
WASIM DAHMASH
A volte, quando le parole si affiancano le une alle altre in modo che i significati, seppure parzialmente, si sovrappongono, si determina un passaggio di senso fino a stabilire una relazione d'identità nel punto estremo in cui quei significati arrivano a convergere. In questi casi le parole si sfiorano, e in qualche modo si costituscono in un rapporto sinonimico tale da evocare quel fenomeno chiamato «coscienza mitologica», una logica preesistente a quella razionale e vigente ancora oggi se tra l'oggetto e il suo nome si stabilisce un legame così stretto da renderli non più scindibili: succede, per esempio, quando abbiamo paura di evocare una malattia pronunciandone il nome e, evitando di nominarla, la esorcizziamo. Così, gli oggetti verbali sarebbero legati strettamente alla realtà, resa concreta attraverso la parola. Chi, come noi al giorno d'oggi, non possiede la logica intrinseca al mito, è indotto a tradurre quegli «oggetti verbali» in immagini metaforiche e simboliche invece di imboccare le strade che ci permettono di recuperare quell'antica unità, facendone riemergere il retaggio di sensi. In una forma moderna, anche se non raggiunge l'asciuttezza che esigerebbero questi tempi in cui vige l'estetica della «postmoderità», le parole che formano i versi di Adonis, immerse come sono in una antica cultura, araba e non solo, vorrebbero essere legate strettamente alla realtà, come al tempo in cui le «parole» ancora non erano separate dalle «cose». Così recita, nell'ottima traduzione di Fawzi AL Delmi, una poesia di Adonis titolata Albero d'Oriente e inclusa nella raccolta appena uscita da Mondadori, Libro delle metamorfosi e della migrazione nelle regioni del giorno e della notte:
«Divenni lo specchioLo sdoppiamento, lo specchio, gli occhi che si riflettono nell'acqua dove si rifrange anche l'io lirico in dialogo con la sua complementarietà, sono ricorrenti nella poesia mistica araba: quella dei sufi, di Hallag, di Ibn Arabi e Ibn al-Farid. È la tensione verso l'unità il tema dominante, dove lo specchio ha le stesse capacità riflettenti dell'acqua. Gli occhi, in uno dei loro significati, alludono alla profondità che risiede nella stessa lingua araba. In arabo 'ayn è il nome della lettera dal suono più profondo, posteriore, faringale, dell'alfabeto; 'ayn significa nello stesso tempo «occhio», «fonte, sorgente» , «sostanza, essenza» e ancora, «stesso, medesimo». Lo specchio ricrea e riflette la stessa immagine. Le molteplici associazioni stabilite dai mistici musulmani a partire da «occhio», «fonte», «essenza», risiedono in questo semplice dato linguistico. «Occhio» e «fonte», in arabo si trovano associati dal momento che entrambi i rispettivi referenti sono situati al limite tra l'interno e l'esterno del corpo e della terra, con una connotazione di tramite verso la profondità. 'Ayn al-haqiqa, per il mistico è «la verita assoluta» e 'ayn al-yaqin è «la certezza assoluta». Da qui, forse, e sulla linea di una eredità culturale difficile da dipanare, gli «occhi» e l'«acqua» sono accostati anche da Adonis; e più in generale, i rapporti che stabilisce tra le parole dei suo versi richiamano, in una veste rinnovata, quelle associazioni.
riflettei ogni cosa
mutai nel tuo fuoco il rito dell'acqua e delle piante
mutai forma alla voce e al richiamo.
Cominciai a vederti duplice:
tu e queste perle che nuotano nei miei occhi.
Io e l'acqua diventammo amanti:
nasco in nome dell'acqua
e in me si genera l'acqua.
Io e l'acqua diventammo gemelli».
Nella lirica di Adonis l'eredità culturale agisce in un dinamismo continuo: non è qualcosa che si trova in un certo punto del passato, piuttosto è il tempo che si condensa, pensato come un'unità. E nel rivisitare la storia, Adonis concilia l'esigenza di riprendere possesso di quel patrimonio delineandolo con i mezzi che la modernità ha impresso, livellandolo, alle forme della poesia. Come il mistico sufi nel suo cammino verso l'«unione», il poeta è in viaggio, in scoperta continua: di sé, dell'altro, della realtà, dell'ignoto, di un altrove che riecheggia, inaspettatamente, con la voce di una memoria viva, che è al tempo stesso irrinunciabile frammento d'identità. Piuttosto che un obiettivo da raggiungere, è il cammino da seguire che si rinnova perennemente, sintomo di un'aspirazione inestinguibile, come avviene a uno degli alter ego di Adonis, Mihyar, personaggio di un lungo componimento ormai lontano nel tempo (Agani Mihyar al-dimashqi «I canti di Mihyar il damasceno», Beirut 1961).
In un suo libro titolato «Sufismo e surrealismo» (al-Sufiyya wa l-suriyaliyya, Beirut 1992) poi ripreso in un breve saggio tradotto all'interno della raccolta La preghiera e la spada (Guanda, Parma 2002) Adonis riconosce ai surrealisti una linea di pensiero comune a quella seguita dai mistici musulmani. Tra demolizione e ricostruzione, atti di libertà e di purificazione del pensiero e della lingua, nel suo ruolo di poeta si prefigge lo scopo di raggiungere la conoscenza dell'«io» e dell'ignoto, la sua unità nascosta, con la coscienza sia di doversi liberare totalmente delle «dimore» poetiche istituite socialmente, sia di dovere perseguire la purezza nell'ignoto della lingua e del mondo.
In questo senso, il poeta è un visionario, mistico, sufi, ma soprattutto è un rivoluzionario: «Ogni poeta è un rivoluzionario e un gran demolitore di ciò che è noto, perché è un grande creatore di ciò che noto non è» (Zaman al-shi'r , «Il tempo della poesia», Beirut 1978).
Con Adonis, più che mai si ripropone quindi l'interrogativo sull'enigma dello scaturire del pensiero dall'ascolto, o dalla lettura, delle parole. Nel leggere la sua poesia, ci avviciniamo a quella tensione massima che si risolve nella significazione della parola. Le radici nel passato, nella sua poetica, sono ancorate al presente, come lo stesso Adonis mi diceva in una conversazione che ha preceduto il nostro incontro recente, dato che la cultura è «un patrimonio vivo in noi, la cui comunicabilità è continua: ciò che ha la capacità di continuare, è parte di noi».
Quale nesso le sembra di potere stabilire tra la formazione della sua infanzia, in un ambiente contadino, e la mediazione fortemente intellettuale che emerge dai suoi versi?
Non è facile per un poeta essere il critico di se stesso. La sua domanda merita un chiarimento: nell'ambiente in cui sono cresciuto prevaleva una cultura che operava una cesura tra Dio e il mondo, tra Dio, l'uomo e la natura. In questa cultura, Dio è un'astrazione. Ma fin dall'infanzia avevo la tendenza a umanizzarlo, a vederlo espresso in tutte le cose e quindi nella natura. Avvertivo che l'esistenza, e ciò che c'è oltre, è un'unità. È subentrata poi la conoscenza del sufismo. Se nella mia poesia sono presenti gli elementi della natura, questo si deve non solo a quella prima spinta a contraddire l'insegnamento religioso, ma anche al fatto di essere nato nel grembo della natura. Da quando ho imparato a camminare mi sono percepito come albero, pietra, nuvola, come acqua, parte di un'onda. Sentivo di far parte di un mondo vivo, sensoriale, che mi avvolgeva.
Vorrei ci fermassimo, un momento, sulla percezione degli elementi naturali, non mediati da concetti che intervengono a posteriori. Intanto, la percezione dell'ambiente circostante passa attraverso i propri genitori...
Mio padre leggeva e scriveva poesia: è stato lui, che faceva il contadino e lavorava la terra, a insegnarmela e a insegnarmi a leggere e scrivere. Nel nostro villaggio non c'era una scuola come la intendiamo oggi. Si imparava dovunque: le lezioni, il «kuttab», si svolgevano sotto un albero. E sotto quell'albero io studiavo insieme agli altri bambini. Mio padre è stato il mediatore, per così dire, dell'aspetto intellettuale; da lui ho appreso i grandi autori arabi della classicità e della poesia sufica. A mia madre, che non sapeva né leggere né scrivere, devo il rapporto con la natura, anche lei ne faceva parte. Ma, per la verità, entrambi i miei genitori hanno contribuito a dare forza alla mia percezione dei fenomeni naturali. Fin da piccolo mi ritrovai a seminare, piantare, mietere e vivere nella terra. Prima dei tredici anni, quando andai in città, non avevo mai visto un cinema, né una radio o una macchina. Da noi non c'era nemmeno la corrente elettrica.
Nei suoi versi funziona una sorta di «surrealismo»: è un argomento su cui lei ha indagato a lungo dedicandogli anche un saggio titolato «al-Sufiyya wa l-surialiyya» (Sufismo e surrealismo). Ce ne vuole parlare?
Il legame con la natura mi ha insegnato a ricercare l'«oltre» e a interrogarmi continuamente. È un atteggiamento che è stato rafforzato, in me, dal sufismo, inteso come dottrina mistica islamica. La realtà, nella concezione sufica del mondo, non è solo quella percepita attraverso i sensi, ma consiste in ciò che c'è oltre. Questa idea, che è sempre presente nel mio pensiero, si è riproposta quando ho conosciuto l'opera dei surrealisti. Qui ho ritrovato il sufismo, privo dell'aspetto religioso e al di fuori dell'ambito della fede: l'ho ritrovato nella forma di una particolare concezione del mondo. Il sufismo, anche se spesso viene interpretato come rinuncia dei sensi, è invece un'esperienza sensoriale con cui si percepiscono, nella mente, l'universo, l'uomo, i fiori, i fiumi. Mette in opera una «naturalizzazione» di Dio, lo vede non al di fuori del mondo, ma in ogni cosa. Corrisponde a ciò che Ibn Arabi chiamava «wahdat al-wugud» (l'unità dell'essere). Coincide con quanto Hallag - il grande poeta sufi di Baghdad che fu ucciso per le sue idee - nominava come «al-hulul» (incarnazione) nel senso che Dio prende dimora, sia nell'uomo, sia nella natura. Il sufismo ricerca l'ignoto a partire dalla natura stessa, cioè a partire da ciò che è noto, contrariamente a quanto vorrebbe la lettura più comune, che è quella della tradizione religiosa, la più superficiale. Nel corso del tempo i giurisperiti musulmani hanno mutilato il sufismo, accusandolo di miscredenza e di eresia. Invece di discuterne per conoscerlo, l'hanno posto fuori della religione e dunque eliminato. Nel mio libro discuto quindi del rapporto tra sufismo e surrealismo, dandone una lettura che si può definire, semplificandola molto, una sorta di «surrealismo naturale», di contro all'aspetto intellettuale che prevale nel surrealismo. Un surrealista, arabo, non può non essere sufi.
Secondo questa lettura, come descriverebbe i tratti del sufismo presenti nella sua poesia?
Sono essenzialmente cinque: l'universo è un'unità indivisibile che comprende il noto e l'ignoto. Quest'ultima è la parte più importante, ma bisogna comprenderle entrambe. La conoscenza nasce dall'ignoto ed è ricerca continua e interrogazione infinita. La verità, inoltre, è una scoperta e non discende per insegnamento come indica invece la religione: non è nascosta all'uomo, gli sta davanti. E ancora, l'identità non è data a priori e definitivamente: tocca a ognuno di noi inventare la propria. Per finire, l'universo è un infinito che si crea continuamente e non è creato una volta per tutte e per sempre.
Qual è il suo atteggiamento nei confronti della poesia classica, per esempio in rapporto al ritmo?
Un poeta deve conoscere la storia estetica della propria lingua, perciò il poeta arabo deve conoscere a fondo la lingua araba. Il mio rapporto con la classicità araba si delinea da una parte in una rilettura del passato e dall'altra nella ricerca di ciò che non si conosce, nel tentativo di aggiungere qualcosa: è forse il contrario dell'imitazione. La mia poesia è araba, lo è in ogni suo granello, ma non vuole essere paragonata a quella di nessun altro poeta arabo. L'acqua nel mare crea le onde. La lingua araba è il mare, la produzione poetica è l'ondeggiare dell'acqua nel mare. Non è dato al poeta ripetere nessuna onda precedente. Il rapporto del poeta è con l'acqua e non col movimento delle onde. Con quell'acqua deve creare nuove onde, tutte sue. Man mano che passano gli anni mi rendo conto sempre meglio di quanto sia complessa la forza della mia lingua e se penso alle condizioni in cui versa la cultura araba oggi, mi chiedo se siamo degni di un tale strumento. La poesia è un linguaggio dei sensi, dunque il mio rapporto con il ritmo è essenziale. Non quello prodotto dalla rima o dalla metrica, ma quello che si genera dalle relazioni tra un vocabolo e l'altro, tra una lettera e l'altra, tra un suono e l'altro. Queste relazioni producono frasi diverse, lontane dall'ordinamento classico.
Sono relazioni che si possono ricreare in un testo tradotto?
Cercherò di rispondere evitando di restare intrappolato nella «impasse» secondo la quale la traduzione poetica è «impossibile». Parliamo, piuttosto, di acquisti e di perdite. Se non è possibile trasportare una lingua, con le proprie strutture e le proprie particolarità in un'altra lingua, la traduzione non può che essere una «destrutturazione» del testo che va «ristrutturato» nella lingua d'arrivo. Facendo questo, il testo poetico perde necessariamente l'elemento linguistico del ritmo originale. Il traduttore quindi deve trovare un ritmo equivalente nella lingua d'arrivo, ma per quanto bravo possa essere, qualcosa va sempre perduto.
Lei accennava prima alle condizioni in cui versa la cultura araba oggi...
La cultura, e quindi la letteratura, nelle società arabe non fa parte organica della vita sociale. Non è il pane quotidiano. La cultura è spesso ornamento della politica. Esiste però in molti la volontà di trasformarla in ricerca, non dipendente dal potere politico e religioso.
recensendo Tarkovskij
un articolo di cinque anni fa...
una informazione da Stefano Traiola
Nel numero di Novembre del 1999 la rivista controluce citava in un articolo di Lorenzo Pompeo su Tarkovskij, il libro di Massimo Fagioli "Istinto di morte e conoscenza"
per leggerlo si può cliccare su questo link:
http://www.controluce.it/giornali/a08n11/idue.htm
Nel numero di Novembre del 1999 la rivista controluce citava in un articolo di Lorenzo Pompeo su Tarkovskij, il libro di Massimo Fagioli "Istinto di morte e conoscenza"
per leggerlo si può cliccare su questo link:
http://www.controluce.it/giornali/a08n11/idue.htm
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