(segnalato da Sergio Grom)
La Repubblica - Dario - mercoledì 12.11.03
Populismo lo spettro che si aggira per il mondo
LA SOTTILE ARTE DI TRASCINARE LE FOLLE
Un modello di politica suggerito da Gustave Le Bon nel 1895
Nel suo trattato di psicologia c'è l'idea che le masse non sanno dirigere la propria vita
di REMO BODEI
Il moderno populismo ha una data di nascita: il 1895. È l´anno in cui Gustave Le Bon pubblica La psicologia delle folle e, per combinazione, quello stesso in cui i fratelli Lumière mostrano al pubblico i primi filmati.
Dinanzi ai tentativi dei nuovi "barbari", delle masse ignoranti e violente, di organizzarsi tramite i partiti socialisti, e dinanzi all'incapacità delle élite liberali di porre un freno alla loro rovinosa ascesa, Le Bon suggerisce un modello di politica incentrato sulla figura del
meneur des foules. Qualche decennio più tardi, l´espressione sarà resa nelle varie lingue con i termini Duce, Führer, Caudillo, Conducator. Eppure, sebbene Mussolini si sia vantato di aver letto diverse volte la sua opera, non si può ridurre Le Bon a un semplice precursore del fascismo. Anche il presidente degli Stati Uniti Theodor Roosevelt l'ammirava.
Alla base della teoria di Le Bon sta la convinzione che, negli stati moderni, la stragrande maggioranza degli uomini è incapace di dirigere autonomamente la propria vita. Infatti, una volta incrinata la fede nei dogmi della Chiesa e dello Stato, nessuna autorità riesce più a imporsi e nessun ragionamento personale ha da solo la forza di orientare il pensiero e l´azione. Il
meneur des foules deve dunque restaurare artificialmente la capacità delle masse di credere in un'autorità indiscutibile, che si rivolga direttamente a esse con discorsi che sembrino l'eco rinforzata della
vox populi, la traduzione efficace di ciò che ciascuno vorrebbe sentirsi dire. A tale scopo, egli costruisce miti inverificabili, inventa slogan, fa scrivere articoli e libri su di sé e lascia che s'innalzino statue per consolidare la fede nella sua forza e infallibilità. Sposta così il baricentro della politica dal parlamento e dalla discussione pubblica verso la piazza e il monologo.
La figura del politico che si serve della persuasione razionale per raggiungere i suoi fini viene sostituita da quella dell'artista che plasma il materiale umano a sua immagine e somiglianza o dell'ipnotizzatore, capace di far partecipare gli svegli a un sogno comune, di inserire le loro emozioni e idee entro lo schema di ideologie dominate da una logica dell'inverosimile e dell'irreale che fa aggio sulla logica della realtà. Coadiuvato da uno stuolo d'esperti (o addirittura da un Ministero della propaganda), il demagogo, trascinatore di folle, si trasforma in psicagogo, abile nel penetrare dentro l'anima e le motivazioni del "popolo", così da trasformarlo in comparsa che si crede protagonista.
Com'è mutato il populismo oggi? Per comprenderlo, occorre partire da un evento di cui non ci siamo quasi accorti. Della caduta del muro di Berlino si è parlato molto; poco o nulla della caduta delle pareti domestiche, provocata dalla televisione che ha fatto entrare la politica in casa, infrangendo quel diaframma che - realmente e simbolicamente - separava lo spazio pubblico da quello privato. La soglia di casa non costituisce più un invalicabile confine fra due mondi separati, un limite dinanzi al quale si arrestava persino il potere assoluto del sovrano di Hobbes. Si produce una nuova forma di politicizzazione, che coinvolge progressivamente figure per tradizione più legate più alla dimensione concava della famiglia che non alla dimensione convessa della politica. Attraverso la radio, i "regimi totalitari di massa" - com'è accaduto in Italia con il fascismo - avevano già cominciato a stanare le donne, i bambini e i ceti che non si erano mai interessati della vita pubblica dalla sfera privata, trasformarli in "massaie rurali", "giovani italiane", «figli della lupa» o "balilla".
Ora tale metamorfosi della politica ha luogo, in modo più efficace ma meno visibile, per mezzo della televisione, che genera un consenso "forzato", non perché strappato con la violenza, ma perché conseguito mediante una forzatura, allo stesso modo in cui s'inducono gli ortaggi a una crescita accelerata in serra. Tale serra, in cui il consenso viene populisticamente drogato, è oggi rappresentata dalla casa.
Dopo i bambini, gli anziani, specie le "nonne, mamme e zie" sono i più esposti agli effetti della televisione, ma, ovviamente, non i soli. Certo, essi costituiscono non solo una riserva di voti finora trascurata, ma anche la punta emergente di una numerosa quantità di cittadini che spesso hanno allentato o perduto quelle relazioni domestiche, interpersonali e politiche alle quali una volta s'intrecciava l´esistenza individuale: la famiglia allargata dove più generazioni convivevano sotto lo stesso tetto, la comunità di vicinato o di fabbrica, le riunioni in parrocchia, gli incontri nelle case del popolo e nelle sezioni di partito. Si tratta di soggetti che non hanno, per lo più, rapporto con la politica militante, che assorbono e valutano la vita politica soprattutto attraverso le immagini e i discorsi della televisione. E si tratta, per lo più, di una politica a basso costo di partecipazione, che si può elaborare in poltrona e che non richiede defatiganti riunioni, sfilate e comizi.
Decine di milioni di cittadini adulti e attivi, uomini e donne, sono tuttavia egualmente catturati dalla politica 'addomesticata', nel duplice senso di una politica introdotta nella casa e di una politica adattata allo stile e alle modalità dei comportamenti, delle aspettative, delle paure e dei litigi domestici. Per questo, i protagonisti della lotta politica si caricano delle valenze (di simpatia o di antipatia, di 'tifo' pro e contro) che circondano gli altri eroi dello schermo, dai conduttori di
talk shows e di
quiz agli attori del cinema e ai personaggi delle
telenovelas.
Dobbiamo ipotizzare che tali forme di populismo evolvano verso eventuali regimi videocratici
soft? Sebbene le democrazie siano dotate di robusti anticorpi, un rischio remoto non è da escludere. Il potere assunto dalla televisione è, tuttavia, più l'effetto di un disagio sociale che una causa di pericolo. La democrazia appare, infatti, sempre più minacciata dalla scarsità di risorse da ridistribuire, sia materiali che simboliche. Il loro prosciugarsi - entro un orizzonte d'aspettative sociali decrescenti - viene surrogato da un
pathos ipercompensativo di partecipazione mimetica alla vita pubblica, da un'inflazione di sceneggiature, psicodrammi e messaggi politici sopra le righe. Azzarderei pertanto l'ipotesi secondo cui gli elementi spettacolari tendono, in questo caso, a crescere in proporzione diretta all´aumento delle difficoltà da superare. Si possono cioè considerare gli ingredienti di teatralità fine a se stessi, puramente emotivi, in parte come sostituti di azioni efficaci e, in parte, come pubblici cerimoniali propiziatori. Certo, nessuna politica si riduce a teatralità, per quanto non si riesca a farne a meno. Il populismo è nefasto proprio perché la politica a 'uso esterno' prevale sulla soluzione coraggiosa dei problemi. Ma quale politico è disposto a fare a meno di un consenso più facilmente acquisibile?
Un nuovo spettro si aggira per il mondo
Intervista a Yves Mény: Un fenomeno che nasce dalla crisi della politica
un fenomeno che si trova sia a destra che a sinistra
la relazione di complicità tra il leader e il popolo
di ANTONIO GNOLI
C'è qualcosa che negli ultimi due decenni la politica ha conosciuto come fenomeno emergente prima e dilagante dopo: il populismo. Jean Marie Le Pen in Francia, Jörg Haider in Austria, Bossi e Berlusconi in Italia, per fare gli esempi mediaticamente più ricorrenti, hanno in qualche modo cambiato non tanto le regole ma la qualità della politica. Al punto da obbligare molti studiosi ad analizzare da punti di vista nuovi le società democratiche. Fra i primi a studiare il fenomeno Yves Mény che, insieme a Yves Surel, un paio di anni fa è uscito con un lavoro dedicato ai rapporti fra populismo e democrazia (edizioni il Mulino).
Gli studi più recenti sul populismo concordano sul fatto che è molto difficile trovare un accordo sul suo significato. Perché?
«La difficoltà è dovuta al fatto che il populismo non è una ideologia, come il marxismo o il liberalismo. Non è facile da fissare concettualmente una volta per tutte, ed è un fenomeno politico rintracciabile sia a destra che a sinistra».
Un concetto trasversale?
«In qualche modo sì. Un concetto che muta a seconda dei contesti e delle situazioni in cui è calato».
Ma se dovessimo dargli una pur vaga coloritura ideologica, che cosa potremmo dire?
«Il populismo è l'ideologia del popolo. In questo non è diverso dalla democrazia. Ma con una differenza di non poco conto. Il populismo emargina un elemento che è molto importante per la democrazia: cioè la limitazione del potere e la difesa dello stato di diritto».
Ma quale definizione potremmo dare oggi della democrazia?
«Essa dà un ruolo di grande rilievo al popolo. Ma non si esaurisce in esso. Rispetto al popolo, c'è l'insieme di procedure e regole che tutti, quindi anche il popolo, devono rispettare. Se l'80 per cento degli italiani o dei francesi o dei tedeschi vuole la pena di morte, non per questo è democratico applicarla. La democrazia negli anni ha saputo introdurre regole superiori di civiltà. Viceversa per il populismo esiste solo la voce del popolo, che tra l'altro è una voce spesso manipolata».
Allude al modo in cui la leadership populista gestisce il suo rapporto con la gente?
«Nel populismo è frequente trovare un uomo che pretende di incarnare le aspirazioni e le frustrazioni di una parte del popolo. E questa pretesa assume una forma più o meno carismatica. Si tenga conto di un fatto: il carisma non è una dote intrinseca dell´individuo che diventa capo, bensì è una relazione fra lui e il popolo».
Una relazione di che natura?
«Di complicità. Essa corrisponde ad attese più o meno nascoste e fa leva su sentimenti molto elementari. I leader populisti in genere hanno soluzioni facili a problemi complicati».
È questa la ragione del successo?
«È una delle ragioni. In realtà il populismo è forte dove la struttura partitica è debole, o quando essa entra in crisi. Può sembrare curioso, ma il populismo è quasi una costante negli Stati Uniti dove i partiti sono pure macchine elettorali per eleggere il presidente, e non hanno nessun'altra funzione di rilievo. In Francia sia nell´Ottocento che nel Novecento si sono avute forti pulsioni populiste in relazione alla debolezza della politica ufficiale. Nell'Europa di oggi vediamo che all'Est risorge il populismo per l'evidente debolezza dei partiti. E a Ovest esso si è affermato per l'intreccio troppo stretto fra partiti di governo e di opposizione».
Lei insiste sul populismo come patologia della democrazia. Esistono esperienze populiste tangenziali ai fenomeni autoritari e totalitari?
«Non c´è dubbio. In realtà però, più che di populismo vero e proprio, si tratta in questi casi di una pura manipolazione delle masse, utilizzate per il sostegno o il rafforzamento del potere. È difficile però ricondurre questi ultimi nell'alveo del populismo».
Una parte del populismo pretende di ricondurre l'idea di popolo all'idea di comunità. È un'operazione legittima?
«Direi che è completamente infondata. Le comunità cui si richiama il populismo sono del tutto inventate. Pretende di includervi il popolo, e di tenere fuori alcuni elementi».
Quali?
«L'esclusione più evidente è la figura dello straniero. Poi dal progetto populista vengono escluse tutte quelle forze considerate ostili al popolo: il capitale internazionale, la grande industria, le grandi banche. Il popolo cui fa riferimento è composto da gente umile, povera, frustrata. Automaticamente ostile alle élites economiche, burocratiche, intellettuali, politiche».
L'avversione alle élites non impedisce al populismo che va al potere di farne parte.
«Se il populismo va al potere ci sono due strade: o si integra con il resto della vita democratica o fallisce. L´esempio è Haider in Austria, il cui programma è segnato da una stridente contraddizione fra il discorso radicale e la pratica politica».
C'è un crescente populismo mediatico. Cosa ne pensa?
«È un incontro fatale quello fra i grandi mezzi di comunicazione e il populismo. Per il semplice motivo che qui molto più forte si pone il problema della leadership e dei rapporti che intrattiene con la sua base. Però il fenomeno mediatico coinvolge anche le democrazie: i Clinton, i Blair, gli Chirac non sono certo digiuni di televisione e del modo di usarla».
La leadership di Blair contiene una componente populista?
«Blair ha indebolito il partito laburista e accentuato la comunicazione con la gente, e in tal senso la sua leadership contiene un elemento populista. Questo da un lato. Dall'altro Blair continua ad avere posizioni sufficientemente autonome dall'opinione pubblica, anche sulla guerra irachena. Tuttavia il populismo in Inghilterra passa attraverso la stampa popolare. Le decisioni di Blair sul conflitto iracheno sono state criticate dalle élites politiche, ma sostenute da larga parte della stampa popolare».
C'è il rischio di una telecrazia?
«La televisione è un mezzo di enorme potenzialità. De Gaulle fu tra i primi a comprenderne la forza. E attraverso questo mezzo in più di una occasione ha scavalcato i partiti per parlare direttamente al popolo. Oggi però il Generale sarebbe considerato un dilettante. Il punto vero non è tanto l'appello diretto del politico attraverso il mezzo. Il leader non ne ha bisogno. O almeno non più di tanto. È grazie alla propaganda che la televisione di oggi ha creato la vera deriva populista. Se un commentatore televisivo dice: il leader politico tal dei tali ha ricevuto una telefonata da Putin o da Bush o da Blair, si lascia intendere che quel leader ha una grande autorevolezza. Ma niente di più. Niente che spieghi che cosa si siano detti in quella telefonata, che conseguenze ha sulla vita politica. Capisce? Puro vuoto contenutistico. Propaganda senza vera informazione».
L'altra faccia del leader è il popolo. Che idea ne ha?
«Il popolo può fare molto, ma non può fare tutto. Il potere spontaneo delle masse è un potere molto pericoloso, che è servito come pretesto per tutte le dittature: sia di destra che di sinistra».
MASSIMO CACCIARI:
Populismo è credere, o fingere di credere, che "popolo" sia un "ismo", e cioè un tutto unico, o un unico "animale", da suddividere, al più, per medie e sondaggi: la pensa così il 30, così il 20, così il 10 per cento e così via. Populismo è ritenere che una politica fondata, invece, sull'inalienabile valore della responsabilità di ciascuno sia favola o illusione o utopia. Populismo è accondiscendere al peggiore dei cattivi proverbi: che la voce del popolo (e cioè, inutile dirlo, della "maggioranza") sia la voce di Dio. Da cui ovviamente il corollario: che lo sia altrettanto la voce che a quella del popolo fa scimmiesca eco. Populistica è la politica che occulta la complessità dei problemi, o che li contrabbanda come l'effetto di complotti e sabotaggi da parte del "nemico" di turno; che asservisce all'idolo della "naturale bontà" dei nostri, individuali, appetiti, illudendo che il migliore dei mondi possibili nasca dal loro "libero" intreccio. Populismo è proprio questa confusione tra libertà e licenza, tra obbedienza e anarchia. Una vacua sicurezza nelle proprie ragioni che genera aggressività, insicurezza, angoscia.