mercoledì 12 novembre 2003

recensioni: filosofia della mente

(ricevuto da Paola D'Ettole)

il Sole 24ore Domenicale del 9.11.03
Una lettura di David Hume come padre della psicologia cognitiva contemporanea
Fodor, quei concetti ficcati nella testa
Le rappresentazioni vanno considerate come dei veri e propri "oggetti"
di Diego Marconi


Quine, l'insigne filosofo americano scomparso tre anni fa, non aveva alcun interesse per la storia della filosofia; ma, a un certo punto della sua carriera, fu praticamente obbligato dal suo Dipartimento a tenere un corso di contenuto storico, e scelse di tenerlo sul pensiero di Hume. L'esperienza non fu però positiva, perché - come Quine memorabilmente scrisse nella sua autobiografia - "anziché determinare che cosa pensava Hume e ammannirlo agli studenti, preferivo determinare qual era la verità, e ammannirla agli studenti". Anche Jerry Fodor, a quanto pare, ha tenuto vari corsi su Hume, nonostante che, come afferma egli stesso, "la sua ignoranza della storia della filosofia sia quasi perfetta", e in particolare, sempre per sua ammissione, non ne sappia nulla di Hume. E non l'ha fatto perché obbligato dall'istituzione, come Quine, ma di sua spontanea volontà. Il breve libro Variazioni su Hume raccoglie ora i risultati di questa ricerca; come dice l'autore, non è proprio un libro su Hume, ma un libro "su certi aspetti della mente cognitiva su cui Hume aveva delle teorie". L'alternativa quiniana tra determinare che cosa pensava Hume e determinare qual è la verità è dunque risolta a favore del secondo corno. Tuttavia, il grande scozzese viene spesso reclutato per portar acqua al mulino di Fodor, e d'altra parte le discussioni di scienza cognitiva di cui Hume è considerato un interlocutore gettano luce sui meccanismi del suo pensiero, e lo rendono interessante anche per chi si occupi più della mente che della filosofia del Settecento. Probabilmente gli esperti troveranno che lo Hume di Fodor è ora semplificato, ora stravolto rispetto al vero Hume, e avranno senz'altro ragione. D'altra parte, se Fodor ritiene di discutere le questioni filosofiche che gli stanno a cuore convocando un filosofo più o meno inventato, ma di cui espone con chiarezza le tesi, in fondo sono affari suoi: quello che conta, in ultima analisi, è la qualità della discussione che ne risulta.
Le ragioni per cui Fodor si occupa di Hume sono presto dette. Anzitutto, perché lo considera l'antesignano della scienza cognitiva: "Il Trattato sulla natura umana di Hume è il documento fondativo della scienza cognitiva: esso rese per la prima volta esplicito il progetto di costruire una psicologia empirica basata su una teoria rappresentazionale della mente". In secondo luogo, perché sembra a Fodor che Hume stia dalla sua parte in quasi tutti i dibattiti in cui è stato coinvolto negli ultimi decenni: dunque è un potente alleato contro gli aborriti "pragmatisti" (vedremo tra poco chi sono).
Ecco un esempio dell'alleanza. Ci sono oggi in circolazione, fondamentalmente, due tipi di teorie dei concetti. Secondo le teorie del primo tipo, avere un concetto C è, da un lato, essere capaci di discriminare le cose che sono C da quelle che non sono C (per esempio, avere il concetto di gatto è saper distinguere i gatti dai non-gatti); dall'altro, essere capaci di eseguire le inferenze in cui C è implicato (per esempio, sapere che un provvedimento di legge che riguarda gli animali riguarda, tra l'altro, i gatti). Secondo le teorie del secondo tipo, i concetti sono "alla lettera, oggetti mentali": il concetto C è semplicemente ciò mediante cui la mente rappresenta la proprietà di essere C (per esempio, essere un gatto), e avere il concetto C è essere in grado di pensare ai C. Le teorie del primo tipo sono sostenute da quasi tutti i filosofi della mente e del linguaggio oggi attivi. Sono questi i filosofi che Fodor chiama "pragmatisti" - un termine ormai piegato agli usi più bizzarri - e a cui imputa "la catastrofe che ha definito la filosofia analitica della mente e del linguaggio nella seconda metà del XX secolo". Le teorie del secondo tipo sono sostenute da Fodor e - secondo Fodor - da Hume. Hume, infatti, intende fondare la psicologia empirica sulla teoria delle idee: una teoria per cui i concetti, e in generale le rappresentazioni mentali, le "idee", sono veri e propri oggetti nella mente (non capacità o disposizioni, come sostengono i pragmatisti). Hume dunque, oltre che il padre della scienza cognitiva, è stato anche il primo psicologo atomista fodoriano.
E in verità, lo Hume che interessa a Fodor non è molto più di questo: "La tesi secondo cui le tipiche rappresentazioni mentali sono particolari strutturati è il nucleo di ciò che la nostra teoria delle mente eredita da Hume". Notoriamente, Hume pensava che il meccanismo psicologico fondamentale fosse l'associazione delle idee; ma Fodor mostra, con buoni argomenti, che l'associazionismo è indifendibile. E mostra anche che, se si prende per buono l'associazionismo, si deve ammettere - proprio per far funzionare il meccanismo associativo - che vi sono contenuti mentali che non sono esperienze; si deve cioè abbandonare l'empirismo (o almeno, una forma di empirismo). Ora, Hume senza empirismo e senza associazionismo è un po' come l'Amleto senza il Principe di Danimarca; e tuttavia si deve ammettere che in questo libro Fodor è riuscito a intrecciare la sua riflessione a quella dello scozzese in modo indubbiamente efficace. Emergono le difficoltà, del resto note, del pensiero di Hume, ma anche la sua grande forza argomentativa; e di riflesso la posizione stessa di Fodor risulta forse più convincente che in altre esposizioni recenti, come quella, nota anche in italiano, di Concetti (McGraw-Hill 1999).

Jerry Fodor, , Clarendon Press, Oxford 2003, pagg. 166, s.i.p.

recensioni: mente e corpo

(ricevuto da Paola D'Ettole)

Il Sole 24ore, Domenicale del 9.11.03
La materia dell'anima - Non è stato solo un "errore di Cartesio". Tutta la filosofia occidentale ha privilegiato le facoltà intellettive dell'uomo
Così il pensiero prende corpo
Oggi il soggetto e l'identità personale sono entità studiate a partire dal cervello e dall'intera costituzione fisica e neuronale
di Nicla Vassallo


"Dunque, lo spirito e il corpo sono realmente distinti. E bisogna osservare che io mi sono qui servito della onnipotenza di Dio per trarne la mia prova; non che vi sia bisogno di qualche straordinaria potenza per separare lo spirito dal corpo, ma perché, non avendo trattato che di Dio nelle proposizioni precedenti, non potevo trarla altro che da lui. E non importa da quale potenza due cose siano separate, purché noi conosciamo che sono realmente distinte". Chiudendo in questo modo le repliche alle seconde obiezioni rivolte contro le Meditazioni metafisiche, Cartesio ribadisce un punto cruciale e critico del suo pensiero: il dualismo mente/corpo. Non per nulla il suo ultimo lavoro filosofico, Le passioni dell'anima, rappresenta il tentativo di comprendere definitivamente come il dualismo possa consentire l'unione fra la mente e il corpo. Un tentativo che doveva tormentarlo: lo attesta anche la sua corrispondenza sia con la principessa Elisabetta del Palatinato (particolarmente insoddisfatta delle risposte cartesiane), sia con la regina Cristina di Svezia (che poi lo invitò a Stoccolma, obbligandolo a discuterne ogni mattina alle cinque). A partire da Cartesio, molto si è scritto sul problema mente/corpo, al punto che quasi tutti i filosofi moderni e contemporanei si sono schierati a favore o contro il dualismo. E non lo hanno fatto solo i filosofi, ma anche gli scienziati: si pensi, ad esempio, all'antidualista Antonio Damasio, osannato dal grande pubblico (e non solo) per i suoi volumi L'errore di Cartesio, Emozione e coscienza e Alla ricerca di Spinoza (tutti pubblicati da Adelphi).
Nonostante le incursioni degli scienziati nel dibattito, il problema della distinzione tra sostanze mentali e sostanze fisiche è stato prevalentemente discusso in filosofia della mente, una disciplina che si interroga sulla metafisica della mente, sull'epistemologia della mente e sui fenomeni mentali e che, quando ha rivolto un'attenzione al corpo, l'ha spesso limitata a una delle sue parti, il cervello. Oggi la filosofia della mente ha conquistato una posizione privilegiata nel panorama intellettuale, mentre assai raramente si sente parlare di "filosofia del corpo". Tutta colpa di Cartesio? Direi di no. Come già notava Nietzsche nella Genealogia della morale, la svalutazione del corpo a favore della mente è un tratto peculiare di tutta la cultura occidentale: essa, fin dalle sue origini, ha imposto alla filosofia una tendenza quasi ascetica, in cui si accordano molteplici privilegi alla ragione, mentre si denigrano il corpo, le sue funzioni, i suoi piaceri. Si tratta, sempre secondo Nietzsche, di un tratto fanciullesco, e quindi non sorprende leggere in Così parlò Zarathustra che "il risvegliato e il sapiente dice: corpo io sono in tutto e per tutto, e null'altro; e anima non è altro che una parola per indicare qualcosa del corpo".
Da qualche tempo, si stanno superando questi tratti fanciulleschi e la riflessione filosofica sul corpo sta acquisendo la dovuta importanza, grazie alla concomitanza di diversi fattori: ci si chiede sempre più di frequente cosa distingua un essere umano da un computer; si sviluppa un crescente interesse per il problema dell'identità personale (si veda, per esempio, il bel volume di Michele Di Francesco, L'io e i suoi sé. Identità personale e scienza della mente, Cortina); si assiste a una rivalutazione (anche in ambito analitico) del pensiero di Merleau-Ponty; la letteratura sulla filosofia delle emozioni è in continua espansione; l'impostazione femminista sul sesso, sul genere e sul cosiddetto embodiment (quest'ultimo oggi discusso in molte discipline, tra cui anche le "computer sciences") sta conseguendo risultati significativi; in filosofia della mente si accendono discussioni sulla mente incorporata o estesa.
Un quadro utile e stimolante di questa situazione è ben condensato nel breve volume curato da Mike Proudfood, in cui filosofi di prestigio (Quassim Cassam, Max de Gaynesford, Alison Adam, Sean Kelly, Hubert Dreyfus, Iris Marion Young, Michael Brearley) si interrogano sulle conseguenze teoriche dell'embodiment degli esseri umani, con una prospettiva aperta che, pur mescolando impostazione analitica e continentale, si attiene al rigore argomentativo. Ci si chiede sostanzialmente "qual è il ruolo che dobbiamo assegnare al corpo?" (domanda di sicuro interesse non solo per i filosofi, ma anche per medici, psicologi e sociologi, considerata quell'ossessione generale per il corpo che governa la nostra epoca; una buona lettura in proposito è il romanzo Il corpo di Kureishi, uscito presso Bompiani) e si cerca di rispondere alla domanda analizzando l'impatto del corpo sull'io, le percezioni, le intenzioni, le azioni, la sessualità, oltre che su scienze quali l'intelligenza artificiale, la psicoanalisi e la sociobiologia.
The Philosophy of Body sorprende non solo per il numero di tematiche trattate, ma anche per la misura in cui si riferisce ad alcuni filosofi; ad esempio, Frege vi viene nominato tanto quanto Foucault, la cui "Storia della sessualità" avrebbe forse meritato una maggior considerazione; Evans vi ha lo stesso spazio di Sartre; Wittgenstein vi gioca una parte onorevole; scontate, invece, le discussioni delle tesi di McDowell e di Shoemaker. Ci troviamo comunque di fronte a un libro pionieristico che, come tale, oltre a parecchi pregi, presenta alcuni difetti, come la mancanza di contributi scientifici, o di capitoli incentrati sul ruolo del corpo in etica, in filosofia della medicina e in filosofia della religione. Si tratta di un difetto grave, ma perdonabile; a esso dovranno necessariamente rimediare altri volumi che il presente avrà collaborato ad alimentare, grazie alla sua chiara rivendicazione dell'imprescindibilità di una filosofia del corpo che, lungi dall'essere appiattita sulla sola filosofia del cervello, si nutre di tante diverse riflessioni.
A rimediare prontamente, seppur parzialmente, c'è ora un bel simposio internazionale "The Body and the Sense of Self", organizzato dalla Fondazione Carlo Erba. Vi si parlerà di biologia del corpo, di filosofie della corporeità, di rappresentazione teatrale del corpo, così come degli aspetti etici e religiosi della corporeità, in un clima multidisciplinare che vedrà intervenire famosi scienziati, filosofi, teologi, attori. Ciò suggerisce che la filosofia del corpo si sta rivelando (anche nel nostro Paese) una novità di considerevole interesse, grazie alla capacità di coagulare attorno a sé molte discipline: questa filosofia è destinata a trasformarsi in un solido terreno di confronto e a restituirci una visione dell'essere umano più ampia, ragionevole e attinente al senso dell'esistenza che andiamo cercando, rispetto a quella che ci idealizza come semplici menti disincarnate.

Mike Proudfoot (a cura di), "The Philosophy of Body", Blackwell, Oxford 2003, pagg. 130, € 17.99.
"The Body and the Sense of Self", International Symposium, Fondazione Carlo Erba, Centro congressi Fondazione Cariplo, Milano, 14 novembre 2003, www.fondazionecarloerba.org.

la libertà di informazione

(segnalazione di Licia Pastore)

Megachip.info
Riportiamo qui l'intervento di Pino Di Maula, direttore responsabile di Clorofilla.it e apriamo un dibattito sul tema. Per intervenire inviate i vs. commenti via mail a
info@megachip.info

l'originale di questo articolo si può trovare QUI

La libertà di informazione
di Pino Di Maula


Ben 251 lettori ci dicono che a pilotare l’informazione è il potere economico. Altri 195 sono invece convinti che i giornalisti siano succubi della cultura dominante, mentre per 168 sono le grandi lobby a condizionare maggiormente la stampa nazionale.

I dati non emergono da un sondaggio elaborato dall’illustrissimo professor Renato Mannheimer ma da un più banale sistemino digitale posto sulla home del nostro sito dove 698 lettori di Clorofilla hanno voluto anonimamente far conoscere il loro punto di vista. Che poi coincide con l’opinione generale espressa dai direttori dei quotidiani, più o meno, sempre così: «Un buon conto economico è l’unica, vera garanzia di libertà. Di quella libertà molto particolare che è la libertà di stampa. Indipendenza e autonomia sono belle, bellissime parole, esposte a ogni soffio di vento se i bilanci non quadrano».
E’ il classico tormentone per chiedere soldi, penserete voi. E in effetti non avete tutti i torti. Con queste parole, l’8 agosto, ad esempio si cercava di giustificare il costo maggiorato dell’Unità di 10 centesimi, “il prezzo della libertà” si scrisse anche in quel caso.

Dunque la libertà d’informazione costa. Un fatto ineludibile, certo. Che pure non mi convince completamente. E non convince neppure, a legger bene il nostro sondaggio, più della metà dei nostri (di Clorofilla) lettori quando sostengono che sulla stampa pesa anche l’influenza della cultura dominante (vedi imbarazzante caso del crocifisso) e delle lobby. Quelle a cui si riferisce probabilmente Furio Colombo quando lamenta un boicottaggio delle concessionarie pubblicitarie sul giornale che dirige, oppure (quasi) peggio, quando si difende dagli attacchi che il perfido consulente del premier gli riserva dalle pagine del Foglio.
Ma anche in questi casi, si potrebbe obiettare, sono i “piccioli” a far da padroni. Se c’è la pubblicità ci sono anche soldi per pagare carta, stampatore o server provider, distribuzione e redattori che possono così far senza ricatti occupazionali con relative ansie, e quindi correttamente, il loro mestiere.

Dunque soldi. Ci vogliono soldi. Ma per fare soldi bisogna operare ponendo attenzione al mercato.
Così fan tutti. Così pretende ogni buon editore, anche il più “puro”, anche quello che mai e poi mai si sognerebbe di obbligarti a far pubblicare il fattore “c”, come culo, in copertina. Nascono così, direbbe Giulietto Chiesa, le prime pressioni, dirette o indirette, esercitate contro i giornalisti, costretti ad agire contro la correttezza professionale.

Vero, nulla da eccepire. Funziona così. Insomma, tutto quello che sapete è vero. Ma quel che forse non tutti sanno è che c’è di peggio. Molto peggio. E ossia che chi uccide davvero l’informazione utilizza – garantisco - a volte metodi ben più viscidi. Chi ammazza l’uomo ragno è quasi sempre un delinquente mascherato da gentiluomo democratico e dalle buone maniere che non mira solo al profitto bensì al dominio assoluto. Non vuol saperne di leggi, regole, normative e quant’altro possa limitare il suo controllo totale sulle cose come sulle persone capaci di mostrare intelligenza e affetti.

Lui sa come usare la vaghezza per operare in sfregio di ogni normativa giuridica, etica professionale e umana. Lo riconosci, il delinquente gentleman quando afferma un momento prima una cosa e il secondo dopo l’esatto opposto. Lo fa scientificamente a maggior ragione quando le cose van bene. Quando i lettori, ma anche i potenziali portatori di interessi e valori, ma perfino di soldi, quali concessionarie e azionisti, ti riconoscono professionalità, serietà. Ed efficienza.

Come a dire che quanto più ti accrediti per la qualità del lavoro svolto tanto più conviene diffidare dai modi garbati del gentleman. E’ quello, infatti, il momento in cui scatta la pulsione del “padroncino” per infangare, rovinare smantellare quanto hai costruito in anni di sacrifici assieme a tanti professionisti, a tante persone oneste che credevano nella possibilità di un progetto diverso (sia dalla controinformazione strillata che da quella politica o light da salotto che non disturba i potenti) per tornare a fare del giornalismo un mezzo di ricerca critica al servizio dei lettori. Un servizio che ogni buon direttore deve poter garantire alla sua redazione e ai suoi lettori di svolgere senza alcuna ingerenza. Da parte di chicchessia. Decisamente troppo per qualcuno.
In quel caso poco contano i soldi. Anzi per sfasciare tutto si è disposti a rinunciare anche ai ricavi che quella testata potrebbe produrre. Si è disposti ad acquisire testate libere e a farle fallire per trasformarle in “marchettifici” di basso bordo. Si arriva a far sparire stipendi per liberarsi delle risorse migliori.

La tecnica che si usa in questi casi ricorda quella “mafiosa” che usa violenza psicologica, oltre che materiale, alle povere ragazze rapite nei Paesi dell’est per poi rivenderle a ore sui marciapiedi del Belpaese. E’ «il fascismo latente per cui si parla di democrazia e di libertà di stampa e si fa morire il giornale che ancora non si è venduto a un gruppo di potere», scriveva nel ’80 Massimo Fagioli di Lotta Continua che per qualche momento sembrò interessata a una prassi di rapporto dialettico che rifiuta ma non uccide. «Forse un giorno ce lo racconteremo».

Speriamo. Per ora non rimane che prendere atto di uno scenario assai triste e per questo vorrei concludere rivolgendomi a Furio Colombo per smentire il fatto che un buon conto economico può bastare. Non è quella l’unica, vera garanzia di libertà. Ma son altre che dobbiamo trovare, possibilmente, insieme.

Mentre a Giulietto Chiesa che si batte contro malcostume, ignoranza e prepotenza fini a se stessi o volti ad abolire le regole della professione e di un’informazione corretta, ribadisco: non basta. C’è di più e di peggio.C’è chi ogni giorno uccide un uomo ragno ma nessuno se ne accorge. E per questo a entrambi, ma anche alla Fnsi, all’Ordine dei giornalisti, e a tutti i colleghi e lettori, vorrei infine dire: pensiamoci ora.

Per non scoprire domani una fossa comune con centinaia di testate smantellate non da Berlusconi, ma più banalmente dalla fatuità di chi non sa amare né gli uomini né la ricerca della conoscenza che regola, e da cui dipende, la qualità dei loro rapporti. E la “lotta continua contro l’indifferenza e la schizoidia dominante che si paga con la depressione continua”. Forse…. Un giorno, spero, ce lo racconteremo.

Pino di Maula Clorofilla.it
(lunedì 10 novembre 2003)

il populismo su Repubblica del 12.11

(segnalato da Sergio Grom)

La Repubblica - Dario - mercoledì 12.11.03
Populismo lo spettro che si aggira per il mondo
LA SOTTILE ARTE DI TRASCINARE LE FOLLE

Un modello di politica suggerito da Gustave Le Bon nel 1895
Nel suo trattato di psicologia c'è l'idea che le masse non sanno dirigere la propria vita
di REMO BODEI


Il moderno populismo ha una data di nascita: il 1895. È l´anno in cui Gustave Le Bon pubblica La psicologia delle folle e, per combinazione, quello stesso in cui i fratelli Lumière mostrano al pubblico i primi filmati.
Dinanzi ai tentativi dei nuovi "barbari", delle masse ignoranti e violente, di organizzarsi tramite i partiti socialisti, e dinanzi all'incapacità delle élite liberali di porre un freno alla loro rovinosa ascesa, Le Bon suggerisce un modello di politica incentrato sulla figura del meneur des foules. Qualche decennio più tardi, l´espressione sarà resa nelle varie lingue con i termini Duce, Führer, Caudillo, Conducator. Eppure, sebbene Mussolini si sia vantato di aver letto diverse volte la sua opera, non si può ridurre Le Bon a un semplice precursore del fascismo. Anche il presidente degli Stati Uniti Theodor Roosevelt l'ammirava.
Alla base della teoria di Le Bon sta la convinzione che, negli stati moderni, la stragrande maggioranza degli uomini è incapace di dirigere autonomamente la propria vita. Infatti, una volta incrinata la fede nei dogmi della Chiesa e dello Stato, nessuna autorità riesce più a imporsi e nessun ragionamento personale ha da solo la forza di orientare il pensiero e l´azione. Il meneur des foules deve dunque restaurare artificialmente la capacità delle masse di credere in un'autorità indiscutibile, che si rivolga direttamente a esse con discorsi che sembrino l'eco rinforzata della vox populi, la traduzione efficace di ciò che ciascuno vorrebbe sentirsi dire. A tale scopo, egli costruisce miti inverificabili, inventa slogan, fa scrivere articoli e libri su di sé e lascia che s'innalzino statue per consolidare la fede nella sua forza e infallibilità. Sposta così il baricentro della politica dal parlamento e dalla discussione pubblica verso la piazza e il monologo.
La figura del politico che si serve della persuasione razionale per raggiungere i suoi fini viene sostituita da quella dell'artista che plasma il materiale umano a sua immagine e somiglianza o dell'ipnotizzatore, capace di far partecipare gli svegli a un sogno comune, di inserire le loro emozioni e idee entro lo schema di ideologie dominate da una logica dell'inverosimile e dell'irreale che fa aggio sulla logica della realtà. Coadiuvato da uno stuolo d'esperti (o addirittura da un Ministero della propaganda), il demagogo, trascinatore di folle, si trasforma in psicagogo, abile nel penetrare dentro l'anima e le motivazioni del "popolo", così da trasformarlo in comparsa che si crede protagonista.
Com'è mutato il populismo oggi? Per comprenderlo, occorre partire da un evento di cui non ci siamo quasi accorti. Della caduta del muro di Berlino si è parlato molto; poco o nulla della caduta delle pareti domestiche, provocata dalla televisione che ha fatto entrare la politica in casa, infrangendo quel diaframma che - realmente e simbolicamente - separava lo spazio pubblico da quello privato. La soglia di casa non costituisce più un invalicabile confine fra due mondi separati, un limite dinanzi al quale si arrestava persino il potere assoluto del sovrano di Hobbes. Si produce una nuova forma di politicizzazione, che coinvolge progressivamente figure per tradizione più legate più alla dimensione concava della famiglia che non alla dimensione convessa della politica. Attraverso la radio, i "regimi totalitari di massa" - com'è accaduto in Italia con il fascismo - avevano già cominciato a stanare le donne, i bambini e i ceti che non si erano mai interessati della vita pubblica dalla sfera privata, trasformarli in "massaie rurali", "giovani italiane", «figli della lupa» o "balilla".
Ora tale metamorfosi della politica ha luogo, in modo più efficace ma meno visibile, per mezzo della televisione, che genera un consenso "forzato", non perché strappato con la violenza, ma perché conseguito mediante una forzatura, allo stesso modo in cui s'inducono gli ortaggi a una crescita accelerata in serra. Tale serra, in cui il consenso viene populisticamente drogato, è oggi rappresentata dalla casa.
Dopo i bambini, gli anziani, specie le "nonne, mamme e zie" sono i più esposti agli effetti della televisione, ma, ovviamente, non i soli. Certo, essi costituiscono non solo una riserva di voti finora trascurata, ma anche la punta emergente di una numerosa quantità di cittadini che spesso hanno allentato o perduto quelle relazioni domestiche, interpersonali e politiche alle quali una volta s'intrecciava l´esistenza individuale: la famiglia allargata dove più generazioni convivevano sotto lo stesso tetto, la comunità di vicinato o di fabbrica, le riunioni in parrocchia, gli incontri nelle case del popolo e nelle sezioni di partito. Si tratta di soggetti che non hanno, per lo più, rapporto con la politica militante, che assorbono e valutano la vita politica soprattutto attraverso le immagini e i discorsi della televisione. E si tratta, per lo più, di una politica a basso costo di partecipazione, che si può elaborare in poltrona e che non richiede defatiganti riunioni, sfilate e comizi.
Decine di milioni di cittadini adulti e attivi, uomini e donne, sono tuttavia egualmente catturati dalla politica 'addomesticata', nel duplice senso di una politica introdotta nella casa e di una politica adattata allo stile e alle modalità dei comportamenti, delle aspettative, delle paure e dei litigi domestici. Per questo, i protagonisti della lotta politica si caricano delle valenze (di simpatia o di antipatia, di 'tifo' pro e contro) che circondano gli altri eroi dello schermo, dai conduttori di talk shows e di quiz agli attori del cinema e ai personaggi delle telenovelas.
Dobbiamo ipotizzare che tali forme di populismo evolvano verso eventuali regimi videocratici soft? Sebbene le democrazie siano dotate di robusti anticorpi, un rischio remoto non è da escludere. Il potere assunto dalla televisione è, tuttavia, più l'effetto di un disagio sociale che una causa di pericolo. La democrazia appare, infatti, sempre più minacciata dalla scarsità di risorse da ridistribuire, sia materiali che simboliche. Il loro prosciugarsi - entro un orizzonte d'aspettative sociali decrescenti - viene surrogato da un pathos ipercompensativo di partecipazione mimetica alla vita pubblica, da un'inflazione di sceneggiature, psicodrammi e messaggi politici sopra le righe. Azzarderei pertanto l'ipotesi secondo cui gli elementi spettacolari tendono, in questo caso, a crescere in proporzione diretta all´aumento delle difficoltà da superare. Si possono cioè considerare gli ingredienti di teatralità fine a se stessi, puramente emotivi, in parte come sostituti di azioni efficaci e, in parte, come pubblici cerimoniali propiziatori. Certo, nessuna politica si riduce a teatralità, per quanto non si riesca a farne a meno. Il populismo è nefasto proprio perché la politica a 'uso esterno' prevale sulla soluzione coraggiosa dei problemi. Ma quale politico è disposto a fare a meno di un consenso più facilmente acquisibile?

Un nuovo spettro si aggira per il mondo
Intervista a Yves Mény: Un fenomeno che nasce dalla crisi della politica
un fenomeno che si trova sia a destra che a sinistra
la relazione di complicità tra il leader e il popolo
di ANTONIO GNOLI


C'è qualcosa che negli ultimi due decenni la politica ha conosciuto come fenomeno emergente prima e dilagante dopo: il populismo. Jean Marie Le Pen in Francia, Jörg Haider in Austria, Bossi e Berlusconi in Italia, per fare gli esempi mediaticamente più ricorrenti, hanno in qualche modo cambiato non tanto le regole ma la qualità della politica. Al punto da obbligare molti studiosi ad analizzare da punti di vista nuovi le società democratiche. Fra i primi a studiare il fenomeno Yves Mény che, insieme a Yves Surel, un paio di anni fa è uscito con un lavoro dedicato ai rapporti fra populismo e democrazia (edizioni il Mulino).
Gli studi più recenti sul populismo concordano sul fatto che è molto difficile trovare un accordo sul suo significato. Perché?
«La difficoltà è dovuta al fatto che il populismo non è una ideologia, come il marxismo o il liberalismo. Non è facile da fissare concettualmente una volta per tutte, ed è un fenomeno politico rintracciabile sia a destra che a sinistra».
Un concetto trasversale?
«In qualche modo sì. Un concetto che muta a seconda dei contesti e delle situazioni in cui è calato».
Ma se dovessimo dargli una pur vaga coloritura ideologica, che cosa potremmo dire?
«Il populismo è l'ideologia del popolo. In questo non è diverso dalla democrazia. Ma con una differenza di non poco conto. Il populismo emargina un elemento che è molto importante per la democrazia: cioè la limitazione del potere e la difesa dello stato di diritto».
Ma quale definizione potremmo dare oggi della democrazia?
«Essa dà un ruolo di grande rilievo al popolo. Ma non si esaurisce in esso. Rispetto al popolo, c'è l'insieme di procedure e regole che tutti, quindi anche il popolo, devono rispettare. Se l'80 per cento degli italiani o dei francesi o dei tedeschi vuole la pena di morte, non per questo è democratico applicarla. La democrazia negli anni ha saputo introdurre regole superiori di civiltà. Viceversa per il populismo esiste solo la voce del popolo, che tra l'altro è una voce spesso manipolata».
Allude al modo in cui la leadership populista gestisce il suo rapporto con la gente?
«Nel populismo è frequente trovare un uomo che pretende di incarnare le aspirazioni e le frustrazioni di una parte del popolo. E questa pretesa assume una forma più o meno carismatica. Si tenga conto di un fatto: il carisma non è una dote intrinseca dell´individuo che diventa capo, bensì è una relazione fra lui e il popolo».
Una relazione di che natura?
«Di complicità. Essa corrisponde ad attese più o meno nascoste e fa leva su sentimenti molto elementari. I leader populisti in genere hanno soluzioni facili a problemi complicati».
È questa la ragione del successo?
«È una delle ragioni. In realtà il populismo è forte dove la struttura partitica è debole, o quando essa entra in crisi. Può sembrare curioso, ma il populismo è quasi una costante negli Stati Uniti dove i partiti sono pure macchine elettorali per eleggere il presidente, e non hanno nessun'altra funzione di rilievo. In Francia sia nell´Ottocento che nel Novecento si sono avute forti pulsioni populiste in relazione alla debolezza della politica ufficiale. Nell'Europa di oggi vediamo che all'Est risorge il populismo per l'evidente debolezza dei partiti. E a Ovest esso si è affermato per l'intreccio troppo stretto fra partiti di governo e di opposizione».
Lei insiste sul populismo come patologia della democrazia. Esistono esperienze populiste tangenziali ai fenomeni autoritari e totalitari?
«Non c´è dubbio. In realtà però, più che di populismo vero e proprio, si tratta in questi casi di una pura manipolazione delle masse, utilizzate per il sostegno o il rafforzamento del potere. È difficile però ricondurre questi ultimi nell'alveo del populismo».
Una parte del populismo pretende di ricondurre l'idea di popolo all'idea di comunità. È un'operazione legittima?
«Direi che è completamente infondata. Le comunità cui si richiama il populismo sono del tutto inventate. Pretende di includervi il popolo, e di tenere fuori alcuni elementi».
Quali?
«L'esclusione più evidente è la figura dello straniero. Poi dal progetto populista vengono escluse tutte quelle forze considerate ostili al popolo: il capitale internazionale, la grande industria, le grandi banche. Il popolo cui fa riferimento è composto da gente umile, povera, frustrata. Automaticamente ostile alle élites economiche, burocratiche, intellettuali, politiche».
L'avversione alle élites non impedisce al populismo che va al potere di farne parte.
«Se il populismo va al potere ci sono due strade: o si integra con il resto della vita democratica o fallisce. L´esempio è Haider in Austria, il cui programma è segnato da una stridente contraddizione fra il discorso radicale e la pratica politica».
C'è un crescente populismo mediatico. Cosa ne pensa?
«È un incontro fatale quello fra i grandi mezzi di comunicazione e il populismo. Per il semplice motivo che qui molto più forte si pone il problema della leadership e dei rapporti che intrattiene con la sua base. Però il fenomeno mediatico coinvolge anche le democrazie: i Clinton, i Blair, gli Chirac non sono certo digiuni di televisione e del modo di usarla».
La leadership di Blair contiene una componente populista?
«Blair ha indebolito il partito laburista e accentuato la comunicazione con la gente, e in tal senso la sua leadership contiene un elemento populista. Questo da un lato. Dall'altro Blair continua ad avere posizioni sufficientemente autonome dall'opinione pubblica, anche sulla guerra irachena. Tuttavia il populismo in Inghilterra passa attraverso la stampa popolare. Le decisioni di Blair sul conflitto iracheno sono state criticate dalle élites politiche, ma sostenute da larga parte della stampa popolare».
C'è il rischio di una telecrazia?
«La televisione è un mezzo di enorme potenzialità. De Gaulle fu tra i primi a comprenderne la forza. E attraverso questo mezzo in più di una occasione ha scavalcato i partiti per parlare direttamente al popolo. Oggi però il Generale sarebbe considerato un dilettante. Il punto vero non è tanto l'appello diretto del politico attraverso il mezzo. Il leader non ne ha bisogno. O almeno non più di tanto. È grazie alla propaganda che la televisione di oggi ha creato la vera deriva populista. Se un commentatore televisivo dice: il leader politico tal dei tali ha ricevuto una telefonata da Putin o da Bush o da Blair, si lascia intendere che quel leader ha una grande autorevolezza. Ma niente di più. Niente che spieghi che cosa si siano detti in quella telefonata, che conseguenze ha sulla vita politica. Capisce? Puro vuoto contenutistico. Propaganda senza vera informazione».
L'altra faccia del leader è il popolo. Che idea ne ha?
«Il popolo può fare molto, ma non può fare tutto. Il potere spontaneo delle masse è un potere molto pericoloso, che è servito come pretesto per tutte le dittature: sia di destra che di sinistra».

MASSIMO CACCIARI:

Populismo è credere, o fingere di credere, che "popolo" sia un "ismo", e cioè un tutto unico, o un unico "animale", da suddividere, al più, per medie e sondaggi: la pensa così il 30, così il 20, così il 10 per cento e così via. Populismo è ritenere che una politica fondata, invece, sull'inalienabile valore della responsabilità di ciascuno sia favola o illusione o utopia. Populismo è accondiscendere al peggiore dei cattivi proverbi: che la voce del popolo (e cioè, inutile dirlo, della "maggioranza") sia la voce di Dio. Da cui ovviamente il corollario: che lo sia altrettanto la voce che a quella del popolo fa scimmiesca eco. Populistica è la politica che occulta la complessità dei problemi, o che li contrabbanda come l'effetto di complotti e sabotaggi da parte del "nemico" di turno; che asservisce all'idolo della "naturale bontà" dei nostri, individuali, appetiti, illudendo che il migliore dei mondi possibili nasca dal loro "libero" intreccio. Populismo è proprio questa confusione tra libertà e licenza, tra obbedienza e anarchia. Una vacua sicurezza nelle proprie ragioni che genera aggressività, insicurezza, angoscia.