sabato 3 aprile 2004

«La psicopatologia dei musulmani»

Repubblica 3.4.04
A proposito del divorzio tra cultura e religione nel mondo islamico
La psicopatologia dei musulmani
C'è un evidente malessere che deve essere spiegato, analizzato a fondo
di KHALED FOUAD ALLAM


Si è inaurato ieri, presso l'Università di Urbino, il nuovo corso di laurea in Antropologia ed Epistemologia delle Religioni della Facoltà di Sociologia. Presentiamo qui una parte della Lectio Magistralis di Khaled Fouad Allam.

Alla fine degli anni '70 mi trovavo in Algeria, all´università di Orano-La Senia, dove studiavo giurisprudenza. Avevo scelto una carriera diversa da quella che poi ho seguito: volevo intraprendere la carriera diplomatica, e mi ero iscritto al concorso per la Scuola Nazionale di Amministrazione. Un giorno, il 21 aprile 1979, data in cui in Algeria ricorreva la giornata dedicata alla lotta dei popoli del terzo mondo contro l´imperialismo, nel mio campus universitario un gruppo di studenti fondamentalisti islamici attaccò alcuni studenti di sinistra; mentre fuggivamo dall´aula, a una mia compagna di studi fu gettato addosso dell´acido muriatico: ne riportò serie lesioni alle gambe. Fu un´esperienza terribile. Continuavo a chiedermi, ingenuamente, come si potessero commettere simili atti in nome della religione. Quel giorno decisi di abbandonare gli studi che avevo scelto per volgermi a ciò che ormai da oltre vent´anni costituisce l´oggetto delle mie ricerche: cercare di capire che cosa sia avvenuto nel mondo musulmano contemporaneo.
Gli avvenimenti che si sono verificati negli ultimi anni - dalla rivoluzione iraniana al terrorismo in Algeria, dall´11 settembre al recente attentato di Madrid - attestano la gravissima crisi in atto nell´islam e nel mondo musulmano. Ma di che crisi si tratta? Attraverso quali griglie di lettura possiamo leggere quei fenomeni, peraltro di estrema complessità? Il dibattito è aperto e lo rimarrà ancora per molto. Le interpretazioni divergono, spesso anche in funzione dei criteri metodologici scelti, per cui taluni aspetti vengono privilegiati a scapito di altri; la storia, la teologia, la filosofia, la sociologia e l´antropologia tendono a fornire le loro risposte, che però spesso rappresentano solo una parte del puzzle e non riescono a darci una visione d´insieme delle problematiche che investono l´islam contemporaneo. All´origine vi è probabilmente un errore di partenza, come avviene a volte quando si deve risolvere un´equazione: troppo spesso esprimiamo le nostre valutazioni sull´islam in quanto icona, in quanto categoria astratta, tanto astratta che diventa trans-storica, e ciò porta ad un ragionamento del tipo: se l´islam oggi è anche questo, è perché esso è così nella sua sostanza originaria. Ho sempre ritenuto che questo approccio non soltanto è estremamente arido, ma ha la grave colpa di occultare qualcosa di essenziale in ogni forma di civiltà e in ogni forma di espressione religiosa: gli esseri umani, con la loro esistenza, le loro passioni, i loro dolori, le loro gioie, i sentimenti che attraversano lungo la storia le comunità; in questo caso, il mondo musulmano.
Non possiamo porre la questione dell´islam contemporaneo senza aver risposto a una domanda: chi sono oggi i musulmani, dal Qatar a Istanbul, da Giacarta a Marsiglia? Durante gli ultimi cinquant´anni, nel mondo musulmano, si è spezzato il rapporto millenario tra l´identità religiosa - che si è rivelata ed espressa nei testi (il Corano, la tradizione profetica, il corpus delle scuole giuridiche dell´islam) - e il suo incarnarsi in una dimensione umana plurale e diversificata, e in una dimensione culturale dalle molteplici accezioni. La civiltà islamica si è espressa infatti nel tempo e nello spazio secondo appartenenze culturali e linguistiche diverse, dall´India all´Iran, dall´Arabia all´Africa. Questa realtà ricca e molteplice faceva sì che l´islam di mio nonno in Algeria potesse esprimersi in modo diverso dall´islam di altri miei parenti in Marocco o in Siria. Oggi tutto è cambiato: troviamo un islam uguale ovunque, impoverito, mediocre perché deculturato. Sì, nell´islam si è spezzato il rapporto fra religione e cultura, a causa dei processi che nel XX secolo hanno prodotto lo sradicamento e l´acculturazione di quelle società; ma la responsabilità è anche di tutti quegli stati musulmani di tipo neoautoritario che non hanno mai incluso la cultura nel loro sviluppo, come ha evidenziato l´ultimo rapporto delle Nazioni Unite sul mondo arabo. Tutto ciò ha fatto sì che spesso, in luogo di un islam saldo nelle sue radici sociologiche e culturali, ci troviamo oggi di fronte a un islam "puro e duro", un islam della contestazione che si definisce attraverso una serie di comportamenti omologati: velo, barba, letteratura apologetica; e nei casi estremi, il terrorismo islamico con le sue micidiali bombe. Siamo in presenza di un islam che rivendica qualcosa, ma non sempre sa esattamente che cosa rivendica; è il caso ad esempio delle strategie di Al Qaeda.
Tutte le rivendicazioni, però, esprimono due elementi. In primo luogo traducono un malessere, un disagio, una specie di schizofrenia di massa, un fenomeno che investe l´inconscio collettivo e l´immaginario dei popoli musulmani, e che spinge a comportamenti che hanno molto più a che fare con la psicopatologia che con l´identità religiosa, come conferma il recente suicidio di un giovane marocchino a Brescia. Vi è nei musulmani un evidente malessere, che deve essere analizzato e capito. Anche qui le interpretazioni convergono nell´indicare la causa del fenomeno nel rapporto dell´islam con l´occidente: il mondo islamico si sente inferiore, si sente espulso dai processi storici mondiali, vive una condizione di marginalità. E questa marginalità è oggetto di una strategia di conquista delle coscienze ad opera di un´ideologia che propone una visione letteralista dell´islam, che lo riduce ad un codice di comportamento, ad una dimensione esteriore anziché interiore. In effetti oggi i radicalisti musulmani affermano le stesse cose ovunque, da Giacarta a Parigi: e la loro ideologia condanna a morte la cultura.
In secondo luogo le rivendicazioni esprimono un odio per l´occidente. Ciò avviene perché, a monte, l´islam non ha ancora elaborato il lutto della propria decadenza, e si pensa ancora che gli splendori di Cordoba e Bagdad potranno un giorno resuscitare: ma è un errore, perché ogni rinascita non può che partire dalla consapevolezza della propria fine.
In tutto ciò vi è qualcosa che deve costringere il mondo occidentale ad agire per bloccare la crescita delle derive e della cultura della morte che si è infiltrata nell´islam: si deve agire sul nucleo delle relazioni che, per ogni civiltà e religione, esistono fra memoria e storia, ed è la loro continuità che si deve aiutare a ritrovare. Perché nell´islam si sta consumando un divorzio fra memoria e storia: quest´ultima non riesce a diventare memoria condivisa. Il risultato è il non sentirsi appartenere ad un mondo di cui si percepisce il rifiuto, il sentirsi fuori dal mondo: purtroppo è il terrorista l´immagine del rapporto spezzato fra storia e memoria. Come ne I Demoni di Dostoevskij, spesso, nella loro traiettoria di assassini, i terroristi esprimono il rigetto di una cultura che li ha rigettati.
Ma non bisogna dimenticare che, anche nei momenti più bui, quando l´umanità è accecata dalla violenza, la speranza può riapparire. Vanno letti in questo senso i versi del grande poeta arabo contemporaneo Adonis:
«I miei passi sono dinanzi ai miei piedi».

una ricerca universitaria europea

University.it
Comunicato della Università di Modena e Reggio Emilia: Ricerca europea sugli effetti psichici della guerra
Progetto a cui collaborano studiosi delle università di Londra, Dresda, Rijeka, Zagabria, Belgrado, Sarajevo, Skopje.

Data: 02/04/2004


Un progetto di ricerca europeo metterà in luce gli effetti prodotti a livello psichico dalla guerra nei Balcani. Vi collaborano studiosi delle università di Londra, Dresda, Rijeka, Zagabria, Belgrado, Sarajevo, Skopje. Per l’Italia coinvolto un gruppo di ricercatori operante intorno alla cattedra di Psichiatria dell’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia, diretta dal prof. Paolo Curci. L’indagine condotta attraverso 2.350 interviste sia su soggetti residenti nei Paesi dell’ex Jugoslavia, sia su profughi o migranti in Germania, Italia e Regno Unito. Obiettivo: migliorare gli interventi sociali ed assistenziali a favore delle popolazioni sottoposte a stress post-traumatico. I risultati definitivi fra tre anni.
Che cosa provoca a livello psichico una serie di intensi e ripetuti eventi stressanti come quelli prodotti da un conflitto etnico o da una guerra? Quali impronte lasciano sulla salute mentale rievocazioni angosciose e pensieri intrusivi di eventi come bombardamenti, saccheggi, violenze, operazioni di guerra? Quali strumenti vanno approntati in ambito sociale ed assistenziale, sia livello individuale che di area territoriale, per aiutare le persone a superare simili traumi?
Sono alcuni degli interrogativi, cui cercherà di rispondere un importante progetto di ricerca multicentrico, finanziato dalla Direzione Generale per la Ricerca della Commissione Europea, denominato , ovverosia acronimo di “Componenti, organizzazione, costi ed esiti degli interventi sanitari e di comunità per persone con stress post-traumatico in seguito alla guerra e al conflitto dei Balcani”.
Vi partecipano otto università di sette Paesi, tre dell’Unione Europea (Germania, Italia, Regno Unito), dove molti profughi si sono rifugiati, e quattro dell’ex Jugoslavia (Croazia, Bosnia-Erzegovina, Serbia e Montenegro e Macedonia). Per l’Italia collabora un gruppo di ricercatori che si raccoglie attorno alla cattedra di Psichiatria dell’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia.
“Esistono ancora molti interrogativi scientifici, dagli importanti risvolti sociali e politici, - dichiara il prof. Paolo Curci, ordinario di Psichiatria all’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia - circa i fattori che permettono ad alcuni individui esposti a simili eventi di superare questi traumi mentre altri sviluppano disturbi invalidanti o presentano comunque un elevato grado di sofferenza anche a distanza di anni. Inoltre, è ancora poco chiaro che tipo di interventi, di tipo sanitario, psicologico e di assistenza sociale, meglio possono aiutare queste persone, soprattutto quelle che hanno sviluppato sintomi cronici”.
La ricerca prevede, innanzitutto, la messa a punto di uno strumento per valutare analiticamente i servizi sanitari e sociali disponibili, che hanno utilizzato queste persone al fine di correlare questo dato con gli esiti. Lo strumento  verrà approntato attraverso il metodo Delfi, che consiste in una progressiva revisione indipendente di bozze da parte dei ricercatori fino a raggiungere un consenso su una versione definitiva dello strumento, il quale verrà poi applicato nei Paesi che partecipano allo studio.
“Per i ricercatori del  nostro Ateneo – ha dichiarato il Pro Rettore dell’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia prof. Rodolfo Cecchi – è certamente un fatto di prestigio poter collaborare con qualificati studiosi di importanti università europee. Così come ritengo qualificante che ancora una volta sia l’università a distinguersi per la sensibilità e l’attenzione che sa porre ai problemi sociali, ai drammi umani, alle tragedie. Non è un caso che il progetto veda coinvolta la nostra cattedra di Psichiatria, dove da anni opera una valente scuola di specializzazione, che ha saputo proiettare la sua dimensione e la sua influenza ben oltre i confini nazionali”.
Durante la ricerca 400 soggetti da ciascun Paese dell’ex Jugoslavia e 250 profughi in ciascun Paese membro dell’Unione Europea partecipante, scelti in maniera casuale, verranno intervistati in maniera approfondita con test e strumenti di valutazione psicologica, circa il grado di esposizione ad eventi potenzialmente traumatici e circa le sequele psichiche a lungo termine ancora presenti. La quota di soggetti con sintomi e sofferenza psicologica persistente verrà seguita longitudinalmente, cioè intervistata una seconda volta a distanza di dodici mesi, al fine di poter esplorare che tipo di interventi sanitari ed assistenziali siano in grado di aiutare effettivamente queste persone a superare parte delle conseguenze devastanti dei traumi subiti.
La ricerca, che durerà tre anni, partirà ufficialmente nel maggio 2004, ma già si prevede che i primi dati saranno disponibili a distanza di un anno. I ricercatori partecipanti si sono incontrati la settimana scorsa in una riunione preparatoria svoltasi a Londra, presso l’Unità di ricerca accademica diretta dal Prof. Stefan Priebe, coordinatore del progetto.
“L’idea di questo progetto – ha commentato il prof. Stefan Priebe - nasce dal desiderio di creare a livello accademico una rete di ricercatori che permetta di affrontare domande di ricerca complesse, come quelle degli interventi più efficaci per persone esposte ad eventi traumatici che sviluppano sintomi cronici, un argomento, purtroppo, di rilevante attualità. Uno dei punti di forza della ricerca sta nel presupposto e nella capacità del progetto di collegare  ricercatori degli Stati direttamente coinvolti con quelli dei Paesi dell’Unione Europea, dando vita ad  uno sforzo collaborativo. Sebbene sia importante coltivare e far crescere la speranza che episodi come la guerra nell’ex Jugoslavia non si ripetano, questa ricerca europea può permettere di indicare quali siano i migliori interventi per popolazioni colpite da conflitti di queste proporzioni”.

un'altra recensione dagli USA
a proposito di Marco Bellocchio

ricevuta da Annalina Ferrante

FILM FESTIVAL REVIEW
With Hearts On Fire, Souls Dying Of Thirst
By A. O. SCOTT


In his early films, like ''Fists in the Pocket'' (1965), ''China Is Near'' (1967) and ''In the Name of the Father'' (1971), Marco Bellocchio emerged as perhaps the most incisive and passionate cinematic witness to the social, political and spiritual upheavals that convulsed Italy in the 1960's and 70's.
His most recent movies, ''My Mother's Smile'' and ''Good Morning, Night,'' struggle to make sense of the painful and ambiguous legacy of those years. The hero of ''My Mother's Smile,'' shown at the New York Film Festival last year, was a left-wing, secular intellectual whose youthful faith in human progress withered into cynicism and solipsism after the future he had had once believed in failed to materialize.
''Good Morning, Night,'' showing at Lincoln Center tonight and tomorrow as part of this year's festival, reimagines the notorious kidnapping and murder of former Prime Minister Aldo Moro by the Red Brigades in 1978, one of the ugliest and most senseless episodes in modern Italian political history and in the annals of the Western European left.
Moro was the leader of the center-right Christian Democrats and one of the architects of a power-sharing arrangement with the Italian Communist Party, a historic compromise intended to bring a measure of normalcy to the nation's fractious and chaotic political order. His kidnappers, self-proclaimed proletarian revolutionaries for whom any form of compromise (or of normalcy) was anathema, imagined that their action would incite a full-scale uprising against the state and its institutions. (''Why aren't they rebelling?'' one of the brigatisti wonders, honestly perplexed, when the television shows crowds filling the streets to demand Moro's release.)
Mr. Bellocchio replays this large-scale ideological melodrama as a quiet domestic tragedy. Most of the action takes place in a spacious ground-floor apartment in Rome where four supposed champions of the radical working class erect a screen of quiet bourgeois domesticity to camouflage their crime. Chiara (Maya Sansa), the only woman in the group, keeps a wedding ring in a box near the front door. She puts it on when the bell rings or when she goes out to her office job. On the day of the kidnapping, she is reluctantly caring for a neighbor's baby when her pretend husband (Giovanni Calcagno) and their two clandestine roommates arrive dragging a huge wooden crate containing the politician (Roberto Herlitzka). The scene has an almost comical matter-of-factness: the oblivious infant gurgles on the couch while the terrorists try to angle the unwieldy box into the cell they have built behind a bookshelf.
What follows is like a surreal parody of family life in which the young radicals, who keep an impressively orderly house, seem to view the old man in the next room as an inconvenient, doted-on older relative rather than as their prisoner. They address him, without sarcasm, as Presidente, and their leader (Luigi Lo Cascio) patiently argues with him about history, theology and the finer points of Marxist theory. The calm, dispassionate tones of their discussion make its brutal upshot -- a death sentence issued in the name of proletarian justice -- all the more disturbing.
Moro's quiet, grandfatherly demeanor eventually pierces Chiara's steely resolve, even though they never speak face to face, and ''Good Morning, Night'' is largely concerned with her crisis of confidence.
At night her dreams flicker with black-and-white newsreel images of past revolutionary glory, and she falls asleep reading the letters of left-wing partisans executed by the Fascists during World War II. Inevitably she begins to identify Moro's plight with theirs, a confusion driven home when she attends a family wedding, where her older relatives, their faces as kindly and wrinkled as his, burst into a rousing anti-Fascist marching song. This scene suggests that Chiara's extremism, and that of her peers, may be rooted in admiration and envy for the older generation, who were fortunate enough to have a clear enemy and a noble cause.
The contrast between generations could not be more damning: the veterans are full of life and robust feeling, which their would-be heirs have reduced to desiccated theory and murderous abstraction. The brigade members are willing -- indeed eager -- to sacrifice not only the lives of their supposed oppressors, but their own humanity as well.
Ms. Sansa is an actress of exquisite sensitivity: her wide brown eyes and childlike mouth always seeming to tremble on the verge of laughter or tears, but Mr. Bellocchio does not delve too deeply into her psychology. He approaches his characters with sympathy but also with skeptical detachment. At times ''Good Morning, Night'' feels as claustrophobic as the apartment itself, and you may feel that the director is handling his volatile material with a bit too much delicacy. But the movie's atmosphere is a curious mixture of obliqueness and intensity. The understatement of the acting and the muted rhythms of the story are offset by bursts of lustrous color (the director of photography is Pasquale Mari) and blasts of lush, sometimes jarring music (much of it composed by Riccardo Giagni).
Like fanatics of every creed and hue, Chiara and her accomplices have pledged themselves to the eradication of subjective feeling, and the film's sudden eruptions of passion, which are visual and aural rather than dramatic, represent the return of everything they have repressed in their mad, destructive crusade for absolute liberation.