venerdì 26 marzo 2004

Alexandre Kojève

Repubblica 26.3.04
Il grande interprete di Hegel alle prese con la fine della storia

Nato a Mosca nel 1902 da una ricca famiglia di commercianti, approda dopo la Rivoluzione d'Ottobre a Parigi
Esce ora in Italia "Il silenzio della tirannide", un´inedita raccolta di saggi curata da Antonio Gnoli
Il saggio iniziale è incentrato sul confronto con Leo Strauss a proposito del rapporto tra filosofia e politica, sovranità e silenzio
Sulla "Fenomenologia dello Spirito" tenne un mitico corso negli anni Trenta frequentato da Aron, Lacan, Bataille, Merleau-Ponty, Caillois e Klossowski
di FRANCO MARCOALDI


Anche Alexandre Kojève, «l´occulto maestro del '900», ha conosciuto (post mortem) il suo quarto d´ora di popolarità. E´ avvenuto quando Francis Fukuyama si è avventurato in una frettolosa rilettura della sua teoria sulla «fine della storia», applicata al crollo del Muro di Berlino e al conseguente, irresistibile trionfo planetario delle democrazie liberali. Tutti abbiamo potuto verificare, negli anni successivi, l´inanità di quell´idillico quadro. E così, svanita la breve stagione di glamour del saggio di Fukuyama, Kojève è tornato a svolgere il ruolo che gli è più proprio: per l´appunto quello di maestro occulto.
Perché tale indubbiamente è stato, come dimostra la platea d´eccellenza che dal 1933 al 1939 seguì, ogni lunedì, presso l´École Pratique des Hautes Études, il suo seminario sulla «Fenomenologia dello Spirito» di Hegel: Jacques Lacan, Raymond Aron, Georges Bataille, Raymond Queneau, Maurice Merleau-Ponty, Roger Caillois, Henry Corbin, André Breton, Pierre Klossowski... Insomma, si farebbe prima a dire quale grande figura della cultura francese del tempo non ha partecipato a quel seminario, tenuto da un emigrato russo appena trentunenne che oltretutto era finito lì per caso, chiamato a sostituire l´amico Alexandre Koyré.
Una ragione di tale successo vi sarà pur stata. E la ragione era che tutti questi esimi signori si trovarono di fronte un insuperabile incantatore di serpenti, il quale, dopo aver letto la Fenomenologia per ben quattro volte senza averci capito un bel niente (ipse dixit), ora invece da quel prodigioso sistema di pensiero estraeva un unico, abbagliante cristallo, da cui si evinceva, per l´appunto, «la fine della storia».
Torneremo su quella che è rimasta la più celebre (ed enigmatica) formulazione di Kojève. Ma per il momento cerchiamo di tratteggiare un po´ meglio la vita di questo irripetibile personaggio: raccontando il suo prima e il suo dopo, così diversi e distanti da quella strepitosa parentesi accademica (peraltro condotta secondo uno stile assolutamente antiaccademico).
Nato nel 1902 a Mosca da una ricca famiglia di commercianti, nipote di Kandinsky, Kojève (il cui vero nome era Alexandr Kozevnikov), dimostra da subito una stupefacente capacità di apprendimento. Ancora bambino riceve lezioni private e impara il latino, il francese, l´inglese e il tedesco. La Rivoluzione d´Ottobre scoppia quando lui ha appena quindici anni; e mentre nel paese si aggrava la penuria alimentare, Kojève, assieme ai suoi amici, si dà al mercato nero e viene arrestato dalla nuova polizia politica. Liberato grazie ai suoi legami familiari, conclude il liceo e cerca di iscriversi all´università, ma stavolta l´origine sociale gli è d´impedimento: l´iscrizione gli viene negata e Kojève decide di lasciare la Russia in compagnia dell´amico Georges Witt.
Arrivati nella Polonia anticomunista, i due finiscono in galera sotto l´accusa di essere agenti bolscevichi infiltrati e dopo svariate peripezie raggiungono la Germania, dove ad Heidelberg Kojève segue i corsi di Karl Jaspers (con il quale rimarrà anche successivamente in contatto). I suoi interessi, nel frattempo, cominciano a dilagare; affascinato dal buddhismo, il Nostro studia tibetano, cinese, sanscrito. Ma un sapere enciclopedico è tale solo se è capace di includere anche la scienza (ecco così i nuovi studi di matematica e fisica dei quanti) e la teologia (su cui verte la tesi, dedicata a Solov´ev). Del resto Kojève, nel frattempo sposatosi con la cognata di Koyré e trasferitosi a Parigi, ha tutto il tempo che vuole per studiare: la coppia infatti, almeno in un primo tempo, «vive nel lusso e nell´ozio». Fino a quando cessa improvvisamente il flusso delle entrate, legate a uno zio venditore di formaggi, e dunque risulta quanto mai gradita l´occasione di sostituire l´amico Koyré nei seminari su Hegel.
E´ allora che nasce la teoria sulla «fine della storia»; teoria «impalpabile e suggestiva», indagata ora nelle sue mille nuances da Antonio Gnoli nella sua illuminante postfazione alla nuova raccolta di saggi di Kojève, curata dallo stesso Gnoli e uscita proprio in questi giorni da Adelphi (Il silenzio della tirannide, pagg. 267, euro 29, 50). Se presa alla lettera, quella teoria è facilmente smontabile: come definire conclusa una storia che sta conoscendo l´orrore dei totalitarismi e sta precipitando nel baratro della seconda guerra mondiale? Il primo a saperlo, naturalmente, è Kojève: ovvio che «succedono sempre nuovi avvenimenti, ma dopo Hegel e Napoleone non si è detto, non si può dire nulla di nuovo».
Questo è il punto: il ciclo della modernità si è concluso. Hegel ne è stato il massimo interprete, insegnandoci fondamentalmente come lo sviluppo della coscienza umana si leghi al desiderio di «riconoscimento» e come questo desiderio - nell´incessante confronto tra Signore e Servo - provochi lotta, sangue, violenza, rivoluzioni, lavoro. La cesura di questa plurisecolare vicenda avviene con lo «Stato universale e omogeneo» napoleonico, che inaugura un nuovo processo, ancora in atto, di progressiva integrazione tra gli uomini, tesa a un globale e reciproco riconoscimento. Da qui la fine della storia come ininterrotto esercizio di «negazione» e da qui anche (e soprattutto) la fine del processo speculativo che l´ha accompagnata.
Kojève sarà conseguente con questo assunto e nel dopoguerra, abbandonata qualunque idea di insegnamento, diventerà un «grand commis» dello Stato francese, influenzando fortemente la politica economica del governo. Il che non gli impedirà di continuare ad «esercitare una attività pubblicistica quasi clandestina»: per l´appunto quella di cui dà conto ora Il silenzio della tirannide.
Si tratta di un gruppo eterogeneo di scritti, «raccolti per la prima volta al mondo», che ancora una volta riflettono l´impressionante vastità di interessi di Kojève: al saggio iniziale, incentrato sul confronto con Leo Strauss a proposito del rapporto tra filosofia e politica, democrazia e tirannide, sovranità e silenzio, si accompagnano le velenose lettere inviate a Bataille giusto a proposito del silenzio («riuscire a esprimere il silenzio (verbalmente!) significa parlare senza dire nulla»). E ancora: all´apparente futilità delle recensioni dei libri di Françoise Sagan fa da contrappunto un futuribile progetto politico che vedrebbe la Francia quale volano di un nuovo impero latino, capace di bilanciare sulla scena mondiale gli imperi anglo-americano e slavo-sovietico.
Naturalmente nulla impedisce al lettore di godersi ogni singola lettura per ciò che essa offre: tantissimo, visto che Kojéve dà immancabile sfoggio di un´intelligenza superba (e a tratti urticante), di uno stile inimitabile e di un gusto mai pago per il paradosso (come quando, a seguito di un serrato ragionamento su Marx, la teoria del plusvalore e il fallimento della rivoluzione sociale nei paesi capitalisti, arriva a concludere che Henry Ford è stato «il solo grande marxista autentico e ortodosso del XX secolo»). Sì, nulla vieta di abbandonarsi a questo piacere. Ma poiché è l´autore a lasciare lungo il suo zigzagante percorso svariate tracce, tanto vale provare a seguirle.
Cominciamo allora dal primo saggio, quello che dà il titolo al libro e su cui Gnoli concentra buona parte del suo intervento: il vero oggetto della serrata disputa tra Kojève e Strauss concerne la natura della tirannide sul finire della storia. Mentre l´ebreo tedesco sostiene che per poterla riconoscere, anche nel suo «silenzio», bisogna tornare a interrogare la scienza politica classica, la saggezza degli antichi, Kojève vede questa strada sbarrata (anzi meglio, superata) dalla logica a specchio di una storia che «non parla più» e di un pensiero filosofico, ad essa connesso, giunto ormai al capolinea («dopo Hegel e dopo Napoleone non si è detto, non si può dire nulla di nuovo»). Il che spiega perfettamente la sua successiva scelta di diventare funzionario dello Stato, ruolo in cui si diverte infinitamente di più - «è una forma superiore di gioco» - di quanto non gli accada intrattenendosi con i filosofi. «I filosofi non mi interessano» - dice a Gilles Lapouge - cerco solo dei saggi, e me ne trovi anche uno solo».
Che dire? Il solito Kojève sarcastico, dissimulatore, paradossale? Certo che sì: il russo andava celebre per questi suoi tratti caratteriali. Però, guarda caso, essi si sposano perfettamente alle conseguenze teoriche sulla fine della storia.
Altri due scritti presenti nel libro ci confortano a proseguire lungo questo itinerario. Il primo è il formidabile "L´imperatore Giuliano e l´arte della scrittura", intesa come esercizio di dissimulazione e camuffamento dei pensieri. L´imperatore chiarisce da subito a Salustio che lui «non scriverà tutto ciò che pensa e non penserà tutto quello che avrà scritto». Non amando affatto le persone che si prendono troppo sul serio, in particolar modo in ambito politico e religioso, l´imperatore intende dimostrare che solo ironizzando e dissimulando si possono liberare - coloro che ne sono capaci - «dai pregiudizi "del teatro" e "del foro", conducendoli così verso la Saggezza (...), quindi a un pieno soddisfacimento di sé».
Fin qui Giuliano; ma a ben vedere sembra lo stesso, identico programma intellettuale fatto proprio da Kojève nel dopoguerra, fino all´anno della sua morte (1968). E si ha la medesima impressione leggendo tra le righe anche il secondo degli scritti in questione: ovvero "I romanzi della saggezza. Raymond Queneau"; dedicato a chi, fra tanti, fu forse l´interlocutore con cui l´esule russo entrò in maggiore sintonia.
Dove sta scritto, si domanda Kojève, che il saggio debba vivere in eremitaggio, abbarbicato alle colonne, subendo martìri? Queneau, che è un vero hegeliano, dimostra al contrario che si può essere saggi nella più assoluta ordinarietà; senza sottoporsi a «trattamenti eroici quanto fastidiosi» e anche «senza un retroterra guerriero e rivoluzionario, ovvero "storico"». I personaggi di Queneau, indifferenti a successi e sventure, vivono coscienti e soddisfatti di sé e al contempo sono alla portata di tutti: «La loro banalità potrebbe certamente deluderci. Ma non sarebbe tanto peggio per noi?». Anche questo è un prodotto della post-storia: il cammino verso «la domenica della vita».
La dissimulazione, il gioco, il paradosso, la ricerca della saggezza al di fuori dei luoghi deputati: ecco ciò che il Kojève del dopoguerra tenacemente persegue - una volta che «il centro non tiene più», per dirla con Yeats. Perciò non si può che condividere in toto le parole con cui Gnoli conclude il suo saggio dedicato all´«Occulto maestro del '900»: «La fine della Storia non era un modo di chiudere i conti col passato per aprire altrove una nuova bottega filosofica; significava alludere all´ultima cosa che l´Occidente cercava di difendere con inutile ostinazione: l´umana e imperturbabile superficialità a cui il Logos e la Storia erano giunti».

sei donne su dieci

Ansa 25.3.04
La ricerca condotta da Eurisko su mille italiane tra i 18 e i 40 anni
Vita sessuale, insoddisfatte sei donne su dieci
Il disagio nasce da scarsa autostima. Il 66% delle intervistate «non si piace per niente». Al via una campagna d‘informazione


MILANO - Non conoscono il loro corpo, guardandosi allo specchio non si piacciono, si vergognano ‘sotto le lenzuola’ e addirittura sul lettino del ginecologo. Oltre sei italiane su dieci (64%) sono insoddisfatte della propria vita sessuale, solo il 40% si sente a suo agio durante il rapporto e appena il 38% è orgoglioso delle proprie ‘performance’. Un malessere che nasce da una scarsa autostima, rivela una ricerca condotta da Eurisko su mille 18-40enni della penisola. Il 66% delle intervistate, infatti, confessa di non piacersi «per nulla», il 62% si imbarazza nel mostrarsi senza veli al partner e il 60% arrossisce perfino nell‘ambulatorio dello specialista. Dichiara un‘ottima confidenza con se stessa soltanto il 26% delle interpellate. Mentre la maggior parte, inibita da pudori e insicurezze, finisce per mettere il sesso in secondo piano: lo giudica molto importante solo il 6%, mentre il 44% privilegia il piacere dell‘uomo al proprio. I dati, diffusi oggi a Milano durante la presentazione di una campagna di informazione rivolti ai giovani su sessualità e contraccezione, al via a fine mese e promossa dalla Fondazione Organon, sono stati commentati da Marco Rossi, presidente della Societá italiana di sessuologia ed educazione sessuale, e Chiara Benedetto, direttore della cattedra di Ginecologia e ostetricia all‘universitá di Torino.

LE GIOVANISSIME - Particolarmente impreparate le giovanissime, che «spesso - ha riferito Rossi - sanno poco anche sul ciclo mestruale». «Troppo spesso - ha spiegato Rossi - le donne hanno nei confronti della propria fisicitá un interesse solo superficiale e, non appena si tratta di entrare in confidenza con se stesse in modo più profondo, innalzano barriere psicologiche difficili da abbattere». Con la sessualità hanno «un rapporto conflittuale - ha confermato Benedetto - e si sentono a disagio anche con chi potrebbe aiutarle, innanzitutto il loro ginecologo». Per superare queste inibizioni e indirizzare i giovani verso scelte consapevoli «bisogna ripartire da zero - sono convinti gli esperti - con un‘informazione semplice, chiara e accessibile a tutti». È questo l‘obiettivo della campagna ‘Il piacere è conoscersi’: «l‘estensione sul territorio nazionale di un progetto che sta coinvolgendo in questi mesi Milano e Bologna», ha precisato Paola Fattore, consigliere della Fondazione Organon. Tre le iniziative: incontri aperti al pubblico nelle principali università italiane, al via il 31 marzo a Palermo per proseguire poi a Pavia, Bologna, Napoli, Padova e Torino; la distribuzione, dal 20 aprile, di un libretto sulla sessualità e la contraccezione, e la prossima attivazione di un sito Internet (www.ilpiacereconoscersi.com/.it).

l'evoluzionismo sparisce dai programmi scolastici

Galileo 26.3.04
SCUOLA
Darwin addio
di Nicola Nosengo


La notizia da qualche settimana agita le acque dell'ambiente scientifico italiano, e turba i sonni di chi si occupa di didattica: dai nuovi programmi per le scuole medie è scomparsa la teoria dell'evoluzione, e i nuovi paladini del creazionismo (qualcuno ricorderà la "settimana antievoluzionista" promossa nel gennaio del 2003 da un ex parlamentare di Alleanza Nazionale Pietro Cerullo) pare abbiano segnato un buon punto a proprio favore.
I fatti, segnalati per la prima volta dall'ufficio studi di Uil Scuola, sono i seguenti: nei precedenti programmi della scuola media si leggeva che doverosi argomenti di studio erano fra l'altro "L'evoluzione della Terra" (inclusa la "comparsa della vita sulla Terra"), la "struttura, funzione ed evoluzione dei viventi" e "l'origine ed evoluzione biologica e culturale della specie umana".
Di tutto questo non c'è più nessuna traccia nei nuovi programmi di studio che accompagnano il decreto attuativo della riforma Moratti, pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale (GU n. 51 del 2-3-2004- Suppl. Ordinario n.31). Nei programmi di scienze, una volta giunti alla biologia, si parla di "animali vertebrati e invertebrati"; di "ecosistema terra" ed "ecosistemi locali"; di "habitat, popolazione, catena e rete alimentare". Si riconosce la grande importanza di imparare a "riconoscere le pianti più comuni in base a semi, radici, foglie, fiori e frutti". Ma la parola evoluzione proprio non c'è. Svista o soppressione ben meditata?
"Io sono contento che in quei programmi non ci sia l'evoluzione" esordisce, un po' a sorpresa, Vincenzo Terreni, presidente dell'Associazione Nazionale degli Insegnanti di Scienze Naturali (Anisn). Il problema vero, spiega, è l'impostazione generale.
"Sono un po' sorpreso di tutta questa polemica attorno al problema dell'evoluzionismo", dice Terreni. "In realtà i programmi si conoscono da prima di Natale, e per quanto riguarda la parte scientifica sarebbero pessimi anche se si parlasse di evoluzione. È l'insegnamento del metodo scientifico ad essere completamente scomparso: se non c'è la scienza, come potrebbe esserci la teoria di Darwin?". In particolare, secondo Terreni, è l'insegnamento della biologia nel suo complesso a essere, almeno sulla carta, completamente "medicalizzato": si parla infatti di "sistema nervoso nell'organismo umano", ma solo in relazione agli "effetti di psicofarmaci, sostanze stupefacenti ed eccitanti". Di "malattie che si trasmettono per via sessuale". Di imparare a "valutare l'equilibrio della propria alimentazione e fare un esame del proprio stile di vita alimentare". "La biologia non è presentata come un ambito conoscitivo che abbia valore di per se stesso, ma come uno strumento di educazione alla salute" conclude Terreni. "E' una logica conseguenza che non si parli di evoluzione. In questo quadro, se anche ci fosse, rischierebbe solo di essere banalizzata e ridotta alla solita storia di Darwin, Lamarck e il collo delle giraffe. Per parlarne così, meglio davvero che non se ne parli".
Ma quale effetto concreto avranno queste norme sulla quotidianità dell'insegnamento? I programmi indicati sulla Gazzetta Ufficiale sono davvero una gabbia da cui è impossibile uscire? "L'effetto più diretto è sui libri di testo: queste disposizioni sono scritte essenzialmente per gli editori di libri scolastici, che impongono agli autori di attenersi ai programmi ministeriali", spiega Terreni. E visto che non tutti gli insegnanti di scienze sono realmente specializzati in biologia, molti di essi non hanno la competenza necessaria per andare molto più in là di quanto è scritto sul libro.
Stupisce che gli insegnanti, che così decisamente si lamentano, non abbiano davvero avuto alcuna voce in capitolo su questi programmi. "In teoria l'abbiamo avuta, ma in pratica ci è stato impossibile contribuire. Quello che avviene regolarmente in questi casi è che ci viene chiesto un parere a cose ormai fatte. Il Ministero presenta alle associazioni di insegnati una bozza di decine e decine di pagine, che spesso non è nemmeno l'ultima versione, e ci concede solo pochi giorni per esprimere un parere".

Magazine, 26 marzo 2004 © Galileo

Lietta Tornabuoni
sull'ultimo film di De Oliveira

La Stampa 26 Marzo 2004
Il naufragio dell’Occidente
Sandrelli, Papas e Deneuve sulla nave di De Oliveira
di Lietta Tornabuoni


LO strano titolo di una delle opere più profonde, eleganti, significative e belle di Manoel de Oliveira, «Un film parlato», vuol dire che si tratta d'un film eloquente, che le lingue che all'origine vi venivano parlate erano varie e diverse, che ciascuna di esse ha dato il suo contributo all'evoluzione della civiltà mediterranea e occidentale, che questa civiltà si trova in una condizione di fragilità, di vulnerabilità. Come Fellini in «E la nave va», il maestro del cinema portoghese sceglie una imbarcazione e un viaggio sul mare per rappresentare una potente metafora del presente.
Alla crociera che tocca la Grecia, la Francia, le rovine di Pompei, le sfingi d'Egitto e Istanbul prima di arrivare a Bombay, partecipano una giovane donna portoghese docente di Storia e la sua bambina: gli insegnamenti impartiti dalla madre alla figlioletta permettono di ripercorrere, in modo sintetico ma non sommario, la storia del Mediterraneo. Sulla nave, invitate alla tavola del comandante John Malkovich, un americano d'origine polacca che parla l'inglese come un esperanto contemporaneo, viaggiano anche tre donne famose e non più giovani, appartenenti a tre Paesi cruciali: la donna d'affari Catherine Deneuve esprime il talento della Francia per i commerci; Stefania Sandrelli, ex modella, simboleggia l'estetismo e il gusto per la vita dell'Italia; Irene Papas, cantante e insegnante di canto che interpreta pure una stupenda canzone, è un emblema della vocazione per le arti della Grecia. Conversando con spirito, grazia e saggezza, parlando di sè ciascuno parla anche del proprio Paese, ma un funesto annuncio di colpo interrompe la civilissima serata: terroristi hanno piazzato due bombe, bisogna abbandonare la nave, subito...
L'intelligenza della visione critica della civiltà mediterranea, la tragica previsione di fine, la finezza dello sguardo posato sui protagonisti, la raffinata bellezza della metafora e del film sono quasi impossibili da descrivere: a novantasei anni Manoel de Oliveira è sempre più intenso e lieve, sempre più bravo.

scheda
«Un film parlato»

A bordo di una nave, durante una crociera che tocca la Grecia, la Francia, le rovine di Pompei, le sfingi d'Egitto e Istanbul prima di arrivare a Bombay, ci sono pure una giovane donna portoghese e la sua bambina: gli insegnamenti impartiti dalla madre alla figlia ripercorrono la storia del Mediterraneo in modo sintetico ma non sommario. Sulla nave, invitate alla tavola del comandante, viaggiano anche tre donne famose e non più giovani, appartenenti a tre nazioni cruciali: Catherine Deneuve esprime il talento della Francia per gli affari; Stefania Sandrelli, ex modella, simboleggia il gusto per la vita dell'Italia; Irene Papas, cantante e insegnante di canto, è un emblema della vocazione per le arti della Grecia. Il comandante John Malkovich, americano di origini polacche, parla l'inglese, lingua universale contemporanea. Un annuncio interrompe la civilissima serata: terroristi hanno piazzato due bombe, bisogna abbandonare subito la nave. La bambina torna indietro, seguita dalla madre, per recuperare la bambola dimenticata... A novantasei anni Manoel De Oliveira, maestro del cinema portoghese, è sempre più elegante e profondo, sempre più bravo.

UN FILM PARLATO
di Manoel De Oliveira
con John Malkovich, Leonor Silveira, Catherine Deneuve, Irene Papas, Stefania Sandrelli; Portogallo, 2003
TORINO, cinema Nazionale
MILANO, Eliseo
ROMA, Greenwich

storie:
Pietro il Grande

Corriere della Sera 26.3.04
Due saggi ripropongono la figura del fondatore di San Pietroburgo. Che secondo alcuni fu un precursore di Stalin
Messia o Anticristo, il doppio volto del Grande zar
COLPEVOLISTI
di Vittorio Strada


Tra quelli che Hegel chiamava gli «individui cosmico-storici», cioè tra le personalità che nella storia hanno realizzato trasformazioni epocali, il più enigmatico e controverso è Pietro I detto il Grande. Enigmatico non solo per la sua personalità labirintica, che sfugge a una decifrazione chiara, ma per il suo stesso operato che ancor oggi, a distanza di quasi tre secoli, si sottrae a un bilancio univoco. Controverso perché la sua figura e la sua azione fin dall’inizio sono state al centro di una discussione, all’interno della cultura russa, che per intensità e radicalità non ha uguali, coincidendo con la determinazione dell’identità della Russia e della specificità della sua storia. Per avere un’immediata impressione visiva degli estremi in cui la stessa persona fisica del sovrano è stata percepita e raffigurata basta percorrere la distanza che a San Pietroburgo, la città da lui fondata, divide la piazza del Senato dalla Fortezza dei Santi Pietro e Paolo: la prima è sovrastata dal celebre Cavaliere di bronzo, il monumento equestre di Étienne Falconet che rappresenta Pietro in un sembiante eroico, coronato con un serto di alloro, maestoso e minaccioso sul dorso di un destriero che s’impenna sopra un immane basamento di roccia; in uno slargo della seconda troneggia una scultura di Mikhail Shemiakin: Pietro è seduto rigidamente su una poltrona, di poco sollevata dal suolo, la testa sproporzionatamente piccola, calva, il tronco massiccio, le gambe lunghe e sottili, le mani dalle dita proteste e affusolate come tentacoli, il tutto simile a un inquietante extraterrestre o a un grottesco robot. Due ipostasi di Pietro che, sdoppiato anche sessualmente (etero e omo), era polarmente visto già dai suoi contemporanei: da alcuni come un nuovo Messia, da altri come un apocalittico Anticristo.
Due storici angloamericani offrono ora l’opportunità di «rileggere» il sovrano russo e la sua azione: contemporaneamente sono usciti due libri con lo stesso titolo Pietro il Grande , l’uno di Paul Bushkovitch (Salerno editrice), l’altro di Lindsey Hughes (Giulio Einaudi editore), entrambi di buon livello, il primo più attento al sistema politico russo e alla sua riforma operata da Pietro, il secondo più aperto alla figura del sovrano e all’evolversi della sua percezione tra i posteri. Precisi sono i bilanci che entrambi gli storici, autori di altri studi su Pietro I e la sua epoca, tracciano alla fine delle loro ricerche, anche se il bilancio vero dovrebbe estendersi dai risultati immediati al «tempo lungo» poiché le trasformazioni di Pietro, riformatrici o rivoluzionarie che siano, hanno segnato l’intero sviluppo storico successivo e come tali anche oggi sono discusse in opere letterarie recenti come quelle di Michail Kuraev e Daniil Granin, oltre che nelle pubblicistica di Aleksandr Solzenicyn.
Sulla comprensione della figura e dell’opera di Pietro il Grande pesa ancora una inevitabile, ma spesso banale analogia con la rivoluzione bolscevica e i suoi capi, Lenin e Stalin. Per alcuni la proiezione reciproca di immagine (di Lenin e Stalin su Pietro e viceversa) suona come un’esaltazione di tutti loro in quanto individui «cosmico-storici» che, con metodi efferati, operarono un grandioso sovvertimento, nazionale (Pietro) e metanazionale (Lenin e Stalin). Per altri, fautori di una Russia autoctona e antioccidentale, Pietro è invece il responsabile di una europeizzazione traumatica che ha sradicato la Russia, spingendola, alla fine, nel baratro di una rivoluzione, quella bolscevica, rea di aver denazionalizzato ulteriormente il Paese, privandolo della sua più intima natura religiosa e spirituale.
Pietro è stato il primo a tentare quella «modernizzazione» che poi altri Paesi «tradizionali» o «arretrati», dal Giappone alla Turchia, in altri modi hanno realizzato e che Pietro affrontò decisamente a partire dal taglio delle barbe patriarcali, dall’imposizione di vestiti di tipo occidentale, dalla liberazione della donna dal gineceo, dall’introduzione del calendario europeo, dal rifiuto della xenofobia, eccetera fino alla fondazione dell’Accademia delle scienze e a tutta una serie di riforme amministrative, sociali, militari.
Se questi sono, in breve, i problemi generali che uno studio di Pietro il Grande pone, non meno rilevante è la figura del sovrano, figura enigmatica, s’è detto, quasi in lui convivessero diverse personalità che via via contradditoriamente si manifestavano. Centrale è, nella sua biografia, il rapporto col figlio, Alessio (Aleksej), neghittoso e fiacco d’animo e di corpo, agli antipodi del padre, che lo fece processare e torturare a morte, quando si convinse di non poter affidare a lui, legato alle forze conservatrici e forse strumento di una loro congiura, l’eredità delle sue riforme. Pietro, che si fregiava del titolo di «Pater patriae», sentiva questa paternità civile come superiore a quella carnale, e voleva che la sua amata creatura, la nuova Russia negatrice della vecchia Moscovia, non finisse assieme alla sua esistenza fisica.
Spietato fu Pietro con i suoi sudditi e i suoi nemici in nome di quel «bene comune» che costituiva il suo criterio direttivo. Ma fu anche barbaricamente crudele, smodato, tirannico nelle sue manifestazioni personali, nello spirito dell’epoca, del resto. La crapula burlesca e buffonesca, di cui erano centro il «Collegio della sbornia» da lui fondato, le feste in maschera da lui organizzate, le parodie delle cerimonie religiose e civili da lui praticate, la sua volontà di nascondere a volte il suo rango e indossare i panni di carpentiere, ad esempio, o di riverire una sorta di sua controfigura regale da lui stesso creata per celia, tutto ciò costituisce l’aspetto bizzarro e carnevalesco del regno di Pietro, che però ne ebbe un altro sanguinario e grandguignolesco, quasi questa dissacrazione ludica facesse parte della sua sovversione e ricostruzione culturale secolarizzata dalla società russa che, se aprì una ferita a lungo sanguinante, agì anche come un potente stimolo creativo. Forse la chiave per interpretare la figura di Pietro il Grande sta in una teatralità barocca che gli permetteva di giocare a suo piacere vari ruoli, al di là di quello di sovrano, in un mondo che egli aveva messo sottosopra, strappandolo a un passato sempre più lontano dai tempi nuovi.

«Pietro il Grande», di Paul Bushkovitch, storico a Yale, è edito da Salerno (p. 524, 29): illustra i 50 anni del regno e la fondazione di San Pietroburgo. Il saggio di Lindsey Hughes, che insegna storia russa a Londra, è edito con lo stesso titolo da Einaudi (p. 342, 30), ed è dedicato sia alla figura dello zar che alla persistenza del suo mito fino a oggi

paradisi

La Stampa 26.3.04
L’ALDILA’ NELLA TRADIZIONE MUSULMANA
Quattro fiumi: di vino, acqua, latte e miele
e per ogni uomo 72 donne dagli occhi neri


GERUSALEMME. [...] Descrizioni dettagliate delle tradizioni islamiche relative alla vita eterna nel Paradiso sono riportate in alcuni siti internet islamici, alcuni dei quali piuttosto in voga. Il Paradiso ha molti appellativi - il Giardino, il Posto Perfetto, il Posto dell'Onore, e altri ancora - e undici porte di accesso, a seconda se il fedele si sia distinto per filantropia, per pietà, per santità, o per fervore religioso. La porta numero otto è quella destinata ai bambini [...].
Una volta entrato - secondo la descrizione fornita dai siti internet - avrebbe constatato che i fiumi sono quattro, anche se solo due di loro visibili e gli altri sotterranei. Certo c'è un fiume di miele e anche [...] un fiume di vino: ma il vino del Paradiso è diverso da quello terrestre (e quindi lecito ai musulmani) perché non stordisce, né abbrutisce. Gli altri due fiumi sono di acqua, e di latte.
Il posto risulta essere ricco di vegetazione e di animali, fra cui spiccano gli uccelli. Al suo centro si trova Allah, al di sopra di una elevazione da cui sgorgano i fiumi paradisiaci.
Sulle vergini Hussam, invece, è stato forse impreciso. Perché nel Corano queste avvenenti accompagnatrici sono chiamate piuttosto «le donne dagli occhi neri». Per contrasto, la loro carnagione risulta essere bianchissima: levigata come una conchiglia, delicata come il guscio di un uovo. La loro purezza è totale, perché non sono state mai toccate né da un uomo né da un «jinn» (una entità malefica), né conoscono mestruazioni. Su di loro, la polvere e la sporcizia scivolano via delicatamente. Per proteggerle dalla luce costante del Paradiso, vengono sistemate sotto tende.
Vuoi per il cibo salutare (carne di toro), vuoi per un intervento soprannaturale, chi viene trovato degno di ricevere le attenzioni delle 72 «donne dagli occhi neri» non deve preoccuparsi delle proprie prestazioni perché - una volta entrato in Paradiso - scopre di avere la potenza sessuale di cento uomini.
Non tutti gli studiosi di Islam confermano però questa dettagliata descrizione delle vita eterna, divulgata al popolo dai predicatori di Hamas nelle certezza di fare presa sulle masse dei diseredati. Nel Corano, obiettano, non si parla affatto di sesso in Paradiso. Ogni buon musulmano dovrebbe saperlo. E' solo folklore, avvertono. «Solo Allah sa se ci sia sesso in Paradiso», ha osservato l'anno scorso lo sceicco Muhammad Tantawi, teologo dell’Università di Al Azhar del Cairo. «Noi crediamo che sia lo spirito sia la vista vengano là appagati per la eternità. Ma in quale modo, non è possibile sapere».
Ma anche il folklore ha una sua importanza. Sulla stampa palestinese, i congiunti dei kamikaze pubblicano a volte annunci a pagamento in cui invitano i conoscenti al «matrimonio» del martire «con le donne dagli occhi neri, che lo attendono in Paradiso».
Lo stesso Mufti palestinese, sceicco Akrama Sabri, ha accreditato questa credenza popolare in interviste alla stampa. [...]