spettacolo.it [News] - 3 dicembre 2003 (h.13:50)
SALE LA FEBBRE PER GLI EUROPEAN FILM ACADEMY
Tra gli italiani premiati Marco Bellocchio e Carlo Di Palma
Sabato 6 dicembre, all'Arena di Berlino verranno consegnati gli Oscar europei e cresce in Italia la febbre per i possibili vincitori.
Chi sicuramente riceverà un premio saranno Marco Bellocchio premiato dalla critica, il direttore della fotografia Carlo Di Palma premiato per la carriera mentre "La meglio gioventù" di Marco Tullio Giordana concorre con tre candidature (migliore regia, Luigi Lo Cascio miglior attore e Stefano Rulli e Sandro Petraglia per la sceneggiatura) e Italo Petriccione è tra i papabili per la miglior fotografia di "Io non ho paura".
A condurre la serata attore tedesco Heino Ferch ("Commedia Harmonists") mentre Jeanne Moreau, Istvan Szabo e Pedro Almodovar saranno tra i padrini dei film candidati.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
mercoledì 3 dicembre 2003
un riconoscimento per Marco Bellocchio
Libertà 3.12.03
Un abbraccio corale a Bellocchio con un video di Roberto Dassoni
di Anna Anselmi
«Un abbraccio corale attorno a Marco Bellocchio, uno dei più illustri figli della nostra terra». Questo, nelle parole del presidente della Provincia Dario Squeri, il significato dell'incontro pubblico "Buongiorno, Marco", organizzato come riconoscimento nei confronti del famoso regista bobbiense. L'appuntamento, aperto a tutti, è in programma sabato 13 dicembre, giorno di Santa Lucia, alle 18 al cinema Iris. Ieri nell'incontro di presentazione presso l'ente di via Garibaldi, Squeri si è soffermato sulle motivazioni dell'iniziativa, che vuole essere un premio, conferito a Bellocchio per i suoi meriti artistici, ma anche per il suo impegno di promotore culturale, sempre coerente nel difendere un ideale di libertà. Il presidente della Provincia ha rimarcato quanto le pellicole di Bellocchio siano capaci di esprimere il suo modo di vedere il cinema, fotografando pure la società di oggi. Ma il significato dell'evento non si limita all'omaggio nei confronti di un maestro: «Piacentino di successo, Bellocchio non ha mai avuto paura di dirsi fino in fondo figlio della nostra terra. È un testimone d'eccezione di Piacenza e della sua provincia, dove continua con generosità ad operare per la formazione dei giovani, nei corsi “Fare cinema” a Bobbio, che l'amministrazione provinciale ha sempre sostenuto». La comunicazione e l'organizzazione del progetto sono state curate da Lucia Cerri, che ieri ha illustrato il programma dell'iniziativa. All'Iris verrà proiettato un video realizzato dalla Provincia, per la regia di Roberto Dassoni. «È un atto di affetto, nel riconoscimento di valori nei quali Bellocchio - ha affermato Cerri - ha sempre creduto, come il senso di libertà, nella fedeltà alle radici». In sala cinque critici cinematografici di fama: Paola Malanga, Tullio Masoni, Enrico Nosei, Emanuela Martini e Lorenzo Pellizzari, ripercorreranno, insieme a Squeri, contenuti e significati della produzione bellocchiana. In contemporanea, sui muri dei palazzi di un lato di piazza Cavalli verrà proiettato uno spettacolo di multivisione (regista Giancarlo Carraro), un racconto per immagini della vita e dell'arte di Bellocchio, con scene tratte dai suoi film e dai suoi disegni recentemente esposti a Parma. «Un percorso ideale che conduce - ha concluso Cerri - fino al cinema dove si tiene l'incontro». Il titolo di questo particolare dono di Santa Lucia si rifà all'ultimo film del maestro, di cui non saranno comunque trascurate le origini e i legami con l'alta Valtrebbia.
Un abbraccio corale a Bellocchio con un video di Roberto Dassoni
di Anna Anselmi
«Un abbraccio corale attorno a Marco Bellocchio, uno dei più illustri figli della nostra terra». Questo, nelle parole del presidente della Provincia Dario Squeri, il significato dell'incontro pubblico "Buongiorno, Marco", organizzato come riconoscimento nei confronti del famoso regista bobbiense. L'appuntamento, aperto a tutti, è in programma sabato 13 dicembre, giorno di Santa Lucia, alle 18 al cinema Iris. Ieri nell'incontro di presentazione presso l'ente di via Garibaldi, Squeri si è soffermato sulle motivazioni dell'iniziativa, che vuole essere un premio, conferito a Bellocchio per i suoi meriti artistici, ma anche per il suo impegno di promotore culturale, sempre coerente nel difendere un ideale di libertà. Il presidente della Provincia ha rimarcato quanto le pellicole di Bellocchio siano capaci di esprimere il suo modo di vedere il cinema, fotografando pure la società di oggi. Ma il significato dell'evento non si limita all'omaggio nei confronti di un maestro: «Piacentino di successo, Bellocchio non ha mai avuto paura di dirsi fino in fondo figlio della nostra terra. È un testimone d'eccezione di Piacenza e della sua provincia, dove continua con generosità ad operare per la formazione dei giovani, nei corsi “Fare cinema” a Bobbio, che l'amministrazione provinciale ha sempre sostenuto». La comunicazione e l'organizzazione del progetto sono state curate da Lucia Cerri, che ieri ha illustrato il programma dell'iniziativa. All'Iris verrà proiettato un video realizzato dalla Provincia, per la regia di Roberto Dassoni. «È un atto di affetto, nel riconoscimento di valori nei quali Bellocchio - ha affermato Cerri - ha sempre creduto, come il senso di libertà, nella fedeltà alle radici». In sala cinque critici cinematografici di fama: Paola Malanga, Tullio Masoni, Enrico Nosei, Emanuela Martini e Lorenzo Pellizzari, ripercorreranno, insieme a Squeri, contenuti e significati della produzione bellocchiana. In contemporanea, sui muri dei palazzi di un lato di piazza Cavalli verrà proiettato uno spettacolo di multivisione (regista Giancarlo Carraro), un racconto per immagini della vita e dell'arte di Bellocchio, con scene tratte dai suoi film e dai suoi disegni recentemente esposti a Parma. «Un percorso ideale che conduce - ha concluso Cerri - fino al cinema dove si tiene l'incontro». Il titolo di questo particolare dono di Santa Lucia si rifà all'ultimo film del maestro, di cui non saranno comunque trascurate le origini e i legami con l'alta Valtrebbia.
Simone de Beauvoir, la vecchia storia di una censura
La Stampa 03 Dicembre 2003
VISIBILE SOLO SU INTERNET UN’INTERVISTA CHE LA SCRITTRICE REGISTRÒ NEL 1959 PER LA TV DEL QUÉBEC, UNA CONFESSIONE CHE È ANCORA SCANDALO
Divorzio e ateismo: censurate la De Beauvoir
di Giovanna Zucconi
oggi è possibile vedere questa intervista cliccando qui (in francese)
NEL 1959 non andò in onda perché l'arcivescovo di Montréal era intervenuto a bloccarla: i contenuti gli sembravano immorali. E neanche nel 1986 andò in onda, perché il palinsesto prevedeva le eliminatorie del campionato di hockey su ghiaccio. Se ogni epoca ha la censura che si merita, è probabile che l'intervista a Simone de Beauvoir realizzata e mai trasmessa dalla televisione canadese oggi non andrebbe in onda per tutt'altro nobile motivo: la cultura non fa audience, ed è un vero scandalo che un'austera signora in chignon si permetta di pronunciare decine di volte nel giro di quaranta minuti una parolaccia peraltro antiquata come «intellettuali».
La storia, a dire il vero, ha un (quasi) lieto fine. I telespettatori del Québec non hanno ancora visto integralmente la lunga e bella conversazione fra Simone de Beauvoir e l'intervistatore Wilfrid Lemoine, però chiunque appartenga all'élite del tecno-dotati può adesso tranquillamente guardarsela su internet, nel sito www.radio-canada.ca. Non è proprio la stessa cosa, però guardare quel documento d'archivio a tanti anni di distanza, aiuta a capire perché fu ripetutamente censurato.
C'è davvero un clima d'altri tempi, in quel filmato: due persone sedute che parlano intorno a un tavolo per quasi tre quarti d'ora e nient'altro, oggi sarebbe inaudito. Lui, l'intervistatore, è cortese ma ficcante. Lei, «Notre-Dame-de-Sartre» come la chiamavano con sprezzo (anche se forse, con il senno di poi, l'ordine di importanza dei due pensatori andrebbe capovolto), è composta, perfino severa, con una blusa bianca accollata e rare increspature di sorriso. Si intuisce anche che clima c'era fuori da quello studio televisivo. Nel novembre del 1959, quando l'intervista fu realizzata, il nazionalista Maurice Duplessis era appena morto, ma nel Québec erano ancora gli anni della grande noirceur, gli anni oscuri in cui la chiesa cattolica continuava a dettare la morale. "Il secondo sesso" di Simone de Beauvoir, uscito in Francia nel 1949, era stato messo all'indice e vi sarebbe rimasto fino agli anni Sessanta inoltrati, ed ecco che quella signora veniva in televisione e diceva cose indicibili. Primo, che non credeva in Dio. Secondo, che per lei il matrimonio senza più amore era osceno come la prostituzione, una condanna a vita nel cuore e nella carne, per le donne. Terzo, in quell'epoca che stava slittando dal dopoguerra ancora patriarcale al baby-boom, che lei «non riteneva necessario avere figli». Un triplice affronto alla morale corrente. Vietato andare in onda.
È stata censura o autocensura, veto o paura? Non è poi, e non è più, così importante saperlo. Meglio ascoltare madame de Beauvoir mentre argomenta, paziente ma recisa, le sue «scandalose» opinioni, lei che aveva scritto quella bibbia dell'emancipazione femminile che fu ed è ancora Il secondo sesso per ardore filosofico e non per rivalsa personale. Sostiene Simone che l'amore non deve coincidere con il possesso, ma che la gelosia se non è violenta e morbosa è un sentimento che arricchisce. Sostiene che della situazione femminile sono più responsabili gli uomini delle donne, e che non esiste la «natura femminile» e neppure la «natura umana», esistono delle condizioni oggettive che possono essere cambiate, proprio come bisogna liberare tutta l'umanità dalla fame e dall'oppressione. Appoggia il divorzio, perché la donna non è solo sposa, e l'allontanamento dei figli come nei kibbutz, perché la donna non è solo madre. Dice che Dio è un alibi, che già a 13 anni lei aveva smesso di credere disgustata da chi faceva professione di fede per conformismo e in incoerenza.
Parla di Robbe-Grillet, della Cina, della guerra d'Algeria, dei suoi libri, di Sartre, del comunismo, dei valori etici dell'esistenzialismo… Dice molto «io» Simone de Beauvoir, in quel filmato color seppia: ma è un «io» intellettuale. E dice moltissimo «noi», noi intellettuali, noi che vogliamo cambiare il mondo… Ateismo, matrimonio e figli occupano appena una manciata di ragionevoli e ragionanti secondi, nella lunga intervista. Da censurare, allora come oggi, era forse lo scandalo di quel «noi» pensante e combattivo.
(giovannazucconi@libero.it)
sulla fiction su Augusto
citata al Lunedì
La Stampa 3.12.03
CLEOPATRA NON SEDUCEVA CON IL TANGA
di Silvia Ronchey
COM’È riuscita Rai Fiction, con una coppia di grandi attori come Peter O’Toole e Charlotte Rampling, soprattutto con un pool scientifico di grandi storici come Andrea Giardina e Gëza Alföldy, a produrre l'imbarazzante telenovela su Augusto, il primo imperatore? Se re Mida trasformava in oro tutto quello che toccava, la televisione, a quanto pare, tramuta tutto in fotoromanzo. Anzi peggio, tramuta la cultura, certamente garantita dai prestigiosi consulenti, in incultura. Le sere di domenica e lunedì perfino i ginnasiali si telefonavano ridendo a crepapelle a sentire Cleopatra-Miss Italia, con ancora indosso il bikini del Concorso, sbraitare: «Sono la tua puttanella egiziana!» a un Marco Antonio-Massimo Ghini, trasformato in sorta di Briatore da Sharm-el-Sheik. Eppure Cleopatra, l'ultima dei Tolomei, aveva una conversazione coltissima, descritta da Plutarco: la sua eleganza nel parlare e non il suo tanga avevano sedotto Cesare e Antonio.
Agli occhi degli ignari telespettatori il palazzo imperiale ospita un esempio di famiglia allargata da fare gola al programma di Maria De Filippi: una coppia di divorziati esageratamente permissivi con due disastrosi figli di primo letto. Viziata, maleducata e isterica, Giulia-Vittoria Belvedere non fa che insultare il padre Augusto e lo spettatore esulta quando finalmente l'ebete Tiberio la violenta. Il povero Mecenate è una macchietta gay alla Vanzina, che aiuta a cambiare look il futuro imperatore, presentato come «un povero ragazzo di campagna», nonostante già a dodici anni, come ci informa Svetonio, avesse pronunciato davanti all'assemblea l'orazione funebre per sua nonna Giulia, sorella di Cesare. Il foro romano sembra il Bar Sport, dove giovani aristocratici con facce da coatti progettano bravate come ammazzare Cesare. Bruto è brutto, Cicerone ancora di più, e per giunta cattivo: ovvio che due tipi così poco telegenici debbano finire male. Mai tanto quanto Antonio, che fa harakiri davanti a un trono sormontato da quelli che appaiono quattro cornacchioni dorati, né tanto quanto Miss Italia alle prese con un cobra che le striscia allusivamente tra le cosce.
Eppure Livia, Giulia, Mecenate, Agrippa, Bruto, Cassio e tutti gli altri erano parte di un'élite raffinata, cosmopolita, severa, animata da un senso dello Stato e della politica che ancora oggi richiamiamo quando diciamo «si comporta come un antico romano». Il complesso scenario attraverso cui la repubblica trapassa nell'impero è il palcoscenico originario della nostra cultura politica occidentale, riletto da Dante a Machiavelli, da Shakespeare a Brecht. Ma il fantasma che aleggia qui è una Yourcenar maldigerita: l'artificio narrativo dello script, la storia rievocata dall'imperatore ormai vecchio, è una caricatura delle Memorie di Adriano .
La corazza di cuoio che ha protetto Augusto dalle vendette del Senato non è bastata a proteggerlo dalla tv. Evidentemente, fare cultura per le masse significa convincerle che la cultura non esiste, che tutto è sempre stato come adesso, o meglio come gli stereotipi odierni vorrebbero che fosse. E questa è la più grave delle corruttele e delle violenze che il peggio usato dei media infligge alla più disprezzata delle parti in commedia: il pubblico.
CLEOPATRA NON SEDUCEVA CON IL TANGA
di Silvia Ronchey
COM’È riuscita Rai Fiction, con una coppia di grandi attori come Peter O’Toole e Charlotte Rampling, soprattutto con un pool scientifico di grandi storici come Andrea Giardina e Gëza Alföldy, a produrre l'imbarazzante telenovela su Augusto, il primo imperatore? Se re Mida trasformava in oro tutto quello che toccava, la televisione, a quanto pare, tramuta tutto in fotoromanzo. Anzi peggio, tramuta la cultura, certamente garantita dai prestigiosi consulenti, in incultura. Le sere di domenica e lunedì perfino i ginnasiali si telefonavano ridendo a crepapelle a sentire Cleopatra-Miss Italia, con ancora indosso il bikini del Concorso, sbraitare: «Sono la tua puttanella egiziana!» a un Marco Antonio-Massimo Ghini, trasformato in sorta di Briatore da Sharm-el-Sheik. Eppure Cleopatra, l'ultima dei Tolomei, aveva una conversazione coltissima, descritta da Plutarco: la sua eleganza nel parlare e non il suo tanga avevano sedotto Cesare e Antonio.
Agli occhi degli ignari telespettatori il palazzo imperiale ospita un esempio di famiglia allargata da fare gola al programma di Maria De Filippi: una coppia di divorziati esageratamente permissivi con due disastrosi figli di primo letto. Viziata, maleducata e isterica, Giulia-Vittoria Belvedere non fa che insultare il padre Augusto e lo spettatore esulta quando finalmente l'ebete Tiberio la violenta. Il povero Mecenate è una macchietta gay alla Vanzina, che aiuta a cambiare look il futuro imperatore, presentato come «un povero ragazzo di campagna», nonostante già a dodici anni, come ci informa Svetonio, avesse pronunciato davanti all'assemblea l'orazione funebre per sua nonna Giulia, sorella di Cesare. Il foro romano sembra il Bar Sport, dove giovani aristocratici con facce da coatti progettano bravate come ammazzare Cesare. Bruto è brutto, Cicerone ancora di più, e per giunta cattivo: ovvio che due tipi così poco telegenici debbano finire male. Mai tanto quanto Antonio, che fa harakiri davanti a un trono sormontato da quelli che appaiono quattro cornacchioni dorati, né tanto quanto Miss Italia alle prese con un cobra che le striscia allusivamente tra le cosce.
Eppure Livia, Giulia, Mecenate, Agrippa, Bruto, Cassio e tutti gli altri erano parte di un'élite raffinata, cosmopolita, severa, animata da un senso dello Stato e della politica che ancora oggi richiamiamo quando diciamo «si comporta come un antico romano». Il complesso scenario attraverso cui la repubblica trapassa nell'impero è il palcoscenico originario della nostra cultura politica occidentale, riletto da Dante a Machiavelli, da Shakespeare a Brecht. Ma il fantasma che aleggia qui è una Yourcenar maldigerita: l'artificio narrativo dello script, la storia rievocata dall'imperatore ormai vecchio, è una caricatura delle Memorie di Adriano .
La corazza di cuoio che ha protetto Augusto dalle vendette del Senato non è bastata a proteggerlo dalla tv. Evidentemente, fare cultura per le masse significa convincerle che la cultura non esiste, che tutto è sempre stato come adesso, o meglio come gli stereotipi odierni vorrebbero che fosse. E questa è la più grave delle corruttele e delle violenze che il peggio usato dei media infligge alla più disprezzata delle parti in commedia: il pubblico.
contro la depressione... fate un po' come vi pare
Il Sole 24Ore Domenicale 30.11.03
Regole di saggezza
La felicità? Questione di esercizio
I sentimenti positivi non sono frutto del caso. Ci sono azioni e pensieri che ci aiutano a provarli. Come avevano capito i filosofi antichi e, oggi, il Dalai Lama e i neuroscienziati - Star bene dipende più da noi che dalle circostanze. Corpo e cervello uniti nel benessere
di Armando Massarenti
"No sports, just whisky and cigars". Ognuno è libero di elaborare il proprio personale elisir di lunga vita. Eppure non è difficile immaginare che l'autore di questa ricetta, Winston Churchill, abbia pagato cara la propria spavalderia. Non tanto per i sigari o il whisky. Egli era affetto da una grave forma di depressione - "il mio cane nero" la chiamava, e non gli dava mai tregua - determinata probabilmente da cause genetiche. In questi casi oggi è dimostrato che il movimento fisico è fondamentale. Una corsa in un bosco può avere la stessa efficacia di una psicoterapia. Il movimento solleva il morale. Quando si esercitano i muscoli, il cervello libera ormoni, come la serotonina, che possono provocare una leggera euforia. Ma sono soprattutto i "sensi interni" a produrre una migliore disposizione di spirito. "Dappertutto nel nostro corpo sono distribuite "antenne" per mezzo delle quali il sistema nervoso vigila sull'organismo. In ogni istante arriva al cervello un intero concerto di messaggi provenienti dal corpo e possiamo imparare a percepirlo con attenzione e a godere del perfetto funzionamento del corpo".
É questo un ingrediente non secondario della Formula della felicità proposta da Stefan Klein. La "formula" però non è semplice. É il combinato di una serie di conoscenze acquisite negli ultimi anni sparse in ambiti disciplinari spesso lontani tra loro: neuroscienze, genetica, psichiatria, sociologia, antropologia, immunologia, ma anche economia e filosofia politica. Così uno studio condotto dagli economisti Alois Sturzer e Bruno Frey per esempio ha mostrato che il Paese europeo dove la gente è più felice è la Svizzera. Perché? Non per la bellezza dei luoghi, e neppure per la ricchezza. Altri studi hanno peraltro dimostrato che la ricchezza è determinante per la felicità solo al di sotto di una soglia di reddito piuttosto bassa, al di sopra della quale intervengono altri fattori. Il fattore determinante, nel caso della Svizzera, è il sistema politico. Le decisioni importanti non vengono prese a Berna, la capitale, ma direttamente dagli abitanti dei 26 Cantoni. La capacità di influire direttamente sull'agenda politica e sulle decisioni pubbliche risulta fondamentale per il benessere. La soddisfazione data dalla possibilità di poter decidere molte questioni, piccole e grandi, su di sé e sul luogo in cui si vive supera di gran lunga quella derivante ad esempio da un sostanzioso aumento di stipendio. Dove ci si avvicina a forme di democrazia diretta tutti i servizi sociali sembrano funzionare meglio, ed è anche interessante notare che i residenti stranieri, i quali non partecipano ai processi decisionali, non ne traggono lo stesso grado di soddisfazione degli abitanti locali. Insomma, è la democrazia a rendere felici. Senso civico, armonia sociale e possibilità di avere un effettivo controllo sulla propria vita, costituiscono - conclude Klein - il "triangolo magico della felicità".
Sono state le scoperte recenti sul cervello, soprattutto sulla sua straordinaria plasticità, a convincere Klein che è possibile individuare regole e comportamenti ben precisi in grado di influenzare la nostra felicità: "Possiamo rafforzare attraverso l'esercizio cosciente i circuiti per i sentimenti positivi, e possiamo collocarci deliberatamente in situazioni a cui reagiamo con gioia e piacere". I sentimenti positivi sono nel cervello ed esso, come ha mostrato Damasio, è strettamente collegato con il corpo. Oggi solo pochi relativisti impenitenti negherebbero che le espressioni di un certo numero di sentimenti siano identiche in tutti gli esseri umani. Grazie a Paul Ekman, sappiamo quali sono i muscoli facciali che esprimono, in qualunque società umana, una autentica felicità e sappiamo distinguere un sorriso genuino dalle espressioni forzate che assumiamo davanti a una macchina fotografica. Grazie a neurologi come Damasio sappiamo anche che i circuiti della felicità e della sofferenza sono separati, e che la felicità è qualcosa di più, e di diverso, dalla semplice assenza di infelicità.
Le circostanze esterne contano in minima parte. Le persone possono essere felici quasi in qualsiasi situazione. La gioia di vivere non dipende né dall'età né dal sesso, né dal numero di figli né dal conto in banca. Dipende invece dalla capacità di avere rapporti con gli altri (ma vale anche la regola "Meglio soli che male accompagnati") e di avere il controllo delle proprie vite. Anche le responsabilità che ne derivano non generano stress, non diminuiscono ma aumentano il benessere.
La felicità, dunque, dipende soprattutto da noi, e le conoscenze recenti ci aiutano a perseguirla con maggiore consapevolezza. A volte ci spingono ad abbandonare vecchie credenze. Come quella secondo cui sfogare la propria rabbia o la propria sofferenza sia utile e rinfrancante. É vero il contrario. Arrabbiarsi fa ancora più male, rende più difficile uscire da una senzazione negativa. É invece possibile, e assai salutare, controllare consapevolmente i sentimenti negativi. Altre volte le nuove conoscenze confermano intuizioni antichissime. Quelle per esempio della scuole filosofiche dei Greci, che avevano individuato una serie di che definivano "terapeutici" per dominare e sconfiggere sentimenti come l'avidità, l'invidia e la paura della morte. Altri esercizi erano invece "sensibilizzanti". Epicuro invitava i discepoli a non differire la gioia, e a chiedersi ogni sera se davvero si erano colte le occasioni di felicità che si erano presentate nella giornata. L'idea che ci siano esercizi che possono indurci abitudini da cui deriva il nostro senso di felicità è stata quasi del tutto abbandonata in Occidente, ma la si ritrova invece nel Buddhismo e nelle riflessioni del Dalai Lama, gran frequentatore di laboratori di neuroscienze.
"I sentimenti di felicità non sono frutto del caso - conclude Klein - bensì la conseguenza di pensieri e azioni giusti: in questa concezione si riconoscono le moderne neuroscienze, la filosofia antica e il Buddhismo". Il cervello può cambiare in ogni età della vita. Ecco un'altra delle acquisizioni recenti che modificano convinzioni consolidate. Una scoperta che dovrebbe renderci tutti più felici.
Stefan Klein, La formula della felicità. Per una filosofia del benessere, Longanesi, Milano 2003, pagg. 332, 16,50
Regole di saggezza
La felicità? Questione di esercizio
I sentimenti positivi non sono frutto del caso. Ci sono azioni e pensieri che ci aiutano a provarli. Come avevano capito i filosofi antichi e, oggi, il Dalai Lama e i neuroscienziati - Star bene dipende più da noi che dalle circostanze. Corpo e cervello uniti nel benessere
di Armando Massarenti
"No sports, just whisky and cigars". Ognuno è libero di elaborare il proprio personale elisir di lunga vita. Eppure non è difficile immaginare che l'autore di questa ricetta, Winston Churchill, abbia pagato cara la propria spavalderia. Non tanto per i sigari o il whisky. Egli era affetto da una grave forma di depressione - "il mio cane nero" la chiamava, e non gli dava mai tregua - determinata probabilmente da cause genetiche. In questi casi oggi è dimostrato che il movimento fisico è fondamentale. Una corsa in un bosco può avere la stessa efficacia di una psicoterapia. Il movimento solleva il morale. Quando si esercitano i muscoli, il cervello libera ormoni, come la serotonina, che possono provocare una leggera euforia. Ma sono soprattutto i "sensi interni" a produrre una migliore disposizione di spirito. "Dappertutto nel nostro corpo sono distribuite "antenne" per mezzo delle quali il sistema nervoso vigila sull'organismo. In ogni istante arriva al cervello un intero concerto di messaggi provenienti dal corpo e possiamo imparare a percepirlo con attenzione e a godere del perfetto funzionamento del corpo".
É questo un ingrediente non secondario della Formula della felicità proposta da Stefan Klein. La "formula" però non è semplice. É il combinato di una serie di conoscenze acquisite negli ultimi anni sparse in ambiti disciplinari spesso lontani tra loro: neuroscienze, genetica, psichiatria, sociologia, antropologia, immunologia, ma anche economia e filosofia politica. Così uno studio condotto dagli economisti Alois Sturzer e Bruno Frey per esempio ha mostrato che il Paese europeo dove la gente è più felice è la Svizzera. Perché? Non per la bellezza dei luoghi, e neppure per la ricchezza. Altri studi hanno peraltro dimostrato che la ricchezza è determinante per la felicità solo al di sotto di una soglia di reddito piuttosto bassa, al di sopra della quale intervengono altri fattori. Il fattore determinante, nel caso della Svizzera, è il sistema politico. Le decisioni importanti non vengono prese a Berna, la capitale, ma direttamente dagli abitanti dei 26 Cantoni. La capacità di influire direttamente sull'agenda politica e sulle decisioni pubbliche risulta fondamentale per il benessere. La soddisfazione data dalla possibilità di poter decidere molte questioni, piccole e grandi, su di sé e sul luogo in cui si vive supera di gran lunga quella derivante ad esempio da un sostanzioso aumento di stipendio. Dove ci si avvicina a forme di democrazia diretta tutti i servizi sociali sembrano funzionare meglio, ed è anche interessante notare che i residenti stranieri, i quali non partecipano ai processi decisionali, non ne traggono lo stesso grado di soddisfazione degli abitanti locali. Insomma, è la democrazia a rendere felici. Senso civico, armonia sociale e possibilità di avere un effettivo controllo sulla propria vita, costituiscono - conclude Klein - il "triangolo magico della felicità".
Sono state le scoperte recenti sul cervello, soprattutto sulla sua straordinaria plasticità, a convincere Klein che è possibile individuare regole e comportamenti ben precisi in grado di influenzare la nostra felicità: "Possiamo rafforzare attraverso l'esercizio cosciente i circuiti per i sentimenti positivi, e possiamo collocarci deliberatamente in situazioni a cui reagiamo con gioia e piacere". I sentimenti positivi sono nel cervello ed esso, come ha mostrato Damasio, è strettamente collegato con il corpo. Oggi solo pochi relativisti impenitenti negherebbero che le espressioni di un certo numero di sentimenti siano identiche in tutti gli esseri umani. Grazie a Paul Ekman, sappiamo quali sono i muscoli facciali che esprimono, in qualunque società umana, una autentica felicità e sappiamo distinguere un sorriso genuino dalle espressioni forzate che assumiamo davanti a una macchina fotografica. Grazie a neurologi come Damasio sappiamo anche che i circuiti della felicità e della sofferenza sono separati, e che la felicità è qualcosa di più, e di diverso, dalla semplice assenza di infelicità.
Le circostanze esterne contano in minima parte. Le persone possono essere felici quasi in qualsiasi situazione. La gioia di vivere non dipende né dall'età né dal sesso, né dal numero di figli né dal conto in banca. Dipende invece dalla capacità di avere rapporti con gli altri (ma vale anche la regola "Meglio soli che male accompagnati") e di avere il controllo delle proprie vite. Anche le responsabilità che ne derivano non generano stress, non diminuiscono ma aumentano il benessere.
La felicità, dunque, dipende soprattutto da noi, e le conoscenze recenti ci aiutano a perseguirla con maggiore consapevolezza. A volte ci spingono ad abbandonare vecchie credenze. Come quella secondo cui sfogare la propria rabbia o la propria sofferenza sia utile e rinfrancante. É vero il contrario. Arrabbiarsi fa ancora più male, rende più difficile uscire da una senzazione negativa. É invece possibile, e assai salutare, controllare consapevolmente i sentimenti negativi. Altre volte le nuove conoscenze confermano intuizioni antichissime. Quelle per esempio della scuole filosofiche dei Greci, che avevano individuato una serie di
"I sentimenti di felicità non sono frutto del caso - conclude Klein - bensì la conseguenza di pensieri e azioni giusti: in questa concezione si riconoscono le moderne neuroscienze, la filosofia antica e il Buddhismo". Il cervello può cambiare in ogni età della vita. Ecco un'altra delle acquisizioni recenti che modificano convinzioni consolidate. Una scoperta che dovrebbe renderci tutti più felici.
Stefan Klein, La formula della felicità. Per una filosofia del benessere, Longanesi, Milano 2003, pagg. 332, 16,50
Giovanni Scoto Eriugena
Il Sole 24Ore Domenicale del 30.11.03
Medievalia
La predestinazione secondo Eriugena
di Maria Bettetini
Studiamo il DNA per prevedere e prevenire le malattie, ascoltiamo fiduciosi temerarie previsioni del tempo prima di intraprendere una gita in montagna, investiamo i risparmi dove gli esperti prevedono guadagni: come giustificare un Dio che sapendo ogni cosa non salva i malvagi dal male? Forse li vuole malvagi, li ha pre-visti e pertanto predestinati per la dannazione? Il nodo concettuale che lega prescienza e predestinazione ha trovato nella storia del pensiero differenti soluzioni e ha suscitato accesi dibattiti, tra i quali fondamentale, se pur quasi sconosciuto, è quello che ha visto opporsi Godescalco di Orbais e Giovanni Scoto Eriugena nel IX secolo dell'era cristiana.
Ma non è corretto parlare di opposizione tra i due, quanto piuttosto di una battaglia tra il predestinazionista Godescalco e l'ortodossia cattolica, nella persona tra gli altri di Rabano Mauro: Eriugena, maestro di arti liberali irlandese presso la corte di Carlo il Calvo, veniva interpellato per confutare la teoria della doppia predestinazione, che vuole buoni e cattivi già predestinati alla salvezza o alla dannazione. In linea con le letture dei padri greci, soprattutto dello pseudo Dionigi, il maestro palatino scavalcava però l'ortodossia in senso opposto, arrivando a negare sostanza al male, conoscenza di ciò che non ha sostanza a Dio, punizioni corporali ai malvagi, e portando così alla composizione di altre opere per confutare la sua.
Il De praedestinatione, scritto tra l'850 e l'851, finalmente in traduzione italiana a cura di Ernesto Mainoldi, è un trattato in forma di epistola, dove Eriugena impone il metodo dialettico nell'indagine teologica, riprendendo la tradizione dei Padri in polemica con la mera citazione delle auctoritates utilizzata dai suoi contemporanei. Allo stesso tempo i Padri stessi, e soprattutto Agostino, sono reinterpretati alla luce delle regole della grammatica e della retorica; infine, ai Padri latini vengono accostati gli orientali e il loro peculiare platonismo. L'introduzione di Mainoldi dedica correttamente molto spazio alle cosiddette "fonti nascoste" di Eriugena: Mario Vittorino, Boezio, Marziano Capella, ma anche Origene e i due padri greci che lo stesso Eriugena tradusse in latino, Gregorio di Nissa e lo pseudo Dionigi Areopagita.
Nessuno di questi è citato, per ovvi motivi di convenienza: l'Occidente aveva eletto a riferimento principale delle dispute teologiche Agostino d'Ippona (le cui parole occupano quasi un quinto del De praedestinatione), non sembrava conveniente accostargli nomi di autori pagani o controversi o ancora poco conosciuti, soprattutto a proposito di un argomento tanto caro al padre latino. D'altra parte proprio i testi agostiniani sul libero arbitrio erano all'origine della teoria della doppia predestinazione di Godescalco. Lo stesso Giovanni Scoto Eriugena fa sue le posizioni del primo Agostino, ma supera il problema della predestinazione con grande abilità dialettica, lavorando nell'esegesi sull'argomentazione e contrario: il male è il peccato con le sue conseguenze, la miseria e la morte; ma il male è, platonicamente, corruzione della vita felice, senza altra causa che il nulla, quindi non può essere conosciuto se non in quanto non conosciuto. Quindi Dio non prevede e non predestina alcun male, perché il nulla non può essere conosciuto o predestinato. Inoltre, se è vero che prescienza e predestinazione in Dio sono la stessa cosa (perché Dio è assoluta semplicità), è pur vero che queste si dicono di Dio solo impropriamente: per chi è fuori dal tempo non ha senso parlare di futuro. Quanto al futuro dei malvagi, nel fuoco eterno essi subiranno una pena solo interiore, data da un desiderio mai saziato di felicità, perché la loro natura in sé è buona.
Il mondo è visto da Giovanni Scoto Eriugena come una reggia, dove i buoni fin da ora godono della bellezza, i cattivi si puniscono da soli lasciandosi corrompere. Dio? Non può conoscere o decidere ciò che non è. Godescalco? La sua doppia predestinazione non è né vera né falsa, è "una favola". Eriugena? Verrà confutato da Prudenzio di Troyes e Floro di Lione, infine sconfessato e condannato da coloro che gli avevano chiesto aiuto e che non sapevano di contribuire alla stesura del primo trattato pubblico del platonicissimo e agostiniano eretico Giovanni Scoto Eriugena.
Giovanni Scoto Eriugena, De praedestinatione liber. Dialettica e teologia all'apogeo della rinascenza carolingia, edizione critica, traduzione e commento di Ernesto S. N. Mainoldi, Edizioni del Galluzzo, Firenze 2003, pagg. CLIV + 284, 42,00.
Medievalia
La predestinazione secondo Eriugena
di Maria Bettetini
Studiamo il DNA per prevedere e prevenire le malattie, ascoltiamo fiduciosi temerarie previsioni del tempo prima di intraprendere una gita in montagna, investiamo i risparmi dove gli esperti prevedono guadagni: come giustificare un Dio che sapendo ogni cosa non salva i malvagi dal male? Forse li vuole malvagi, li ha pre-visti e pertanto predestinati per la dannazione? Il nodo concettuale che lega prescienza e predestinazione ha trovato nella storia del pensiero differenti soluzioni e ha suscitato accesi dibattiti, tra i quali fondamentale, se pur quasi sconosciuto, è quello che ha visto opporsi Godescalco di Orbais e Giovanni Scoto Eriugena nel IX secolo dell'era cristiana.
Ma non è corretto parlare di opposizione tra i due, quanto piuttosto di una battaglia tra il predestinazionista Godescalco e l'ortodossia cattolica, nella persona tra gli altri di Rabano Mauro: Eriugena, maestro di arti liberali irlandese presso la corte di Carlo il Calvo, veniva interpellato per confutare la teoria della doppia predestinazione, che vuole buoni e cattivi già predestinati alla salvezza o alla dannazione. In linea con le letture dei padri greci, soprattutto dello pseudo Dionigi, il maestro palatino scavalcava però l'ortodossia in senso opposto, arrivando a negare sostanza al male, conoscenza di ciò che non ha sostanza a Dio, punizioni corporali ai malvagi, e portando così alla composizione di altre opere per confutare la sua.
Il De praedestinatione, scritto tra l'850 e l'851, finalmente in traduzione italiana a cura di Ernesto Mainoldi, è un trattato in forma di epistola, dove Eriugena impone il metodo dialettico nell'indagine teologica, riprendendo la tradizione dei Padri in polemica con la mera citazione delle auctoritates utilizzata dai suoi contemporanei. Allo stesso tempo i Padri stessi, e soprattutto Agostino, sono reinterpretati alla luce delle regole della grammatica e della retorica; infine, ai Padri latini vengono accostati gli orientali e il loro peculiare platonismo. L'introduzione di Mainoldi dedica correttamente molto spazio alle cosiddette "fonti nascoste" di Eriugena: Mario Vittorino, Boezio, Marziano Capella, ma anche Origene e i due padri greci che lo stesso Eriugena tradusse in latino, Gregorio di Nissa e lo pseudo Dionigi Areopagita.
Nessuno di questi è citato, per ovvi motivi di convenienza: l'Occidente aveva eletto a riferimento principale delle dispute teologiche Agostino d'Ippona (le cui parole occupano quasi un quinto del De praedestinatione), non sembrava conveniente accostargli nomi di autori pagani o controversi o ancora poco conosciuti, soprattutto a proposito di un argomento tanto caro al padre latino. D'altra parte proprio i testi agostiniani sul libero arbitrio erano all'origine della teoria della doppia predestinazione di Godescalco. Lo stesso Giovanni Scoto Eriugena fa sue le posizioni del primo Agostino, ma supera il problema della predestinazione con grande abilità dialettica, lavorando nell'esegesi sull'argomentazione e contrario: il male è il peccato con le sue conseguenze, la miseria e la morte; ma il male è, platonicamente, corruzione della vita felice, senza altra causa che il nulla, quindi non può essere conosciuto se non in quanto non conosciuto. Quindi Dio non prevede e non predestina alcun male, perché il nulla non può essere conosciuto o predestinato. Inoltre, se è vero che prescienza e predestinazione in Dio sono la stessa cosa (perché Dio è assoluta semplicità), è pur vero che queste si dicono di Dio solo impropriamente: per chi è fuori dal tempo non ha senso parlare di futuro. Quanto al futuro dei malvagi, nel fuoco eterno essi subiranno una pena solo interiore, data da un desiderio mai saziato di felicità, perché la loro natura in sé è buona.
Il mondo è visto da Giovanni Scoto Eriugena come una reggia, dove i buoni fin da ora godono della bellezza, i cattivi si puniscono da soli lasciandosi corrompere. Dio? Non può conoscere o decidere ciò che non è. Godescalco? La sua doppia predestinazione non è né vera né falsa, è "una favola". Eriugena? Verrà confutato da Prudenzio di Troyes e Floro di Lione, infine sconfessato e condannato da coloro che gli avevano chiesto aiuto e che non sapevano di contribuire alla stesura del primo trattato pubblico del platonicissimo e agostiniano eretico Giovanni Scoto Eriugena.
Giovanni Scoto Eriugena, De praedestinatione liber. Dialettica e teologia all'apogeo della rinascenza carolingia, edizione critica, traduzione e commento di Ernesto S. N. Mainoldi, Edizioni del Galluzzo, Firenze 2003, pagg. CLIV + 284, 42,00.
l'Islam in libreria
L'Arena Martedì 2 Dicembre 2003
L’Islam in libreria
Uno sguardo ai saggi che ci introducono alla storia del mondo musulmano per una conoscenza più approfondita che può arginare i nostri timori e correggere alcuni pregiudizi
Jihad in arabo significa slancio, sforzo di purificazione. Una parola che in origine non aveva nulla di quel senso di minaccia che inevitabilmente le attribuiamo oggi, soprattutto dopo che il terrorismo ha portato il lutto anche tra le famiglie italiane. L'inquietudine, ormai, ci fa guardare con sospetto i musulmani che vivono nelle nostre città, sul cui volto temiamo di veder affiorare lo stesso odio che ha spinto alcuni loro correligionari a commettere quell'eccidio in Iraq. Per fugare o almeno dominare questi timori non c'è niente di meglio che la conoscenza approfondita di ciò che tanta diffidenza suscita in noi, di quella religione e civiltà che in passato ebbe momenti di splendore e oggi sembra precipitata in una spirale di ignoranza e fanatismo, e dei motivi che possono essere all'origine della sua degenerazione nei fenomeni dell'integralismo e del terrorismo. Una puntata in libreria ci offrirà tutti i mezzi per discernere tra verità e pregiudizi secolari e orientarsi nell'intricato scenario internazionale : sono infatti moltissimi i testi dedicati all'Islam e al fondamentalismo. Cominciamo col libro di Emanuele Severino, "Dall'Islam a Prometeo" (Rizzoli), nel quale il filosofo va oltre lo schema dello "scontro di civiltà" dimostrando come anche l'Islam faccia parte a pieno titolo della civiltà occidentale, poiché condivide con essa uno dei suoi caratteri fondanti: la fiducia nella tecnica. Come l'Occidente ha dovuto confrontarsi, sin dai tempi di Eschilo, con la razionalità tecnico-scientifica, così anche il mondo islamico, nonostante il suo apparente rifiuto della modernità, è destinato a incamminarsi verso la civiltà della tecnica, verso quel "paradiso dell'Apparato" che incarna l'originaria fede dell'Occidente in quella che Nietzsche chiamò "l'innocenza del divenire".
Le radici occidentali del nuovo Islam sono anche al centro del saggio di Olivier Roy, "Global Muslim" (Feltrinelli), nel quale lo studioso inglese mostra come alla base della "reislamizzazione" delle società musulmane ci siano fenomeni tipici della civiltà occidentale: globalizzazione e individualismo, bricolage di dottrine e comportamenti settari.
È un confronto tra l'Islam e il mondo ebraico, invece, l'ultimo libro di Pietro Citati, che in "Israele e l'Islam" (Mondadori) ricostruisce i rapporti tra le due grandi religioni monoteiste : dopo aver individuato nelle pagine della Genesi l'origine comune delle due confessioni, Citati rievoca la convivenza pacifica tra arabi ed ebrei a Baghdad e al Cairo, rilegge i grandi scrittori ebrei del Novecento e ricostruisce le origini dell'antisemitismo cristiano e musulmano.
Arabi, ebrei e cristiani convissero invece in pace nel regno di Al-Andalus, fondato in Spagna dagli Omayyadi nell'VIII secolo, edificando una civiltà affascinante e vitale, descritta da Maria Rosa Menocal in "Principi, poeti e visir" (Il Saggiatore). Uno scenario evocato anche da Richard Fletcher, che in "Cristianesimo e Islam a confronto" (Corbaccio) ricorda come i sovrani spagnoli, quando nel 1492 presero possesso di Granada, celebrarono la vittoria indossando abiti moreschi: un particolare che dimostra come i frequenti scontri fra arabi e cristiani non abbiano mai impedito l'osmosi culturale tra i due mondi.
Un volto inedito dell'Islam è quello che ci mostra la raccolta "Ti amo di due amori". Le più belle poesie della tradizione araba, persiana, turca ed ebraica scelte e introdotte da Bernard Lewis (Donzelli), che ci parla di una storia di contaminazioni e sincretismi che hanno portato alla caleidoscopica realtà dell'Islam, perfettamente descritta, nel suo passato trionfale e nel suo travagliato presente, da Pier Giovanni Donini nel saggio "Il mondo islamico" (Laterza): un mondo dai numerosi volti, dogmatico o tollerante, colto o popolare, militante o anagrafico.
In esso oggi alligna e cresce rigoglioso il fondamentalismo. È vero che l'uso dogmatico dei dettami della fede, come ci dice il teologo tedesco Klaus Kienzler in "Fondamentalismi religiosi . Cristianesimo, Ebraismo, Islam" (Carocci), è una tentazione che accomuna le tre religioni figlie di Abramo, ma non c'è dubbio che questo virus oggi infetta in particolare quella maomettana. È la "Malattia dell'Islam" (Bollati Boringhieri) che il poeta tunisino Abdelwahab Meddeb denuncia nel suo omonimo saggio - che tante polemiche ha suscitato nell'ambiente musulmano, - e che si diffonde nel pianeta grazie alla fitta trama di connessioni e complicità tessuta da individui che si pongono al di fuori del bene e del male : non solo Osama Bin Laden, ma anche tutti quei "Nuovi sciacalli" (Bompiani) sulle cui tracce si è messo il giornalista inglese Simon Reeve per scrivere il suo libro-inchiesta sulle nuove leve del fondamentalismo islamico e del terrorismo.
E' un esercito segreto davvero terrorizzante quello che da due anni a questa parte ha improvvisamente rivelato la sua capacità di azione e la sua virulenza, non limitandosi più a compiere attentati sanguinosi in Paesi come l'Algeria o l'Egitto, ma colpendo ovunque e a freddo. L'Occidente, però, nel tentativo di difendersene deve evitare di perdere la testa e tradire i propri principi: è quanto esorta a fare il sociologo americano Michael Walzer nel libro "La libertà e i suoi nemici nell'età della guerra al terrorismo" (Laterza), che denuncia le violazioni dei diritti civili di cui l'America si è macchiata dopo l'11 settembre e nega che esistano guerre "giuste".
Forse c'è una sola "guerra giusta", sembrano dire molti pensatori: quella che ognuno di noi può combattere per favorire il più possibile il dialogo con i musulmani nelle nostre società sempre più multietniche. Passa dall'Europa, secondo Bassam Tibi, autore di "Euro-Islam" (Marsilio), la strada di un incontro fecondo tra l'Islam e la cultura liberale occidentale, che ha il compito di perseguire l'integrazione se non vuole che la nuova immigrazione produca ghetti d'insoddisfazione. Un pericolo in agguato anche per l'Italia, dove vivono almeno 800.000 musulmani e l'Islam è ormai la seconda religione.
Nel saggio "Islam italiano" (Einaudi) il sociologo Stefano Allievi ci conduce alla scoperta di questa parte poco conosciuta della nostra società, spaziando dai ricordi della dominazione araba della Sicilia agli odierni immigrati, con il loro desiderio di integrazione e le loro rivendicazioni della propria diversità.
Dialogare con questo "Islam della porta accanto" sarà più facile se riusciremo a costruire la "Società cosmopolita" (Mulino) invocata da Ulrich Beck nel suo ultimo saggio: in un mondo il cui ordine tradizionale è stato scardinato dalla globalizzazione e dalla diffusione del rischio come cifra dell'esistenza, solo una forma più consapevole di cosmopolitismo, avverte il sociologo tedesco, può portare a un nuovo assetto mondiale. E in questo processo l'Europa, con la sua sovranità transnazionale, può avere un ruolo fondamentale. Quell'Europa nella quale Cristianesimo e Islam si scrutano con attrazione e diffidenza da quattordici secoli.
L’Islam in libreria
Uno sguardo ai saggi che ci introducono alla storia del mondo musulmano per una conoscenza più approfondita che può arginare i nostri timori e correggere alcuni pregiudizi
Jihad in arabo significa slancio, sforzo di purificazione. Una parola che in origine non aveva nulla di quel senso di minaccia che inevitabilmente le attribuiamo oggi, soprattutto dopo che il terrorismo ha portato il lutto anche tra le famiglie italiane. L'inquietudine, ormai, ci fa guardare con sospetto i musulmani che vivono nelle nostre città, sul cui volto temiamo di veder affiorare lo stesso odio che ha spinto alcuni loro correligionari a commettere quell'eccidio in Iraq. Per fugare o almeno dominare questi timori non c'è niente di meglio che la conoscenza approfondita di ciò che tanta diffidenza suscita in noi, di quella religione e civiltà che in passato ebbe momenti di splendore e oggi sembra precipitata in una spirale di ignoranza e fanatismo, e dei motivi che possono essere all'origine della sua degenerazione nei fenomeni dell'integralismo e del terrorismo. Una puntata in libreria ci offrirà tutti i mezzi per discernere tra verità e pregiudizi secolari e orientarsi nell'intricato scenario internazionale : sono infatti moltissimi i testi dedicati all'Islam e al fondamentalismo. Cominciamo col libro di Emanuele Severino, "Dall'Islam a Prometeo" (Rizzoli), nel quale il filosofo va oltre lo schema dello "scontro di civiltà" dimostrando come anche l'Islam faccia parte a pieno titolo della civiltà occidentale, poiché condivide con essa uno dei suoi caratteri fondanti: la fiducia nella tecnica. Come l'Occidente ha dovuto confrontarsi, sin dai tempi di Eschilo, con la razionalità tecnico-scientifica, così anche il mondo islamico, nonostante il suo apparente rifiuto della modernità, è destinato a incamminarsi verso la civiltà della tecnica, verso quel "paradiso dell'Apparato" che incarna l'originaria fede dell'Occidente in quella che Nietzsche chiamò "l'innocenza del divenire".
Le radici occidentali del nuovo Islam sono anche al centro del saggio di Olivier Roy, "Global Muslim" (Feltrinelli), nel quale lo studioso inglese mostra come alla base della "reislamizzazione" delle società musulmane ci siano fenomeni tipici della civiltà occidentale: globalizzazione e individualismo, bricolage di dottrine e comportamenti settari.
È un confronto tra l'Islam e il mondo ebraico, invece, l'ultimo libro di Pietro Citati, che in "Israele e l'Islam" (Mondadori) ricostruisce i rapporti tra le due grandi religioni monoteiste : dopo aver individuato nelle pagine della Genesi l'origine comune delle due confessioni, Citati rievoca la convivenza pacifica tra arabi ed ebrei a Baghdad e al Cairo, rilegge i grandi scrittori ebrei del Novecento e ricostruisce le origini dell'antisemitismo cristiano e musulmano.
Arabi, ebrei e cristiani convissero invece in pace nel regno di Al-Andalus, fondato in Spagna dagli Omayyadi nell'VIII secolo, edificando una civiltà affascinante e vitale, descritta da Maria Rosa Menocal in "Principi, poeti e visir" (Il Saggiatore). Uno scenario evocato anche da Richard Fletcher, che in "Cristianesimo e Islam a confronto" (Corbaccio) ricorda come i sovrani spagnoli, quando nel 1492 presero possesso di Granada, celebrarono la vittoria indossando abiti moreschi: un particolare che dimostra come i frequenti scontri fra arabi e cristiani non abbiano mai impedito l'osmosi culturale tra i due mondi.
Un volto inedito dell'Islam è quello che ci mostra la raccolta "Ti amo di due amori". Le più belle poesie della tradizione araba, persiana, turca ed ebraica scelte e introdotte da Bernard Lewis (Donzelli), che ci parla di una storia di contaminazioni e sincretismi che hanno portato alla caleidoscopica realtà dell'Islam, perfettamente descritta, nel suo passato trionfale e nel suo travagliato presente, da Pier Giovanni Donini nel saggio "Il mondo islamico" (Laterza): un mondo dai numerosi volti, dogmatico o tollerante, colto o popolare, militante o anagrafico.
In esso oggi alligna e cresce rigoglioso il fondamentalismo. È vero che l'uso dogmatico dei dettami della fede, come ci dice il teologo tedesco Klaus Kienzler in "Fondamentalismi religiosi . Cristianesimo, Ebraismo, Islam" (Carocci), è una tentazione che accomuna le tre religioni figlie di Abramo, ma non c'è dubbio che questo virus oggi infetta in particolare quella maomettana. È la "Malattia dell'Islam" (Bollati Boringhieri) che il poeta tunisino Abdelwahab Meddeb denuncia nel suo omonimo saggio - che tante polemiche ha suscitato nell'ambiente musulmano, - e che si diffonde nel pianeta grazie alla fitta trama di connessioni e complicità tessuta da individui che si pongono al di fuori del bene e del male : non solo Osama Bin Laden, ma anche tutti quei "Nuovi sciacalli" (Bompiani) sulle cui tracce si è messo il giornalista inglese Simon Reeve per scrivere il suo libro-inchiesta sulle nuove leve del fondamentalismo islamico e del terrorismo.
E' un esercito segreto davvero terrorizzante quello che da due anni a questa parte ha improvvisamente rivelato la sua capacità di azione e la sua virulenza, non limitandosi più a compiere attentati sanguinosi in Paesi come l'Algeria o l'Egitto, ma colpendo ovunque e a freddo. L'Occidente, però, nel tentativo di difendersene deve evitare di perdere la testa e tradire i propri principi: è quanto esorta a fare il sociologo americano Michael Walzer nel libro "La libertà e i suoi nemici nell'età della guerra al terrorismo" (Laterza), che denuncia le violazioni dei diritti civili di cui l'America si è macchiata dopo l'11 settembre e nega che esistano guerre "giuste".
Forse c'è una sola "guerra giusta", sembrano dire molti pensatori: quella che ognuno di noi può combattere per favorire il più possibile il dialogo con i musulmani nelle nostre società sempre più multietniche. Passa dall'Europa, secondo Bassam Tibi, autore di "Euro-Islam" (Marsilio), la strada di un incontro fecondo tra l'Islam e la cultura liberale occidentale, che ha il compito di perseguire l'integrazione se non vuole che la nuova immigrazione produca ghetti d'insoddisfazione. Un pericolo in agguato anche per l'Italia, dove vivono almeno 800.000 musulmani e l'Islam è ormai la seconda religione.
Nel saggio "Islam italiano" (Einaudi) il sociologo Stefano Allievi ci conduce alla scoperta di questa parte poco conosciuta della nostra società, spaziando dai ricordi della dominazione araba della Sicilia agli odierni immigrati, con il loro desiderio di integrazione e le loro rivendicazioni della propria diversità.
Dialogare con questo "Islam della porta accanto" sarà più facile se riusciremo a costruire la "Società cosmopolita" (Mulino) invocata da Ulrich Beck nel suo ultimo saggio: in un mondo il cui ordine tradizionale è stato scardinato dalla globalizzazione e dalla diffusione del rischio come cifra dell'esistenza, solo una forma più consapevole di cosmopolitismo, avverte il sociologo tedesco, può portare a un nuovo assetto mondiale. E in questo processo l'Europa, con la sua sovranità transnazionale, può avere un ruolo fondamentale. Quell'Europa nella quale Cristianesimo e Islam si scrutano con attrazione e diffidenza da quattordici secoli.
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