venerdì 3 dicembre 2004

Buongiorno, notte al prossimo Festival del cinema indipendente di Mar del Plata

El Clarin www.clarin.com
La alternativa marplatense

«Es la primera edición del Festival de Cine Independiente de Mar del Plata. Se verán 65 películas que, según su director artísti co, Daniel Boggio, conforman "un espacio de experimentación y de libertad, en el que se exhiba el cine más joven e innovador que se produce actualmente en el mundo."»

Il film di Marco Bellocchio, Buongiorno, notte sarà proiettato all'interno della sezione del Festival che ha per titolo

8 Imprescindibles 2003/2004

Guidi e il Ministero della Salute
«campagna per la salute mentale»

Yahoo Notizie Venerdì 3 Dicembre 2004, 14:08
PSICHIATRIA: IL 10% DEGLI ITALIANI HA DISTURBI, PARTE LA CAMPAGNA DEL MINISTERO

(ANSA) - ROMA, 3 DIC - Un italiano su dieci soffre di disturbi mentali e il pregiudizio che ancora oggi circonda tali patologie rappresenta per i pazienti un ulteriore macigno che si aggiunge alla malattia. Proprio per combattere lo stigma sociale delle patologie mentali, l'esclusione, la discriminazione e informare i cittadini sulle possibilita' di cura e accesso ai servizi e' ai nastri di partenza la I Campagna nazionale per la salute mentale, presentata oggi al ministero della Salute, che prendera' il via il prossimo 5 dicembre in occasione della celebrazione della I Giornata nazionale della Salutementale.
Indetta dal presidente del Consiglio, su proposta del ministro Girolamo Sirchia, la Campagna coinvolgera' direttamente le associazioni piu' rappresentative del mondo del volontariato in questo settore e le maggiori societa' scientifiche in psichiatria: dall'Unione nazionale delle associazioni per la salute mentale Unasam alle Societa' italiana ed europea di psichiatria. Primo obiettivo: rendere appunto piu' omogenee ed efficaci le iniziative per combattere il pregiudizio che continua a circondare i malati mentali nella nostra societa'.
Tante le iniziative previste dalla Campagna, accompagnata dallo slogan 'Non e' diverso da te. Curare i disturbi mentali si puo', nessun pregiudizio, nessuna esclusione': manifestazioni nelle principali piazze italiane, convegni e incontri rivolti non solo ai medici ma anche ai malati e le loro famiglie, distribuzione di opuscoli nelle farmacie e negli ambulatori dei medici di famiglia, uno spot televisivo e la realizzazione di un sito ad hoc. Il sito, all'indirizzo www.fuoridallombra.it, sara' gestito dalle associazioni ma anche direttamente dai pazienti e rappresenta, per questo, una esperienza innovativa: Una mini-redazione composta da giovani affetti da disturbi mentali collaborera' infatti alla produzione di notizie che saranno pubblicate sul sito della Campagna. Un'iniziativa, sottolinea il ministero, destinata a testimoniare con i fatti la possibilita' di inclusione nel mondo del lavoro di soggetti con disturbi di mente come ''via maestra'' per combattere i pregiudizi nei loro confronti. Una lotta al pregiudizio colpevole anche, affermano gli esperti, di ritardare in moltissimi casi l'incontro con lo specialista e le prime cure.
''L'inguaribilita' e la pericolosita' della persona affetta da malattia mentale - ha affermato il sottosegretario alla Salute Antonio Guidi presentando la Campagna - sono i piu' diffusi pregiudizi alla base di atteggiamenti di esclusione e, spesso, anche di ostilita' e disprezzo verso le persone con problemi psichici''. Questi sentimenti, ha sottolineato Guidi, ''purtroppo diffusi anche tra i familiari e, talora, fra gli stessi operatori, sono il piu' potente ostacolo alla solidarieta' e alla comprensione della sofferenza del paziente, che sono invece la base per qualsiasi processo di cura''. (segue).

ancora sui "corsi di astinenza" federali negli USA

per chi volesse saperne di più sull'argomento, Sandra Mellone segnala le pagine che possono essere raggiunte cliccando sul link seguente:

http://www.plannedparenthood.org/

o direttamente il documento (un pdf) disponibile su questa pagina
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donne a Teheran

Repubblica 3.12.04
NOI DONNE DI TEHERAN
il vino nascosto dentro la borsetta
Perché si stanno svuotando le moschee
"Da bambine", si sente dire, "siamo costrette a recitare da adulte. Una volta cresciute viviamo di proibizioni"
La tentazione della modernità è molto forte, ma i richiami al vecchio ordine si fanno sentire in una contraddizione continua
di FRANCO MARCOALDI

TEHERAN. Sono in largo anticipo sull'appuntamento al ristorante Bistango e ne approfitto per fare un salto alla libreria Book-City. Sul bancone d'ingresso fanno bella mostra di sé una serie di volumi dedicati alla famiglia dello scià, con biografie di Reza Pahlavi, Soraya, Farah Diba e parentado. Molti i libri di cucina e manualistica varia, soprattutto su come raggiungere il successo in amore e conquistare la felicità. Infine, a fianco dei classici della letteratura persiana, svariate opere dei migliori scrittori occidentali tradotte in farsi; naturalmente con gli opportuni tagli approntati in anticipo sulla stessa censura, come mi racconta una traduttrice che ha espunto ex-ante da Cecità di Saramago tutte le pagine che avrebbero potuto irritare la smodata sessuofobia dei religiosi.
A Book City, insomma, di mullah e ayatollah nemmeno l'ombra: qui si oscilla tra la nostalgia del tempo che fu, la buona letteratura, e l'editoria popolare «fai da te».
Siamo nella Teheran nord, la parte più ricca e occidentalizzata della città. Il che ha sicuramente il suo peso. Nei quartieri popolari infatti tira un'altra aria, così come, a maggior ragione, nell'Iran arcaico e profondo dei villaggi. Come scrive Daryush Shayegan nel suo bellissimo Cultural schizofrenia. Islamic society confronting the West (Saqi Books), è bene non dimenticare che in quell'Iran remoto mullah e gente comune si comprendono alla perfezione, perché vivono entrambi nella stessa epoca premoderna. Se infatti l'incontro con la modernità ha in un certo senso messo all'angolo i mullah, per contro lo shock che quella modernità ha comunque inflitto a tanta gente, finisce per restituire loro un'importante funzione: «Perché garantisce una rifugio nella tradizione, dove c'è risposta per ogni domanda».
Shayegan ha il merito di aver tematizzato l'enorme difficoltà che l'Iran di oggi sperimenta, stretto com'è tra l'irruzione di un universo che invita al cambiamento, alla verifica empirica, all'uso critico della ragione, e l'obbedienza a una tradizione fissata invece in una temporalità leggendaria, tendente a una specie di oblomovismo sociale inerte e sclerotico, accompagnato però da un'ideologia del combattimento. Come può una persona convivere con due modi di pensare così diversi senza il rischio di comportamenti distorti? Da qui la schizofrenia tra nuove idee che cadono nel vuoto perché prive di contesto e tessitura emotiva, e le vecchie idee atrofizzate, fallite in partenza perché incapaci di mordere il presente. «Ed eccoci così costretti», conclude il filosofo iraniano, «a inventare continue scuse mentali: il capitalismo delle multinazionali, gli effetti catastrofici del colonialismo, il sionismo, l'imperialismo e tutti gli ismi del mondo».
Mi piacerebbe trasformare la cena che sta per cominciare in un piccolo seminario su questo fascinoso tema, così come ha fatto Azar Nafisi con la letteratura di Nabokov, James e la Austen per darne poi conto in Leggere Lolita a Teheran. Stasera, a farmi da guida nel labirinto iraniano, saranno tre giovani donne, belle e agguerrite: due giornaliste e una sociologa.
La scena ha luogo in uno dei pochi ristoranti davvero eccellenti della città: ottimo cibo, servizio impeccabile... e la solita comica dei tre bicchieri per acqua, fanta e coca-cola. Jila, al mio fianco, sorride e mi dice che nei ristoranti dove il controllo è più lasco lei si porta una bottiglia di vino dentro la borsa: l'ennesimo esempio di doppia vita cui è costretta la gente di qui. Del resto pare che l'esercizio della dissimulazione sia insito nella storia degli sciiti fin dall'inizio del loro confronto-conflitto con la maggioranza sunnita. Quanto alla classica distinzione tra spazio esterno (biruni) e interno (andaruni) - riferita all'architettura delle abitazioni, ma anche a quella della mente - a cos'altro allude se non ad una costante ambivalenza tra quel che si può fare in pubblico e quel che ci si permette in privato?
Come ho già avuto modo di dire, questo continuo esercizio di sdoppiamento impone un uso costante dell'intelligenza, ma può anche generare distorsioni mentali dalle quali poi è difficile salvarsi. Jila mi espone questa fatica nel più semplice ed efficace dei modi: «Come faccio a insegnare a mia figlia di non dire bugie se la mia vita è intrisa di bugie dalla mattina alla sera?».
Tra tutti gli iraniani, le donne sono quelle che patiscono di più questo stato di cose. Ma rappresentano anche la massima spina nel fianco del regime religioso, che a partire dalla rivoluzione del '79 aveva instaurato il matrimonio in età puberale, la disparità in ordine all'affidamento dei figli, al valore della testimonianza giudiziaria e dell´eredità. Per finire con l'imposizione del velo e la segregazione dei sessi in diverse sfere della vita.
Per effetto paradossale, però, fu proprio la segregazione a spingere molte famiglie tradizionali a mandare le proprie ragazze all'università, nella convinzione che la loro «purezza» fosse meglio «protetta». E ora sono loro, le donne, a rappresentare la maggioranza dei laureati iraniani; dunque il motore principale e inarrestabile del cambiamento.
Dice Zahra, la sociologa: «Il regime ha avuto bisogno di mobilitarci politicamente al momento della rivoluzione e successivamente, quando c'è stata la guerra contro l'Iraq, ha dovuto inserirci nel mercato del lavoro. Ma così facendo ci ha reso ancora più consapevoli dei diritti che ci spettano e che ci vengono perennemente negati».
Anche il visitatore occasionale ha modo di verificare quanto il maschilismo indigeno raggiunga spesso e volentieri livelli manicomiali di ipocrisia e doppiezza. Come nel caso dei contratti matrimoniali «temporanei», volti a consentire i rapporti sessuali occasionali, e insieme a coprire di fatto una prostituzione teoricamente bandita. Per non parlare delle molteplici manifestazioni di perversa sessuofobia, come denunciano le teste mozzate di manichini femminili nei negozi di moda; oppure, per contro, l'invito subliminale alla pedofilia di svariati giornali familiari che mettono in copertina bambine truccatissime e seducenti (le uniche che possono mostrare il loro volto imbellettato e i propri capelli sciolti senza infrangere la legge). «È l'ennesima conferma della schizofrenia in cui siamo catapultate», commenta la terza convitata, Elaheh. «Siamo considerate adulte per legge ben prima dei maschi, ma torniamo bambine quando siamo grandi per davvero, bambine che il regime costantemente «protegge»: col velo, coi matrimoni temporanei, non consentendoci di andare allo stadio perché sentiremmo parole che offenderebbero le nostre orecchie. Ma a ben guardare tutti gli iraniani, uomini e donne, sono trattati alla stregua di bambini. Ed è perciò che il movimento delle donne ha tanta importanza, perché se salta questo anello, salta l'intera catena di un regime gerarchizzato e patriarcale che pretende di sovrintendere a qualunque scelta individuale... Succederà, prima o poi, perché il comportamento di questi padroni produce sempre più spesso effetti opposti a quelli da loro auspicati. Basta pensare all'eccessiva politicizzazione della religione, che ha finito per allontanare la gente dalle moschee».
Tutti, a Teheran, mi parlano di questo nuovo fenomeno, che riguarderebbe in particolare - come è naturale - i più giovani. Anche stavolta, però, il processo è tutt'altro che lineare. Come sempre in Iran. Più che di una progressiva laicizzazione, infatti, si tratta di una nuova religiosità: una religiosità light, insofferente di ogni costrizione in materia di libertà sessuale, aborto, divorzio, che contemporaneamente rimpiange e invoca un islamismo in chiave patriottica quale unico possibile appiglio in una società priva di punti di riferimento. Dunque si torna ancora una volta all'ipotesi di Dayush Shayegan: la tensione tra nuove zone della realtà disvelate dalla modernizzazione e l´atavica compulsione ad escluderle dal campo della conoscenza, crea una ferita che la coscienza individuale non ce la fa a sanare.
Il seminario al ristorante è finito. Saluto con calore le mie nuove, generose amiche e mi tuffo nell'inestricabile traffico di Teheran, di fronte al quale, al vigile occhialuto e allampanato che lo veglia, altro non resta che ritirarsi in una postura meditabonda. Al modo del pensatore di Rodin. Lo guardo e mi tornano alla mente le parole che ieri, davanti a una tazza di tè, mi diceva lo scrittore Amir Hassan Cheheltan: «La nostra situazione è più o meno questa. Abbiamo assaggiato il boccone della modernità e quel boccone ci è rimasto sul gozzo. Non abbiamo ancora deciso se risputarlo o digerirlo una volta per tutte».

fenomenologia della parabola di Repubblica
Luciana Sica su Hillman

Repubblica 3.12.04
CARO HILLMAN TI SCRIVO
lettere a un grande
Esce un carteggio tra un gruppo di personaggi della cultura italiana e l'intellettuale americano che ama la provocazione e la sorpresa Il dissenso prevale sull'ammirazione per il maestro che ha radicalmente messo sotto accusa la psicoanalisi
Viene messa in discussione l'identità dell'inventore della "psicologia archetipica"
C'è una polifonia di voci anche molto contrastanti che percorre il mondo dei nipotini di Jung
di LUCIANA SICA

Alcuni personaggi della psicologia analitica e della cultura italiana scrivono a James Hillman, la figura senz'altro più carismatica - anche se molto controversa - dello junghismo contemporaneo: le venticinque lettere, accompagnate dalle risposte del destinatario, sono state raccolte in un libro dal titolo Caro Hillman?, per la cura intelligente e fantasiosa di Riccardo Mondo e Luigi Turinese (Bollati Boringhieri, pagg. 240, euro 26).
È un volume che interessa, per più di una ragione. Intanto, attraverso questo carteggio, si coglie con grande immediatezza la polifonia di voci - assai poco assimilabili tra loro - che percorre l'universo junghiano. Emergono, dall'epistolario, due tendenze che già coesistono in Jung, pensatore geniale ma disordinato e asistematico, contraddittorio e pieno di aporie: una è decisamente critica, ermeneutica, probabilista; l´altra sembra cadere nell'illusione di una psicologia perennis, di una psiche in qualche modo oggettiva, valida e identica per tutti, con un eccesso di enfasi - ad esempio - per quella ipotesi suggestiva ma enigmatica, nebulosissima, che è l'inconscio collettivo.
Oltre a disegnare una mappa curiosa dello junghismo italiano, questo libro sottende costantemente nelle sue pagine un interrogativo - sospeso e irrisolto - che rimanda all'identità più autentica del maestro di Atlantic City.
Chi è infatti oggi James Hillman? Si sa che, a Zurigo, è stato un allievo diretto di Jung, ma - dopo quella che lui stesso ha definito «una crisi di fede - è diventato l'inventore di un nuovo pensiero, di una sua disciplina detta "psicologia archetipica", ribattezzata frettolosamente e a dispetto del ridicolo "una terapia con gli dèi".
Oggi non è chiaro se Hillman si possa ancora in qualche modo considerare uno psicoanalista, per quanto eterodosso e da molti anni lontano dalla pratica clinica, o sia piuttosto un raffinatissimo letterato, un intellettuale neoplatonico (amatissimo dagli intellettuali, e dai molti che suppongono di esserlo), un cantore neopagano di cui poco o nulla è rimasto dell´imprinting originario: «un brillante bricoleur», per dirla con Augusto Romano.
In queste lettere inviate a Hillman, può sorprendere che in genere sia il dissenso a prevalere sull'ammirazione. Quella di Mario Trevi, firmata con Marco Innamorati (insieme hanno scritto Riprendere Jung), è una presa di distanza, sofisticata ma dura già nel titolo, "Contra psychologiam archetypalem", una messa sotto accusa delle tesi più ardite di Hillman: dalla lettura che fa dei classici alla pretesa di parlare ancora di un'ontologia dell´anima, al rifiuto drastico di ogni modello medico.
Nella sua risposta, il grande provocatore americano - che a tratti tende ad assumere un'aria sussiegosa un po´ irritante - sfugge abilmente alle questioni più sottili. «Un freddo vento del Senex soffia da nord, e potrei essere indotto a focose esagerazioni del Puer come difesa?»: Hillman non cade in questa tentazione, e del resto sarebbe poco convincente contrapporre a un presunto atteggiamento senile il suo spirito da eterno fanciullo, anzi il suo metodo ermetico/mercuriale che «si avvale di trucchi, inganni, appropriazioni e non vuole stare da qualche parte a combattere, ma fugge nell´invisibilità su scarpe alate in conformità con i suoi alati pensieri avvolti in "può darsi", "forse" e "come se"»?
La sensazione è che il comune ceppo junghiano non basti ad accorciare le distanze: Hillman e Trevi non potrebbero essere più sideralmente lontani, a cominciare dai linguaggi che utilizzano. «Che cosa abbiamo da dirci l'un l'altro?», si chiede Hillman con una qualche brutalità, concludendo in modo scarsamente dialettico: «Due sentieri paralleli, non importa quante miglia possiamo percorrere, non si incontreranno mai. Forse fianco a fianco è abbastanza».
Molto spiritosa, ma per nulla rapita dal pensiero dell'autore di Cento anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio, risulta Silvia Vegetti Finzi: lei ha tradito la psicoanalisi, gli scrive, «nel senso in cui l'amante tradisce l'amata per troppo amore? Lei affida alla psicoanalisi nientemeno che l'incarico di salvare il mondo? Ma siamo sicuri che la psicoanalisi abbia il compito di prendere il posto di Dio: di sapere tutto, di potere tutto?».
Se qui lo scambio è meno glaciale, la possibilità di un dialogo autentico rimane piuttosto remota. Il punto è che alle "regole" della clinica psicoanalitica Hillman è estraneo fino all'insofferenza, e non ha alcuna difficoltà a dichiararsi colpevole dell´accusa di essere un traditore. Non è la stanza d'analisi a interessarlo, non sono i piccoli o grandi malesseri di pazienti in cerca d'ascolto a catturarne l'attenzione. Il suo impegno ha dimensioni molto più ampie, più ambiziose: lui si dedica a «stendere l'anima del mondo sul lettino e a rimanere in ascolto delle sue sofferenze». È questa immagine a catturarlo, o anche, con un'espressione che gli è cara: è questo il suo daimon.
Alla fine, da raffinatissimo giocoliere qual è, ritorce con abilità l'accusa di tradimento, pure accettata senza sussulti: «Le replico - sempre nello spirito di calore e comprensione tra noi - che la Sua posizione tradisce la sfida contemporanea alla pratica clinica: la sua estensione oltre la stanza di terapia. Traggo questo orientamento sia da Freud sia da Jung, che consideravano il loro lavoro un lavoro sui tempi e sulla cultura collettiva in cui la psiche era immersa».
Spulciando ancora tra le molte lettere di questo carteggio, più incline alla perplessità che all'elogio appare anche Marcello Pignatelli, che - seppure con garbo amichevole - segnala il rischio di una deriva estetizzante. Come sempre Hillman si diverte soprattutto a spiazzare, e in questo caso lo fa rievocando una bella serata romana di anni fa proprio nella casa di Pignatelli, il "collega" junghiano involontariamente caduto in un fraintendimento comune.
«Quando tu mi hai ricevuto lì, con vino, cibo e conversazioni, ponendo attenzione ai bisogni di un visitatore straniero? questo tuo comportamento apparteneva all'etica o all'estetica? Conosci bene la tradizione classica, da Platone in poi, in cui Estetica ed Etica erano inseparabili. Entrambe sono contenute nella parola Kosmos, che significa giusto ordine, implicando sia la bellezza sia la giustizia»: per Hillman, la divisione tra queste due nozioni può risultare, oltre che falsa, dannosa per entrambe «poiché priva il mondo dell´estetica di ogni moralità e il mondo morale di ogni sensibilità». Dal suo punto di vista, l'insistenza sul bello avrebbe di per sé una connotazione di ordine etico.
Sarà il caso di fare almeno un cenno allo scambio affettuosissimo che in questo libro si rintraccia tra Manlio Sgalambro e Hillman sulla condizione della vecchiaia, un tema su cui entrambi si sono esercitati con risultati brillanti. Il filosofo gli ha inviato una sua poesia che si conclude con questi versi:
«Il vecchio è colui nel quale la vita è finita. Ma quale vita?
La vita funzionale, la vita dei ruoli, la vita che passa attraverso
il "permesso" di vivere concesso dalla società a certi patti.
Ma è dopo tutto questo che resta la "vita". La bellezza del vivere per
nessuno scopo, del vivere per vivere».
La replica di James Hillman è - almeno in questo caso - nel segno dell'entusiasmo: «Quanto più, quanto più squisite, quanto più apportatrici di verità sono le strofe della Sua poesia rispetto al mio intero libro sull'invecchiare!». L'epilogo si riassume nell'invito di un signore forse stravagante ma dallo charme innegabile, che prende congedo con poche semplicissime parole, impronunciabili per certi geometri della psiche: «Posso incontrarla un giorno nel Suo caffè preferito?».

sulla natura umana:
Science non ha dubbi: «chiunque può diventare un torturatore»

Le Scienze 29.11.2004
Le torture di Abu Ghraib
"Chiunque avrebbe potuto compiere atti così atroci"

Quando sono venute alla luce le notizie degli abusi sui prigionieri del carcere di Abu Ghraib, in Iraq, molti si sono chiesti chi mai potesse compiere atti simili. Secondo alcuni psicologi dell'Università di Princeton, che hanno esaminato numerosi studi sull'argomento, la risposta è: "chiunque".
In un articolo pubblicato sul numero del 26 novembre 2004 della rivista "Science", Susan Fiske e colleghi sostengono che molte forme di comportamento, compresi atti di estrema malvagità, sono influenzati tanto dalla psicologia dell'individuo quanto dalle figure dei superiori, dalle pressioni dei compagni e da altre interazioni sociali.
"Se mi chiedete se un diciottenne qualsiasi avrebbe potuto torturare quei prigionieri, - commenta Fiske - la mia risposta è: 'Sì, avrebbe potuto farlo chiunque.'".
Fiske e colleghi hanno tratto le loro conclusioni da 25.000 studi riguardanti 8 milioni di partecipanti, che spiegano come fattori che spaziano dallo stress della guerra alle attese dei superiori possono combinarsi per spingere persone del tutto normali a commettere azioni apparentemente inspiegabili. "Le persone comuni - scrivono i ricercatori - possono esibire un comportamento incredibilmente distruttivo, se gli viene ordinato da un'autorità legittima".
Gli scienziati hanno fatto riferimento soprattutto ai celebri studi condotti da Stanley Milgram negli anni settanta. Milgram aveva dimostrato che normali volontari avrebbero somministrato consapevolmente scosse elettriche anche letali ad altre persone se gli fosse stato detto che si trattava di una parte necessaria di un esperimento. "I subordinati non solo fanno quello che gli viene ordinato di fare, - conclude Fiske - ma anche quello che credono che i loro superiori desiderano, in base a una supposizione soggettiva degli obiettivi finali".

Susan T. Fiske et al., "Why Ordinary People Torture Enemy Prisoners", Science 306: 1482-1483 (26 novembre 2004).

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