La Stampa 12 Maggio 2005
FIGLI UNICI, VIZIATI E INCAPACI
SONO IN CINA I RAGAZZI PIÙ TRISTI
Francesco Sisci
PECHINO. Sembrano tutti sulla soglia della follia. Due ragazzi cinesi su tre si sentono fortemente stressati, solo il 3,7 per cento dice di essere abbastanza tranquillo e appena 0,3 per cento non ha problemi. E’ il risultato di un recente sondaggio tra giovani con un'età media di 25 anni, nati con la politica del figlio unico, una scelta che oggi pare aver punito la Cina proprio esaudendo i suoi desideri. Alla fine degli Anni Settanta, il figlio unico doveva risolvere il rapporto squilibrato tra la popolazione, che cresceva al galoppo, e l'economia, che non riusciva a starle dietro. Allora le proiezioni per il 2005 erano per 1,6 miliardi di persone con un'economia esangue. Oggi la realtà è che ci sono circa 300 milioni di persone in meno del previsto, un'intera Europa occidentale che non ha bisogno di essere nutrita, mentre l’economia corre al tasso di quasi il 10 per cento l'anno. Bene, anzi malissimo, perché proprio i figli unici stanno male.
Lo stress viene dal lavoro, dagli amici e dalla fidanzata, dicono gli intervistati. Così le risposte rivelano, per assenza, il colpevole vero: le famiglie che sottopongono i loro figli unici a tensioni immani. La famiglia cinese era abituata nei secoli a torme di figli, che si distribuivano gli affetti, le speranze dei genitori. Il figlio unico invece concentra sì tutto l'affetto di due genitori e quattro nonni, ma paga tale affetto con responsabilità enormi. In una società come la cinese senza metafisiche, i figli sono la realizzazione concreta della gloria della famiglia, sono la compensazione o meno delle speranze e delle frustrazioni di padre e madre. I figli unici in questi 25 anni sono cresciuti allora viziati come piccoli imperatori, ma sono stati anche costretti a pensare di diventare effettivamente piccoli imperatori. Sul figlio unico si sono quindi riversate le accuse, che erano una volta distribuite tra tanti, di «non essere filiale», di essere un «lupo dagli occhi bianchi», insomma di non ricambiare con i propri sforzi nella vita le attenzioni ricevute.
Ma in un Paese smisurato e fortemente gerarchizzato coloro che emergono sono per forza pochi. Solo un bambino su dieci riesce ad essere promosso a tutte le classi per arrivare all'esame per l'università, di questi solo uno su due entra poi in un ateneo. Di questi ancora solo uno su 20 entra in una grande università. Solo una minima parte riesce ad avere un buon lavoro e a fare carriera. Sarebbe già terribile di per sé, in più c’è l’assillo della famiglia. Quindi anche i migliori crescono sull'orlo di una crisi di nervi, schiavi di sensi di colpa grandi quanto una casa, la loro. Né è chiaro cosa penseranno e sentiranno tra altri venticinque anni, quando saranno genitori con figli grandi. Non si sa cosa porteranno delle tradizioni distorte con cui sono cresciuti, se le respingeranno, se le filtreranno, se cominceranno collettivamente a psicanalizzarsi per cercare di darsi pace nella propria testa. Di certo sembra arrivato il momento di fare più figli.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
giovedì 12 maggio 2005
iperattività?
girodivite.it 11.5.05
ADHD, la malattia inventata
C’è tanta voglia di risolvere l’attenzione verso i nostri bambini con i farmaci. Il caso esemplare dell’ADHD e del Ritalin. Ne parliamo con Roberto Cestari presidente del Comitato dei Cittadini per i diritti dell’Uomo.
di Vincenzo Greco
Vostro figlio non ascolta chi parla? Si lascia distrarre facilmente da stimoli poco importanti? In classe lascia il posto invece di rimanere seduto? Non riesce a stare in silenzio e parla come se fosse una mitragliatrice in azione? Ha l’ADHD, una patologia che, secondo le stime del Ministero della Salute, colpisce il 4% dei ragazzi. E, allora? Arriva la prescrizione di Ritalin, il medicinale commercializzato dalla Novartis.
Il numero di bambini sottoposti a cure antidepressive è aumentato, negli USA, di oltre il 500% fra il 1999 e il 2003. Antidepressivi e antipsicotici costituiscono due delle quattro categorie in testa alle vendite medicinali. In Germania è largamente prescritto da medici e pediatri che ne autorizzano l’uso per 13,5 milioni di dosi al giorno. Anche la Svizzera non fa eccezione; tra il 1996 ed il 2000, nel Cantone di Neuchatel, il numero di prescrizioni di metilfenidato è aumentato del 690%.
E in Italia? Nel nostro Paese il Ritalin, messo fuori commercio, tra il 1989 e il 2003, torna ad essere commercializzato. Anzi nella scorsa settimana si è svolta, presso l’Istituto Superiore della Sanità, una riunione per definire le linee guida ministeriali che porteranno alla istituzione del Registro Nazionale ADHD. Saranno, così, schedati tutti i minori in cura con metilfenidato e verranno aperti i centri regionali per la somministrazione del farmaco. Ma non tutti sono d’accordo sull’uso del metilfenidato (Ritalin). Non tutti giudicano l’ADHD una malattia. Ne discutiamo con il dottor Roberto Cestari, presidente del Comitato dei Cittadini per i diritti dell’Uomo.
Si parla molto di ADHD ma ci può spiegare di cosa si tratta?
Attention Deficit Hiperactivity Disorder (ADHD) significa disturbo da deficit di attenzione e iperattività. E’ una sintomatologia che, 15 anni fa, alcuni psichiatri americani hanno trasformato, per alzata di mano, in malattia. Da allora hanno iniziato a diffondere il messaggio secondo il quale qualsiasi bambino con questa sintomatologia ha una malattia vera e propria, una malattia mentale.
E’ così grave avere in casa un bambino con questa sintomatologia?
Faccio due considerazioni; la prima di carattere storico ed è facilmente percepibile. Guardando la propria storia recente, scolastica e familiare, si comprende come la società occidentale si sia evoluta, da duemila anni a questa parte, senza che nessun bambino abbia avuto queste etichette diagnostiche; e quindi senza l’aiuto di terapie di questo genere. Non mi sembra che in assenza di queste cose siano mancati gli strumenti per consentire il progresso della società. La seconda considerazione è di carattere tecnico scientifico. Noi in medicina distinguiamo molto chiaramente tra una sintomatologia, cioè qualcosa che il paziente lamenta (un disturbo, un comportamento, ecc) e una malattia. Le due cose non sono affatto identificabili.
Ci può fare un esempio?
Certo. Se un paziente lamenta mal di stomaco la diagnosi non è automaticamente gastrite. Lui ha mal di stomaco ma potrebbe dipendere da un altro organo, per esempio dal pancreas, o addirittura potrebbe avere un infarto. Identificare una manifestazione con una malattia è una sciocchezza. Purtroppo questo tipo di atteggiamento esiste, è diffuso e crea dei problemi.
Non ci sono, quindi, bambini iperattivi?
Che ci sia qualche bambino particolarmente iperattivo o particolarmente disattento è una verità; discutiamo, però, su quanti sono questi bambini; in secondo luogo cerchiamo di capire le cause; se non si segue questo filo logico si curano le manifestazioni eliminando la disamina di tutte le cause possibili.
E che dice dei test?
Porre delle domande del tipo ‘si muove?’, ‘ha difficoltà a giocare quietamente?’, ‘spesso chiacchiera troppo?’, non significa fare una diagnosi ma identificare semplicemente un comportamento. Se l’ADHD è un disturbo biologico e ne hanno le prove, perché non usano queste evidenze biologiche per fare diagnosi? Certo, se si scoprirà che si tratta di una vera malattia tutti saranno concordi nel curarla come tale.
“Siamo certi che tutti questi bambini di otto anni a cui diamo il Ritalin, a 16 anni non lo prendano per loro conto e diventino tossicodipendenti?”: è l’atroce dubbio che ha sollevato il professor Cancrini. Qual è il suo parere?
Concordo con il dubbio del professor Cancrini.Quando si insegna ad un bambino che il suo comportamento ‘scorretto’ non dipende da lui ma da qualcos’altro e che per migliorarlo bisogna assumere delle pasticche, svolgiamo un ruolo educativo sbagliato. Insegniamo a dipendere dalle pasticche. In secondo luogo quali sono i risultati raggiunti negli Stati Uniti? E’ presto detto: il numero di bambini tossicodipendenti è aumentato; il livello di attenzione e quindi di istruzione scolastica non è migliorato; il tasso di suicidi tra i bambini è in crescita; la percentuale di violenza nelle scuole è schizzata alle stelle. Allora se questi sono i risultati mi sembra che andiamo incontro al disastro!
Forse c’è in questa ossessiva voglia di calmare i bambini una fuga di responsabilità di genitori e insegnanti?
Nella nostra società abbiamo assistito ad un giusto aumento di alcuni fattori (concetto di libertà, di espressione, assenza di punizioni) al quale ha fatto riscontro un calo disastroso della didattica e dell’educazione scolastica. In più non ci sono i valori di riferimento (la famiglia, il rispetto degli adulti, ecc.) che spingevano il bambino ad autolimitare certi comportamenti. Valori che facevano parte di una società, forse superata, ma che non sono stati rimpiazzati da altri. Emblematico quel cartone animato americano nel quale si rappresenta una moltitudine di bambini che cercano di farsi diagnosticare l’ADHD, perché ne ricevono vantaggi; poi, quando si capisce che è tutto sbagliato, arriva un insegnate che dice di avere un metodo nuovo; un bambino, non contento, si mette ad urlare, l’insegnante gli dà una bacchettata e si dichiara pronto ad utilizzare lo stesso metodo per il nuovo ‘urlatore’. Tutti , improvvisamente, zittiscono. Allora è chiaro che l’ADHD non c’era perché i maestri avevano soluzioni diverse.
Da un lato abbiamo la casa farmaceutica Novartis il cui fatturato è cresciuto nel 2004 dell’11% raggiungendo i 4,8 miliardi di dollari e che, nei primi due mesi del 2005, ha aumentato la propria quota di mercato attestandosi al 4,5%; dall’altro i tedeschi, gli americani, gli svizzeri che bombardano con il Ritalin i ragazzi. Cosa le suggerisce questo accostamento?
Assistiamo ad una fortissima spinta per la medicalizzazione dei comportamenti umani e dei bambini in particolare; non è un caso se, da qualche decennio, la psichiatria ha scoperto che il mercato dei bambini può essere un mercato interessante. Ora laddove ci sono interessi particolarmente alti mettere insieme le due cose, come ha fatto lei, è un percorso logico assolutamente condivisibile. Non può non suscitare, quanto meno, qualche dubbio o qualche perplessità se non addirittura una indicazione specifica. Le case farmaceutiche hanno tutto il diritto di produrre e vendere farmaci ma ritengo che i cittadini abbiano il diritto di non essere imbrogliati da false diagnosi. Chi fa questo non è più uno scienziato, non è più un medico, sta facendo un altro percorso e sarebbe meglio che i cittadini ne fossero a conoscenza.
ADHD, la malattia inventata
C’è tanta voglia di risolvere l’attenzione verso i nostri bambini con i farmaci. Il caso esemplare dell’ADHD e del Ritalin. Ne parliamo con Roberto Cestari presidente del Comitato dei Cittadini per i diritti dell’Uomo.
di Vincenzo Greco
Vostro figlio non ascolta chi parla? Si lascia distrarre facilmente da stimoli poco importanti? In classe lascia il posto invece di rimanere seduto? Non riesce a stare in silenzio e parla come se fosse una mitragliatrice in azione? Ha l’ADHD, una patologia che, secondo le stime del Ministero della Salute, colpisce il 4% dei ragazzi. E, allora? Arriva la prescrizione di Ritalin, il medicinale commercializzato dalla Novartis.
Il numero di bambini sottoposti a cure antidepressive è aumentato, negli USA, di oltre il 500% fra il 1999 e il 2003. Antidepressivi e antipsicotici costituiscono due delle quattro categorie in testa alle vendite medicinali. In Germania è largamente prescritto da medici e pediatri che ne autorizzano l’uso per 13,5 milioni di dosi al giorno. Anche la Svizzera non fa eccezione; tra il 1996 ed il 2000, nel Cantone di Neuchatel, il numero di prescrizioni di metilfenidato è aumentato del 690%.
E in Italia? Nel nostro Paese il Ritalin, messo fuori commercio, tra il 1989 e il 2003, torna ad essere commercializzato. Anzi nella scorsa settimana si è svolta, presso l’Istituto Superiore della Sanità, una riunione per definire le linee guida ministeriali che porteranno alla istituzione del Registro Nazionale ADHD. Saranno, così, schedati tutti i minori in cura con metilfenidato e verranno aperti i centri regionali per la somministrazione del farmaco. Ma non tutti sono d’accordo sull’uso del metilfenidato (Ritalin). Non tutti giudicano l’ADHD una malattia. Ne discutiamo con il dottor Roberto Cestari, presidente del Comitato dei Cittadini per i diritti dell’Uomo.
Si parla molto di ADHD ma ci può spiegare di cosa si tratta?
Attention Deficit Hiperactivity Disorder (ADHD) significa disturbo da deficit di attenzione e iperattività. E’ una sintomatologia che, 15 anni fa, alcuni psichiatri americani hanno trasformato, per alzata di mano, in malattia. Da allora hanno iniziato a diffondere il messaggio secondo il quale qualsiasi bambino con questa sintomatologia ha una malattia vera e propria, una malattia mentale.
E’ così grave avere in casa un bambino con questa sintomatologia?
Faccio due considerazioni; la prima di carattere storico ed è facilmente percepibile. Guardando la propria storia recente, scolastica e familiare, si comprende come la società occidentale si sia evoluta, da duemila anni a questa parte, senza che nessun bambino abbia avuto queste etichette diagnostiche; e quindi senza l’aiuto di terapie di questo genere. Non mi sembra che in assenza di queste cose siano mancati gli strumenti per consentire il progresso della società. La seconda considerazione è di carattere tecnico scientifico. Noi in medicina distinguiamo molto chiaramente tra una sintomatologia, cioè qualcosa che il paziente lamenta (un disturbo, un comportamento, ecc) e una malattia. Le due cose non sono affatto identificabili.
Ci può fare un esempio?
Certo. Se un paziente lamenta mal di stomaco la diagnosi non è automaticamente gastrite. Lui ha mal di stomaco ma potrebbe dipendere da un altro organo, per esempio dal pancreas, o addirittura potrebbe avere un infarto. Identificare una manifestazione con una malattia è una sciocchezza. Purtroppo questo tipo di atteggiamento esiste, è diffuso e crea dei problemi.
Non ci sono, quindi, bambini iperattivi?
Che ci sia qualche bambino particolarmente iperattivo o particolarmente disattento è una verità; discutiamo, però, su quanti sono questi bambini; in secondo luogo cerchiamo di capire le cause; se non si segue questo filo logico si curano le manifestazioni eliminando la disamina di tutte le cause possibili.
E che dice dei test?
Porre delle domande del tipo ‘si muove?’, ‘ha difficoltà a giocare quietamente?’, ‘spesso chiacchiera troppo?’, non significa fare una diagnosi ma identificare semplicemente un comportamento. Se l’ADHD è un disturbo biologico e ne hanno le prove, perché non usano queste evidenze biologiche per fare diagnosi? Certo, se si scoprirà che si tratta di una vera malattia tutti saranno concordi nel curarla come tale.
“Siamo certi che tutti questi bambini di otto anni a cui diamo il Ritalin, a 16 anni non lo prendano per loro conto e diventino tossicodipendenti?”: è l’atroce dubbio che ha sollevato il professor Cancrini. Qual è il suo parere?
Concordo con il dubbio del professor Cancrini.Quando si insegna ad un bambino che il suo comportamento ‘scorretto’ non dipende da lui ma da qualcos’altro e che per migliorarlo bisogna assumere delle pasticche, svolgiamo un ruolo educativo sbagliato. Insegniamo a dipendere dalle pasticche. In secondo luogo quali sono i risultati raggiunti negli Stati Uniti? E’ presto detto: il numero di bambini tossicodipendenti è aumentato; il livello di attenzione e quindi di istruzione scolastica non è migliorato; il tasso di suicidi tra i bambini è in crescita; la percentuale di violenza nelle scuole è schizzata alle stelle. Allora se questi sono i risultati mi sembra che andiamo incontro al disastro!
Forse c’è in questa ossessiva voglia di calmare i bambini una fuga di responsabilità di genitori e insegnanti?
Nella nostra società abbiamo assistito ad un giusto aumento di alcuni fattori (concetto di libertà, di espressione, assenza di punizioni) al quale ha fatto riscontro un calo disastroso della didattica e dell’educazione scolastica. In più non ci sono i valori di riferimento (la famiglia, il rispetto degli adulti, ecc.) che spingevano il bambino ad autolimitare certi comportamenti. Valori che facevano parte di una società, forse superata, ma che non sono stati rimpiazzati da altri. Emblematico quel cartone animato americano nel quale si rappresenta una moltitudine di bambini che cercano di farsi diagnosticare l’ADHD, perché ne ricevono vantaggi; poi, quando si capisce che è tutto sbagliato, arriva un insegnate che dice di avere un metodo nuovo; un bambino, non contento, si mette ad urlare, l’insegnante gli dà una bacchettata e si dichiara pronto ad utilizzare lo stesso metodo per il nuovo ‘urlatore’. Tutti , improvvisamente, zittiscono. Allora è chiaro che l’ADHD non c’era perché i maestri avevano soluzioni diverse.
Da un lato abbiamo la casa farmaceutica Novartis il cui fatturato è cresciuto nel 2004 dell’11% raggiungendo i 4,8 miliardi di dollari e che, nei primi due mesi del 2005, ha aumentato la propria quota di mercato attestandosi al 4,5%; dall’altro i tedeschi, gli americani, gli svizzeri che bombardano con il Ritalin i ragazzi. Cosa le suggerisce questo accostamento?
Assistiamo ad una fortissima spinta per la medicalizzazione dei comportamenti umani e dei bambini in particolare; non è un caso se, da qualche decennio, la psichiatria ha scoperto che il mercato dei bambini può essere un mercato interessante. Ora laddove ci sono interessi particolarmente alti mettere insieme le due cose, come ha fatto lei, è un percorso logico assolutamente condivisibile. Non può non suscitare, quanto meno, qualche dubbio o qualche perplessità se non addirittura una indicazione specifica. Le case farmaceutiche hanno tutto il diritto di produrre e vendere farmaci ma ritengo che i cittadini abbiano il diritto di non essere imbrogliati da false diagnosi. Chi fa questo non è più uno scienziato, non è più un medico, sta facendo un altro percorso e sarebbe meglio che i cittadini ne fossero a conoscenza.
per una valutazione dei servizi psichiatrici
Yahoo! Salute 12.5.05
Psichiatria, Psicologia e Neurologia
Le risorse italiane per la schizofrenia
Il Pensiero Scientifico Editore
Laura Tonon
La Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica (SIEP) lancia un progetto per la valutazione dell’appropriatezza e dell’applicazione delle linee-guida per la schizofrenia nei dipartimenti di salute mentale italiani. L’iniziativa, promossa dal Consiglio Direttivo della SIEP, è coordinata da Mirella Ruggeri e Domenico Semisa, rispettivamente presidente e vicepresidente della società, e coinvolge, oltre a un vasto gruppo di esperti sul tema, una ventina di Servizi di Salute Mentale che hanno aderito all’iniziativa.
Si tratta di un progetto singolare che prende il via in un momento di grande fermento nel nostro Paese per le prospettive di revisione dei modelli d’assistenza psichiatrica, e che vede per la prima una società scientifica come la SIEP scendere in campo mettendo a disposizione le proprie conoscenze epidemiologiche e metodologiche, al fine di condurre un progetto di valutazione nei servizi e produrre solide evidenze che alimentino un dibattito serio e produttivo sulla salute mentale in Italia. Un progetto che certamente si presenta come una stimolante occasione per riflessione sulle pratiche cliniche e per aumentare la condivisione degli stili di lavoro nei Servizi di salute mentale italiani.
Il progetto è strutturato in due fasi di lavoro – valutazione dell’appropriatezza delle linee-guida e costruzione di una batteria di indicatori – che impegneranno i partecipanti per un anno. Il prossimo 28 maggio a Firenze si terrà un workshop con la partecipazione di molti esperti e dei rappresentanti dei Centri coinvolti per avviare la raccolta dei dati. E nel corso del prossimo Congresso Nazionale SIEP (15-17 settembre, Biella) è prevista una Sessione dedicata a questo Progetto, dove verranno presentati e discussi i risultati preliminari dell’iniziativa.
“Il nostro obiettivo è attuare per la prima volta in Italia un progetto mirato ad analizzare in maniera sistematica le strategie terapeutiche utilizzate nella presa in carico delle persone affette da schizofrenia nei Servizi di Salute Mentale utilizzando una batteria di indicatori costruita a partire dalle raccomandazioni britanniche, che ci paiono un affidabile ed esaustivo termine di confronto”, spiega Mirella Ruggeri. “E ci auguriamo che in futuro questo set di indicatori possa venire testato in un numero ancor più vasto e rappresentativo di Servizi”.
Fonte: SIEP on-line. Il Progetto SIEP (.pdf).
National Institute for Clinical Exellence. Schizofrenia. Le linee-guida complete per gli interventi fondamentali nella medicina di base e specialistica. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2004.
Psichiatria, Psicologia e Neurologia
Le risorse italiane per la schizofrenia
Il Pensiero Scientifico Editore
Laura Tonon
La Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica (SIEP) lancia un progetto per la valutazione dell’appropriatezza e dell’applicazione delle linee-guida per la schizofrenia nei dipartimenti di salute mentale italiani. L’iniziativa, promossa dal Consiglio Direttivo della SIEP, è coordinata da Mirella Ruggeri e Domenico Semisa, rispettivamente presidente e vicepresidente della società, e coinvolge, oltre a un vasto gruppo di esperti sul tema, una ventina di Servizi di Salute Mentale che hanno aderito all’iniziativa.
Si tratta di un progetto singolare che prende il via in un momento di grande fermento nel nostro Paese per le prospettive di revisione dei modelli d’assistenza psichiatrica, e che vede per la prima una società scientifica come la SIEP scendere in campo mettendo a disposizione le proprie conoscenze epidemiologiche e metodologiche, al fine di condurre un progetto di valutazione nei servizi e produrre solide evidenze che alimentino un dibattito serio e produttivo sulla salute mentale in Italia. Un progetto che certamente si presenta come una stimolante occasione per riflessione sulle pratiche cliniche e per aumentare la condivisione degli stili di lavoro nei Servizi di salute mentale italiani.
Il progetto è strutturato in due fasi di lavoro – valutazione dell’appropriatezza delle linee-guida e costruzione di una batteria di indicatori – che impegneranno i partecipanti per un anno. Il prossimo 28 maggio a Firenze si terrà un workshop con la partecipazione di molti esperti e dei rappresentanti dei Centri coinvolti per avviare la raccolta dei dati. E nel corso del prossimo Congresso Nazionale SIEP (15-17 settembre, Biella) è prevista una Sessione dedicata a questo Progetto, dove verranno presentati e discussi i risultati preliminari dell’iniziativa.
“Il nostro obiettivo è attuare per la prima volta in Italia un progetto mirato ad analizzare in maniera sistematica le strategie terapeutiche utilizzate nella presa in carico delle persone affette da schizofrenia nei Servizi di Salute Mentale utilizzando una batteria di indicatori costruita a partire dalle raccomandazioni britanniche, che ci paiono un affidabile ed esaustivo termine di confronto”, spiega Mirella Ruggeri. “E ci auguriamo che in futuro questo set di indicatori possa venire testato in un numero ancor più vasto e rappresentativo di Servizi”.
Fonte: SIEP on-line. Il Progetto SIEP (.pdf).
National Institute for Clinical Exellence. Schizofrenia. Le linee-guida complete per gli interventi fondamentali nella medicina di base e specialistica. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2004.
Massimo Ammaniti...
La Repubblica Salute 12.5.05
Gli effetti dell'inconscio su bimbi e adulti
Dal convegno su "Implicito ed esplicito nella psicoterapia" interessanti sviluppi e prospettive
di Massimo Ammaniti
Ordinario di Psicopatologia dell'Età evolutiva, Univ. La Sapienza Roma
Si è tenuto nei giorni scorsi a Siracusa un Congresso su "L'esplicito e l'implicito in psicoterapia" organizzato dalla FIAP, ossia dalla Federazione Italiana delle Scuole di Psicoterapia. Si è trattato di un Congresso insolito e stimolante perché ha evitato di riproporre il solito confronto a distanza fra scuole ed indirizzi psicoterapici diversi, in cui gli psicoanalisti riaffermano la propria primogenitura e il proprio primato teorico e allo stesso tempo i terapisti familiari oppure i cognitivisti o i gestaltisti cercano di sostenere il carattere innovativo del proprio orientamento e del proprio intervento terapeutico.
Il merito di questa impostazione va dato al Presidente della FIAP Spagnuolo Lobb che non ha ricalcato strade già conosciute, ma ha posto al centro del Congresso il tema della conoscenza esplicita ed implicita in psicoterapia, sicuramente influenzata dal lavoro più recente dello psicoanalista e ricercatore americano Daniel Stern. Proprio durante il Congresso è stata presentata la versione italiana di Daniel Stern "Il momento presente in psicoterapia e nella vita quotidiana" pubblicato dall'Editore Cortina, in cui è presentato il lavoro del gruppo di Boston a cui hanno partecipato oltre a Stern psicoanalisti, psicoterapeuti e ricercatori.
La prospettiva sulla conoscenza e sulla memoria esplicita ed implicita non scaturisce dal lavoro clinico quanto piuttosto dalla più recente ricerca in campo cognitivo, neuropsicologico e neurobiologico e rappresenta un'occasione importante per rileggere i modelli clinici adottati in psicoterapia.
Se la conoscenza esplicita ha un carattere simbolico e può essere espressa e comunicata col linguaggio con un alto grado di consapevolezza, la conoscenza implicita ha un carattere non simbolico, e più globale con un procedimento parallelo che riguarda fondamentalmente la dimensione somativa, emotiva e comportamentale senza una consapevolezza elaborata. Per spiegare meglio queste due forme di conoscenza utilizzate anche negli scambi con gli altri, la conoscenza esplicita ha a che fare con la comunicazione verbale o narrativa mentre quella implicita riguarda la comunicazione immediata fatta di sguardi reciproci, espressioni mimiche, posture corporee, che ci trasmettono molte informazioni sull'altra persona, il suo stato d'animo e le sue emozioni.
E allora qual è il rapporto fra conoscenza implicita e il mondo inconscio della psicoanalisi? Come ha messo in luce Stern nel Congresso l'area dell'implicito è diversa dalla dimensione interpretativa e linguistica che ha costituito il terreno privilegiato dell'intervento psicoanalitico nei primi decenni. Ma è anche diverso dal mondo inconscio, che è stato esplorato dalla psicoanalisi, in particolare nei sogni. Si tratta di processi psichici non razionali ma con le proprie regole, quello inconscio come si evidenzia nei sogni non è basato sul principio di contraddizione, per cui può succedere di sognare una persona che ha il volto di un'altra.
La conoscenza implicita comincia ad emergere fin dai primi mesi di vita ed è sostenuta dall'emisfero cerebrale destro, mentre la conoscenza esplicita tende a comparire con la nascita del linguaggio e con la maturazione dell'emisfero cerebrale sinistro, permanendo entrambe nelle fasi successive della vita.
Le implicazioni per gli psicoterapeuti sono molte e il Congresso ha aperto una strada che si dimostrerà molto fruttuosa per la psicoterapia.
Ma non si è parlato solo di mente e di processi psichici, anche il cervello ha fatto la sua comparsa attraverso la riaffermazione della continua interazione mente-cervello. E a questo proposito sono state proiettate delle immagini eccezionali del cervello, attraverso le tecniche di "neuroimaging", che dimostrano che la psicoterapia non solo modifica i sintomi psicopatologici e le modalità relazionali ma anche gli stessi circuiti cerebrali, dimostrando ancora una volta di più che il cervello e le sinapsi cerebrali sono molto sensibili alle influenze ambientali. Se ancora qualcuno è scettico sull'efficacia delle psicoterapie, queste ricerche recenti costituiscono una risposta che dovrebbe essere più ampiamente consciuta.
Gli effetti dell'inconscio su bimbi e adulti
Dal convegno su "Implicito ed esplicito nella psicoterapia" interessanti sviluppi e prospettive
di Massimo Ammaniti
Ordinario di Psicopatologia dell'Età evolutiva, Univ. La Sapienza Roma
Si è tenuto nei giorni scorsi a Siracusa un Congresso su "L'esplicito e l'implicito in psicoterapia" organizzato dalla FIAP, ossia dalla Federazione Italiana delle Scuole di Psicoterapia. Si è trattato di un Congresso insolito e stimolante perché ha evitato di riproporre il solito confronto a distanza fra scuole ed indirizzi psicoterapici diversi, in cui gli psicoanalisti riaffermano la propria primogenitura e il proprio primato teorico e allo stesso tempo i terapisti familiari oppure i cognitivisti o i gestaltisti cercano di sostenere il carattere innovativo del proprio orientamento e del proprio intervento terapeutico.
Il merito di questa impostazione va dato al Presidente della FIAP Spagnuolo Lobb che non ha ricalcato strade già conosciute, ma ha posto al centro del Congresso il tema della conoscenza esplicita ed implicita in psicoterapia, sicuramente influenzata dal lavoro più recente dello psicoanalista e ricercatore americano Daniel Stern. Proprio durante il Congresso è stata presentata la versione italiana di Daniel Stern "Il momento presente in psicoterapia e nella vita quotidiana" pubblicato dall'Editore Cortina, in cui è presentato il lavoro del gruppo di Boston a cui hanno partecipato oltre a Stern psicoanalisti, psicoterapeuti e ricercatori.
La prospettiva sulla conoscenza e sulla memoria esplicita ed implicita non scaturisce dal lavoro clinico quanto piuttosto dalla più recente ricerca in campo cognitivo, neuropsicologico e neurobiologico e rappresenta un'occasione importante per rileggere i modelli clinici adottati in psicoterapia.
Se la conoscenza esplicita ha un carattere simbolico e può essere espressa e comunicata col linguaggio con un alto grado di consapevolezza, la conoscenza implicita ha un carattere non simbolico, e più globale con un procedimento parallelo che riguarda fondamentalmente la dimensione somativa, emotiva e comportamentale senza una consapevolezza elaborata. Per spiegare meglio queste due forme di conoscenza utilizzate anche negli scambi con gli altri, la conoscenza esplicita ha a che fare con la comunicazione verbale o narrativa mentre quella implicita riguarda la comunicazione immediata fatta di sguardi reciproci, espressioni mimiche, posture corporee, che ci trasmettono molte informazioni sull'altra persona, il suo stato d'animo e le sue emozioni.
E allora qual è il rapporto fra conoscenza implicita e il mondo inconscio della psicoanalisi? Come ha messo in luce Stern nel Congresso l'area dell'implicito è diversa dalla dimensione interpretativa e linguistica che ha costituito il terreno privilegiato dell'intervento psicoanalitico nei primi decenni. Ma è anche diverso dal mondo inconscio, che è stato esplorato dalla psicoanalisi, in particolare nei sogni. Si tratta di processi psichici non razionali ma con le proprie regole, quello inconscio come si evidenzia nei sogni non è basato sul principio di contraddizione, per cui può succedere di sognare una persona che ha il volto di un'altra.
La conoscenza implicita comincia ad emergere fin dai primi mesi di vita ed è sostenuta dall'emisfero cerebrale destro, mentre la conoscenza esplicita tende a comparire con la nascita del linguaggio e con la maturazione dell'emisfero cerebrale sinistro, permanendo entrambe nelle fasi successive della vita.
Le implicazioni per gli psicoterapeuti sono molte e il Congresso ha aperto una strada che si dimostrerà molto fruttuosa per la psicoterapia.
Ma non si è parlato solo di mente e di processi psichici, anche il cervello ha fatto la sua comparsa attraverso la riaffermazione della continua interazione mente-cervello. E a questo proposito sono state proiettate delle immagini eccezionali del cervello, attraverso le tecniche di "neuroimaging", che dimostrano che la psicoterapia non solo modifica i sintomi psicopatologici e le modalità relazionali ma anche gli stessi circuiti cerebrali, dimostrando ancora una volta di più che il cervello e le sinapsi cerebrali sono molto sensibili alle influenze ambientali. Se ancora qualcuno è scettico sull'efficacia delle psicoterapie, queste ricerche recenti costituiscono una risposta che dovrebbe essere più ampiamente consciuta.
Cuba
una segnalazione di Francesco Troccoli
Il Sole 24 Ore 11 maggio 2005
Ingegneria genetica, orgoglio di Fidel
Al Centro d'Ingegneria Genetica e Biotecnologica dell'Avana (Cuba) vengono prodotti la maggior parte dei vaccini contro le malattie tropicali. Uno dei successi più importanti è stato l'interferone, il primo ad essere distribuito gratuitamente, per combattere il cancro e le patologie virali. I 'prodotti leader' sono il vaccino contro l'epatite B, l'Estrectochinasa, farmaco contro l'infarto ed il trattamento del piede diabetico. Viene proprio da Cuba l'unico vaccino contro la meningite B. Nel Centro lavorano 1.250 scienziati e tecnici. Questa struttura ed altri 50 laboratori, ogni anno, garantiscono 40 mln di dollari.
Il Sole 24 Ore 11 maggio 2005
Ingegneria genetica, orgoglio di Fidel
Al Centro d'Ingegneria Genetica e Biotecnologica dell'Avana (Cuba) vengono prodotti la maggior parte dei vaccini contro le malattie tropicali. Uno dei successi più importanti è stato l'interferone, il primo ad essere distribuito gratuitamente, per combattere il cancro e le patologie virali. I 'prodotti leader' sono il vaccino contro l'epatite B, l'Estrectochinasa, farmaco contro l'infarto ed il trattamento del piede diabetico. Viene proprio da Cuba l'unico vaccino contro la meningite B. Nel Centro lavorano 1.250 scienziati e tecnici. Questa struttura ed altri 50 laboratori, ogni anno, garantiscono 40 mln di dollari.
Bertinotti intervistato sui referendum
Liberazione 11.5.05
Intervista al segretario di Rifondazione comunista sulla fecondazione assistita in vista del voto del 12 giugno
Bertinotti ai cattolici: «Disobbedite a Ruini
e andate a votare per il referendum»
Rina Gagliardi
«Faccio appello alle coscienze più avvertite del mondo cattolico, perché disubbidiscano all'invito astensionista delle alte gerarchie ecclesiastiche e il 12 giugno vadano a votare al referendum contro la legge 40. Lo dico non certo per "laicismo": all'opposto, nulla è così lontano da me come dividere il mondo tra credenti e non credenti. Ma per votare Sì ai quattro quesiti proposti dal referendum non è richiesta alcuna abiura della propria fede o delle proprie convinzioni morali: è invece essenziale il recupero di quella attitudine al dialogo che è stata al centro della stagione conciliare». Fausto Bertinotti si "tuffa" così nella campagna referendaria, nel giorno in cui essa comincia ufficialmente: con un approccio politicamente molto determinato, e al tempo stesso molto attento ad evitare semplificazioni di sorta. Dobbiamo sconfiggere, dice il segretario di Rifondazione comunista, una legge «rudemente offensiva», oscurantista, incentrata sul «sospetto nei confronti delle donne: ed entriamo nel vivo di questa battaglia avendo accumulato un grande ritardo. Il nostro vero avversario è il silenzio: è il rischio concreto che il Paese non venga davvero informato sulla effettiva sostanza del referendum. «Qui a Strasburgo» dice il segretario (in questi giorni in sessione del Parlamento europeo) «sembra proprio di essere in un altro mondo: dovunque si discute del referendum, ormai prossimo, sulla costituzione europea. Non c'è Tv, o quotidiano, che non dedichi ogni giorno a questo tema un grande spazio. Invece, in Italia....»
Invece in Italia la grande maggioranza dell'elettorato non sa ancora su che cosa si voterà il 12 di giugno. Allo stesso tempo, però, sta avvenendo una cosa quasi bizzarra: crescono nel centrodestra i sostenitori del Sì. Ieri c'è stato il pronunciamento di Fini, cioè nientemeno che del vicepremier. E non sono più in molti a difendere la legge 40. Viene da chiedersi: ma allora chi l'ha voluta e votata questa legge?
Guarda, che è successo anche in Sicilia, dove ci sarà un referendum per abrogare una nuova legge elettorale voluta dalla maggioranza di centrodestra: giorni fa, il presidente della Regione ha annunciato che potrebbe votare Sì all'abrogazione. Ci si può scherzare sopra, perfino, su queste incredibili oscillazioni del ceto politico di governo: che spesso sembra ormai «fare senza sapere». Con in più, una presunzione d'impunità. Questa irresponsabilità, nel senso letterale del termine, la dice lunga non solo sulle divisioni e sullo sbandamento attuale del centrodestra, ma sul logoramento a cui è arrivata democrazia rappresentativa. Le Camere, i luoghi della rappresentanza, stanno diventando così opachi, che al loro interno si può decidere qualsiasi cosa - salvo dietrofront che spesso diventano rapidissimi, o impensabili. Accade così sulla legge 40: è così poco difendibile che non la difendono più neppure coloro che l'hanno votata. Non appena si attiva un processo democratico, una discussione di massa come quella potenzialmente evocata dal referendum, non appena, insomma, viene al pettine il nodo del rapporto tra istituzioni e paese reale, questa irresponsabilità prende il sopravvento.
Il referendum, dunque, non solo come strumento ad hoc, ma come attivazione democratica. E' per questo che siamo stati tra i promotori, e i firmatari attivi, di questa campagna contro la legge 40?
Sì, certo. Siamo tra coloro che hanno ritenuto necessaria una replica concreta ad una scelta politicamente e culturalmente regressiva, come quella rappresentata dalla legge 40. Sarebbe stato meglio un quesito referendario che la abrogava in toto (infatti abbiamo sostenuto a suo tempo la proposta radicale), in ogni caso l'insieme dei quesiti su cui siamo chiamati a pronunciarci configura una sostanza abrogativa. Di fronte a noi, dunque, c'è un una battaglia molto importante, che va perfino al di là della legge: direi proprio una battaglia di civiltà. Ma dobbiamo recuperare il grande ritardo accumulato sui due fronti principali.
Quali?
Quello dell'informazione, prima di tutto. Bisogna che le persone siano informate, e siano informate correttamente. E bisogna evitare, assolutamente, il rischio di un conflitto ideologico tra credenti e non credenti, tra laici e cattolici: non è questo (in realtà no è mai questo) il terreno reale dello scontro. E poi c'è la vera e propria iniziativa referendaria: dove la contesa, alla fine, verterà quasi interamente sul raggiungimento del quorum. I difensori della legge, come è noto, non hanno scelto il No: si trincerano dietro l'invito alla diserzione. E qui mi appare sconcertante l'atteggiamento della Chiesa cattolica...
Perché sconcertante?
Vorrei cercar di spiegare bene la mia opinione. Io sono uno che, notoriamente, nutre grande rispetto per la Chiesa e per il mondo cattolico. Ovviamente, non pretendo in alcun modo, da parte della Chiesa stessa, che si "converta" ad una visione diversa, diciamo così più laica, di questi problemi. Mi spingo oltre: in una società dove il capitalismo fa strame di tutto, mercifica tutto, diffonde un disprezzo crescente della vita attraverso guerre, clonazioni, brevetti, comprendo bene il senso di una riflessione, e anche di una discussione di fondo sulla vita - il suo valore e perfino il suo senso. Sono disponibile a misurarmi, senza pregiudizi, anche con la questione - difficilissima - degli embrioni, del quando e dove comincia un processo vitale. Ma è proprio per queste ragioni non banali, proprio per l'importanza di una sfera di riflessione che abbatte ogni frontiera ideologica (compresa quella tra chi crede e chi non crede), che sono rimasto sconcertato dalle scelte della Chiesa. La quale è stata indotta da queste preoccupazioni a due conclusioni inaccettabili.
In particolare, pensi all'invito astensionista su questo referendum già espresso dal cardinale Ruini?
Anche. Ma, ancor prima, c'è la tentazione politica della Chiesa: il ritorno ad uno Stato confessionale - o a uno Stato etico, che è anche peggio. Cioè alla pretesa che le leggi siano ispirate dai principi morali della religione cattolica - di una sola morale e di una sola religione. Non è una novità, certo - fu così anche ai tempi del divorzio e dell'aborto. Ma allora non si arrivò al punto di invitare alla diserzione dal voto: una scelta che, per un verso, esprime un disprezzo profondo della consultazione elettorale, dell'atto stesso del voto; e che per l'altro verso è un'opzione mimetica, camuffata, intrisa di furbizia. Dove a finire la necessità - per ogni cattolico - di testimoniare, di esser-ci, di scegliere? E dove va a a finire la propensione al dialogo, che è stata al centro del Concilio?
Stai dicendo che, in realtà, si può tranquillamente andare a votare, e votare Sì, essendo e sentendosi cattolici?
Sì, credo che a questo referendum si possa votare Sì a partire dalle più diverse Weltaanschung, visioni del mondo e della vita. In questo senso, faccio appello alle coscienze più avvertite del mondo cattolico perché disubbidiscano, e il 12 giugno vadano a votare - anche e soprattutto in nome della tradizione di dialogo di cui sono portatori. Per votare Sì, non è richiesta nè alcuna abiura di fede nè alcuna particolare convinzione morale. Insomma: tra me e un cattolico c'è sicuramente un'idea diversa dell'origine della vita. Ma che c'entra, questo, con una legge che prescrive una pratica pericolosa, tale quasi unanimemente considerata, per la salute della donna? Che vieta la diagnosi prenatale? Che sembra mossa da una vera volontà di accanimento contro le donne?
I difensori della legge 40 propongono, di continuo, il tema dei «diritti dell'embrione», al quale noi opponiamo quelli alla «libera scelta» delle donne - e degli individui. Tu che ne pensi?
Penso che questi siano temi di straordinaria complessità e, dal punto di vista della riflessione culturale e filosofica, sono alieno da ogni semplificazione. Perfino sulla «libera scelta» ho alcune perplessità: preferisco parlare di «scelta responsabile» come diritto inalienabile di ogni donna, e non vorrei regalare al liberismo, in nessun caso, la cultura della vita.... Ma questi sono, dicevo, problemi grandi e difficili. sui quali non a caso si dibatte da secoli. Ben altro è la pretesa di trarre dalle proprie dottrine, o convinzioni etiche, una conseguenza legislativa, un determinato ordinamento giuridico. Qui l'equivalenza di diritti tra il concepito e la madre - la persona adulta - non è sostenibile. Qui, all'opposto, c'è una asimmetria evidente, assunta come tale perfino dal senso comune e registrata da leggi come la 194: tra un ovulo fecondato e una persona, tra una vita potenziale e una vita effettiva non può essere istituita alcuna concreta "eguaglianza". Quando lo si fa, come nella legge 40, si vuol punire in realtà la donna, assunta come un soggetto per natura "sospetto", da punire, da far soffrire - da condannare.
In conclusione?
In conclusione: si tratta di abrogare una legge profondamente iniqua e dannosa. E di produrre al suo posto una buona legge: ovvero una normativa che offre un'opportunità, e non impone alcun comportamento a nessuno. Una legge che sani la discriminazione sociale oggi vigente nei fatti: chi ha la possibilità economica di consentirsi fuori d'Italia la fecondazione eterologa, può farlo. E' una delle tante perversità, non l'ultima, della legge 40.
Intervista al segretario di Rifondazione comunista sulla fecondazione assistita in vista del voto del 12 giugno
Bertinotti ai cattolici: «Disobbedite a Ruini
e andate a votare per il referendum»
Rina Gagliardi
«Faccio appello alle coscienze più avvertite del mondo cattolico, perché disubbidiscano all'invito astensionista delle alte gerarchie ecclesiastiche e il 12 giugno vadano a votare al referendum contro la legge 40. Lo dico non certo per "laicismo": all'opposto, nulla è così lontano da me come dividere il mondo tra credenti e non credenti. Ma per votare Sì ai quattro quesiti proposti dal referendum non è richiesta alcuna abiura della propria fede o delle proprie convinzioni morali: è invece essenziale il recupero di quella attitudine al dialogo che è stata al centro della stagione conciliare». Fausto Bertinotti si "tuffa" così nella campagna referendaria, nel giorno in cui essa comincia ufficialmente: con un approccio politicamente molto determinato, e al tempo stesso molto attento ad evitare semplificazioni di sorta. Dobbiamo sconfiggere, dice il segretario di Rifondazione comunista, una legge «rudemente offensiva», oscurantista, incentrata sul «sospetto nei confronti delle donne: ed entriamo nel vivo di questa battaglia avendo accumulato un grande ritardo. Il nostro vero avversario è il silenzio: è il rischio concreto che il Paese non venga davvero informato sulla effettiva sostanza del referendum. «Qui a Strasburgo» dice il segretario (in questi giorni in sessione del Parlamento europeo) «sembra proprio di essere in un altro mondo: dovunque si discute del referendum, ormai prossimo, sulla costituzione europea. Non c'è Tv, o quotidiano, che non dedichi ogni giorno a questo tema un grande spazio. Invece, in Italia....»
Invece in Italia la grande maggioranza dell'elettorato non sa ancora su che cosa si voterà il 12 di giugno. Allo stesso tempo, però, sta avvenendo una cosa quasi bizzarra: crescono nel centrodestra i sostenitori del Sì. Ieri c'è stato il pronunciamento di Fini, cioè nientemeno che del vicepremier. E non sono più in molti a difendere la legge 40. Viene da chiedersi: ma allora chi l'ha voluta e votata questa legge?
Guarda, che è successo anche in Sicilia, dove ci sarà un referendum per abrogare una nuova legge elettorale voluta dalla maggioranza di centrodestra: giorni fa, il presidente della Regione ha annunciato che potrebbe votare Sì all'abrogazione. Ci si può scherzare sopra, perfino, su queste incredibili oscillazioni del ceto politico di governo: che spesso sembra ormai «fare senza sapere». Con in più, una presunzione d'impunità. Questa irresponsabilità, nel senso letterale del termine, la dice lunga non solo sulle divisioni e sullo sbandamento attuale del centrodestra, ma sul logoramento a cui è arrivata democrazia rappresentativa. Le Camere, i luoghi della rappresentanza, stanno diventando così opachi, che al loro interno si può decidere qualsiasi cosa - salvo dietrofront che spesso diventano rapidissimi, o impensabili. Accade così sulla legge 40: è così poco difendibile che non la difendono più neppure coloro che l'hanno votata. Non appena si attiva un processo democratico, una discussione di massa come quella potenzialmente evocata dal referendum, non appena, insomma, viene al pettine il nodo del rapporto tra istituzioni e paese reale, questa irresponsabilità prende il sopravvento.
Il referendum, dunque, non solo come strumento ad hoc, ma come attivazione democratica. E' per questo che siamo stati tra i promotori, e i firmatari attivi, di questa campagna contro la legge 40?
Sì, certo. Siamo tra coloro che hanno ritenuto necessaria una replica concreta ad una scelta politicamente e culturalmente regressiva, come quella rappresentata dalla legge 40. Sarebbe stato meglio un quesito referendario che la abrogava in toto (infatti abbiamo sostenuto a suo tempo la proposta radicale), in ogni caso l'insieme dei quesiti su cui siamo chiamati a pronunciarci configura una sostanza abrogativa. Di fronte a noi, dunque, c'è un una battaglia molto importante, che va perfino al di là della legge: direi proprio una battaglia di civiltà. Ma dobbiamo recuperare il grande ritardo accumulato sui due fronti principali.
Quali?
Quello dell'informazione, prima di tutto. Bisogna che le persone siano informate, e siano informate correttamente. E bisogna evitare, assolutamente, il rischio di un conflitto ideologico tra credenti e non credenti, tra laici e cattolici: non è questo (in realtà no è mai questo) il terreno reale dello scontro. E poi c'è la vera e propria iniziativa referendaria: dove la contesa, alla fine, verterà quasi interamente sul raggiungimento del quorum. I difensori della legge, come è noto, non hanno scelto il No: si trincerano dietro l'invito alla diserzione. E qui mi appare sconcertante l'atteggiamento della Chiesa cattolica...
Perché sconcertante?
Vorrei cercar di spiegare bene la mia opinione. Io sono uno che, notoriamente, nutre grande rispetto per la Chiesa e per il mondo cattolico. Ovviamente, non pretendo in alcun modo, da parte della Chiesa stessa, che si "converta" ad una visione diversa, diciamo così più laica, di questi problemi. Mi spingo oltre: in una società dove il capitalismo fa strame di tutto, mercifica tutto, diffonde un disprezzo crescente della vita attraverso guerre, clonazioni, brevetti, comprendo bene il senso di una riflessione, e anche di una discussione di fondo sulla vita - il suo valore e perfino il suo senso. Sono disponibile a misurarmi, senza pregiudizi, anche con la questione - difficilissima - degli embrioni, del quando e dove comincia un processo vitale. Ma è proprio per queste ragioni non banali, proprio per l'importanza di una sfera di riflessione che abbatte ogni frontiera ideologica (compresa quella tra chi crede e chi non crede), che sono rimasto sconcertato dalle scelte della Chiesa. La quale è stata indotta da queste preoccupazioni a due conclusioni inaccettabili.
In particolare, pensi all'invito astensionista su questo referendum già espresso dal cardinale Ruini?
Anche. Ma, ancor prima, c'è la tentazione politica della Chiesa: il ritorno ad uno Stato confessionale - o a uno Stato etico, che è anche peggio. Cioè alla pretesa che le leggi siano ispirate dai principi morali della religione cattolica - di una sola morale e di una sola religione. Non è una novità, certo - fu così anche ai tempi del divorzio e dell'aborto. Ma allora non si arrivò al punto di invitare alla diserzione dal voto: una scelta che, per un verso, esprime un disprezzo profondo della consultazione elettorale, dell'atto stesso del voto; e che per l'altro verso è un'opzione mimetica, camuffata, intrisa di furbizia. Dove a finire la necessità - per ogni cattolico - di testimoniare, di esser-ci, di scegliere? E dove va a a finire la propensione al dialogo, che è stata al centro del Concilio?
Stai dicendo che, in realtà, si può tranquillamente andare a votare, e votare Sì, essendo e sentendosi cattolici?
Sì, credo che a questo referendum si possa votare Sì a partire dalle più diverse Weltaanschung, visioni del mondo e della vita. In questo senso, faccio appello alle coscienze più avvertite del mondo cattolico perché disubbidiscano, e il 12 giugno vadano a votare - anche e soprattutto in nome della tradizione di dialogo di cui sono portatori. Per votare Sì, non è richiesta nè alcuna abiura di fede nè alcuna particolare convinzione morale. Insomma: tra me e un cattolico c'è sicuramente un'idea diversa dell'origine della vita. Ma che c'entra, questo, con una legge che prescrive una pratica pericolosa, tale quasi unanimemente considerata, per la salute della donna? Che vieta la diagnosi prenatale? Che sembra mossa da una vera volontà di accanimento contro le donne?
I difensori della legge 40 propongono, di continuo, il tema dei «diritti dell'embrione», al quale noi opponiamo quelli alla «libera scelta» delle donne - e degli individui. Tu che ne pensi?
Penso che questi siano temi di straordinaria complessità e, dal punto di vista della riflessione culturale e filosofica, sono alieno da ogni semplificazione. Perfino sulla «libera scelta» ho alcune perplessità: preferisco parlare di «scelta responsabile» come diritto inalienabile di ogni donna, e non vorrei regalare al liberismo, in nessun caso, la cultura della vita.... Ma questi sono, dicevo, problemi grandi e difficili. sui quali non a caso si dibatte da secoli. Ben altro è la pretesa di trarre dalle proprie dottrine, o convinzioni etiche, una conseguenza legislativa, un determinato ordinamento giuridico. Qui l'equivalenza di diritti tra il concepito e la madre - la persona adulta - non è sostenibile. Qui, all'opposto, c'è una asimmetria evidente, assunta come tale perfino dal senso comune e registrata da leggi come la 194: tra un ovulo fecondato e una persona, tra una vita potenziale e una vita effettiva non può essere istituita alcuna concreta "eguaglianza". Quando lo si fa, come nella legge 40, si vuol punire in realtà la donna, assunta come un soggetto per natura "sospetto", da punire, da far soffrire - da condannare.
In conclusione?
In conclusione: si tratta di abrogare una legge profondamente iniqua e dannosa. E di produrre al suo posto una buona legge: ovvero una normativa che offre un'opportunità, e non impone alcun comportamento a nessuno. Una legge che sani la discriminazione sociale oggi vigente nei fatti: chi ha la possibilità economica di consentirsi fuori d'Italia la fecondazione eterologa, può farlo. E' una delle tante perversità, non l'ultima, della legge 40.
referendum e pettegolezzi
ADN Kronos 12.5.05
Bonino: "Dobbiamo battere la posizione furbetta di chi invita all’astensionismo"
Fecondazione, Prestigiacomo: "Referendum battaglia di civiltà da vincere"
Presentato al 'Palazzo dell'Informazione' il comitato trasversale di 'donne per il sì' ai quattro quesiti del 12 e 13 giugno
Roma, 12 mag. (Adnkronos) - La legge sulla fecondazione assistita è “un accanimento contro le donne”. Ma è anche un provvedimento che mette “in gioco la laicità dello Stato”. La battaglia referendaria è quindi “una battaglia di civiltà” che “dobbiamo vincere”. “Da cattolica”, il ministro per le Pari Opportunità Stefania Prestigiacomo conferma le ragioni che la hanno convinta a promuovere la costituzione di un comitato trasversale che riunisce “donne laiche, liberali, radicali, cattolico-liberali” per sostenere il ‘sì’ ai quattro referendum abrogativi di alcune norme della legge.
Un’iniziativa presentata oggi a Roma, al ‘Palazzo dell’Informazione’ del gruppo Adnkronos-Gmc, assieme alle altre promotrici: tra le quali, Emma Bonino, Stefania Craxi, Giuliana Del Bufalo, Margherita Boniver, Sonia Raule e Lella Golfo. Ma sono già più di 100 le adesioni: tra le sostenitrici non ci sono soltanto esponenti politici di entrambi gli schieramenti, ma c’è anche l’inviato speciale del governo in Darfur Barbara Contini, il premio Nobel Rita Levi Montalcini, la stilista Anna Fendi, le avvocatesse Giulia Bongiorno e Tina Lagostena Bassi, assieme ad una schiera di attrici e donne dello spettacolo, campionesse di sci come Manuela Di Centa, rappresentanti del mondo della cultura e del giornalismo, imprenditrici.
“Siamo tutte per il sì ai quattro referendum, anche se con sfumature diverse. Alcune di noi - ha esordito la Bonino - appartengono a partiti che in Parlamento hanno votato questa legge. Ma voglio ricordare le parole di Sciascia: ‘Contraddissi e mi contraddico’. Siamo determinate a vincere anche questa battaglia, importante come lo furono quelle per il divorzio e l’aborto. Dobbiamo battere questa posizione furbetta dell’astensionismo: si parla di libertà di coscienza, ma non capisco perchè i cittadini si debbano esprimere andando al mare. Le forze che richiamano all’astensione sono potentissime, è importante reagire”. “Ci conforta che la scienza e gli scienziati stiano con noi”, ha fatto eco Stefania Craxi, che ha definito “ridicole e sleali” le giustificazioni di chi invita al non voto.
E da “cattolica praticante” ha voluto portare la sua testimonianza l’avvocato Giulia Bongiorno. “Avverto tutta la difficoltà di venire qui a sostenere le ragioni del sì -ha ammesso- ma questa legge è un mostro: elimina la fecondazione medicalmente assistita, impedisce a chi è portatore di malattie genetiche di generare figli sani”. La penalista siciliana ha messo in luce alcune delle contraddizioni delle norme che si punta ad abrogare: “Non è possibile che, prima si impianti l’embrione malato e poi si dica alla donna che può comunque abortire. Allora, si abolisca anche la legge sull’aborto”. Un pericolo che all’orizzonte intravede la socialista Margherita Boniver. “Questa legge è sbagliata - ha spiegato il sottosegretario agli Esteri - e, dal punto di vista teorico, è pericolosa perchè potrebbe essere l’anticamera per abrogare la legge sull’aborto”.
ADN Kronos 12.5.05
Sulla stampa le indiscrezioni su un presunto flirt con Stefania Prestigiacomo
Fecondazione, Fini: "Disgustato da squallido gossip maschilista"
Il presidente di An: "Provo indignazione per le maldicenze e le gratuite insinuazioni". Il ministro per le Pari Opportunità: ''Spazzatura le voci su me e il vicepremier''
Roma, 12 mag. (Adnkronos) - "Provo indignazione per le maldicenze, le illazioni e le gratuite insinuazioni con cui si è cercato di spiegare le ragioni della mia meditata decisione di votare sì per tre referendum. Indignazione che diventa autentico disgusto per il fatto che non si è esitato a coinvolgere in uno squallido gossip di stampo maschilista il ministro Prestigiacomo, cui rinnovo la stima e l’apprezzamento per il suo impegno". E’ quanto ha dichiarato il vicepremier e ministro degli Esteri, Gianfranco Fini, in merito ad alcune indiscrezioni apparse sulla stampa circa un suo presunto flirt con il ministro di Forza Italia che sarebbe all’origine della posizione assunta dal leader di An sul referendum.
Da parte sua Stefania Prestigiacomo bolla come ''spazzatura'' le voci circolate. "Gli attacchi non ci spaventano -mette in chiaro la titolare del ministero per le Pari Opportunità-. Batteremo colpo su colpo. Certo, è abbastanza incivile -lamenta- che dopo 30 anni si debba rivivere lo stesso clima intimidatorio che fu vissuto dai promotori dei referendum sul divorzio e sull’aborto. Non fa fare passi in avanti al nostro Paese, ma passi indietro".
Il Gazzettino Giovedì, 12 Maggio 2005
LA VEDOVA ALMIRANTE
«Posizione validissima» e Donna Assunta sta con lui
«Fini è un grande leader di partito. La posizione assunta sui referendum è validissima e io la condivido»: Donna Assunta Almirante, vedova del carismatico segretario del Msi, questa volta applaude a scena aperta il «delfino Gianfranco», che in molte altre occasioni aveva invece criticato con una certa asprezza. Ma il presidente di An - con quel suo annuncio che andrà a votare al referendum sulla procreazione assistita, per mettere sulla scheda tre «sì» e un «no» alla fecondazione eterologa - se recupera l'apprezzamento di Donna Assunta, deve però prendere atto che An quasi gli si rivolta contro.
(...)
Bonino: "Dobbiamo battere la posizione furbetta di chi invita all’astensionismo"
Fecondazione, Prestigiacomo: "Referendum battaglia di civiltà da vincere"
Presentato al 'Palazzo dell'Informazione' il comitato trasversale di 'donne per il sì' ai quattro quesiti del 12 e 13 giugno
Roma, 12 mag. (Adnkronos) - La legge sulla fecondazione assistita è “un accanimento contro le donne”. Ma è anche un provvedimento che mette “in gioco la laicità dello Stato”. La battaglia referendaria è quindi “una battaglia di civiltà” che “dobbiamo vincere”. “Da cattolica”, il ministro per le Pari Opportunità Stefania Prestigiacomo conferma le ragioni che la hanno convinta a promuovere la costituzione di un comitato trasversale che riunisce “donne laiche, liberali, radicali, cattolico-liberali” per sostenere il ‘sì’ ai quattro referendum abrogativi di alcune norme della legge.
Un’iniziativa presentata oggi a Roma, al ‘Palazzo dell’Informazione’ del gruppo Adnkronos-Gmc, assieme alle altre promotrici: tra le quali, Emma Bonino, Stefania Craxi, Giuliana Del Bufalo, Margherita Boniver, Sonia Raule e Lella Golfo. Ma sono già più di 100 le adesioni: tra le sostenitrici non ci sono soltanto esponenti politici di entrambi gli schieramenti, ma c’è anche l’inviato speciale del governo in Darfur Barbara Contini, il premio Nobel Rita Levi Montalcini, la stilista Anna Fendi, le avvocatesse Giulia Bongiorno e Tina Lagostena Bassi, assieme ad una schiera di attrici e donne dello spettacolo, campionesse di sci come Manuela Di Centa, rappresentanti del mondo della cultura e del giornalismo, imprenditrici.
“Siamo tutte per il sì ai quattro referendum, anche se con sfumature diverse. Alcune di noi - ha esordito la Bonino - appartengono a partiti che in Parlamento hanno votato questa legge. Ma voglio ricordare le parole di Sciascia: ‘Contraddissi e mi contraddico’. Siamo determinate a vincere anche questa battaglia, importante come lo furono quelle per il divorzio e l’aborto. Dobbiamo battere questa posizione furbetta dell’astensionismo: si parla di libertà di coscienza, ma non capisco perchè i cittadini si debbano esprimere andando al mare. Le forze che richiamano all’astensione sono potentissime, è importante reagire”. “Ci conforta che la scienza e gli scienziati stiano con noi”, ha fatto eco Stefania Craxi, che ha definito “ridicole e sleali” le giustificazioni di chi invita al non voto.
E da “cattolica praticante” ha voluto portare la sua testimonianza l’avvocato Giulia Bongiorno. “Avverto tutta la difficoltà di venire qui a sostenere le ragioni del sì -ha ammesso- ma questa legge è un mostro: elimina la fecondazione medicalmente assistita, impedisce a chi è portatore di malattie genetiche di generare figli sani”. La penalista siciliana ha messo in luce alcune delle contraddizioni delle norme che si punta ad abrogare: “Non è possibile che, prima si impianti l’embrione malato e poi si dica alla donna che può comunque abortire. Allora, si abolisca anche la legge sull’aborto”. Un pericolo che all’orizzonte intravede la socialista Margherita Boniver. “Questa legge è sbagliata - ha spiegato il sottosegretario agli Esteri - e, dal punto di vista teorico, è pericolosa perchè potrebbe essere l’anticamera per abrogare la legge sull’aborto”.
ADN Kronos 12.5.05
Sulla stampa le indiscrezioni su un presunto flirt con Stefania Prestigiacomo
Fecondazione, Fini: "Disgustato da squallido gossip maschilista"
Il presidente di An: "Provo indignazione per le maldicenze e le gratuite insinuazioni". Il ministro per le Pari Opportunità: ''Spazzatura le voci su me e il vicepremier''
Roma, 12 mag. (Adnkronos) - "Provo indignazione per le maldicenze, le illazioni e le gratuite insinuazioni con cui si è cercato di spiegare le ragioni della mia meditata decisione di votare sì per tre referendum. Indignazione che diventa autentico disgusto per il fatto che non si è esitato a coinvolgere in uno squallido gossip di stampo maschilista il ministro Prestigiacomo, cui rinnovo la stima e l’apprezzamento per il suo impegno". E’ quanto ha dichiarato il vicepremier e ministro degli Esteri, Gianfranco Fini, in merito ad alcune indiscrezioni apparse sulla stampa circa un suo presunto flirt con il ministro di Forza Italia che sarebbe all’origine della posizione assunta dal leader di An sul referendum.
Da parte sua Stefania Prestigiacomo bolla come ''spazzatura'' le voci circolate. "Gli attacchi non ci spaventano -mette in chiaro la titolare del ministero per le Pari Opportunità-. Batteremo colpo su colpo. Certo, è abbastanza incivile -lamenta- che dopo 30 anni si debba rivivere lo stesso clima intimidatorio che fu vissuto dai promotori dei referendum sul divorzio e sull’aborto. Non fa fare passi in avanti al nostro Paese, ma passi indietro".
Il Gazzettino Giovedì, 12 Maggio 2005
LA VEDOVA ALMIRANTE
«Posizione validissima» e Donna Assunta sta con lui
«Fini è un grande leader di partito. La posizione assunta sui referendum è validissima e io la condivido»: Donna Assunta Almirante, vedova del carismatico segretario del Msi, questa volta applaude a scena aperta il «delfino Gianfranco», che in molte altre occasioni aveva invece criticato con una certa asprezza. Ma il presidente di An - con quel suo annuncio che andrà a votare al referendum sulla procreazione assistita, per mettere sulla scheda tre «sì» e un «no» alla fecondazione eterologa - se recupera l'apprezzamento di Donna Assunta, deve però prendere atto che An quasi gli si rivolta contro.
(...)
cosa si pubblica oggi sui bambini
Il Gazzettino Giovedì, 12 Maggio 2005
SFORBICIANDO
I bambini e i loro diritti. Numerosi saggi sull'infanzia con le "istruzioni per l'uso", non dimenticando gli abusi
Aldo Forbice
I bambini, i loro diritti violati, nonostante le convenzioni delle Nazioni Unite (la più importante è quella storica del 1989), procedure, programmi, metodologie e didattica per aiutare i genitori, i pediatri, gli insegnanti, gli operatori sociali. Un diluvio di libri ogni anno su questi temi. Ne citiamo solo alcuni che troviamo in libreria. Innanzitutto il saggio di Mel Levine, I bambini non sono pigri (Mondadori). Levine insegna pediatria alla Scuola di medicina della North Carolina University e dirige il Clinical Center for the Study of Development and Learning . Il libro di cui parliamo è in un certo senso il proseguimento del saggio A modo loro, uscito pochi mesi fa e pubblicato sempre da Mondadori. Infatti, in quest'ultimo lavoro, Levine approfondiva i problemi legati ai meccanismi dell'apprendimento dei bambini. E spiegava che ogni cervello ha un suo modo di operare, visto che esistono otto "sistemi mentali", di cui corrispondono differenti modalità di apprendimento. Così c'è chi privilegia il "fare", chi il "dire", chi il movimento, chi la concentrazione. Nel libro appena pubblicato si cerca si confutare il luogo comune della pigrizia di tanti bambini. Infatti, quello che chiamiamo "pigrizia" è in realtà uno stato psicofisico che ha sempre delle ragioni accertabili, molto simili a ingranaggi inceppati, ad anelli deboli della catena che regola il buon funzionamento della mente e del corpo di ognuno di noi. Insomma, una piccola smagliatura nel tessuto della personalità che, se non viene subito ricucita, con il passare degli anni non può che aggravarsi.
Sui diritti dei bambini, invece, è particolarmente stimolante un saggio di un altro studioso straniero, Michael King. L'autore del saggio I diritti dei bambini in un mondo incerto (Donzelli) insegna alla Brunel University (Gran Bretagna) ed ha firmato in passato numerosi libri dedicati al controllo sociale e all'infanzia. King tende a ridimensionare gli allarmi sulle violenze ai minori che da qualche tempo occupano le prime pagine dei giornali ,occupando sempre maggiore spazio anche nei tg. Il libro si presenta come una sorta di "guida" per sapersi orientare in uno scenario in cui la dimensione e le intensità degli allarmi riguardanti i bambini hanno raggiunto livelli altissimi.
Di taglio diverso il saggio di Luigi Cancrini, Schiavo delle mie brame (Frassinelli). Cancrini è direttore del Centro di aiuto al bambino maltrattato e alla famiglia ed è autore di numerose ricerche sull'infanzia. Lo "schiavo" è chi, lasciandosi prendere da una qualsiasi forma di dipendenza (alcol, gioco d'azzardo, droghe), diventa vittima di una scissione particolarmente dolorosa. In altre parole, i minori finiscono con l'essere dominati da un nemico che si portano dentro che si contrappone ai loro obiettivi coscienti e si impadronisce della loro mente deformando giudizi e comportamenti. Cancrini spiega che cosa fare, come intervenire nei confronti dei bambini e degli adolescenti sofferenti.
Un saggio curioso e denso di dati quello di Roberto Volpi, uno statistico che ha progettato il Centro nazionale di documentazione e analisi per l'infanzia e l'adolescenza per conto dell'Istituto degli Innocenti di Firenze. Nel libro Liberiamo i bambini - Più figli, meno ansie (Donzelli) si mettono in discussione i troppi progetti per la tutela dell'infanzia. L'autore critica l'atteggiamento di tanti educatori, genitori e amministratori che, nel loro atteggiamento iperprotettivo rischiano di sopprimere la prerogativa essenziale dell'essere bambini: la libertà di muoversi e di agire fuori da schemi precostituiti e intenzionali. Insomma, un libro provocatorio che fa riflettere molto.
Infine, segnaliamo un manuale, scritto da Anna Bioley e da un gruppo di altri autori, dal titolo Insieme per il minore (See-Firenze). Questo libro vuole essere un punto di riferimento multiprofessionale per poter riconoscere le situazioni di abuso ai minori e per indirizzare la vittima alle figure professionali competenti. Un manuale utile, riservato agli operatori sociali e ai medici, che conferma come gli abusi non siano "retorica" o invenzioni dei giornalisti, ma una tragica realtà che tende ad assumere una dimensione sempre più ampia, non solo nelle aree più depresse del mondo ma anche nel cosiddetto Occidente opulento.
SFORBICIANDO
I bambini e i loro diritti. Numerosi saggi sull'infanzia con le "istruzioni per l'uso", non dimenticando gli abusi
Aldo Forbice
I bambini, i loro diritti violati, nonostante le convenzioni delle Nazioni Unite (la più importante è quella storica del 1989), procedure, programmi, metodologie e didattica per aiutare i genitori, i pediatri, gli insegnanti, gli operatori sociali. Un diluvio di libri ogni anno su questi temi. Ne citiamo solo alcuni che troviamo in libreria. Innanzitutto il saggio di Mel Levine, I bambini non sono pigri (Mondadori). Levine insegna pediatria alla Scuola di medicina della North Carolina University e dirige il Clinical Center for the Study of Development and Learning . Il libro di cui parliamo è in un certo senso il proseguimento del saggio A modo loro, uscito pochi mesi fa e pubblicato sempre da Mondadori. Infatti, in quest'ultimo lavoro, Levine approfondiva i problemi legati ai meccanismi dell'apprendimento dei bambini. E spiegava che ogni cervello ha un suo modo di operare, visto che esistono otto "sistemi mentali", di cui corrispondono differenti modalità di apprendimento. Così c'è chi privilegia il "fare", chi il "dire", chi il movimento, chi la concentrazione. Nel libro appena pubblicato si cerca si confutare il luogo comune della pigrizia di tanti bambini. Infatti, quello che chiamiamo "pigrizia" è in realtà uno stato psicofisico che ha sempre delle ragioni accertabili, molto simili a ingranaggi inceppati, ad anelli deboli della catena che regola il buon funzionamento della mente e del corpo di ognuno di noi. Insomma, una piccola smagliatura nel tessuto della personalità che, se non viene subito ricucita, con il passare degli anni non può che aggravarsi.
Sui diritti dei bambini, invece, è particolarmente stimolante un saggio di un altro studioso straniero, Michael King. L'autore del saggio I diritti dei bambini in un mondo incerto (Donzelli) insegna alla Brunel University (Gran Bretagna) ed ha firmato in passato numerosi libri dedicati al controllo sociale e all'infanzia. King tende a ridimensionare gli allarmi sulle violenze ai minori che da qualche tempo occupano le prime pagine dei giornali ,occupando sempre maggiore spazio anche nei tg. Il libro si presenta come una sorta di "guida" per sapersi orientare in uno scenario in cui la dimensione e le intensità degli allarmi riguardanti i bambini hanno raggiunto livelli altissimi.
Di taglio diverso il saggio di Luigi Cancrini, Schiavo delle mie brame (Frassinelli). Cancrini è direttore del Centro di aiuto al bambino maltrattato e alla famiglia ed è autore di numerose ricerche sull'infanzia. Lo "schiavo" è chi, lasciandosi prendere da una qualsiasi forma di dipendenza (alcol, gioco d'azzardo, droghe), diventa vittima di una scissione particolarmente dolorosa. In altre parole, i minori finiscono con l'essere dominati da un nemico che si portano dentro che si contrappone ai loro obiettivi coscienti e si impadronisce della loro mente deformando giudizi e comportamenti. Cancrini spiega che cosa fare, come intervenire nei confronti dei bambini e degli adolescenti sofferenti.
Un saggio curioso e denso di dati quello di Roberto Volpi, uno statistico che ha progettato il Centro nazionale di documentazione e analisi per l'infanzia e l'adolescenza per conto dell'Istituto degli Innocenti di Firenze. Nel libro Liberiamo i bambini - Più figli, meno ansie (Donzelli) si mettono in discussione i troppi progetti per la tutela dell'infanzia. L'autore critica l'atteggiamento di tanti educatori, genitori e amministratori che, nel loro atteggiamento iperprotettivo rischiano di sopprimere la prerogativa essenziale dell'essere bambini: la libertà di muoversi e di agire fuori da schemi precostituiti e intenzionali. Insomma, un libro provocatorio che fa riflettere molto.
Infine, segnaliamo un manuale, scritto da Anna Bioley e da un gruppo di altri autori, dal titolo Insieme per il minore (See-Firenze). Questo libro vuole essere un punto di riferimento multiprofessionale per poter riconoscere le situazioni di abuso ai minori e per indirizzare la vittima alle figure professionali competenti. Un manuale utile, riservato agli operatori sociali e ai medici, che conferma come gli abusi non siano "retorica" o invenzioni dei giornalisti, ma una tragica realtà che tende ad assumere una dimensione sempre più ampia, non solo nelle aree più depresse del mondo ma anche nel cosiddetto Occidente opulento.
brevi dal web
yahoo! Salute 11.5.05
Il Pensiero Scientifico Editore
Depressione: un gene coinvolto
Un gene su cui già grava il sospetto di aumentare il rischio di depressione potrebbe essere responsabile proprio di quei cambiamenti strutturali tipici del cervello di individui depressi. La ricerca, condotta presso il National Institute of Health's (NIH) National Institute of Mental Health (NIMH) da Daniel Weinberger, potrebbe quindi chiudere il cerchio che lega geni, modifiche cerebrali e malattia. La notizia è apparsa sulla rivista Nature Neuroscience.
Da molto tempo si è dimostrato che gli individui depressi hanno modifiche in alcuni circuiti cerebrali ma finora spiegare se ciò fosse una conseguenza o una premessa della loro malattia era impossibile. Inoltre precedenti studi hanno associato ad alto rischio di depressione una mutazione nel gene che controlla i livelli di serotonina nel cervello (5-HTTLPR).
Ora i ricercatori statunitensi hanno associato la stessa mutazione di 5-HTTLPR a difetti strutturali nei circuiti nervosi deputati all’elaborazione e al controllo delle emozioni negative. Questi circuiti appaiono ridotti in termini di materia grigia ed indeboliti in termini di connessioni tra neuroni. Queste due informazioni insieme, ha proposto Weinberger, possono condurre ad una conclusione evidente: il difetto genetico su 5-HTTLPR causa disfunzioni cerebrali che a loro volta rendono l’individuo più incline a sviluppare la malattia.
I protagonisti di questa intrigata storia che potrebbe sciogliersi svelando molti segreti della depressione sono da una parte il gene 5-HTTLPR che codifica per il trasportatore della serotonina il quale regola la quantità di serotonina in azione nel cervello, dall’altra l’amigdala, centro di elaborazione delle paure posto in profondità nel cervello e il cingolato, un centro di elaborazione di stati emotivi negativi e deprimenti posto vicino la zona frontale del cervello.
Precedenti studi condotti dalla stessa équipe avevano dimostrato che la mutazione nel gene 5-HTTLPR raddoppia il rischio di depressione in seguito ad eventi stressanti, iper-attiva l’amigdala in seguito a stimoli paurosi, è legata a temperamenti ansiosi. Adesso i ricercatori pensano di aver compreso il motivo di tutte queste condizioni mutazione-dipendenti.
In esperimenti di imaging con la risonanza magnetica (MRI) su 114 individui sani ma portatori di una copia difettosa del gene 5-HTTLPR il circuito amigdala-cingolato è abnorme, ovvero ha meno materia grigia e connessioni neurali rispetto ad individui sani con entrambe le copie del gene normali. Inoltre eseguendo la scansione con la risonanza magnetica funzionale (fMRI) su 94 individui nell’atto di guardare volti segnati dalla paura è emerso che circa il 30 per cento dei soggetti con un temperamento ansioso e pessimistico ha un ridotto grado di connessione tra amigdala e cingolato.
Questo è dunque il primo studio ad evidenziare l’importanza del livello di connessione tra l’amigdala e il cingolato affinché quest’ultimo tenga a bada la prima, eviti che si “emozioni” troppo facendo perdere la bussola all’individuo di fronte a stimoli paurosi. Se i due circuiti non comunicano bene, quindi, il temperamento che ne risulta è ansioso e pessimista. E se ciò avviene dipende dalla mutazione sul gene per il trasportatore della serotonina, hanno evidenziato i neurologi.
Probabilmente, concludono gli esperti, il gene ha un peso nelle primissime fasi di sviluppo del cervello quando la regolazione dei livelli di serotonina è cruciale. Se a causa della mutazione non si formano le connessioni giuste l’individuo sarà più incline a reazioni eccessive di fronte a stimoli stressanti che di certo gli si presenteranno nel corso della vita e, quindi, alla depressione.
Fonte: Weinberger DR et al. 5-HTTLPR polymorphism impacts human cingulateamygdala interactions: a genetic susceptibility mechanism for depression. Nature Neuroscience advance online publication 2005; doi:10.1038/nn1463
ilgazzettino.it mercoledi 11 maggio 2005
La denuncia di Tirelli
Stanchezza cronica la malattia "ignorata"
Pordenone(ldf) Si chiama Sindrome da stanchezza cronica, (Cfs) ed è una malattia debilitante al punto che i pazienti affetti molto spesso non riescono più ad alzarsi neppure dal letto. «Anche se si calcola che in Italia vi siano circa 200-300 mila casi - spiega il professor Umberto Tirelli che al Cro di Aviano coordina un'unità di cura per i casi di Cfs - sono in molti, tra cui anche parecchi medici, che non conoscono ancora l'esistenza della sindrome». Va subito detto, infatti, che la stanchezza è uno dei sintomi più frequenti per i quali una persona si reca dal medico. Spesso però è dovuta a stress, surmenage psicofisico, depressione, o altre patologie organiche. La Cfs è una diagnosi ad esclusione e chiaramente prima di essere accertata vanno escluse le altre cause. Anche per far conoscere il più possibile la malattia, domani, 12 maggio, è stata indetta la giornata mondiale della Sindrome da stanchezza cronica.
«I pazienti - va ancora avanti Tirelli - sono solitamente giovani e donne, con una età media di insorgenza intorno ai 30 anni. La Cfs è invece rara negli anziani, ma vi è qualche caso pediatrico». Nell'Unità Cfs di Aviano sono stati osservati finora oltre 900 casi ed è attiva un'associazione di pazienti. «Nella nuova classificazione - chiarisce Tirelli - un caso di stanchezza cronica é definito dalla presenza delle seguenti condizioni: una fatica persistente per almeno sei mesi che non é alleviata dal riposo, che si esacerba con piccoli sforzi e che provoca una sostanziale riduzione dei livelli delle attività occupazionali, sociali e personali. Devono inoltre essere presenti quattro o più dei seguenti sintomi: disturbi della memoria e della concentrazione, faringite, dolori delle ghiandole linfonodali cervicali e ascellari, dolori muscolari e delle articolazioni, cefalea di un tipo diverso da quella eventualmente presente in passato, un sonno non ristoratore e debolezza post esercizio fisico che perdura per almeno 24 ore. Purtroppo non vi è alcun farmaco in grado di guarire definitivamente la malattia, anche se spesso i pazienti possono trarre dei benefici da interventi farmacologici e modificando lo stile di vita».
Una stanchezza infinita accompagnata da ridotta capacità di concentrazione, perdita della memoria a breve termine, disturbi del sonno, dolori ai muscoli e alle articolazioni. Da sei anni questi sintomi Maurizia, una signora di 48 anni residente a Padova, li conosce bene tanto da essere stata costretta ad abbandonare il lavoro e a mettersi a riposo per lunghi periodi. La donna soffre della Sindrome da affaticamento cronico, una malattia dalla causa ignota, che generalmente viene diagnosticata per esclusione, eliminando altre patologie dagli effetti simili. «Fino a una certa età sono sempre stata bene poi improvvisamente ho iniziato ad accusare vertigini, capogiri e una grandissima, immotivata stanchezza: non ero in grado di ricordare, di prestare attenzione alle cose che facevo. Qualsiasi sforzo, anche piccolo, per me diventava gigante, insormontabile: impossibile fare le scale, scrivere, telefonare, anche mandare un'e-mail era un'impresa». La diagnosi non è stata semplice. Sottoposta ad un numero incalcolabile di visite neurologiche ed ematologiche, la Sindrome da fatica cronica le è stata diagnosticata a Pavia dove esiste uno dei pochi centri in Italia - gli altri sono Aviano, Roma e Chieti - specializzati in questo tipo di malattia di cui soffrono circa 300 mila persone. Ma la situazione non è migliorata: non esiste una cura specifica e il decorso della malattia è vario. Alcuni pazienti peggiorano progressivamente, altri parzialmente migliorano, altri guariscono. Ma per capirne di più mancano sia i fondi per la ricerca sia il coordinamento tra i centri che se ne occupano: proprio per attirare l'attenzione su questa patologia, a volte scambiata per ipocondria o depressione, domani verrà celebrata la Giornata internazionale della Sindrome da affaticamento cronico.
larena.it mercoledi 11 maggio 2005
Drammatico picco di suicidi negli ultimi mesi nella Bassa specialmente tra i ragazzi
Un giovane male di vivere
Gli esperti: «Non si tollera alcuna frustrazione»
Quel peso del mondo tutto accumulato dentro l’anima. E la «soluzione»: uno sparo contro se stessi, una corda al collo. Nell’arco di pochissimi mesi quattro persone nella Bassa si sono tolte la vita od hanno tentato di farlo. Tra questi eventi il più sconcertante è stato l’omicidio suicidio dei Chiari, padre e figlio. L’ultimo è di ieri mattina: un ventottenne con qualche problema di depressione che improvvisamente ha imbracciato un fucile trovato in casa e si è tolto la vita.
Agli altri, a tutti quelli che restano, rimangono domande quasi sempre senza risposta. E le statistiche, che con la loro scientificità presunta parlano di continuo incremento di suicidi tra i giovani, e tra gli anziani, ed in modo particolare nelle aree del benessere del nord Europa e del nord Italia - Lombardia, Veneto, il Bellunese le zone dove il fenomeno ha maggior incidenza - arrivano fino ad un certo punto. Non spiegano mai fino in fondo. «I tentativi di aggregare le motivazioni», riflette infatti Maurizio D’Agostino, dirigente medico del dipartimento di prevenzione del servizio di Igiene e sanità pubblica dell’Ulss 21, «servono fino ad un certo punto. Ogni caso è a sé».
Il medico, che nel 2003 ha redatto con i colleghi una ricerca sui suicidi nella Bassa, ricorda quello di un anziano che una mattina ha salutato come faceva di solito i nipotini e poi se ne è andato e si è ucciso. Il dolore vero, per altro, è quasi sempre molto silenzioso.
Ma un tentativo di trovare una chiave di lettura del fenomeno lo fa invece il primario di psichiatria dell’Ulss 21, Antonio Campedelli. Dal suo osservatorio «privilegiato» - il reparto dove passano gravi casi di depressioni e di altre patologie collegate - il medico non esita a confermare che i giovani sono sempre più ammalati della malattia dei nostri tempi e poi che una delle cause «va cercata nell’abbassamento sempre più marcato della soglia di tolleranza alle delusioni, alle difficoltà», dice.
«La nostra è la società che ci fa credere di poter avere tutto e di poterlo avere subito. Quando ciò non succede, come è normale che sia e quando le nostre aspettative nei rapporti umani o di affermazione sociale ed economica vengono frustrate, si cade nella depressione». O, peggio, ci si toglie la vita. Via l’esistenza, via il dolore, si potrebbe semplificare.
Ma i suicidi non sono sempre persone meramente incapaci di soffrire. Sono però, forse, meno attrezzate di punti fermi: «Del resto, quali punti fermi ci rimangono?», chiede il primario Campedelli. La domanda è retorica. «Davvero pochi: le famiglie si sfasciano sempre più di frequente», afferma, «la religione non è più vissuta come un tempo. La politica è sempre più contradditoria. Il senso della vita e della morte quasi non esistono».
Fin qui forse tutti abbiamo fatto della psicologia spicciola. Ma ciò che rimane un fatto incontestabile è che se sempre più spesso chi ci vive accanto si toglie la vita, c’è qualcosa che non va.
yahoo! Salute mercoledì 11 maggio 2005
Il Pensiero Scientifico Editore
Attivato il progetto Girasole 2
L'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù e la Fondazione Umana Mente insieme contro autismo, violenze su minori e disturbi alimentari
Un nucleo operativo attivo 24 ore su 24 per fronteggiare il fenomeno in costante crescita di tutte le forme di abuso e di violenza, fisica e psicologica, nei confronti dei bambini e degli adolescenti, consumate molte volte tra le mura domestiche. Sono gli esperti del Progetto Girasole 2, nato dall'esperienza pluriennale dell'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, vero avamposto nella lotta alla prevaricazione nei confronti dei minori, con il supporto della Fondazione Umana Mente del Gruppo RAS.
Tre le nuove linee della fase due del Progetto Girasole nato nel 1999:
Minori testimoni di violenza: rivolto a bambini e ad adolescenti e alle loro famiglie che vivono una realtà di violenza familiare, non solo fisica e verbale, ma anche psicologica, economica e sessuale e sono perciò perennemente esposti a situazioni caratterizzate da pericolo, paura, ansia. Attenzione particolare viene rivolta anche ai genitori che subiscono violenza dai propri figli che spesso risulta correlata a possibili esperienze di clima familiare violento, subìto nell'infanzia dal giovane, che diventa a sua volta violento.
Disturbi del comportamento alimentare: anoressia e bulimia nervosa. Integra il consolidato protocollo seguito per il trattamento di tali disturbi con strumenti e attività innovative quali: gruppi di auto-aiuto per gli adolescenti all'interno dei quali i ragazzi si confrontano anche con persone "riabilitate" che hanno avuto nel passato un disturbo del comportamento alimentare; gruppi di aiuto per i genitori degli adolescenti; "videoconfronting", tecnica terapeutica che utilizza il computer per lavorare sulla possibilità dell'adolescente di riappropriarsi della percezione reale del proprio corpo.
Autismo infantile: che ha come finalità principale il miglioramento della qualità di vita dei bambini autistici e delle loro famiglie, ampliando il servizio di assistenza già offerto dal Bambino Gesù attraverso l'utilizzazione di strumenti innovativi per la diagnosi precoce, l'individuazione di progetti terapeutici personalizzati e il potenziamento del supporto emotivo al bambino e alla famiglia. Tali attività vengono integrate con il "protocollo diagnostico della ricerca delle cause biologiche dello spettro autistico" che l'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù già svolge per compito istituzionale.
Nel primo semestre di attività del Progetto Girasole 2, alla linea 06-68592265 sono arrivate 1.540 chiamate delle quali 753 sono state consulenze relative a situazioni di abuso (368), disagio infantile e adolescenziale (129), bambini testimoni di violenza (94), disturbi del comportamento alimentare (139), autismo infantile (23). Sono stati accolti in valutazione diagnostica 156 casi. E per circa la metà di questi sono stati avviati dei programmi di trattamento.
Il Pensiero Scientifico Editore
Depressione: un gene coinvolto
Un gene su cui già grava il sospetto di aumentare il rischio di depressione potrebbe essere responsabile proprio di quei cambiamenti strutturali tipici del cervello di individui depressi. La ricerca, condotta presso il National Institute of Health's (NIH) National Institute of Mental Health (NIMH) da Daniel Weinberger, potrebbe quindi chiudere il cerchio che lega geni, modifiche cerebrali e malattia. La notizia è apparsa sulla rivista Nature Neuroscience.
Da molto tempo si è dimostrato che gli individui depressi hanno modifiche in alcuni circuiti cerebrali ma finora spiegare se ciò fosse una conseguenza o una premessa della loro malattia era impossibile. Inoltre precedenti studi hanno associato ad alto rischio di depressione una mutazione nel gene che controlla i livelli di serotonina nel cervello (5-HTTLPR).
Ora i ricercatori statunitensi hanno associato la stessa mutazione di 5-HTTLPR a difetti strutturali nei circuiti nervosi deputati all’elaborazione e al controllo delle emozioni negative. Questi circuiti appaiono ridotti in termini di materia grigia ed indeboliti in termini di connessioni tra neuroni. Queste due informazioni insieme, ha proposto Weinberger, possono condurre ad una conclusione evidente: il difetto genetico su 5-HTTLPR causa disfunzioni cerebrali che a loro volta rendono l’individuo più incline a sviluppare la malattia.
I protagonisti di questa intrigata storia che potrebbe sciogliersi svelando molti segreti della depressione sono da una parte il gene 5-HTTLPR che codifica per il trasportatore della serotonina il quale regola la quantità di serotonina in azione nel cervello, dall’altra l’amigdala, centro di elaborazione delle paure posto in profondità nel cervello e il cingolato, un centro di elaborazione di stati emotivi negativi e deprimenti posto vicino la zona frontale del cervello.
Precedenti studi condotti dalla stessa équipe avevano dimostrato che la mutazione nel gene 5-HTTLPR raddoppia il rischio di depressione in seguito ad eventi stressanti, iper-attiva l’amigdala in seguito a stimoli paurosi, è legata a temperamenti ansiosi. Adesso i ricercatori pensano di aver compreso il motivo di tutte queste condizioni mutazione-dipendenti.
In esperimenti di imaging con la risonanza magnetica (MRI) su 114 individui sani ma portatori di una copia difettosa del gene 5-HTTLPR il circuito amigdala-cingolato è abnorme, ovvero ha meno materia grigia e connessioni neurali rispetto ad individui sani con entrambe le copie del gene normali. Inoltre eseguendo la scansione con la risonanza magnetica funzionale (fMRI) su 94 individui nell’atto di guardare volti segnati dalla paura è emerso che circa il 30 per cento dei soggetti con un temperamento ansioso e pessimistico ha un ridotto grado di connessione tra amigdala e cingolato.
Questo è dunque il primo studio ad evidenziare l’importanza del livello di connessione tra l’amigdala e il cingolato affinché quest’ultimo tenga a bada la prima, eviti che si “emozioni” troppo facendo perdere la bussola all’individuo di fronte a stimoli paurosi. Se i due circuiti non comunicano bene, quindi, il temperamento che ne risulta è ansioso e pessimista. E se ciò avviene dipende dalla mutazione sul gene per il trasportatore della serotonina, hanno evidenziato i neurologi.
Probabilmente, concludono gli esperti, il gene ha un peso nelle primissime fasi di sviluppo del cervello quando la regolazione dei livelli di serotonina è cruciale. Se a causa della mutazione non si formano le connessioni giuste l’individuo sarà più incline a reazioni eccessive di fronte a stimoli stressanti che di certo gli si presenteranno nel corso della vita e, quindi, alla depressione.
Fonte: Weinberger DR et al. 5-HTTLPR polymorphism impacts human cingulateamygdala interactions: a genetic susceptibility mechanism for depression. Nature Neuroscience advance online publication 2005; doi:10.1038/nn1463
ilgazzettino.it mercoledi 11 maggio 2005
La denuncia di Tirelli
Stanchezza cronica la malattia "ignorata"
Pordenone(ldf) Si chiama Sindrome da stanchezza cronica, (Cfs) ed è una malattia debilitante al punto che i pazienti affetti molto spesso non riescono più ad alzarsi neppure dal letto. «Anche se si calcola che in Italia vi siano circa 200-300 mila casi - spiega il professor Umberto Tirelli che al Cro di Aviano coordina un'unità di cura per i casi di Cfs - sono in molti, tra cui anche parecchi medici, che non conoscono ancora l'esistenza della sindrome». Va subito detto, infatti, che la stanchezza è uno dei sintomi più frequenti per i quali una persona si reca dal medico. Spesso però è dovuta a stress, surmenage psicofisico, depressione, o altre patologie organiche. La Cfs è una diagnosi ad esclusione e chiaramente prima di essere accertata vanno escluse le altre cause. Anche per far conoscere il più possibile la malattia, domani, 12 maggio, è stata indetta la giornata mondiale della Sindrome da stanchezza cronica.
«I pazienti - va ancora avanti Tirelli - sono solitamente giovani e donne, con una età media di insorgenza intorno ai 30 anni. La Cfs è invece rara negli anziani, ma vi è qualche caso pediatrico». Nell'Unità Cfs di Aviano sono stati osservati finora oltre 900 casi ed è attiva un'associazione di pazienti. «Nella nuova classificazione - chiarisce Tirelli - un caso di stanchezza cronica é definito dalla presenza delle seguenti condizioni: una fatica persistente per almeno sei mesi che non é alleviata dal riposo, che si esacerba con piccoli sforzi e che provoca una sostanziale riduzione dei livelli delle attività occupazionali, sociali e personali. Devono inoltre essere presenti quattro o più dei seguenti sintomi: disturbi della memoria e della concentrazione, faringite, dolori delle ghiandole linfonodali cervicali e ascellari, dolori muscolari e delle articolazioni, cefalea di un tipo diverso da quella eventualmente presente in passato, un sonno non ristoratore e debolezza post esercizio fisico che perdura per almeno 24 ore. Purtroppo non vi è alcun farmaco in grado di guarire definitivamente la malattia, anche se spesso i pazienti possono trarre dei benefici da interventi farmacologici e modificando lo stile di vita».
Una stanchezza infinita accompagnata da ridotta capacità di concentrazione, perdita della memoria a breve termine, disturbi del sonno, dolori ai muscoli e alle articolazioni. Da sei anni questi sintomi Maurizia, una signora di 48 anni residente a Padova, li conosce bene tanto da essere stata costretta ad abbandonare il lavoro e a mettersi a riposo per lunghi periodi. La donna soffre della Sindrome da affaticamento cronico, una malattia dalla causa ignota, che generalmente viene diagnosticata per esclusione, eliminando altre patologie dagli effetti simili. «Fino a una certa età sono sempre stata bene poi improvvisamente ho iniziato ad accusare vertigini, capogiri e una grandissima, immotivata stanchezza: non ero in grado di ricordare, di prestare attenzione alle cose che facevo. Qualsiasi sforzo, anche piccolo, per me diventava gigante, insormontabile: impossibile fare le scale, scrivere, telefonare, anche mandare un'e-mail era un'impresa». La diagnosi non è stata semplice. Sottoposta ad un numero incalcolabile di visite neurologiche ed ematologiche, la Sindrome da fatica cronica le è stata diagnosticata a Pavia dove esiste uno dei pochi centri in Italia - gli altri sono Aviano, Roma e Chieti - specializzati in questo tipo di malattia di cui soffrono circa 300 mila persone. Ma la situazione non è migliorata: non esiste una cura specifica e il decorso della malattia è vario. Alcuni pazienti peggiorano progressivamente, altri parzialmente migliorano, altri guariscono. Ma per capirne di più mancano sia i fondi per la ricerca sia il coordinamento tra i centri che se ne occupano: proprio per attirare l'attenzione su questa patologia, a volte scambiata per ipocondria o depressione, domani verrà celebrata la Giornata internazionale della Sindrome da affaticamento cronico.
larena.it mercoledi 11 maggio 2005
Drammatico picco di suicidi negli ultimi mesi nella Bassa specialmente tra i ragazzi
Un giovane male di vivere
Gli esperti: «Non si tollera alcuna frustrazione»
Quel peso del mondo tutto accumulato dentro l’anima. E la «soluzione»: uno sparo contro se stessi, una corda al collo. Nell’arco di pochissimi mesi quattro persone nella Bassa si sono tolte la vita od hanno tentato di farlo. Tra questi eventi il più sconcertante è stato l’omicidio suicidio dei Chiari, padre e figlio. L’ultimo è di ieri mattina: un ventottenne con qualche problema di depressione che improvvisamente ha imbracciato un fucile trovato in casa e si è tolto la vita.
Agli altri, a tutti quelli che restano, rimangono domande quasi sempre senza risposta. E le statistiche, che con la loro scientificità presunta parlano di continuo incremento di suicidi tra i giovani, e tra gli anziani, ed in modo particolare nelle aree del benessere del nord Europa e del nord Italia - Lombardia, Veneto, il Bellunese le zone dove il fenomeno ha maggior incidenza - arrivano fino ad un certo punto. Non spiegano mai fino in fondo. «I tentativi di aggregare le motivazioni», riflette infatti Maurizio D’Agostino, dirigente medico del dipartimento di prevenzione del servizio di Igiene e sanità pubblica dell’Ulss 21, «servono fino ad un certo punto. Ogni caso è a sé».
Il medico, che nel 2003 ha redatto con i colleghi una ricerca sui suicidi nella Bassa, ricorda quello di un anziano che una mattina ha salutato come faceva di solito i nipotini e poi se ne è andato e si è ucciso. Il dolore vero, per altro, è quasi sempre molto silenzioso.
Ma un tentativo di trovare una chiave di lettura del fenomeno lo fa invece il primario di psichiatria dell’Ulss 21, Antonio Campedelli. Dal suo osservatorio «privilegiato» - il reparto dove passano gravi casi di depressioni e di altre patologie collegate - il medico non esita a confermare che i giovani sono sempre più ammalati della malattia dei nostri tempi e poi che una delle cause «va cercata nell’abbassamento sempre più marcato della soglia di tolleranza alle delusioni, alle difficoltà», dice.
«La nostra è la società che ci fa credere di poter avere tutto e di poterlo avere subito. Quando ciò non succede, come è normale che sia e quando le nostre aspettative nei rapporti umani o di affermazione sociale ed economica vengono frustrate, si cade nella depressione». O, peggio, ci si toglie la vita. Via l’esistenza, via il dolore, si potrebbe semplificare.
Ma i suicidi non sono sempre persone meramente incapaci di soffrire. Sono però, forse, meno attrezzate di punti fermi: «Del resto, quali punti fermi ci rimangono?», chiede il primario Campedelli. La domanda è retorica. «Davvero pochi: le famiglie si sfasciano sempre più di frequente», afferma, «la religione non è più vissuta come un tempo. La politica è sempre più contradditoria. Il senso della vita e della morte quasi non esistono».
Fin qui forse tutti abbiamo fatto della psicologia spicciola. Ma ciò che rimane un fatto incontestabile è che se sempre più spesso chi ci vive accanto si toglie la vita, c’è qualcosa che non va.
yahoo! Salute mercoledì 11 maggio 2005
Il Pensiero Scientifico Editore
Attivato il progetto Girasole 2
L'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù e la Fondazione Umana Mente insieme contro autismo, violenze su minori e disturbi alimentari
Un nucleo operativo attivo 24 ore su 24 per fronteggiare il fenomeno in costante crescita di tutte le forme di abuso e di violenza, fisica e psicologica, nei confronti dei bambini e degli adolescenti, consumate molte volte tra le mura domestiche. Sono gli esperti del Progetto Girasole 2, nato dall'esperienza pluriennale dell'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, vero avamposto nella lotta alla prevaricazione nei confronti dei minori, con il supporto della Fondazione Umana Mente del Gruppo RAS.
Tre le nuove linee della fase due del Progetto Girasole nato nel 1999:
Minori testimoni di violenza: rivolto a bambini e ad adolescenti e alle loro famiglie che vivono una realtà di violenza familiare, non solo fisica e verbale, ma anche psicologica, economica e sessuale e sono perciò perennemente esposti a situazioni caratterizzate da pericolo, paura, ansia. Attenzione particolare viene rivolta anche ai genitori che subiscono violenza dai propri figli che spesso risulta correlata a possibili esperienze di clima familiare violento, subìto nell'infanzia dal giovane, che diventa a sua volta violento.
Disturbi del comportamento alimentare: anoressia e bulimia nervosa. Integra il consolidato protocollo seguito per il trattamento di tali disturbi con strumenti e attività innovative quali: gruppi di auto-aiuto per gli adolescenti all'interno dei quali i ragazzi si confrontano anche con persone "riabilitate" che hanno avuto nel passato un disturbo del comportamento alimentare; gruppi di aiuto per i genitori degli adolescenti; "videoconfronting", tecnica terapeutica che utilizza il computer per lavorare sulla possibilità dell'adolescente di riappropriarsi della percezione reale del proprio corpo.
Autismo infantile: che ha come finalità principale il miglioramento della qualità di vita dei bambini autistici e delle loro famiglie, ampliando il servizio di assistenza già offerto dal Bambino Gesù attraverso l'utilizzazione di strumenti innovativi per la diagnosi precoce, l'individuazione di progetti terapeutici personalizzati e il potenziamento del supporto emotivo al bambino e alla famiglia. Tali attività vengono integrate con il "protocollo diagnostico della ricerca delle cause biologiche dello spettro autistico" che l'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù già svolge per compito istituzionale.
Nel primo semestre di attività del Progetto Girasole 2, alla linea 06-68592265 sono arrivate 1.540 chiamate delle quali 753 sono state consulenze relative a situazioni di abuso (368), disagio infantile e adolescenziale (129), bambini testimoni di violenza (94), disturbi del comportamento alimentare (139), autismo infantile (23). Sono stati accolti in valutazione diagnostica 156 casi. E per circa la metà di questi sono stati avviati dei programmi di trattamento.
il caso Pelosi - Pasolini
uno psichiatra, socio di Paolo Pancheri, ricorda
Liberazione 10.5.05
Omicidio Pasolini. Parla Michele Crebelli, il medico di guardia a Regina Coeli
«Pelosi mi disse: "Sono stato io".
O era sincero o era una bugia preparata»
Elisabetta Mondello
Oggi Michele Crebelli è un noto psichiatra, socio di un famoso studio romano, quello del Prof. Paolo Pancheri, ma trent'anni fa era un giovane laureato ventottenne, in attesa di specializzarsi in psichiatria. E per arrotondare faceva il medico di guardia al carcere di Regina Coeli.
Era di turno la notte fra il 1 e il 2 novembre 1975, mentre Pasolini veniva ucciso. Toccò quindi a lui ascoltare fra i primi l'autoaccusa di Pino Pelosi ma non fu mai interrogato in proposito, probabilmente perché il ragazzo rimase per poco nel penitenziario e venne subito trasferito nel carcere minorile. «Mi chiamarono all'alba, sebbene la procedura fosse insolita», racconta per la prima volta dopo tanti anni. «Il turno durava 24 ore, dalle 14 alle 14; però le mansioni del medico di guardia erano solitamente di tipo burocratico: fare al mattino la visita medica a tutti i nuovi entrati nelle 24 ore precedenti. Mettere i punti a quelli che si tagliavano o intervenire se un detenuto compiva un atto estremo, come inghiottire una lametta. Si trattava insomma di un lavoro di base, perché nel carcere esisteva un centro medico con specialisti e chirurghi, cui spettava il lavoro più sofisticato. Invece quella notte mi chiamarono».
Non è difficile immaginare il giovane dottore svegliato ad un'ora assurda per un'emergenza: parlare con quel piccoletto accusato di aver ammazzato, senza neppure accorgersene, un famoso quanto discusso (e ingombrante) intellettuale. La concitazione doveva essere tanta nell'alba romana in cui andava in scena l'orrore dell'omicidio Pasolini, che si aggiungeva ad un altro recente caso di impensabili efferatezze che, in una incredibile coincidenza della Storia, sono tornate anch'esse ad occupare la cronaca più recente, quelle di Izzo e compagni. E anche l'altro delitto era transitato per le mani di Crebelli. «L'autunno del '75 fu un'esperienza indimenticabile. Qualche settimana prima mi avevano chiamato all'improvviso, perché avevano portato in carcere gli assassini del Circeo. Quella volta però c'era un quesito specifico: il giudice voleva sapere se i ragazzi acconsentivano ad un prelievo di sangue ed urina per verificare la presenza di sostanze psicoattive. I tre rifiutarono con spocchia e mi ricordo che pensai che erano dei cretini, perché poteva essere una attenuante nel processo. Con loro non stetti a parlare. Con Pelosi sì».
In quel primo colloquio con un medico (fino a quel momento aveva parlato solo con i carabinieri che l'avevano fermato), Pino "la Rana" confessa l'omicidio con parole identiche a quelle che ripeterà in seguito. Dice la verità o siamo di fronte ad una delle prime repliche di quel copione che reciterà più volte e per il quale verrà condannato a 9 anni per omicidio? Che ritratterà l'altro giorno davanti alle telecamere di Raitre dicendo «Non l'ho ammazzato io, erano in tre, io lo difesi»?
Crebelli ricorda che i carabinieri gli avevano sussurrato che aveva ucciso Pasolini. «Io ero quindi anche umanamente curioso di vedere l'atteggiamento di questo ragazzo… Mi colpì la sua testa piena di ricci, grande rispetto al suo corpo (Pelosi è piccolino), e il suo comportamento: era tranquillo e strafottente. Non esprimeva il minimo senso di rammarico o di colpa. Era furioso con Pasolini e ne continuava a parlare in termini molto aggressivi. Non ricordo se sui vestiti ci fosse del sangue. Mi sembra che avesse una ferita ad una mano, ma era già stato medicato. Io comunque non gli feci nessun intervento. Raccontava, mi ricordo, ciò che poi ripeté al processo: si erano appartati e secondo i patti lui doveva fare il "maschio". Invece Pasolini voleva usare su di lui un oggetto, un bastone. Pino reagì. L'altro insisteva. Poi la colluttazione. Pelosi diceva che era talmente "incazzato" che si era messo alla guida della macchina e aveva fatto la conversione. I carabinieri gli avevano poi detto che, con questa manovra, era passato sopra il corpo di Pasolini. E lui continuava a ripetere "Non me ne frega niente. Così impara"».
Anche in quella primissima confessione il ragazzo non fece menzione di altre persone, di quei balordi che oggi indica come i veri responsabili dell'omicidio, finora da lui protetti per paura? In effetti, va ricordato, il processo di primo grado per l'assassinio di P. P. P. si concluse con una condanna contro Pelosi per «omicidio volontario in concorso con altri». Poi la sentenza del Tribunale dei minorenni di Roma fu riformata in appello e la Cassazione escluse il concorso di ignoti. «Non ha assolutamente mai parlato di altre persone» conferma lo psichiatra. «E il mio parere personale sull'incontro che ebbi allora con Pelosi è che un ragazzo di 17 anni, incolto, a poche ore dal fatto non sia in grado di elaborare una bugia di questo tipo, mantenendo una sintonia così perfetta fra i fatti che raccontava e le emozioni che esprimeva».
Torniamo sempre allo stesso punto: le reazioni del ragazzo. Non piangeva, non imprecava, non si rammaricava di quanto era accaduto. «Era tranquillo anche nei confronti del luogo in cui si trovava e delle guardie carcerarie. Ripeto: non era aggressivo né particolarmente spaventato. L'emozione prevalente era la rabbia». Ma ripensando a quell'incontro, con l'esperienza di tanti anni di psichiatria, che cosa pensa della ritrattazione di Pelosi? Pino "la Rana" mentiva allora o oggi? «Quanto ho letto sui giornali in questi giorni combacia con i miei ricordi. La mia opinione è che ciò che mi disse e il tono con cui lo disse non erano una menzogna improvvisata. Quindi debbo concludere: o erano cose vere o era una bugia preparata, ma da tempo».
Omicidio Pasolini. Parla Michele Crebelli, il medico di guardia a Regina Coeli
«Pelosi mi disse: "Sono stato io".
O era sincero o era una bugia preparata»
Elisabetta Mondello
Oggi Michele Crebelli è un noto psichiatra, socio di un famoso studio romano, quello del Prof. Paolo Pancheri, ma trent'anni fa era un giovane laureato ventottenne, in attesa di specializzarsi in psichiatria. E per arrotondare faceva il medico di guardia al carcere di Regina Coeli.
Era di turno la notte fra il 1 e il 2 novembre 1975, mentre Pasolini veniva ucciso. Toccò quindi a lui ascoltare fra i primi l'autoaccusa di Pino Pelosi ma non fu mai interrogato in proposito, probabilmente perché il ragazzo rimase per poco nel penitenziario e venne subito trasferito nel carcere minorile. «Mi chiamarono all'alba, sebbene la procedura fosse insolita», racconta per la prima volta dopo tanti anni. «Il turno durava 24 ore, dalle 14 alle 14; però le mansioni del medico di guardia erano solitamente di tipo burocratico: fare al mattino la visita medica a tutti i nuovi entrati nelle 24 ore precedenti. Mettere i punti a quelli che si tagliavano o intervenire se un detenuto compiva un atto estremo, come inghiottire una lametta. Si trattava insomma di un lavoro di base, perché nel carcere esisteva un centro medico con specialisti e chirurghi, cui spettava il lavoro più sofisticato. Invece quella notte mi chiamarono».
Non è difficile immaginare il giovane dottore svegliato ad un'ora assurda per un'emergenza: parlare con quel piccoletto accusato di aver ammazzato, senza neppure accorgersene, un famoso quanto discusso (e ingombrante) intellettuale. La concitazione doveva essere tanta nell'alba romana in cui andava in scena l'orrore dell'omicidio Pasolini, che si aggiungeva ad un altro recente caso di impensabili efferatezze che, in una incredibile coincidenza della Storia, sono tornate anch'esse ad occupare la cronaca più recente, quelle di Izzo e compagni. E anche l'altro delitto era transitato per le mani di Crebelli. «L'autunno del '75 fu un'esperienza indimenticabile. Qualche settimana prima mi avevano chiamato all'improvviso, perché avevano portato in carcere gli assassini del Circeo. Quella volta però c'era un quesito specifico: il giudice voleva sapere se i ragazzi acconsentivano ad un prelievo di sangue ed urina per verificare la presenza di sostanze psicoattive. I tre rifiutarono con spocchia e mi ricordo che pensai che erano dei cretini, perché poteva essere una attenuante nel processo. Con loro non stetti a parlare. Con Pelosi sì».
In quel primo colloquio con un medico (fino a quel momento aveva parlato solo con i carabinieri che l'avevano fermato), Pino "la Rana" confessa l'omicidio con parole identiche a quelle che ripeterà in seguito. Dice la verità o siamo di fronte ad una delle prime repliche di quel copione che reciterà più volte e per il quale verrà condannato a 9 anni per omicidio? Che ritratterà l'altro giorno davanti alle telecamere di Raitre dicendo «Non l'ho ammazzato io, erano in tre, io lo difesi»?
Crebelli ricorda che i carabinieri gli avevano sussurrato che aveva ucciso Pasolini. «Io ero quindi anche umanamente curioso di vedere l'atteggiamento di questo ragazzo… Mi colpì la sua testa piena di ricci, grande rispetto al suo corpo (Pelosi è piccolino), e il suo comportamento: era tranquillo e strafottente. Non esprimeva il minimo senso di rammarico o di colpa. Era furioso con Pasolini e ne continuava a parlare in termini molto aggressivi. Non ricordo se sui vestiti ci fosse del sangue. Mi sembra che avesse una ferita ad una mano, ma era già stato medicato. Io comunque non gli feci nessun intervento. Raccontava, mi ricordo, ciò che poi ripeté al processo: si erano appartati e secondo i patti lui doveva fare il "maschio". Invece Pasolini voleva usare su di lui un oggetto, un bastone. Pino reagì. L'altro insisteva. Poi la colluttazione. Pelosi diceva che era talmente "incazzato" che si era messo alla guida della macchina e aveva fatto la conversione. I carabinieri gli avevano poi detto che, con questa manovra, era passato sopra il corpo di Pasolini. E lui continuava a ripetere "Non me ne frega niente. Così impara"».
Anche in quella primissima confessione il ragazzo non fece menzione di altre persone, di quei balordi che oggi indica come i veri responsabili dell'omicidio, finora da lui protetti per paura? In effetti, va ricordato, il processo di primo grado per l'assassinio di P. P. P. si concluse con una condanna contro Pelosi per «omicidio volontario in concorso con altri». Poi la sentenza del Tribunale dei minorenni di Roma fu riformata in appello e la Cassazione escluse il concorso di ignoti. «Non ha assolutamente mai parlato di altre persone» conferma lo psichiatra. «E il mio parere personale sull'incontro che ebbi allora con Pelosi è che un ragazzo di 17 anni, incolto, a poche ore dal fatto non sia in grado di elaborare una bugia di questo tipo, mantenendo una sintonia così perfetta fra i fatti che raccontava e le emozioni che esprimeva».
Torniamo sempre allo stesso punto: le reazioni del ragazzo. Non piangeva, non imprecava, non si rammaricava di quanto era accaduto. «Era tranquillo anche nei confronti del luogo in cui si trovava e delle guardie carcerarie. Ripeto: non era aggressivo né particolarmente spaventato. L'emozione prevalente era la rabbia». Ma ripensando a quell'incontro, con l'esperienza di tanti anni di psichiatria, che cosa pensa della ritrattazione di Pelosi? Pino "la Rana" mentiva allora o oggi? «Quanto ho letto sui giornali in questi giorni combacia con i miei ricordi. La mia opinione è che ciò che mi disse e il tono con cui lo disse non erano una menzogna improvvisata. Quindi debbo concludere: o erano cose vere o era una bugia preparata, ma da tempo».
Calatrava a Roma
Repubblica Roma 11 MAGGIO 2005
In corso i contatti fra Campidoglio e il progettista spagnolo. Morassut: "Dopo Atene, è lui la firma migliore per quel progetto"
Calatrava a Tor Vergata l'architetto-star per lo Sport
Un Palazzetto come alle Olimpiadi
Un complesso che dovrebbe essere pronto tra quattro anni per i mondiali di nuoto 2009
Un nome internazionale insieme a Piano, Hadid, Koolhaas, Decq
FRANCESCA GIULIANI
Bianco, leggero, tecnologico: il segno dell´architettura contemporanea a Tor Vergata con il nome di una delle archi-star internazionali. È lo spagnolo Santiago Calatrava il sogno nel cassetto del Comune per il Palazzetto dello Sport, da realizzare per i mondiali di nuoto del 2009 nell´ambito della Città dello Sport il cui accordo è stato appena firmato. Il sindaco Walter Veltroni e l´assessore Roberto Morassut stanno lavorando per catturare il progettista spagnolo e affidargli un altro dei grandi progetti che nel prossimo lustro riusciranno a portare a Roma il florilegio praticamente completo dei grandi dell´architettura mondiale. Dopo Renzo Piano, Massimiliano Fuksas, Rem Koolhaas, Zaha Hadid, Odile Decq, Roger Diener, Paolo Portoghesi toccherà a Santiago Calatrava lavorare sulla luce, gli spazi, lo scenario della Città eterna.
Calatrava, cinquantenne di Valencia, è soprattutto l´architetto dei ponti, sessanta quelli realizzati in giro per il mondo ma soprattutto nel suo paese, tra cui l´Alamillo di Siviglia, il Lusitania di Merida, ma anche quello di Venezia a piazzale Roma, affidatogli nel 1996 da Massimo Cacciari. È della scorsa estate lo Stadio per le Olimpiadi di Atene, recenti anche la Città delle Scienze a Valencia e gli aeroporti di Lione e Liegi, la Torre delle Comunicazioni di Montjuic a Barcellona, la stazione Oriente di Lisbona... Calatrava, uno che gira con il blocchetto dei disegni sempre in tasca, ha messo a punto duecento progetti e ne ha realizzato il trenta per cento. Dicono di lui che si tratta del "nuovo architetto globale", progettista della rivoluzione tecnologica, audace strutturista, uno innamorato della pittura e paragonato a Gaudì per la capacità di innovazione, l´audacia progettuale. Ma un nome anche molto criticato e bollato come "ingegnere" da colleghi snob. Un tipo dal carattere deciso, se si pensa alla sua querelle con sir Norman Foster, che accusò di plagio per il progetto del Reichstag di Berlino. Calatrava vive a Zurigo, ha studi a Valencia e Parigi e ama l´Italia che gli ha dedicato la mostra più completa su suo lavoro tra anni fa a Palazzo Strozzia a Firenze dove ha vinto il concorso per l´ampliamento dell´Opera del Duomo.
Il punto, adesso, nel portarlo a Roma è di non correre nemmeno il rischio di "pasticci" genere Ara pacis. Spiega Morassut: «Il nome di Calatrava è quello più indicato per questa opera proprio per le sue capacità specifiche, per i lavori nel campo dello sport, come ad Atene. Il punto è individuare le procedure giuste». Ovvero: il concorso internazionale richiede anni, una consulenza non parrebbe adeguata e quindi in Campidoglio si sta ancora lavorando a trovare la strada giusta per conferirgli un incarico tanto prestigioso. Certo è che il nome di Calatrava a Roma arriverebbe a completare una scena già florida di architetti internazionali che hanno, Auditorium a parte, i loro cantieri ancora aperti o da aprire. Continua Morassut: «Lo sviluppo della città legato a quello dell´economia dei servizi e cioè turismo, congressualità, cultura e sport. Per queste attività sono necessarie strutture all´altezza».
In corso i contatti fra Campidoglio e il progettista spagnolo. Morassut: "Dopo Atene, è lui la firma migliore per quel progetto"
Calatrava a Tor Vergata l'architetto-star per lo Sport
Un Palazzetto come alle Olimpiadi
Un complesso che dovrebbe essere pronto tra quattro anni per i mondiali di nuoto 2009
Un nome internazionale insieme a Piano, Hadid, Koolhaas, Decq
FRANCESCA GIULIANI
Bianco, leggero, tecnologico: il segno dell´architettura contemporanea a Tor Vergata con il nome di una delle archi-star internazionali. È lo spagnolo Santiago Calatrava il sogno nel cassetto del Comune per il Palazzetto dello Sport, da realizzare per i mondiali di nuoto del 2009 nell´ambito della Città dello Sport il cui accordo è stato appena firmato. Il sindaco Walter Veltroni e l´assessore Roberto Morassut stanno lavorando per catturare il progettista spagnolo e affidargli un altro dei grandi progetti che nel prossimo lustro riusciranno a portare a Roma il florilegio praticamente completo dei grandi dell´architettura mondiale. Dopo Renzo Piano, Massimiliano Fuksas, Rem Koolhaas, Zaha Hadid, Odile Decq, Roger Diener, Paolo Portoghesi toccherà a Santiago Calatrava lavorare sulla luce, gli spazi, lo scenario della Città eterna.
Calatrava, cinquantenne di Valencia, è soprattutto l´architetto dei ponti, sessanta quelli realizzati in giro per il mondo ma soprattutto nel suo paese, tra cui l´Alamillo di Siviglia, il Lusitania di Merida, ma anche quello di Venezia a piazzale Roma, affidatogli nel 1996 da Massimo Cacciari. È della scorsa estate lo Stadio per le Olimpiadi di Atene, recenti anche la Città delle Scienze a Valencia e gli aeroporti di Lione e Liegi, la Torre delle Comunicazioni di Montjuic a Barcellona, la stazione Oriente di Lisbona... Calatrava, uno che gira con il blocchetto dei disegni sempre in tasca, ha messo a punto duecento progetti e ne ha realizzato il trenta per cento. Dicono di lui che si tratta del "nuovo architetto globale", progettista della rivoluzione tecnologica, audace strutturista, uno innamorato della pittura e paragonato a Gaudì per la capacità di innovazione, l´audacia progettuale. Ma un nome anche molto criticato e bollato come "ingegnere" da colleghi snob. Un tipo dal carattere deciso, se si pensa alla sua querelle con sir Norman Foster, che accusò di plagio per il progetto del Reichstag di Berlino. Calatrava vive a Zurigo, ha studi a Valencia e Parigi e ama l´Italia che gli ha dedicato la mostra più completa su suo lavoro tra anni fa a Palazzo Strozzia a Firenze dove ha vinto il concorso per l´ampliamento dell´Opera del Duomo.
Il punto, adesso, nel portarlo a Roma è di non correre nemmeno il rischio di "pasticci" genere Ara pacis. Spiega Morassut: «Il nome di Calatrava è quello più indicato per questa opera proprio per le sue capacità specifiche, per i lavori nel campo dello sport, come ad Atene. Il punto è individuare le procedure giuste». Ovvero: il concorso internazionale richiede anni, una consulenza non parrebbe adeguata e quindi in Campidoglio si sta ancora lavorando a trovare la strada giusta per conferirgli un incarico tanto prestigioso. Certo è che il nome di Calatrava a Roma arriverebbe a completare una scena già florida di architetti internazionali che hanno, Auditorium a parte, i loro cantieri ancora aperti o da aprire. Continua Morassut: «Lo sviluppo della città legato a quello dell´economia dei servizi e cioè turismo, congressualità, cultura e sport. Per queste attività sono necessarie strutture all´altezza».
anni settanta:
l'arte dei "pazzi" a Napoli
Repubblica Napoli 11 MAGGIO 2005
Errico Ruotolo e Gerardo Di Fiore raccontano la creatività dei Settanta
L´interesse per i cambiamenti e il tentativo di uscire dall´indifferenza
Tutta l'arte era dei pazzi nella Galleria Inesistente
Contestavamo i manicomi: la Biennale del ´76 ci accolse a braccia aperte e l´Europa pure ma la stampa di Napoli ci relegò nella cronaca
Quella volta che restituimmo il pennacchio al Vesuvio Amelio voleva esporci, ma poi fece una mostra che non aveva quadri alle pareti
MARIO FRANCO
Le poetiche del dissenso e la strategia del rifiuto che si imposero anche in Italia negli anni Settanta videro la nascita a Napoli di una serie di iniziative, dal teatro off alla costituzione della Cooperativa del Cinema Indipendente ad una serie di iniziative artistiche che intendevano disegnare il nuovo compito dell´intellettuale e dell´artista: legarsi ad una concreta azione sociale, elaborare una strategia per la battaglia contro l´asservimento dell´uomo ad una società caratterizzata da quella che Marcuse chiamava "tolleranza repressiva", ovvero la finta democrazia delle leggi del mercato e del profitto.
Anche ad un attento ricercatore, la proliferazione di iniziative, manifesti, azioni, riviste ed idee di quegli anni, risulta difficile per la natura effimera degli eventi e la scarsa risonanza sulla stampa locale, sempre pronta ad invischiarsi in dibattiti autoreferenziali (allora si discuteva su napoletanità e napolitudine), ma scarsamente interessata ad un discorso sul cambiamento che andavano subendo le forme del comportamento con l´imporsi di una realtà sociale, economica e politica sulla quale gli individui, e meno che mai gli artisti, non avevano alcun controllo effettivo. Parimenti le iniziative artistiche e culturali di quegli anni si divertivano a proporre ragionamenti ed operazioni "alternative", che risultavano irrealistiche non tanto per il loro carattere utopico, ma perché consapevoli dell´intensità delle forze che avrebbero impedito di tradurle in atto.
La Galleria Inesistente ed i Gruppi di Azione Sociale furono tra le realtà più interessanti di quegli anni. Ne parliamo con due protagonisti, Errico Ruotolo, che, come scriveva il suo compagno e sodàle Nino Daniele, ha sempre unito al rigore della creazione artistica "l´ispirazione alla giustizia, il farsi partecipe del conflitto sociale e civile" e Gerardo Di Fiore, artista che potremmo definire esistenzialista, se al termine togliamo ogni refuso storicamente datato, per indicare invece un habitat mentale in cui convive la poetica della dissoluzione dell´arte e l´improvviso affiorare di dettagli neoclassici come memoria replicante. Errico Ruotolo ricorda con passione gli anni in cui gli artisti aderirono al movimento di contestazione dell´istituzione manicomiale che partiva dalle teorie di Basaglia elaborate a Trieste. La lacerazione psicologica declinata di fronte al mondo dal malato di mente fu vista come parte integrante della coscienza di sé dell´uomo occidentale ed il compito che gli artisti si diedero fu quello di fornire un filo d´Arianna per uscire da un labirinto che coinvolgeva interessi politici indifferenti, feroci connivenze e ignoranze diffuse. «Crispolti ci portò alla Biennale di Venezia del ‘76 e le nostre iniziative trovarono adesioni ed ospitalità in importanti mostre europee. Eppure la stampa napoletana fu avara di notizie, spesso ostile. Ricordo invece una bella trasmissione televisiva, che ancora va in replica su Rai-arte via satellite, con una poesia di un malato psichiatrico recitata da Edmund Aldini. L´ho riascoltata da poco e mi sono venuti i brividi…». Interviene Di Fiore, con la sua aria understanding, da eroe perdente in un film di Peckinpah. Pur consapevole di quanto sia pericoloso per un artista un eccesso di consapevolezza e di autoironia, non rinuncia ad un´analisi disincantata e irriverente: «Possiamo anche dire che le nostre azioni erano un po´ furbette… Il fatto è che avevamo uno sguardo condizionato dal nostro essere artisti. Ad esempio: era il periodo della body art e tra le azioni di un Vito Acconci che si confessava in pubblico su un letto nella galleria di Lucio Amelio e un malato mentale del Frullone non facevamo tanta differenza. Certo, volevamo contestare l´istituzione psichiatrica. Ma sapevamo anche che Napoli non era Trieste. Chiudere i manicomi… e poi? C´erano già tanti pazzi per strada».
Le azioni e le opere che presero vita sotto il nome di Galleria Inesistente furono molteplici. L´iniziativa, da un´idea dell´artista italo-americano Vincent D´Arista, era un´estremizzazione delle teorie "fluxus", predicava l´anonimato dell´autore a vantaggio dell´opera e la sua natura effimera. «Nasceva contro l´idea del mercato, contro l´idea dell´arte come merce estetica. Ed a Napoli, in quel momento, il mercato era rappresentato dalla galleria di Lucio Amelio - dice Di Fiore - ed infatti molte azioni avevano come teatro piazza dei Martiri, poiché là c´era Lucio. Il quale poteva svegliarsi, una bella mattina, e trovare in piazza quattro leoni in più…». «La galleria nacque nel mio studio - precisa Ruotolo - anche se poi io uscii subito dal gruppo. L´anonimato dell´artista, che tanto ci aveva affascinato, naufragò subito sugli scogli della vanità: dopo pochi giorni sui giornali cittadini comparvero nomi, cognomi e curricula, ci mancavano solo i numeri di telefono… Lucio era, come sappiamo, un uomo intelligente. Ci corteggiò per un certo periodo e voleva che esponessimo da lui. Al nostro no, egli organizzò comunque una mostra lasciando vuote le pareti della galleria. Alla Galleria Inesistente oppose una mostra inesistente… Ma anche qui bisogna dire che la stampa cittadina si occupò poco e male degli avvenimenti. Finimmo nelle pagine della cronaca, quando decidemmo di rimettere il pennacchio al Vesuvio incendiando nel cratere una gran quantità di copertoni d´automobile, o quando facemmo piovere delle braccia di plastica sulla città. Ma non ci fu mai una vera analisi critica. A distanza di otto anni Filiberto Menna ne tentò una, non priva di omissioni e imprecisioni. «Eppure - interrompe Di Fiore - la galleria inesistente mi insegnò molto. Per ogni nostra azione discutevamo mesi interi. Quando decidemmo di porre tra piazza Vittoria e la Casina Pompeiana un lungo filo, come un nuovo orizzonte, facemmo centinaia di calcoli, anche di carattere fisico e balistico. Alla fine scartammo l´idea di stendere un filo d´acciaio e decidemmo di mettere un filo di cotone… Di cotone verde. E qui torna l´idea dell´effimero: tutto non durò che una decina di minuti, poiché, dopo tanta fatica, un colpo di vento spezzò il cotone e quindi il nostro orizzonte virtuale, costato mesi di discussioni, finì prima che potessimo almeno fotografarlo. «Non è un caso se ancora oggi nelle sculture di gommapiuma di Di Fiore si ritrovano dei fili di cotone colorato. Le mie sculture, friabili e sottoposte all´azione logorante del tempo come la vita stessa, sono ottenute con ago e filo. La gommapiuma viene plasmata intorno a piccoli sostegni e poi i volumi e le forme vengono ottenute tagliando e cucendo. Ed è un´esperienza interessante, poiché mentre un volto si forma, posso vedere Fidia, Donatello, Picasso e decidere che fisionomia dare alla mia scultura, come se sfogliassi un libro di storia dell´arte o come se rileggessi le parole del piccolo Budda nel Siddharta. In ogni uomo ci sono più uomini: il saggio e lo stolto, lo sfregiato e l´assassino…».
Oggi Ruotolo continua a dipingere ed a rappresentare come atto esperenziale, rapporto empatico con il mondo. I titoli delle sue opere, si riferiscano alla Shoah o alla guerra in Iraq, adottano come prassi creativa lo slogan politico, il titolo cronachistico, e sciolgono la distinzione tra il raffinato e rigoroso valore formale della composizione e il valore virtuale, allusivo della notizia. In una delle sue ultime opere, "Al Jazeera", lo sconfinamento e l´attraversamento della storia, letta attraverso il televisore, si concretizza in una serie di transistor e di schede di circuiti digitali che annullano ogni soluzione di continuità tra il medium, il suo messaggio e la natura tecnologica che è parte integrante del medium stesso. Stranamente anche Di Fiore dissemina di transistor e di circuiti elettrici il pavimento della sua ultima opera, su cui cammina carponi il suo "Ciber baby", giocando tra creazione e rovina. La natura ibrida delle tecnologie di massa, sono già residuo industriale, ricordo obsoleto del nuovo.
Errico Ruotolo e Gerardo Di Fiore raccontano la creatività dei Settanta
L´interesse per i cambiamenti e il tentativo di uscire dall´indifferenza
Tutta l'arte era dei pazzi nella Galleria Inesistente
Contestavamo i manicomi: la Biennale del ´76 ci accolse a braccia aperte e l´Europa pure ma la stampa di Napoli ci relegò nella cronaca
Quella volta che restituimmo il pennacchio al Vesuvio Amelio voleva esporci, ma poi fece una mostra che non aveva quadri alle pareti
MARIO FRANCO
Le poetiche del dissenso e la strategia del rifiuto che si imposero anche in Italia negli anni Settanta videro la nascita a Napoli di una serie di iniziative, dal teatro off alla costituzione della Cooperativa del Cinema Indipendente ad una serie di iniziative artistiche che intendevano disegnare il nuovo compito dell´intellettuale e dell´artista: legarsi ad una concreta azione sociale, elaborare una strategia per la battaglia contro l´asservimento dell´uomo ad una società caratterizzata da quella che Marcuse chiamava "tolleranza repressiva", ovvero la finta democrazia delle leggi del mercato e del profitto.
Anche ad un attento ricercatore, la proliferazione di iniziative, manifesti, azioni, riviste ed idee di quegli anni, risulta difficile per la natura effimera degli eventi e la scarsa risonanza sulla stampa locale, sempre pronta ad invischiarsi in dibattiti autoreferenziali (allora si discuteva su napoletanità e napolitudine), ma scarsamente interessata ad un discorso sul cambiamento che andavano subendo le forme del comportamento con l´imporsi di una realtà sociale, economica e politica sulla quale gli individui, e meno che mai gli artisti, non avevano alcun controllo effettivo. Parimenti le iniziative artistiche e culturali di quegli anni si divertivano a proporre ragionamenti ed operazioni "alternative", che risultavano irrealistiche non tanto per il loro carattere utopico, ma perché consapevoli dell´intensità delle forze che avrebbero impedito di tradurle in atto.
La Galleria Inesistente ed i Gruppi di Azione Sociale furono tra le realtà più interessanti di quegli anni. Ne parliamo con due protagonisti, Errico Ruotolo, che, come scriveva il suo compagno e sodàle Nino Daniele, ha sempre unito al rigore della creazione artistica "l´ispirazione alla giustizia, il farsi partecipe del conflitto sociale e civile" e Gerardo Di Fiore, artista che potremmo definire esistenzialista, se al termine togliamo ogni refuso storicamente datato, per indicare invece un habitat mentale in cui convive la poetica della dissoluzione dell´arte e l´improvviso affiorare di dettagli neoclassici come memoria replicante. Errico Ruotolo ricorda con passione gli anni in cui gli artisti aderirono al movimento di contestazione dell´istituzione manicomiale che partiva dalle teorie di Basaglia elaborate a Trieste. La lacerazione psicologica declinata di fronte al mondo dal malato di mente fu vista come parte integrante della coscienza di sé dell´uomo occidentale ed il compito che gli artisti si diedero fu quello di fornire un filo d´Arianna per uscire da un labirinto che coinvolgeva interessi politici indifferenti, feroci connivenze e ignoranze diffuse. «Crispolti ci portò alla Biennale di Venezia del ‘76 e le nostre iniziative trovarono adesioni ed ospitalità in importanti mostre europee. Eppure la stampa napoletana fu avara di notizie, spesso ostile. Ricordo invece una bella trasmissione televisiva, che ancora va in replica su Rai-arte via satellite, con una poesia di un malato psichiatrico recitata da Edmund Aldini. L´ho riascoltata da poco e mi sono venuti i brividi…». Interviene Di Fiore, con la sua aria understanding, da eroe perdente in un film di Peckinpah. Pur consapevole di quanto sia pericoloso per un artista un eccesso di consapevolezza e di autoironia, non rinuncia ad un´analisi disincantata e irriverente: «Possiamo anche dire che le nostre azioni erano un po´ furbette… Il fatto è che avevamo uno sguardo condizionato dal nostro essere artisti. Ad esempio: era il periodo della body art e tra le azioni di un Vito Acconci che si confessava in pubblico su un letto nella galleria di Lucio Amelio e un malato mentale del Frullone non facevamo tanta differenza. Certo, volevamo contestare l´istituzione psichiatrica. Ma sapevamo anche che Napoli non era Trieste. Chiudere i manicomi… e poi? C´erano già tanti pazzi per strada».
Le azioni e le opere che presero vita sotto il nome di Galleria Inesistente furono molteplici. L´iniziativa, da un´idea dell´artista italo-americano Vincent D´Arista, era un´estremizzazione delle teorie "fluxus", predicava l´anonimato dell´autore a vantaggio dell´opera e la sua natura effimera. «Nasceva contro l´idea del mercato, contro l´idea dell´arte come merce estetica. Ed a Napoli, in quel momento, il mercato era rappresentato dalla galleria di Lucio Amelio - dice Di Fiore - ed infatti molte azioni avevano come teatro piazza dei Martiri, poiché là c´era Lucio. Il quale poteva svegliarsi, una bella mattina, e trovare in piazza quattro leoni in più…». «La galleria nacque nel mio studio - precisa Ruotolo - anche se poi io uscii subito dal gruppo. L´anonimato dell´artista, che tanto ci aveva affascinato, naufragò subito sugli scogli della vanità: dopo pochi giorni sui giornali cittadini comparvero nomi, cognomi e curricula, ci mancavano solo i numeri di telefono… Lucio era, come sappiamo, un uomo intelligente. Ci corteggiò per un certo periodo e voleva che esponessimo da lui. Al nostro no, egli organizzò comunque una mostra lasciando vuote le pareti della galleria. Alla Galleria Inesistente oppose una mostra inesistente… Ma anche qui bisogna dire che la stampa cittadina si occupò poco e male degli avvenimenti. Finimmo nelle pagine della cronaca, quando decidemmo di rimettere il pennacchio al Vesuvio incendiando nel cratere una gran quantità di copertoni d´automobile, o quando facemmo piovere delle braccia di plastica sulla città. Ma non ci fu mai una vera analisi critica. A distanza di otto anni Filiberto Menna ne tentò una, non priva di omissioni e imprecisioni. «Eppure - interrompe Di Fiore - la galleria inesistente mi insegnò molto. Per ogni nostra azione discutevamo mesi interi. Quando decidemmo di porre tra piazza Vittoria e la Casina Pompeiana un lungo filo, come un nuovo orizzonte, facemmo centinaia di calcoli, anche di carattere fisico e balistico. Alla fine scartammo l´idea di stendere un filo d´acciaio e decidemmo di mettere un filo di cotone… Di cotone verde. E qui torna l´idea dell´effimero: tutto non durò che una decina di minuti, poiché, dopo tanta fatica, un colpo di vento spezzò il cotone e quindi il nostro orizzonte virtuale, costato mesi di discussioni, finì prima che potessimo almeno fotografarlo. «Non è un caso se ancora oggi nelle sculture di gommapiuma di Di Fiore si ritrovano dei fili di cotone colorato. Le mie sculture, friabili e sottoposte all´azione logorante del tempo come la vita stessa, sono ottenute con ago e filo. La gommapiuma viene plasmata intorno a piccoli sostegni e poi i volumi e le forme vengono ottenute tagliando e cucendo. Ed è un´esperienza interessante, poiché mentre un volto si forma, posso vedere Fidia, Donatello, Picasso e decidere che fisionomia dare alla mia scultura, come se sfogliassi un libro di storia dell´arte o come se rileggessi le parole del piccolo Budda nel Siddharta. In ogni uomo ci sono più uomini: il saggio e lo stolto, lo sfregiato e l´assassino…».
Oggi Ruotolo continua a dipingere ed a rappresentare come atto esperenziale, rapporto empatico con il mondo. I titoli delle sue opere, si riferiscano alla Shoah o alla guerra in Iraq, adottano come prassi creativa lo slogan politico, il titolo cronachistico, e sciolgono la distinzione tra il raffinato e rigoroso valore formale della composizione e il valore virtuale, allusivo della notizia. In una delle sue ultime opere, "Al Jazeera", lo sconfinamento e l´attraversamento della storia, letta attraverso il televisore, si concretizza in una serie di transistor e di schede di circuiti digitali che annullano ogni soluzione di continuità tra il medium, il suo messaggio e la natura tecnologica che è parte integrante del medium stesso. Stranamente anche Di Fiore dissemina di transistor e di circuiti elettrici il pavimento della sua ultima opera, su cui cammina carponi il suo "Ciber baby", giocando tra creazione e rovina. La natura ibrida delle tecnologie di massa, sono già residuo industriale, ricordo obsoleto del nuovo.
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