venerdì 30 maggio 2003

"la pelle delle immagini", storici, filosofi, artisti

La Stampa Tuttolibri, 24.5.03
Denudarsi significa mettersi in rapporto con l’altro

QUALE può essere il motivo dell'interesse rivolto al tema del nudo, rispettivamente da uno storico dell'arte e da un filosofo? Questa potrebbe la domanda preliminare nell'accostarsi ad un libro di così accattivante fattura come quello scritto da Jean-Luc Nancy insieme a Federico Ferrari: La pelle delle immagini. Lo studioso dei fenomeni artistici comincerà col prendere le distanze dalla concezione del nudo come ideale classico di bellezza, si dimostrerà poi sensibile a nuove prospettive interpretative che pervertono il nudo attraverso l'esperienza della profanazione e dell'abiezione, come è accaduto con la Venere recentemente trasfigurata. Poiché il quadro di Botticelli rimane inalterato, per giustificare tale innovazione critica, egli dovrà ricorrere alla filosofia contemporanea, che non è più quella di Marsilio Ficino, ma quella (tra gli altri) di Sartre, di Lacan, Derrida e infine dello stesso Nancy: il libro si presenta così come una serie di variazioni sul tema portante della filosofia nancyana, cioè quello dell'esistenza come esposizione corporea. Se la peculiarità dell'esistenza è il non avere alcuna essenza, allora il corpo è l'essere dell'esistenza, il luogo del suo accadere, l'apertura, la spaziatura, l'effrazione, l'iscrizione del senso; se l'esistenza appare come un'esposizione corporea, allora il pensiero avrà come oggetto il corpo e l'esperienza del toccare, l'istituzione del senso nell'estensione e vibrazione dei corpi, l'unica evidenza di un logos sensibile: questo pensiero corporante è dunque il risvolto della nudità dell'esistenza, della sua invalicabile finitezza, della sua vulnerabile ostensione, quale scaturisce dall'abbandono dell'essere. Su queste premesse del tutto condivise, i due autori hanno prodotto ventisei variazioni sul tema della nudità, più un preambolo in cui si dice (con un po' di civetteria) che si tratta di una deambulazione oziosa in cui ci si è spogliati di ogni sapere: in effetti il libro ha sì una scansione suggestiva del tutto arbitraria, non argomentativa, ma esprime anche una aristocratica cultura estetica, fin dalla scelta delle immagini, pittoriche o fotografiche, a partire dalle quali, dalla loro pelle, esercitare una inconsueta esegesi. Denudarsi significa esporsi come immagine, trasferire ogni arcana profondità sulla superficie corporea: così come accade con la Betsabea di Rembrandt, la cui intimità è violata dal nostro sguardo mentre medita sul significato di una lettera dal contenuto per noi indecifrabile; il suo essere-in-sé consiste nel suo essere-fuori-di-sé, ex-statico, emblema della nudità che è la pura esposizione della superficie del senso, nella quale si annida anche l'esperienza del dolore, il male che sfigura la bellezza. Già Valéry sosteneva che "la profondità dell'uomo è la sua pelle": l'esperienza della nudità induce ad un sapere della superficie, ad una cognizione dell'immanenza singolare, ad un pensiero della carne finalmente dotato di un attributo relazionale, derivante da una condizione di esistenza condivisa: "Esiste una nudità isolata? La nudità non è un essere, né una qualità, è sempre un rapporto, molteplici rapporti simultanei". Se l'interiorità del soggetto nudo è superficie incarnata, psiche estesa, allora l'esposizione indifesa del corpo è anche la soglia dell'eros, un invito a guardare e a toccare, reciprocamente, a fior di pelle. Paradossale offerta di intimità, mediante un'assoluta esteriorizzazione, attrazione del pudore verso l'oscenità ("la nudità oltre la nudità" - secondo Bataille): l'esposizione allo sguardo altrui, al desidero d'altri, equivale ad una attestazione di esistenza - come aveva già compreso Sartre ne «L'essere e il nulla». Il soggetto: quodlibet ens, essere qualunque, effimera traccia di singolarità, ma capace di incontro, di condivisione affettiva, di provare e offrire piacere, di generare amore. Il libro contiene un implicito elogio della pittura come ambito di pura manifestazione, attraverso preziose letture di Bellini e Pontormo, Bacon e Freud, e dissemina tra le sue pieghe raffinati esercizi di ontologia del con-essere, anche se Heidegger (così insensibile a tematiche inerenti al corpo) sarebbe indubbiamente turbato nel leggere che "l'arte non è una messa in opera della verità, ma la sua messa a nudo". Ma - come suggeriva Rorty - forse Heidegger è l'ultimo esemplare del filosofo come prete ascetico, il cui antidoto è pur sempre il buon Nietzsche, il quale si faceva beffe dell'uomo "ridicolmente vestito di morale", incapace di spogliarsi senza vergogna. Non miglior sorte sembrerebbe toccare ai discepoli di Freud, che considerano ancora l'esibizionismo e il voyeurismo come mete perverse della libido: ora sappiamo che in questo piacere di guardare e di essere guardati è in gioco la possibilità stessa della nostra esistenza.