una segnalazione di Paolo Izzo
Lettere alla Repubblica 14.4.04
Bimbi troppo vivaci?
Arriva lo psicofarmaco
Margherita Pellegrino
Segrate (Milano)
Ho letto che la Commissione del Farmaco ha ammesso al rimborso il Ritalin, che viene usato per il trattamento dell'Attention Deficit Hyperactivity Disorder, cioè disturbo da deficit dell'attenzione e iperattività. Sono un'insegnante, e ho avuto tra le mani il questionario distribuito nelle scuole grazie al quale viene stabilito se l'alunno è affetto da Adhd. Le domande a cui noi insegnanti dovevamo rispondere erano: "Non riesce a concentrarsi, non mantiene a lungo l'attenzione?"; "Si distrae facilmente?"; "Non riesce a stare fermo seduto?"; "È irrequieto, iperattivo?"; "Non porta a termine i giochi?". Sono preoccupata. Ma dove hanno vissuto finora gli psichiatri che hanno scritto il questionario, su Marte? Perché i bambini, i comportamenti di cui sopra, da che mondo è mondo li hanno sempre avuti. Qualsiasi insegnante sa che ci sono alunni che quando non capiscono qualcosa, si distraggono, si alzano e fanno qualcos'altro. Di bambini vivaci, ora definiti "iperattivi", nelle scuole italiane ce ne sono sempre stati. I bambini che trent'anni fa gli psichiatri avrebbero etichettato come affetti da "deficit di attenzione e iperattività" oggi sono artisti, operai, politici, insegnanti, commercianti, giornalisti, gente che manda avanti la società. Capisco che gli psichiatri devono procacciarsi nuovi clienti e le case farmaceutiche trovare a chi vendere psicofarmaci, ma per favore, che stiano lontani dai bambini.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
mercoledì 14 aprile 2004
neuroscienze americane: lobi e genialità
Eco di Bergamo 14.4.04
Il lampo di genio si accende nel lobo destro del cervello
Il lampo di genio è di casa nel cervello ed ora è stata localizzata l'area in cui si accende la famosa lampadina, quella che ha portato alcuni grandi della scienza a invenzioni o scoperte importantissime, e che aiuta tutti noi a risolvere in un batter d'occhio grattacapi impossibili.
La lampadina si trova nel lobo temporale destro, svelano sulla rivista PLoS Biology Mark Jung-Beeman ed Edward Bowden delle Northwestern University e John Kounios della Drexel University, dove, senza che noi ce ne rendiamo conto, le informazioni a disposizione per risolvere un certo dilemma sono rielaborate in modo nuovo e la nostra confusione prende forma d'un tratto trasformandosi nella soluzione agognata. A noi arriva solo il risultato intuitivo, come se venisse da lontano, improvviso. Secondo gli scienziati la scoperta è importante non solo perchè aiuta a collocare i centri nervosi dell'intuizione ma anche perchè la natura di quest'area potrebbe essere alla base delle differenze individuali nell'intuito. «Per tanto tempo si è detto che l'intuizione è qualcosa di diverso dal risolvere linearmente un problema - ha commentato Jung-Beeman - noi crediamo questa sia la prima ricerca che mostri differenze nei meccanismi neurali che conducono a scoperte decisive».
La scoperta delle basi neurali dell'intuizione deriva da una doppia serie di esperimenti condotti dagli scienziati su alcune persone che dovevano risolvere dei «dispettosi» giochi di parole creati ad hoc per risvegliare il loro intuito. Dovevano leggere tre parole e pensarne una quarta che con tutte e tre potesse formare un vocabolo composto. E dovevano dire quando sentivano che l'intuizione fosse andata loro in aiuto, quando no. Nel frattempo gli scienziati misuravano l'attività cerebrale dei soggetti con la risonanza magnetica funzionale, una specie di telecamera che «spia» il cervello in funzione e rileva le aree in attività. Così hanno visto che in concomitanza con il saltar fuori di soluzioni intuitive una ristretta parte del lobo temporale destro, il «giro temporale anteriore superiore», è più attiva rispetto a quando la soluzione viene senza accendere la lampadina.
In un secondo tempo invece hanno usato un elettroencefalogramma per vedere a che tipo di onde elettriche corrispondesse l'uso dell'intuito. Circa un terzo di secondo prima che la lampadina si accenda l'apparecchio registra, un fortissimo aumento di onde nella banda gamma, cioè ad alta frequenza, proprio nell'area scoperta con la risonanza. Queste onde riflettono la messa in atto di un processo di elaborazione cognitiva complessa. Inoltre in un'altra regione, la corteccia posteriore destra, circa un secondo e mezzo prima dell'arrivo della soluzione intuitiva si ha un forte aumento di onde a bassa frequenza, o in banda alfa, legate a stato di rilassamento o riposo della mente. Queste cessano proprio quando iniziano dall'altra parte le gamma, precisano gli esperti, facendo pensare che ci sia un momento in cui il cervello si svuota spianando la via all'intuito, come se a un certo punto noi chiudessimo gli occhi e semplicemente aspettassimo l'arrivo da lontano della risposta a lungo cercata.
Quando tentiamo di ricordare una cosa, un nome, oppure quando cerchiamo la soluzione a un problema complesso, dopo aver provato in mille modi per ore, ci arrendiamo, arrivando ad un momento di impasse. Dopodiché, se siamo abbastanza intuitivi, la nebbia in un instante si dirada e, voilà, ecco la soluzione.
Il lampo di genio si accende nel lobo destro del cervello
Il lampo di genio è di casa nel cervello ed ora è stata localizzata l'area in cui si accende la famosa lampadina, quella che ha portato alcuni grandi della scienza a invenzioni o scoperte importantissime, e che aiuta tutti noi a risolvere in un batter d'occhio grattacapi impossibili.
La lampadina si trova nel lobo temporale destro, svelano sulla rivista PLoS Biology Mark Jung-Beeman ed Edward Bowden delle Northwestern University e John Kounios della Drexel University, dove, senza che noi ce ne rendiamo conto, le informazioni a disposizione per risolvere un certo dilemma sono rielaborate in modo nuovo e la nostra confusione prende forma d'un tratto trasformandosi nella soluzione agognata. A noi arriva solo il risultato intuitivo, come se venisse da lontano, improvviso. Secondo gli scienziati la scoperta è importante non solo perchè aiuta a collocare i centri nervosi dell'intuizione ma anche perchè la natura di quest'area potrebbe essere alla base delle differenze individuali nell'intuito. «Per tanto tempo si è detto che l'intuizione è qualcosa di diverso dal risolvere linearmente un problema - ha commentato Jung-Beeman - noi crediamo questa sia la prima ricerca che mostri differenze nei meccanismi neurali che conducono a scoperte decisive».
La scoperta delle basi neurali dell'intuizione deriva da una doppia serie di esperimenti condotti dagli scienziati su alcune persone che dovevano risolvere dei «dispettosi» giochi di parole creati ad hoc per risvegliare il loro intuito. Dovevano leggere tre parole e pensarne una quarta che con tutte e tre potesse formare un vocabolo composto. E dovevano dire quando sentivano che l'intuizione fosse andata loro in aiuto, quando no. Nel frattempo gli scienziati misuravano l'attività cerebrale dei soggetti con la risonanza magnetica funzionale, una specie di telecamera che «spia» il cervello in funzione e rileva le aree in attività. Così hanno visto che in concomitanza con il saltar fuori di soluzioni intuitive una ristretta parte del lobo temporale destro, il «giro temporale anteriore superiore», è più attiva rispetto a quando la soluzione viene senza accendere la lampadina.
In un secondo tempo invece hanno usato un elettroencefalogramma per vedere a che tipo di onde elettriche corrispondesse l'uso dell'intuito. Circa un terzo di secondo prima che la lampadina si accenda l'apparecchio registra, un fortissimo aumento di onde nella banda gamma, cioè ad alta frequenza, proprio nell'area scoperta con la risonanza. Queste onde riflettono la messa in atto di un processo di elaborazione cognitiva complessa. Inoltre in un'altra regione, la corteccia posteriore destra, circa un secondo e mezzo prima dell'arrivo della soluzione intuitiva si ha un forte aumento di onde a bassa frequenza, o in banda alfa, legate a stato di rilassamento o riposo della mente. Queste cessano proprio quando iniziano dall'altra parte le gamma, precisano gli esperti, facendo pensare che ci sia un momento in cui il cervello si svuota spianando la via all'intuito, come se a un certo punto noi chiudessimo gli occhi e semplicemente aspettassimo l'arrivo da lontano della risposta a lungo cercata.
Quando tentiamo di ricordare una cosa, un nome, oppure quando cerchiamo la soluzione a un problema complesso, dopo aver provato in mille modi per ore, ci arrendiamo, arrivando ad un momento di impasse. Dopodiché, se siamo abbastanza intuitivi, la nebbia in un instante si dirada e, voilà, ecco la soluzione.
attacchi di panico
Gazzetta di Parma 14.4.04
Il problema viene analizzato in un saggio di Francesco Rovetto, docente del nostro Ateneo
Baratri di paura
Attacchi di panico, una patologia che può essere vinta
di Francesca Avanzini
La prima volta ti coglie del tutto di sorpresa: stai percorrendo a piedi la strada di casa, oppure, pigiato in metropolitana, vedi scorrere le note stazioni, quando la gola ti si chiude, ti sembra di non riuscire più a respirare e il cuore prende a batterti furiosamente. Tutto quanto intorno a te subisce una vaga distorsione, la gente sembra fissarti con stupore o, peggio, con riprovazione, ci siamo, pensi, sto per impazzire, adesso cado, svengo, mi metto a straparlare.
Così, alla prima fermata - non la tua - scendi a precipizio e ti lanci su per le scale come inseguito da un dobermann in cerca di aria, di salvezza. E man mano che il cuore si quieta e la mente si snebbia, ti chiedi con preoccupazione che cosa ti sia successo, se una minaccia di infarto, le avvisaglie di un ictus o i prodromi della pazzia.
Niente di tutto questo, è «solo» panico, un disturbo che colpisce un numero sempre maggiore di persone e che, se dimostra una lieve preferenza per le donne, non trascura uomini grandi e grossi all'apparenza timorosi di niente. Per tutti questi la vita diventa a poco a poco un percorso a ostacoli, anzi, a imbuto, perché a forza di evitare situazioni - la metropolitana, l'autobus, i luoghi aperti o affollati, l'autostrada - ci si riduce rannicchiati nell'ultimo angolo di casa. E neanche lì si è sicuri al cento per cento: l'attacco di panico può infatti cogliere subdolo proprio nell'attimo in cui, per vari motivi, non è possibile comunicare con nessuno. Oltre al fatto che il cervello di chi soffre di panico si mette in trappola da sé, sempre all'erta a spiare i minimi sintomi del corpo e a interpretarli in senso catastrofico o ad anticipare sensazioni sgradevoli.
Ad avere, in poche parole, paura della paura. Ma come uscire dal circolo vizioso? Esiste una cura, un rimedio una soluzione? E che origine ha il panico? Come può una reazione come la paura, così vitale per la sopravvivenza, incepparsi e diventare abnorme, scattare anche quando niente nell'ambiente circostante la giustifica?
A questa e a numerosissime altre domande risponde il volume «Panico» (collana Psicologia McGraw-Hill, pagg.578, euro 32), scritto da Francesco Rovetto, docente di Psicologia Clinica presso l'Università di Parma, che si è avvalso della collaborazione di un manipolo di illustri colleghi psicologi e psicoterapeuti per fornire una panoramica a 360 gradi del fenomeno panico e delle sue implicazioni.
Ma prima di addentrasi in una qualunque descrizione del libro, occorre premettere che non si tratta di un manuale di auto-aiuto - anche se nel cap.10 viene fornita una lista di libri di self help che affrontano il problema non solo dal punto di vista pratico ma anche da quello più largamente esistenziale del panico come condizione umana - e nemmeno di facile divulgazione.
Si tratta di un saggio documentatissimo ed esauriente, rivolto in particolar modo (ma non solo) a esperti del settore, che riserva al problema un approccio scientifico e che, in 20 capitoli, affronta ogni possibile aspetto del panico, dall'origine risalente in genere a esperienze infantili di abbandono, alla recrudescenza in occasione di recenti abbandoni, al manifestarsi in seguito a particolare stress, assunzione di farmaci e sostanze o talvolta persino in caso di dieta. La buona notizia, però, è che dal panico si guarisce con molta più frequenza di quanto ci si potrebbe aspettare, grazie a terapie mirate che prevedono a seconda dei casi l'uso di psicoterapia, la «riprogrammazione» in senso meno angoscioso delle proprie aspettative e sensazioni e anche l'uso di farmaci.
Nel libro vengono presi in esame i più recenti metodi curativi, dall'approccio cognitivo a quello psicoanalitico, all'ipnosi, ai gruppi di auto aiuto e persino all'uso di Internet e della realtà virtuale, vengono forniti esempi di test atti a valutare e misurare il panico e stralci di sedute con pazienti afflitti dal problema.
Inutile dunque rimpiangere tempi in cui si era tutti più vicini e solidali, in cui grandi teorie o religioni si facevano carico di ogni bisogno umano e consolavano dalle paure: anche quei tempi, a ben guardare, non erano esenti da terrori magari espressi in altri modi. E se si può sempre tentare di riallacciare rapporti umani più caldi, niente impedisce nel frattempo di curarsi con gli ultimi ritrovati della scienza.
Gazzetta di Parma 14.4.04
Parla l'autore del volume. Lo studioso insegna psicologia clinica
Vivere col fiato sospeso
«Ma la guarigione è completa nell'ottanta per cento dei casi»
di F. A.
Per prima cosa si vorrebbe sapere se di panico si guarisce, e se la guarigione è certa. «Nell'ottanta per cento dei casi la guarigione è completa», conferma il professor Rovetto, «se in questo si include anche un certo numero di soggetti, diciamo un 20%, per i quali permane un leggero stato ansioso, ma le cui condizioni di vita sono largamente accettabili. Persone che magari, all'occasione, preferiranno far guidare la macchina ad altri o che prenderanno l'aereo con qualche apprensione, ma che sostanzialmente non hanno limiti nella loro vita. Incide poi anche il carattere, c'è chi nasce fifone e chi spavaldo, e su questo dato di base non si può intervenire».
Mentre il restante 20% è irrecuperabile…
«Esistono anche persone che non vogliono guarire perché, ad esempio, senza problemi si ritengono persone da poco, o altre per cui l'attacco di panico è strumentale. Lo studente che è troppo spaventato davanti agli esami universitari, finché non li affronta può ritenersi uno da 30 e lode, affrontandoli potrebbe scoprire di essere da 28... C'è una forte immagine di sé in tanti casi. La malattia è a volte anche un equilibrio utile. La moglie molto possessiva può trovare comodo che il marito la accompagni ovunque, al supermarket come dal parrucchiere, e viceversa al marito molto geloso può far comodo una moglie murata in casa. C'è poi chi non guarisce per cause organiche. L'attacco di panico è piuttosto comune tra i diabetici, può essere causato da ipotensione ortostatica o da altri disturbi ancora. L'asma ad esempio è una delle patologie più facilmente associabili al disturbo da panico».
Escluse le cause organiche, si potrebbe pensare che il panico colpisca individui particolarmente timidi o introversi?
«Più che di timidezza si tratta di rigidità. Il panico capita a persone perfezioniste, che vogliono avere tutto sotto controllo. Non fanno prorompere le emozioni, sono spesso bloccate anche sul piano affettivo o relazionale, così l'attacco di panico è l'unica occasione per sentirsi vivi. Non accettano rischi, mentre vivere significa rischiare. Tutto è a rischio, persino ogni gravidanza, a ben pensarci».
Ha a che fare, tutto questo, con quella modalità «tutto o niente» di cui si parla nel libro?
«Questi pazienti non accettano le sfumature. Per esempio, o stanno bene o stanno male, anzi malissimo, così bisogna insegnar loro a convivere con i piccoli problemi che tutti hanno quotidianamente. Non è detto che un po' di vertigini degenerino necessariamente in panico, o che se si sbaglia un dettaglio tutto vada a monte».
Eppure una volta la gente non sembrava afflitta da questi problemi. O forse c'erano ma si esprimevano in altri modi?
«Un tempo si aveva paura di cose concrete, perché si vedeva un leone. Ora si ha terrore di cose simboliche, e questo estende il dominio della paura. Una volta poi i destini erano rigidamente codificati, il figlio del contadino non poteva aspirare a molto altro che a fare il contadino, e la figlia del conte non poteva certo pensare ad aprire una pasticceria. Ora si è soli di fronte alle scelte, di fronte al baratro. Il panico è una malattia di solitudine e di libertà, tanto che l'attacco di panico potrebbe definirsi un attacco acuto di solitudine».
Non avrà per caso a che fare con la depressione, il grande ombrello sotto il quale si rifugiano tutti i malesseri moderni?
«Se il panico si associa con un momento di depressione i sintomi vengono ingigantiti, e spesso occorre uno stato di depressione per scatenarlo».
Il problema viene analizzato in un saggio di Francesco Rovetto, docente del nostro Ateneo
Baratri di paura
Attacchi di panico, una patologia che può essere vinta
di Francesca Avanzini
La prima volta ti coglie del tutto di sorpresa: stai percorrendo a piedi la strada di casa, oppure, pigiato in metropolitana, vedi scorrere le note stazioni, quando la gola ti si chiude, ti sembra di non riuscire più a respirare e il cuore prende a batterti furiosamente. Tutto quanto intorno a te subisce una vaga distorsione, la gente sembra fissarti con stupore o, peggio, con riprovazione, ci siamo, pensi, sto per impazzire, adesso cado, svengo, mi metto a straparlare.
Così, alla prima fermata - non la tua - scendi a precipizio e ti lanci su per le scale come inseguito da un dobermann in cerca di aria, di salvezza. E man mano che il cuore si quieta e la mente si snebbia, ti chiedi con preoccupazione che cosa ti sia successo, se una minaccia di infarto, le avvisaglie di un ictus o i prodromi della pazzia.
Niente di tutto questo, è «solo» panico, un disturbo che colpisce un numero sempre maggiore di persone e che, se dimostra una lieve preferenza per le donne, non trascura uomini grandi e grossi all'apparenza timorosi di niente. Per tutti questi la vita diventa a poco a poco un percorso a ostacoli, anzi, a imbuto, perché a forza di evitare situazioni - la metropolitana, l'autobus, i luoghi aperti o affollati, l'autostrada - ci si riduce rannicchiati nell'ultimo angolo di casa. E neanche lì si è sicuri al cento per cento: l'attacco di panico può infatti cogliere subdolo proprio nell'attimo in cui, per vari motivi, non è possibile comunicare con nessuno. Oltre al fatto che il cervello di chi soffre di panico si mette in trappola da sé, sempre all'erta a spiare i minimi sintomi del corpo e a interpretarli in senso catastrofico o ad anticipare sensazioni sgradevoli.
Ad avere, in poche parole, paura della paura. Ma come uscire dal circolo vizioso? Esiste una cura, un rimedio una soluzione? E che origine ha il panico? Come può una reazione come la paura, così vitale per la sopravvivenza, incepparsi e diventare abnorme, scattare anche quando niente nell'ambiente circostante la giustifica?
A questa e a numerosissime altre domande risponde il volume «Panico» (collana Psicologia McGraw-Hill, pagg.578, euro 32), scritto da Francesco Rovetto, docente di Psicologia Clinica presso l'Università di Parma, che si è avvalso della collaborazione di un manipolo di illustri colleghi psicologi e psicoterapeuti per fornire una panoramica a 360 gradi del fenomeno panico e delle sue implicazioni.
Ma prima di addentrasi in una qualunque descrizione del libro, occorre premettere che non si tratta di un manuale di auto-aiuto - anche se nel cap.10 viene fornita una lista di libri di self help che affrontano il problema non solo dal punto di vista pratico ma anche da quello più largamente esistenziale del panico come condizione umana - e nemmeno di facile divulgazione.
Si tratta di un saggio documentatissimo ed esauriente, rivolto in particolar modo (ma non solo) a esperti del settore, che riserva al problema un approccio scientifico e che, in 20 capitoli, affronta ogni possibile aspetto del panico, dall'origine risalente in genere a esperienze infantili di abbandono, alla recrudescenza in occasione di recenti abbandoni, al manifestarsi in seguito a particolare stress, assunzione di farmaci e sostanze o talvolta persino in caso di dieta. La buona notizia, però, è che dal panico si guarisce con molta più frequenza di quanto ci si potrebbe aspettare, grazie a terapie mirate che prevedono a seconda dei casi l'uso di psicoterapia, la «riprogrammazione» in senso meno angoscioso delle proprie aspettative e sensazioni e anche l'uso di farmaci.
Nel libro vengono presi in esame i più recenti metodi curativi, dall'approccio cognitivo a quello psicoanalitico, all'ipnosi, ai gruppi di auto aiuto e persino all'uso di Internet e della realtà virtuale, vengono forniti esempi di test atti a valutare e misurare il panico e stralci di sedute con pazienti afflitti dal problema.
Inutile dunque rimpiangere tempi in cui si era tutti più vicini e solidali, in cui grandi teorie o religioni si facevano carico di ogni bisogno umano e consolavano dalle paure: anche quei tempi, a ben guardare, non erano esenti da terrori magari espressi in altri modi. E se si può sempre tentare di riallacciare rapporti umani più caldi, niente impedisce nel frattempo di curarsi con gli ultimi ritrovati della scienza.
Gazzetta di Parma 14.4.04
Parla l'autore del volume. Lo studioso insegna psicologia clinica
Vivere col fiato sospeso
«Ma la guarigione è completa nell'ottanta per cento dei casi»
di F. A.
Per prima cosa si vorrebbe sapere se di panico si guarisce, e se la guarigione è certa. «Nell'ottanta per cento dei casi la guarigione è completa», conferma il professor Rovetto, «se in questo si include anche un certo numero di soggetti, diciamo un 20%, per i quali permane un leggero stato ansioso, ma le cui condizioni di vita sono largamente accettabili. Persone che magari, all'occasione, preferiranno far guidare la macchina ad altri o che prenderanno l'aereo con qualche apprensione, ma che sostanzialmente non hanno limiti nella loro vita. Incide poi anche il carattere, c'è chi nasce fifone e chi spavaldo, e su questo dato di base non si può intervenire».
Mentre il restante 20% è irrecuperabile…
«Esistono anche persone che non vogliono guarire perché, ad esempio, senza problemi si ritengono persone da poco, o altre per cui l'attacco di panico è strumentale. Lo studente che è troppo spaventato davanti agli esami universitari, finché non li affronta può ritenersi uno da 30 e lode, affrontandoli potrebbe scoprire di essere da 28... C'è una forte immagine di sé in tanti casi. La malattia è a volte anche un equilibrio utile. La moglie molto possessiva può trovare comodo che il marito la accompagni ovunque, al supermarket come dal parrucchiere, e viceversa al marito molto geloso può far comodo una moglie murata in casa. C'è poi chi non guarisce per cause organiche. L'attacco di panico è piuttosto comune tra i diabetici, può essere causato da ipotensione ortostatica o da altri disturbi ancora. L'asma ad esempio è una delle patologie più facilmente associabili al disturbo da panico».
Escluse le cause organiche, si potrebbe pensare che il panico colpisca individui particolarmente timidi o introversi?
«Più che di timidezza si tratta di rigidità. Il panico capita a persone perfezioniste, che vogliono avere tutto sotto controllo. Non fanno prorompere le emozioni, sono spesso bloccate anche sul piano affettivo o relazionale, così l'attacco di panico è l'unica occasione per sentirsi vivi. Non accettano rischi, mentre vivere significa rischiare. Tutto è a rischio, persino ogni gravidanza, a ben pensarci».
Ha a che fare, tutto questo, con quella modalità «tutto o niente» di cui si parla nel libro?
«Questi pazienti non accettano le sfumature. Per esempio, o stanno bene o stanno male, anzi malissimo, così bisogna insegnar loro a convivere con i piccoli problemi che tutti hanno quotidianamente. Non è detto che un po' di vertigini degenerino necessariamente in panico, o che se si sbaglia un dettaglio tutto vada a monte».
Eppure una volta la gente non sembrava afflitta da questi problemi. O forse c'erano ma si esprimevano in altri modi?
«Un tempo si aveva paura di cose concrete, perché si vedeva un leone. Ora si ha terrore di cose simboliche, e questo estende il dominio della paura. Una volta poi i destini erano rigidamente codificati, il figlio del contadino non poteva aspirare a molto altro che a fare il contadino, e la figlia del conte non poteva certo pensare ad aprire una pasticceria. Ora si è soli di fronte alle scelte, di fronte al baratro. Il panico è una malattia di solitudine e di libertà, tanto che l'attacco di panico potrebbe definirsi un attacco acuto di solitudine».
Non avrà per caso a che fare con la depressione, il grande ombrello sotto il quale si rifugiano tutti i malesseri moderni?
«Se il panico si associa con un momento di depressione i sintomi vengono ingigantiti, e spesso occorre uno stato di depressione per scatenarlo».
Vittorio Storaro: le immagini
L'Arena 14.4.04
Incontro con l’autore della fotografia, a Verona per la sua mostra di immagini in occasione del festival «Schermi d’Amore»: «La posizione giusta davanti ad un’opera è la propria»
Vittorio Storaro: sono un visionario
«Vedo le cose al di fuori di ciò che mi è di fronte». Il micro e macro cosmo
di Simone Azzoni
Verona . S'aggira nella mostra «Scrivere con la Luce», a Verona alla Gran Guardia in anteprima mondiale fino al 6 maggio, in occasione del festival «Schermi d’Amore» che si terrà dal 16 al 25 aprile. Sembra un turista pignolo e attento ma è l'autore della fotografia Vittorio Storaro, tre premi Oscar per Apocalypse Now , L'ultimo imperatore e Reds . Cento immagini fotografiche selezionate da oltre quaranta film della sua carriera. Sono su cavalletti disegnati dalla figlia Francesca. - Perché non ha utilizzato i muri?
«Per stabilire un continuum con la pittura. La fotografia ha portato avanti infatti la visione attraverso la captazione delle immagini, ha proseguito cioè gli intenti grafici sul piano moderno. La radice è la stessa, per mostrarla ho pure incollato le foto su supporti pittorici».
- Perché usa la parola visionario parlando di sé?
«Visionario è il nome del cavalletto che è fatto a forma di "V". Ma visionario è qualcuno che prevede, qualcuno che ha una visione, che vede al di là di ciò che gli è posto di fronte e che potrebbe toccar con la mano, lo tocca con la preveggenza, fantasia e immaginazione. Non chiudo mai ciò che si vede in un punto, ma scelgo un proseguimento, un vedere attraverso. Non dò mai un termine. Mi piace dire che sono colui che vede le cose al di fuori di ciò che mi è di fronte. Chi si esprime con l'espressione visiva deve dover essere un visionario».
- Ma lei a quale punto di vista ci costringe. Dov'è chi guarda le sue inquadrature? Coincide con lei che le ha girate? È dentro l'immagine? Dov'è?
«Non so se c'è un punto di vista che deve coincidere con il punto di vista dell'autore. Platone diceva che la visione è un incontro tra l'immagine riflessa dell'oggetto e l'energia che esce dagli occhi che s'incontra. Sono due forze e da quest'incontro nasce una vibrazione che va a stampare questa visione nell'occhio dell'umano. C'è l'immagine riflessa dai corpi ma anche la nostra fantasia, la nostra psicologia, il nostro essere. Di fronte alla stessa immagine io e lei vediamo due cose diverse. Luci, colori li vediamo in modo individuale e personale, diamo a loro simboli personali. La posizione giusta davanti ad un'opera è dunque la propria. L'ultimo co-autore dell'opera cinematografica è lo spettatore diceva Bertolucci».
- Quali dei mezzi tecnici che lei utilizza, quali forme della disciplina fotografica diventano contenuto?
«Credo di utilizzare soprattutto il confronto tra la figura e il dettaglio. Il micro e il macro cosmo. Ma guardi non sono un buon fotografo. Io sono stato educato ad esprimermi in un tempo ed in una successione di immagine, ho bisogno di due immagini per potermi esprimere. Anche in questa mostra le immagini sono legate ad un dialogo, ad un conflitto tra due punti diversi, tra foto e cinema. Rapporti tra caratteri, parti del corpo e paesaggio, devo poter mettere in movimento e in dialogo una cosa con un'altra».
- Cosa c'è prima e dopo una immagine fissata dalla macchina da presa, dove va la realtà?
«Problema che tutti abbiamo come artisti. Viviamo la creazione e non la via reale, tendiamo a fissare le cose in un prodotto artistico. La vita che abbiamo di fronte tendiamo ad interpretarla. Usiamo l'inconscio perché esso si esprime con simboli e quindi con essi troviamo le risposte alle nostre domande. Così cerco un equilibrio tra due elementi opposti, corpi diversi. I momenti vanno vissuti non è importante se riusciamo a fissarli».
- Parla di equilibri. Qual è l'equilibrio tra la luce e l'ombra? Che lei usa in chiave metaforica...
«La penombra se lei mi chiede della vita in cui stiamo vivendo. Il tutto e il nulla, l'uomo e la donna, il conscio e l'inconscio. Nella vita filosofica dovrebbe essere l'illuminazione dell'ombra, chiarire le nostre domande, silenzi e dubbi. Nella vita artistica sono i colori, i figli della luce e dell'ombra. Con tutta luce c'è il bianco quando manca c'è il nero».
- La definizione di espressionista della luce le dà fastidio?
«No, perché marca in modo forte il conflitto tra luce e ombra per poterla far divenire espressione, che dica qualcosa di molto preciso, una denuncia di uno stato di disarmonia, di qualcosa che tramite lo scontro può cambiare uno stato della vita».
Incontro con l’autore della fotografia, a Verona per la sua mostra di immagini in occasione del festival «Schermi d’Amore»: «La posizione giusta davanti ad un’opera è la propria»
Vittorio Storaro: sono un visionario
«Vedo le cose al di fuori di ciò che mi è di fronte». Il micro e macro cosmo
di Simone Azzoni
Verona . S'aggira nella mostra «Scrivere con la Luce», a Verona alla Gran Guardia in anteprima mondiale fino al 6 maggio, in occasione del festival «Schermi d’Amore» che si terrà dal 16 al 25 aprile. Sembra un turista pignolo e attento ma è l'autore della fotografia Vittorio Storaro, tre premi Oscar per Apocalypse Now , L'ultimo imperatore e Reds . Cento immagini fotografiche selezionate da oltre quaranta film della sua carriera. Sono su cavalletti disegnati dalla figlia Francesca. - Perché non ha utilizzato i muri?
«Per stabilire un continuum con la pittura. La fotografia ha portato avanti infatti la visione attraverso la captazione delle immagini, ha proseguito cioè gli intenti grafici sul piano moderno. La radice è la stessa, per mostrarla ho pure incollato le foto su supporti pittorici».
- Perché usa la parola visionario parlando di sé?
«Visionario è il nome del cavalletto che è fatto a forma di "V". Ma visionario è qualcuno che prevede, qualcuno che ha una visione, che vede al di là di ciò che gli è posto di fronte e che potrebbe toccar con la mano, lo tocca con la preveggenza, fantasia e immaginazione. Non chiudo mai ciò che si vede in un punto, ma scelgo un proseguimento, un vedere attraverso. Non dò mai un termine. Mi piace dire che sono colui che vede le cose al di fuori di ciò che mi è di fronte. Chi si esprime con l'espressione visiva deve dover essere un visionario».
- Ma lei a quale punto di vista ci costringe. Dov'è chi guarda le sue inquadrature? Coincide con lei che le ha girate? È dentro l'immagine? Dov'è?
«Non so se c'è un punto di vista che deve coincidere con il punto di vista dell'autore. Platone diceva che la visione è un incontro tra l'immagine riflessa dell'oggetto e l'energia che esce dagli occhi che s'incontra. Sono due forze e da quest'incontro nasce una vibrazione che va a stampare questa visione nell'occhio dell'umano. C'è l'immagine riflessa dai corpi ma anche la nostra fantasia, la nostra psicologia, il nostro essere. Di fronte alla stessa immagine io e lei vediamo due cose diverse. Luci, colori li vediamo in modo individuale e personale, diamo a loro simboli personali. La posizione giusta davanti ad un'opera è dunque la propria. L'ultimo co-autore dell'opera cinematografica è lo spettatore diceva Bertolucci».
- Quali dei mezzi tecnici che lei utilizza, quali forme della disciplina fotografica diventano contenuto?
«Credo di utilizzare soprattutto il confronto tra la figura e il dettaglio. Il micro e il macro cosmo. Ma guardi non sono un buon fotografo. Io sono stato educato ad esprimermi in un tempo ed in una successione di immagine, ho bisogno di due immagini per potermi esprimere. Anche in questa mostra le immagini sono legate ad un dialogo, ad un conflitto tra due punti diversi, tra foto e cinema. Rapporti tra caratteri, parti del corpo e paesaggio, devo poter mettere in movimento e in dialogo una cosa con un'altra».
- Cosa c'è prima e dopo una immagine fissata dalla macchina da presa, dove va la realtà?
«Problema che tutti abbiamo come artisti. Viviamo la creazione e non la via reale, tendiamo a fissare le cose in un prodotto artistico. La vita che abbiamo di fronte tendiamo ad interpretarla. Usiamo l'inconscio perché esso si esprime con simboli e quindi con essi troviamo le risposte alle nostre domande. Così cerco un equilibrio tra due elementi opposti, corpi diversi. I momenti vanno vissuti non è importante se riusciamo a fissarli».
- Parla di equilibri. Qual è l'equilibrio tra la luce e l'ombra? Che lei usa in chiave metaforica...
«La penombra se lei mi chiede della vita in cui stiamo vivendo. Il tutto e il nulla, l'uomo e la donna, il conscio e l'inconscio. Nella vita filosofica dovrebbe essere l'illuminazione dell'ombra, chiarire le nostre domande, silenzi e dubbi. Nella vita artistica sono i colori, i figli della luce e dell'ombra. Con tutta luce c'è il bianco quando manca c'è il nero».
- La definizione di espressionista della luce le dà fastidio?
«No, perché marca in modo forte il conflitto tra luce e ombra per poterla far divenire espressione, che dica qualcosa di molto preciso, una denuncia di uno stato di disarmonia, di qualcosa che tramite lo scontro può cambiare uno stato della vita».
quasi un minore di 14 anni su 10, in Italia, è costretto a lavorare
(nel mondo 1 su 6)
Corriere della Sera 14.4.04
Il 57% nel commercio, il 30% nell'artigianato e l'11% nell'edilizia
Cgil: in Italia lavorano 400 mila minori
In 40 mila per più di otto ore. Nel mondo lavora un bambino su 6, da noi quasi 1 su 10. Per l'Istat invece sono solo uno su 30
ROMA - Sono 400 mila in Italia i minori che lavorano. Un piccolo esercito tra i 7 e i 14 anni che vengono impiegati nei lavori più diversi: il 57% nel commercio, il 30% nell'artigianato e l'11% nell'edilizia ma anche nella cura della famiglia per lavori stagionali o continuativi. Tra i 400 mila minori sono inclusi i bambini figli di immigrati e i circa 30-35 mila minori non accompagnati entrati clandestinamente in Italia. Sono 70 mila gli adolescenti che lavorano più di quattro ore al giorno. Di questi almeno 40 mila ne lavorano almeno più di otto ore. È questa la fotografia presentata oggi dall'Ires e dalla Cgil sul lavoro minorile in Italia.
UN BAMBINO SU SEI - Una fotografia impietosa che si rispecchia nei dati mondiali forniti dall'Ilo e dall'Ipec secondo cui sono 250 milioni i bambini che lavorano, come a dire un bambino su sei (127 milioni in Asia, 61 milioni in Africa e Medio Oriente e 5 milioni nei Paesi industrializzati ed Est Europa), 73 milioni dei quali non hanno ancora compiuto 10 anni.
In Italia i minori compresi tra 7 e 14 anni sono complessivamente 4,5 milioni ma 1,7 milioni vivono sotto la soglia di povertà. Di questi, dunque, 360-400 mila, l'8-9%, sono coinvolti in forme di lavoro precoce. Un dato che stride con quello ufficiale dell'Istat secondo cui sono 144 mila (il 3,2%) i minori che lavorano.
I piccoli sono impiegati nel 50% in aiuti familiari; nel 32% in lavori stagionali e nel 17,5% dei casi (70 mila) in lavori continuativi. Di questi ultimi circa 40 mila (oltre il 50%) lavora per 8 ore o più al giorno per una retribuzione che si attesta tra i 200 e i 500 euro al mese. Per gli altri l'orario di lavoro oscilla tra meno di 4 ore (l'11%) e le 4-7 ore (il 23%). A Milano, Roma e Napoli l'Ires ne ha censiti 26 mila su 846.640 minori, di cui il 3,7% è al di sotto dei 13 anni e l'11,6% ha 14 anni.
FENOMENO IN CRESCITA - Secondo il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, il lavoro minorile in Italia «è destinato a crescere», per tre motivi: «aumento delle aree di povertà e di emarginazione; aumento del lavoro irregolare e clandestino, soprattutto degli immigrati; dispersione e abbandono scolastico, fenomeni in aumento». A quest'ultimo proposito l'Ires ricorda che in base alle leggi vigenti chi non rispetta l'obbligo della frequenza scolastica dei figli non va più in carcere, ma è punito con una multa di 67 mila lire.
Secondo la Cgil, che riassume in 15 punti le cose da fare per invertire la tendenza, «gli investimenti necessari per affrontare i problemi dei minori che lavorano sono pari a un punto percentuale del pil».
Il 57% nel commercio, il 30% nell'artigianato e l'11% nell'edilizia
Cgil: in Italia lavorano 400 mila minori
In 40 mila per più di otto ore. Nel mondo lavora un bambino su 6, da noi quasi 1 su 10. Per l'Istat invece sono solo uno su 30
ROMA - Sono 400 mila in Italia i minori che lavorano. Un piccolo esercito tra i 7 e i 14 anni che vengono impiegati nei lavori più diversi: il 57% nel commercio, il 30% nell'artigianato e l'11% nell'edilizia ma anche nella cura della famiglia per lavori stagionali o continuativi. Tra i 400 mila minori sono inclusi i bambini figli di immigrati e i circa 30-35 mila minori non accompagnati entrati clandestinamente in Italia. Sono 70 mila gli adolescenti che lavorano più di quattro ore al giorno. Di questi almeno 40 mila ne lavorano almeno più di otto ore. È questa la fotografia presentata oggi dall'Ires e dalla Cgil sul lavoro minorile in Italia.
UN BAMBINO SU SEI - Una fotografia impietosa che si rispecchia nei dati mondiali forniti dall'Ilo e dall'Ipec secondo cui sono 250 milioni i bambini che lavorano, come a dire un bambino su sei (127 milioni in Asia, 61 milioni in Africa e Medio Oriente e 5 milioni nei Paesi industrializzati ed Est Europa), 73 milioni dei quali non hanno ancora compiuto 10 anni.
In Italia i minori compresi tra 7 e 14 anni sono complessivamente 4,5 milioni ma 1,7 milioni vivono sotto la soglia di povertà. Di questi, dunque, 360-400 mila, l'8-9%, sono coinvolti in forme di lavoro precoce. Un dato che stride con quello ufficiale dell'Istat secondo cui sono 144 mila (il 3,2%) i minori che lavorano.
I piccoli sono impiegati nel 50% in aiuti familiari; nel 32% in lavori stagionali e nel 17,5% dei casi (70 mila) in lavori continuativi. Di questi ultimi circa 40 mila (oltre il 50%) lavora per 8 ore o più al giorno per una retribuzione che si attesta tra i 200 e i 500 euro al mese. Per gli altri l'orario di lavoro oscilla tra meno di 4 ore (l'11%) e le 4-7 ore (il 23%). A Milano, Roma e Napoli l'Ires ne ha censiti 26 mila su 846.640 minori, di cui il 3,7% è al di sotto dei 13 anni e l'11,6% ha 14 anni.
FENOMENO IN CRESCITA - Secondo il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, il lavoro minorile in Italia «è destinato a crescere», per tre motivi: «aumento delle aree di povertà e di emarginazione; aumento del lavoro irregolare e clandestino, soprattutto degli immigrati; dispersione e abbandono scolastico, fenomeni in aumento». A quest'ultimo proposito l'Ires ricorda che in base alle leggi vigenti chi non rispetta l'obbligo della frequenza scolastica dei figli non va più in carcere, ma è punito con una multa di 67 mila lire.
Secondo la Cgil, che riassume in 15 punti le cose da fare per invertire la tendenza, «gli investimenti necessari per affrontare i problemi dei minori che lavorano sono pari a un punto percentuale del pil».
Cina
Eco di Bergamo 14.4.04
Cina da scoprire: ecco i suoi tesori più segreti
Un suggestivo viaggio lontano dagli itinerari tradizionali, nelle capitali delle dinastie imperiali Templi, gioielli, la foresta pietrificata di Kunming. Sulla Via della Seta, 97 mila statue a Luoyang
di Giorgio Marzoli
Cina, Paese immenso. Per visitarlo anche solo superficialmente (9,6 milioni di kmq) servirebbero dozzine di viaggi, oppure diversi mesi di soggiorno. In varie occasioni ho visitato la Cina da Nord a Sud, da Ovest a Est, sempre con un grande interesse sotto il profilo storico, sociale e culturale. Vorrei ora far conoscere alcune località raramente inserite negli itinerari turistici che privilegiano le grandi città. Si tratta di luoghi di forte interesse, non solo storico-religioso ma anche paesaggistico. Una nota importante: la situazione alberghiera e dei trasporti è oggi molto migliorata, se raffrontata a quella di pochi anni fa, per cui raggiungere le località descritte, pur così lontane fra loro, è abbastanza facile e c'è la possibilità di utilizzare mezzi diversi a seconda delle preferenze. È indispensabile durante le escursioni essere accompagnati da una guida locale che parli almeno una lingua europea.
Il nome Cina deriva dalla dinastia Qin (221-210 a.C.), sotto la quale era un grande impero unitario. Nel Medio Evo si diffuse in Europa il nome Catai: con questo appellativo Marco Polo descrisse ne «Il milione» la Cina che visitava nel XIII secolo.
Fino a poco tempo fa la Cina era considerata un Paese misterioso, ai confini del mito, ma oggi, con la completa apertura al turismo, può diventare parte integrante della conoscenza degli occidentali. E accostandoci alle sue identità possiamo renderci conto dei suoi reali problemi storici, socio-religiosi ed economici e incontrare una cultura assai diversa dalla nostra. Ricordiamoci che la Cina, per i cinesi, non è mai stata uno Stato tra gli altri Stati, bensì l'universo.
Datong
Posta su un altopiano a 1.200 metri, nella provincia di Shanxi, Datong («Grande armonia») fu capitale della dinastia imperiale Wei dal 386 al 494, nodo importante verso la Mongolia interna che vide nascere i primi mercanti e i primi banchieri cinesi. La città vecchia, che mantiene ancora un'originale veste architettonica, conserva il tempio-monastero Shanhua, la cui fondazione risale all'VIII secolo, ma che è stato sottoposto a interventi nel 1140. È uno dei più grandi monasteri esistenti nel Paese e custodisce tre imponenti statue di Buddha, in legno dipinto e ricoperto da foglioline di oro puro, e due Bodhisattva (i suoi seguaci) in terracotta. Ma la visita più importante e interessante è quella alle grotte buddiste di Yungang («Collina delle nuvole») a circa 16 km. dalla città, che costituiscono senz'altro uno dei centri più rinomati dell'arte religiosa cinese per la grande varietà e bellezza di statue, dipinti e bassorilievi scolpiti sotto la dinastia Wei. Quest'ultima ha segnato il trionfo del buddismo in Cina come religione di Stato.
Le grotte scolpite nella roccia (un'arte che ebbe la sua origine in India) sono 51, alcune purtroppo prive di statue, altre con le statue decapitate. Nonostante siano state oggetto in passato di saccheggi e vandalismi, si possono tutt'ora ammirare diverse migliaia di statue. Sui muri si intravedono ancora tracce di colori originali o aggiunti in epoche successive, mentre al centro campeggia sempre la statua di Buddha circondato da seguaci e da fedeli. Secondo la tradizione è il 64 d.C. che segna l'ingresso in Cina del Buddismo, proveniente dall'India, accolto inizialmente dagli strati colti e ricchi della società e soltanto in un secondo tempo dalle masse.
Luoyang
Questa capitale imperiale sorge nella provincia di Henan, confinante con quella di Shanxi, nel cuore della Cina classica, ricca di un illustre passato e di testimonianze preziose, granaio dell'impero (è un'immensa fertilissima pianura, bagnata da affluenti dello Huanghe o Fiume Giallo), di grande importanza strategica come punto di arrivo e partenza della Via della Seta e oggi grande città industriale.
La principale attrattiva turistica sono le stupende grotte buddiste di Longmen («Porta del drago»), immenso tempio rupestre dedicato al culto degli antenati. Si tratta di ben 1.352 grotte, 750 nicchie, 40 pagode e 97 mila statue di Buddha con diversi personaggi, scolpite nella roccia in vari modi e dimensioni. Come già a Datong, nel corso del tempo, numerosi sono stati i saccheggi e gli atti vandalici, soprattutto a danno delle statue, molte asportate o decapitate per l'esportazione clandestina in diversi musei occidentali e orientali. Il museo della città ospita numerosi reperti provenienti dai vicini scavi ed è famoso soprattutto per una pregevole collezione di bronzi antichi, specchi, monete, nonché una bellissima esposizione di ceramiche a tre colori di epoca Tang.
Di notevole interesse e importanza è poi il monastero buddista Shaolin (a 50 km. dal centro) fondato in epoca Wei nel 527 e rimaneggiato in epoca Tang (618-906) abitato da più di 10 mila monaci, con moltissimi reliquari di pietra che conservano le ceneri dei religiosi morti.
Kunming
Capoluogo della provincia di Yunnan, nelle vicinanze del lago Dian, uno dei più grandi della Cina, vanta un clima particolarmente mite durante tutto l'anno, tanto che è soprannominato «Città dell'eterna primavera». Confina con Tibet, Vietnam, Laos e Birmania questa regione ricca di ferro, carbone, rame, stagno e legname ricavato dalle sue fitte foreste. La fondazione risale alla dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.) e Marco Polo, che la visitò, la descriveva affollata di mercanti e popolata da diverse razze. La sua maggiore attrattiva è la grande «foresta pietrificata», un fenomeno naturale di rara bellezza. Circa 270 milioni di anni fa, al suo posto vi era un vasto mare che poi scomparve lentamente a causa dei movimenti della crosta terrestre, lasciando moltissimi depositi calcarei grigi dalle forme più bizzarre, con pinnacoli isolati ma collegati fra loro da un vero labirinto di piccoli e stretti sentieri.
Millenni di erosione causata dal vento e dalla pioggia hanno così modellato la roccia nelle forme più strane. I cinesi amano molto questo luogo, perché ben si adatta a soddisfare la loro fantasia e immaginazione, così a queste forme rocciose hanno affibbiato diversi nomi curiosi e stravaganti. Kunming possiede inoltre diversi templi antichi, pagode e il museo dello Yunnan dove sono esposti costumi tradizionali, gioielli, strumenti musicali e una splendida collezione di bronzi antichi provenienti da diversi scavi nella regione.
Guilin
Sotto la dinastia Ming fu la capitale della regione Guangxi, famosa soprattutto per le sue straordinarie bellezze naturali, ricca di minerali e di prodotti agricoli come riso, mais, canna da zucchero e frutta esotica. Grandi fenomeni di erosione del terreno calcareo nel corso di 300 milioni di anni hanno creato colline dalle forme più disparate e bizzarre in mezzo a laghi, fiumi e canali. La varietà e la bellezza di questi paesaggi unici ha ispirato i più grandi pittori e poeti cinesi e ancora oggi offrono al visitatore emozioni indimenticabili. Questo paesaggio così tipico ha fatto la fortuna della città, circondata da verdissime risaie e affacciata sul fiume Li, che viene chiamata «la perla della Cina», un nome che senz'altro le spetta di diritto.
In questa località è poi indispensabile partecipare alla pesca sul fiume, fatta con i cormorani, che è una vera e propria interessante attrattiva turistica a basso costo. La pesca solitamente avviene di notte e le barche dei pescatori (semplici zattere formate da grossi bambù legati fra loro) portano lanterne accese, per attirare con la luce i pesci, solitamente carpe. Questi abili uccelli neri si tuffano dalla zattera e vanno a catturare i pesci che riportano al padrone. Hanno al collo un anello che impedisce di ingurgitare i pesci, salvo quelli molto piccoli. Il pescatore toglie le prede dal becco dei cormorani, riempiendo un piccolo cesto di vimini sulla barca. Una curiosità: subito dopo aver riempito il becco, i cormorani ritornano da soli alla zattera, mentre il pescatore li incita a gran voce a rituffarsi.
Un renmimbi, 0,10 euro
Superficie: 9.575.388 chilometri quadrati.
Abitanti: circa 1.273.111.000.
Densità: 133 abitanti per chilometro quadrato.
Forma di governo: repubblica popolare.
Capitale: Pechino
Lingua: mandarino.
Religione: Buddismo, Confucianesimo, Taoismo.
Valuta: renmimbi yuan pari a circa 0,10 euro.
Cina da scoprire: ecco i suoi tesori più segreti
Un suggestivo viaggio lontano dagli itinerari tradizionali, nelle capitali delle dinastie imperiali Templi, gioielli, la foresta pietrificata di Kunming. Sulla Via della Seta, 97 mila statue a Luoyang
di Giorgio Marzoli
Cina, Paese immenso. Per visitarlo anche solo superficialmente (9,6 milioni di kmq) servirebbero dozzine di viaggi, oppure diversi mesi di soggiorno. In varie occasioni ho visitato la Cina da Nord a Sud, da Ovest a Est, sempre con un grande interesse sotto il profilo storico, sociale e culturale. Vorrei ora far conoscere alcune località raramente inserite negli itinerari turistici che privilegiano le grandi città. Si tratta di luoghi di forte interesse, non solo storico-religioso ma anche paesaggistico. Una nota importante: la situazione alberghiera e dei trasporti è oggi molto migliorata, se raffrontata a quella di pochi anni fa, per cui raggiungere le località descritte, pur così lontane fra loro, è abbastanza facile e c'è la possibilità di utilizzare mezzi diversi a seconda delle preferenze. È indispensabile durante le escursioni essere accompagnati da una guida locale che parli almeno una lingua europea.
Il nome Cina deriva dalla dinastia Qin (221-210 a.C.), sotto la quale era un grande impero unitario. Nel Medio Evo si diffuse in Europa il nome Catai: con questo appellativo Marco Polo descrisse ne «Il milione» la Cina che visitava nel XIII secolo.
Fino a poco tempo fa la Cina era considerata un Paese misterioso, ai confini del mito, ma oggi, con la completa apertura al turismo, può diventare parte integrante della conoscenza degli occidentali. E accostandoci alle sue identità possiamo renderci conto dei suoi reali problemi storici, socio-religiosi ed economici e incontrare una cultura assai diversa dalla nostra. Ricordiamoci che la Cina, per i cinesi, non è mai stata uno Stato tra gli altri Stati, bensì l'universo.
Datong
Posta su un altopiano a 1.200 metri, nella provincia di Shanxi, Datong («Grande armonia») fu capitale della dinastia imperiale Wei dal 386 al 494, nodo importante verso la Mongolia interna che vide nascere i primi mercanti e i primi banchieri cinesi. La città vecchia, che mantiene ancora un'originale veste architettonica, conserva il tempio-monastero Shanhua, la cui fondazione risale all'VIII secolo, ma che è stato sottoposto a interventi nel 1140. È uno dei più grandi monasteri esistenti nel Paese e custodisce tre imponenti statue di Buddha, in legno dipinto e ricoperto da foglioline di oro puro, e due Bodhisattva (i suoi seguaci) in terracotta. Ma la visita più importante e interessante è quella alle grotte buddiste di Yungang («Collina delle nuvole») a circa 16 km. dalla città, che costituiscono senz'altro uno dei centri più rinomati dell'arte religiosa cinese per la grande varietà e bellezza di statue, dipinti e bassorilievi scolpiti sotto la dinastia Wei. Quest'ultima ha segnato il trionfo del buddismo in Cina come religione di Stato.
Le grotte scolpite nella roccia (un'arte che ebbe la sua origine in India) sono 51, alcune purtroppo prive di statue, altre con le statue decapitate. Nonostante siano state oggetto in passato di saccheggi e vandalismi, si possono tutt'ora ammirare diverse migliaia di statue. Sui muri si intravedono ancora tracce di colori originali o aggiunti in epoche successive, mentre al centro campeggia sempre la statua di Buddha circondato da seguaci e da fedeli. Secondo la tradizione è il 64 d.C. che segna l'ingresso in Cina del Buddismo, proveniente dall'India, accolto inizialmente dagli strati colti e ricchi della società e soltanto in un secondo tempo dalle masse.
Luoyang
Questa capitale imperiale sorge nella provincia di Henan, confinante con quella di Shanxi, nel cuore della Cina classica, ricca di un illustre passato e di testimonianze preziose, granaio dell'impero (è un'immensa fertilissima pianura, bagnata da affluenti dello Huanghe o Fiume Giallo), di grande importanza strategica come punto di arrivo e partenza della Via della Seta e oggi grande città industriale.
La principale attrattiva turistica sono le stupende grotte buddiste di Longmen («Porta del drago»), immenso tempio rupestre dedicato al culto degli antenati. Si tratta di ben 1.352 grotte, 750 nicchie, 40 pagode e 97 mila statue di Buddha con diversi personaggi, scolpite nella roccia in vari modi e dimensioni. Come già a Datong, nel corso del tempo, numerosi sono stati i saccheggi e gli atti vandalici, soprattutto a danno delle statue, molte asportate o decapitate per l'esportazione clandestina in diversi musei occidentali e orientali. Il museo della città ospita numerosi reperti provenienti dai vicini scavi ed è famoso soprattutto per una pregevole collezione di bronzi antichi, specchi, monete, nonché una bellissima esposizione di ceramiche a tre colori di epoca Tang.
Di notevole interesse e importanza è poi il monastero buddista Shaolin (a 50 km. dal centro) fondato in epoca Wei nel 527 e rimaneggiato in epoca Tang (618-906) abitato da più di 10 mila monaci, con moltissimi reliquari di pietra che conservano le ceneri dei religiosi morti.
Kunming
Capoluogo della provincia di Yunnan, nelle vicinanze del lago Dian, uno dei più grandi della Cina, vanta un clima particolarmente mite durante tutto l'anno, tanto che è soprannominato «Città dell'eterna primavera». Confina con Tibet, Vietnam, Laos e Birmania questa regione ricca di ferro, carbone, rame, stagno e legname ricavato dalle sue fitte foreste. La fondazione risale alla dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.) e Marco Polo, che la visitò, la descriveva affollata di mercanti e popolata da diverse razze. La sua maggiore attrattiva è la grande «foresta pietrificata», un fenomeno naturale di rara bellezza. Circa 270 milioni di anni fa, al suo posto vi era un vasto mare che poi scomparve lentamente a causa dei movimenti della crosta terrestre, lasciando moltissimi depositi calcarei grigi dalle forme più bizzarre, con pinnacoli isolati ma collegati fra loro da un vero labirinto di piccoli e stretti sentieri.
Millenni di erosione causata dal vento e dalla pioggia hanno così modellato la roccia nelle forme più strane. I cinesi amano molto questo luogo, perché ben si adatta a soddisfare la loro fantasia e immaginazione, così a queste forme rocciose hanno affibbiato diversi nomi curiosi e stravaganti. Kunming possiede inoltre diversi templi antichi, pagode e il museo dello Yunnan dove sono esposti costumi tradizionali, gioielli, strumenti musicali e una splendida collezione di bronzi antichi provenienti da diversi scavi nella regione.
Guilin
Sotto la dinastia Ming fu la capitale della regione Guangxi, famosa soprattutto per le sue straordinarie bellezze naturali, ricca di minerali e di prodotti agricoli come riso, mais, canna da zucchero e frutta esotica. Grandi fenomeni di erosione del terreno calcareo nel corso di 300 milioni di anni hanno creato colline dalle forme più disparate e bizzarre in mezzo a laghi, fiumi e canali. La varietà e la bellezza di questi paesaggi unici ha ispirato i più grandi pittori e poeti cinesi e ancora oggi offrono al visitatore emozioni indimenticabili. Questo paesaggio così tipico ha fatto la fortuna della città, circondata da verdissime risaie e affacciata sul fiume Li, che viene chiamata «la perla della Cina», un nome che senz'altro le spetta di diritto.
In questa località è poi indispensabile partecipare alla pesca sul fiume, fatta con i cormorani, che è una vera e propria interessante attrattiva turistica a basso costo. La pesca solitamente avviene di notte e le barche dei pescatori (semplici zattere formate da grossi bambù legati fra loro) portano lanterne accese, per attirare con la luce i pesci, solitamente carpe. Questi abili uccelli neri si tuffano dalla zattera e vanno a catturare i pesci che riportano al padrone. Hanno al collo un anello che impedisce di ingurgitare i pesci, salvo quelli molto piccoli. Il pescatore toglie le prede dal becco dei cormorani, riempiendo un piccolo cesto di vimini sulla barca. Una curiosità: subito dopo aver riempito il becco, i cormorani ritornano da soli alla zattera, mentre il pescatore li incita a gran voce a rituffarsi.
Un renmimbi, 0,10 euro
Superficie: 9.575.388 chilometri quadrati.
Abitanti: circa 1.273.111.000.
Densità: 133 abitanti per chilometro quadrato.
Forma di governo: repubblica popolare.
Capitale: Pechino
Lingua: mandarino.
Religione: Buddismo, Confucianesimo, Taoismo.
Valuta: renmimbi yuan pari a circa 0,10 euro.
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