lunedì 16 febbraio 2004

uomini e scimpanzé
(ma sulla differenza Odifreddi non si impegna)

Repubblica 16.2.04
SIAMO TUTTI SCIMPANZÉ
uno studio sul loro dna e su quello degli uomini

Il dato può stupire solo chi si ostina ad avversare le tesi evoluzioniste
Jonathan Marks mostra coincidenze che arrivano al 98 per cento
L'esaltazione della razza e della famiglia è il comandamento dell'antiscientismo
Lo stesso atteggiamento infiamma i fanatismi religiosi e politici di Chiese e Leghe
di PIERGIORGIO ODIFREDDI


In "Una relazione per un´Accademia" una scimmia descrive la sua trasformazione in uomo dopo la cattura nella Costa d´Oro. Ma poiché neppure Kafka poteva riuscire nell´impresa impossibile di togliersi i panni dell´uomo per entrare nel pelo dell´animale, il racconto si mantiene su un piano superficiale, e limita l´acquisizione di tratti umani all´ubriacarsi e allo stringere la mano.
D´altronde, già Wittgenstein aveva notato nelle "Ricerche filosofiche" che «se un leone potesse parlare, non lo capiremmo». Ora, sui leoni siamo tutti d´accordo, ma sulle scimmie? In fondo, almeno quelle grandi, e soprattutto quelle africane, sembrano molto vicine all´uomo: appartengono agli animali che partoriscono i piccoli e li accudiscono; ai mammiferi che hanno il pollice prensile, le unghie dei piedi, e solo due capezzoli; e ai primati che non hanno la coda, e la cui faccia è schiacciata.
E infatti, le scimmie sono nostre parenti strette. Perché, a meno di non voler credere alle favole del "Genesi", circa sette milioni di anni fa c´era in Africa una sola specie comune, che poi si divise e diede origine ai protogorilla a Occidente, ai protoscimpanzé nel Centro, e ai protoumani a Oriente. Ovvero, siamo tutti scimmie africane, con buona pace degli umanoidi che si radunano sulle piazze per proclamare che invece siamo tutti americani (volendo dire statunitensi).
Naturalmente, non bisogna sottovalutare le differenze che dividono le scimmie da noi: in fondo, non camminano erette, non fanno all´amore (solo sesso, e solo nei periodi fecondi della femmina), non parlano, non si vestono, non producono né trasmettono cultura e tecnologia. Ma non bisogna neppure sottovalutare le affinità, che sono apparse evidenti sin dal Settecento: la prima descrizione di una grande scimmia (di un anatomista inglese, Edward Tyson) è del 1699, la prima esibizione in Europa di un esemplare (di scimpanzé, dall´Angola) del 1738, la prima classificazione (dei primati, di Linneo) del 1758.
La classificazione odierna, del paleontologo George Simpson, è del 1945, e ci accomuna a scimmie piccole (gibboni) e grandi (scimpanzé, gorilla e oranghi) per i denti, la mancanza di coda, la posizione e la capacità di movimento della spalla, e la struttura del tronco. Ma è possibile quantificare precisamente la nostra affinità, anatomica e genetica, agli altri ominidi in generale, e ai nostri parenti più prossimi, gli scimpanzé, in particolare?
Sulle ossa, c´è poco da dire: abbiamo esattamente le stesse degli scimpanzé, con piccole differenze dovute alla nostra postura eretta, ai nostri incisivi ridotti, e alla maggior dimensione del nostro cervello. Ma è difficile specificare la coincidenza globale, che varia da un massimo del 100 per cento dal punto di vista del numero di ossa, a un minimo del 37 per cento dal punto di vista del volume del cervello.
Coi cromosomi le cose diventano più precise. Noi ne abbiamo 46, gli scimpanzé 48, ed essi corrispondono perfettamente, a parte le regioni di accumulazione del Dna «di scarto» (agli estremi del cromosoma per le scimmie, e al centro per l´uomo). L´unica diversità sta nel cromosoma 2 (il secondo in ordine di grandezza) umano, che corrisponde esattamente alla fusione di due cromosomi dello scimpanzé. E che si tratti di una fusione nell´uomo, e non di una divisione nello scimpanzé, lo si deduce dal fatto che i due cromosomi sono separati in parenti lontanissimi, come nel babbuino.
Si può far ancor meglio con le proteine. Verso il 1965 il biochimico Allan Wilson e l´antropologo Vincent Sarich ne iniettarono di umane e di scimpanzé nel sangue dei conigli, e scoprirono che esse erano molto simili, perché gli anticorpi generati dalle une funzionavano abbastanza bene contro le altre, e viceversa. Misurando esattamente la differenza, in base all´intensità delle relative reazioni chimiche, e paragonandola alla velocità evolutiva delle proteine, che è più o meno costante, i due scienziati calcolarono che le due specie si erano distaccate da circa quattro milioni di anni. Qualche anno dopo, nel 1975, lo stesso Wilson e la genetista Mary-Claire King confrontarono direttamente una quarantina di proteine di uomo e di scimpanzé, e trovarono una coincidenza del 99,3 per cento.
Il che significa, naturalmente, che ci dev´essere una coincidenza analoga anche nel Dna che codifica proteine, il quale però è solo una piccola parte (circa l´1 per cento) del tutto. Volendo confrontare gli interi, e non solo le parti, si nota anzitutto che gli scimpanzé hanno circa il 10 per cento di Dna in più di noi, ma la cosa è poco importante: in fondo, i libri si giudicano in base al contenuto, e non alla lunghezza. Il vero raffronto va dunque fatto sull´intera sequenza del genoma, che è scritto in un alfabeto di sole quattro lettere: dunque, due sequenze casuali coincideranno in media almeno al 25 per cento, e solo coincidenze molto più alte saranno significative.
Poiché la sequenziazione del genoma dello scimpanzé, a differenza di quella dell´uomo, non è stata ancora fatta, bisogna paragonarli in maniera indiretta. Un raffronto tra 40.000 basi in una particolare regione (quella dei geni dell´emoglobina) di un certo cromosoma (il numero 11), ha mostrato una coincidenza del 98,1 per cento, consistente con quella delle proteine. E un raffronto basato sull´ibridizzazione di segmenti di Dna delle due specie, e sulla temperatura alla quale si separano i filamenti ibridi e non, ha confermato un risultato tra il 97 e il 98,2 per cento. Per questo oggi si dice che il Dna dell´uomo coincide (circa) al 98 per cento con quello dello scimpanzé.
Che cosa significa essere scimpanzé al 98 per cento lo discute Jonathan Marks in un suo omonimo e provocatorio libro (Feltrinelli, pagg. 274, euro 16). Anzitutto, solo gli antievoluzionisti si stupiranno della cosa: per gli altri, tutte le specie viventi discendono da un antenato comune, come dimostra il fatto che il meccanismo genetico è lo stesso per tutte, e ciascuna è più vicina ai parenti prossimi che a quelli lontani. Ad esempio, molte centinaia di milioni di anni fa un gruppo di pesci sviluppò arti che permisero ai discendenti di uscire dall´acqua sulla terraferma, e diede origine a tutti i vertebrati viventi: il celacanto, che è un «fossile vivente» di quel gruppo, è dunque più vicino a noi di quanto non lo sia a un tonno, benché entrambi siano pesci.
Inoltre, il Dna è solo uno dei fattori determinanti le specie, e la scelta di quali fattori siano più o meno importanti o decisivi è culturale. Ad esempio, nel 1758 Linneo ha deciso di classificare gli uomini nella famiglia dei mammiferi, cioè «portatori di mammelle», nonostante il fatto che solo metà del genere umano le porti: sembra che la sua scelta sia stata determinata da un impegno politico nel movimento per l´adozione dell´allattamento materno, al posto di quello a balia. Però, la scelta delle mammelle non è obbligata: Aristotele privilegiava il fatto di avere quattro arti e partorire prole viva, invece che uova; e gli scienziati del Settecento il fatto di avere peli, il che basta a distinguere i mammiferi dai rettili, dagli anfibi, dai pesci e dagli uccelli.
Ancor più culturali sono i concetti di razza e di famiglia, che non riflettono alcuna suddivisione naturale della specie umana. Il razzismo è basato sulle solite favole del "Genesi" e fa derivare le razze, che sono prodotti del clima e non dei geni, dai tre figli di Noè: gli africani neri da Cam, gli asiatici gialli da Sem, e gli europei bianchi da Yafet (dopo la scoperta dell´America e dei pellerossa, ci si rivolse a un´altra fonte fantastica: quella dei quattro umori di Ippocrate). E l´arbitrarietà biologica delle relazioni familiari risulta evidente quando si ricordi, ad esempio, che i nostri genitori non sono fra loro consanguinei; o che chiamiamo nonni allo stesso modo quattro persone, di cui una sola ci ha trasmesso il Dna mitocondriale (la nonna materna), e una sola il cromosoma Y, se siamo maschi (il nonno paterno); o che chiamiamo zii allo stesso modo i fratelli e le sorelle dei genitori, che sono nostri consanguinei, e i loro coniugi, che non lo sono.
Il rifiuto dell´evoluzionismo e l´esaltazione della razza e della famiglia sono i comandamenti della fede antiscientista. Essi infiammano i fanatismi religiosi e politici delle Chiese e delle Leghe del mondo intero, perché le differenze culturali sono più importanti della variabilità biologica, almeno per quelli che si preoccupano più della società costruita da loro, che del mondo creato dalla natura. Per gli altri, il condividere il 100 per cento del Dna con certi «umani» è più imbarazzante che condividerne il 98 per cento con gli scimpanzé.

storia dell'arte:
astrattismo e marxismo

Repubblica 16.2.04
PARLA PIERO D'ORAZIO, UNA SUA RETROSPETTIVA A LOCARNO
LA MIA DIFESA DELL'ASTRATTO
Il periodo americano, i rapporti con Pollock e De Kooning, le svolte italiane a cominciare dalla scoperta della Pop art
di PAOLO VAGHEGGI


È costretto su una sedia a rotelle Piero Dorazio a causa di un lungo periodo di malattia. Sta però migliorando e non ha perduto l´ironia: «Questa è una tortura che doveva finire nella Commedia di Dante. Ma forse a quel tempo non c´erano sedie a rotelle». E non ha perso lo spirito polemico che ha segnato tutta la sua tumultuosa esistenza, segnata da viaggi, incontri e amicizie con artisti come Arp, Miró, Léger, Pollock, De Kooning o Barnett Newman. Difende sempre, con foga, la pittura astratta, scaglia strali contro la Biennale di Venezia, contro la mercificazione dell´arte, contro la Galleria nazionale d´arte moderna di Roma.
È lunga la storia di Dorazio che ormai ha 77 anni. Negli anni Cinquanta è stato artista "errante", pronto a correre a Parigi o a New York, ma sempre legato a filo doppio alla natia Roma e agli italiani, a Consagra, Sanfilippo, Turcato, al gruppo "Forma 1" fondato nel 1947, risposta al "realismo socialista" di Guttuso.
È una storia che oggi racconta una retrospettiva allestita a Locarno, nella Pinacoteca Casa Rusca (dal 22 febbraio al 30 maggio) e in un volume che la casa editrice Skira ha da poco mandato in libreria, Piero Dorazio. La formazione artistica di Annette Papenberg-Weber, che è anche la curatrice della mostra. La scelta di Locarno non è casuale. Negli anni della gioventù Dorazio si recava spesso nella città svizzera per incontrare Jean Arp, che vi soggiornava, così come sono state significative l´amicizia con il pittore e pioniere del cinema astratto Hans Richter, anch´egli di stanza a Locarno, nonché la collaborazione con la stamperia d´arte Lafranca.
Insomma è il ritorno a una seconda casa anche se fu Roma il centro di ogni battaglia, il luogo in cui si predicava un´arte «insieme formalista e marxista». Racconta Dorazio: «Alla fine della seconda guerra mondiale in Italia, da un punto di vista artistico, c´era quasi il vuoto. C´era la Scuola Romana, è vero. Ma nient´altro. L´idea di unire formalismo e marxismo fu del nostro gruppo, di Forma 1. Venne da Ripellino con cui studiavamo i formalisti russi, la cultura della sinistra russa della rivoluzione e prima della rivoluzione. Il resto era figlio di quel poco che conoscevamo della tradizione europea moderna».
Fu un´idea molto osteggiata?
«Piuttosto che provare a conciliare il marxismo con il formalismo cancellarono tutto. Fu Togliatti, furono i comunisti italiani non moderni. C´erano anche dei comunisti moderni, e non pochi, ma erano messi la bando. Amendola non era ostile. Di Guttuso è inutile parlare: era il nostro nemico numero uno. Io a quel tempo ero iscritto al partito socialista. Ma quelli che erano iscritti al Pci, come Consagra o Turcato, furono più volte chiamati per rendere conto di queste "deviazioni". Ci fu sempre una grande ostilità nei nostri confronti tanto che a nessuno di noi fu affidato un insegnamento. Solo Turcato insegnava, ma perché gli era stato assegnato un posto di assistente di Consagra fin dai tempi di Bottai. Io fui costretto a emigrare negli Stati Uniti per insegnare, andai a dirigere una scuola. Non avevamo i soldi per vivere. Nessuno comprava i nostri quadri. E l´ostilità degli stalinisti, anche se ora sono degli ex, continua tuttora».
Tuttora?
«Nel settembre dello scorso anno ho donato alla Galleria nazionale d´arte moderna di Roma alcuni dipinti del valore di un miliardo di vecchie lire e non è stato emesso neppure un comunicato. Ho regalato cinque grandi quadri, tra i più belli che ho realizzato tra gli anni Cinquanta e i giorni nostri, che aveva cominciato a scegliere Palma Bucarelli. Per completare le pratiche burocratiche ci sono voluti trent´anni. E alla fine la galleria non mi ha scritto neppure una lettera di ringraziamento».
Negli Stati Uniti quali erano i suoi rapporti con Pollock, De Kooning o Barnett Newman?
«Con gli artisti americani c´era un vero rapporto di scambio. Non c´era colonizzazione, quel fenomeno che ha cominciato a manifestarsi dopo la metà degli anni Sessanta, dopo il Leone d´oro assegnato dalla Biennale di Venezia a Rauschenberg. Fu questo il momento in cui mercanti, galleristi, collezionisti decisero di sostenere la pop art, che non è la vera arte americana, ma un´involuzione commerciale, una speculazione. Gente come Pollock o De Kooning rappresenta la vera grande pittura americana, che nasce dalla tradizione europea, sviluppa la tradizione francese, italiana. Gli altri sono duplicatori, copiatori. Si vede bene alla Biennale».
Davide Croff ne è stato appena nominato presidente. Ma della Biennale di Venezia riformata dal ministro Urbani cosa ne pensa?
«Una cosa è certa. Continua l´ostilità verso l´arte astratta. Quanto alla Biennale, la riforma del ministro Urbani è un disastro totale. Allontana l´arte dal pubblico anziché avvicinarla. Non ci sono critici, storici d´arte negli uffici. Sono tutti burocrati, che non sanno neppure cos´era la Biennale: era la mostra più importante del mondo dove si sancivano i giudizi sugli artisti. Esporre alla Biennale era uno straordinario riconoscimento. Ora non sappiamo più cos´è».

Isadora Duncan:
l'ansia del cambiamento

Repubblica 16.2.04
AUTOBIOGRAFIE
IL CULTO DELLA DANZA COSÌ LA BELLA ISADORA SCOSSE L'EUROPA
di LEONETTA BENTIVOGLIO


Donna spregiudicata e visionaria, di sinuosa bellezza floreale, Isadora Duncan specchia forse meglio di ogni altra artista teatrale del suo tempo l´impulso allo sperimentalismo e la voglia di scardinamento delle convenzioni sceniche che caratterizzano le avanguardie d´inizio Novecento. Californiana in Europa, danza per la prima volta in pubblico nel 1902, a Parigi: l´apparizione scuote gli ambienti artistici come un terremoto. Isadora si svincola dai rigidi steccati del balletto, inventa un culto ellenizzante della danza, fa del suo corpo morbido e svelato lo strumento di scandali trionfali. Ispira Rodin, seduce un grande del teatro come Gordon Craig, affascina Stanislavskij, si fa adorare da D´Annunzio e dalla Duse, va in Russia e abbraccia il comunismo, «un sogno che Lenin ha trasformato in realtà», finendo per unirsi al poeta Esenin in un legame tormentato. E mentre la sua danza diventa il presupposto della nuova coreografia del secolo, l´incontenibile signora sovverte norme etiche e sociali propagandando l´unione fuori dal matrimonio e la libera maternità.
La sua vita sopra le righe (spettacolare fino alla morte: nel 1927, a Nizza, si strangola con la propria sciarpa, impigliatasi nella ruota dell´automobile in corsa), ha fatto nascere saggi, play, film e resoconti romanzati. Mancava ancora un´edizione italiana della sua autobiografia, "My life", scritta tra il '26 e il '27, e divenuta a suo tempo in America, grazie all´uscita quasi contemporanea alla morte dell´autrice, un vero best-seller. In Italia uscì tradotta nel 1948 per l´Editrice Poligono, e nel 1980 Savelli produsse una fugace ristampa anastatica di quel volume introvabile. L´attuale pubblicazione in italiano rende finalmente disponibile questa testimonianza preziosa, grondante di aneddotica e mai intellettualistica, attraversata da cronache di viaggi e incontri (anche amorosi e sessuali) e da descrizioni di ambienti e personaggi celebri. La lingua è barocca, la prosa è gonfia di toni enfatici, e s´immaginano, leggendo, omissioni, esagerazioni e bugie. Eppure il libro ha una vitalità impetuosa: è genuino per sregolatezza, irritante e geniale nelle sue scomposte intuizioni estetiche, efficace nel restituire i fremiti di un mondo sospinto dall´ansia del cambiamento.

anticipazioni sul pdl Burani Procaccini sulla psichiatria

Vita 13.2.04
Psichiatria: anticipazioni sul testo di riforma Burani Procaccini
di Benedetta Verrini


E' stato presentato ieri in commissione Affari Sociali alla Camera. Oltre all'on. Procaccini, hanno apposto la loro firma gli onorevoli Giuseppe Naro (Udc), Carla Castellani (An) e Guido Milanese (FI)
L'onorevole Maria Burani Procaccini (Fi) ha presentato ieri pomeriggio, al Comitato ristretto della XII Commissione Affari sociali, la nuova versione della proposta di legge denominata "Prevenzione e cura delle malattie mentali". Il testo è stato depositato ma nessuna discussione è al momento seguita alla presentazione. Il nuovo testo non è ancora disponibile sul sito della Camera dei Deputati.
Alcune anticipazioni sono però state raccolte dalla cooperativa sociale Itaca (www.itaca.coopsoc.it), che da parecchi mesi segue con attenzione le linee di riforma della legge 180, sottolineando l'importanza di difenderne e preservarne i valori. Il testo riproposto dalla Burani Procaccini non sarebbe ancora unificato ma allo stato di proposta di legge, ma è stato co-firmato da altri tre parlamentari appartenenti alla Casa delle Libertà. Oltre all'on. Procaccini, hanno apposto infatti la loro firma gli onorevoli Giuseppe Naro (Udc), Carla Castellani (An) e Guido Milanese (Fi), accorpando così la proposta di legge 3932 su "Disposizioni per la prevenzione, il trattamento e il monitoraggio della depressione", presentata il 29 aprile dello scorso anno proprio da Naro, co-firmatari Castellani e Milanese.
Nessuna anticipazione ufficiale sui contenuti, anche se alcune informazioni sono state fornite dalla stessa relatrice attraverso un lancio Ansa, poi ripreso da Yahoo notizie, nella giornata di mercoledì: "Agenzie regionali per la psichiatria, un garante per i malati psichiatrichi gravi che hanno avuto un ricovero obbligatorio, la riorganizzazione dei servizi territoriali e una rete di pronto soccorso con presenza di specialisti psichiatri" -riporta il lancio Ansa-, queste alcune delle novità annunciate dall'on. Burani Procaccini.
"Un testo, ha sottolineato la parlamentare, che raccoglie anche le indicazioni e i suggerimenti di associazioni dei familiari dei malati, associazioni di ex pazienti e specialisti e che prevede -prosegue il testo Ansa- maggiore attenzione da parte delle strutture pure per le malattie emergenti come la depressione".
Prevista anche "l'istituzione di agenzie regionali per la psichiatria che avranno il compito di coordinare la riorganizzazione di tutti i servizi territoriali, compresi quei servizi di prossimità, considerati le antenne sul territorio dei bisogni psichiatrici e che coinvolgeranno le associazioni dei familiari. Ciò a cui si punta, ha spiegato Burani, e' una 'reale tutela dei malati e l'istituzione di una medicina del territorio molto capillare, per prevenire ma anche seguire i pazienti nella cura'. L'obiettivo è, cioé, non lasciare le famiglie da sole, ma sostenerle nella cura dei congiunti con disturbi mentali in modo concreto. Per questo, la proposta di legge prevede una serie di realtà territoriali che supportino l'azione dei nuclei familiari: centri diurni, di riabilitazione, assistenza domiciliare e day-hospital".
Un altro punto riguarderebbe la possibilità di far accedere le persone con svantaggio psichico al mondo del lavoro. Sarebbe prevista, infatti, la creazione di strutture produttive mediante ricorso a strategie di finanziamento innovative, per dare lavoro a pazienti cronici attraverso le cooperative. In tale maniera tutte le aziende che hanno l'obbligo di assumere personale dalle agenzie di collocamento potranno fare riferimento alle cooperative sociali.
Prossimo appuntamento nella settimana tra il 23 ed il 27 febbraio, presumibilmente ancora al Comitato ristretto della XII Commissione Affari sociali.

lezioni di ateismo nelle scuole?

Corriere della Sera, La Stampa ecc. 16.2.04
LA PROPOSTA A LONDRA
«Anche lezioni d’ateismo nell’ora di religione»


LONDRA - In una società in cui sempre più persone si professano atee o agnostiche, i bambini dovrebbero imparare (coi fondamenti delle fedi tradizionali) i principi dei credi non religiosi. Lo ha proposto l'autorità che in Gran Bretagna regola i piani di studio delle scuole (la Qualification and Curriculum Authority). Ha spiegato un portavoce: «Ci sono molti bimbi e ragazzi che non sono affiliati ad alcuna fede e le loro credenze ... devono essere prese seriamente». Per il domenicale The Observer, la proposta darà vita a un duro dibattito.

Il governo propone lezioni su ateismo e agnosticismo

In una società in cui un numero crescente di persone si professano atee o agnostiche i bambini dovrebbero imparare - insieme ai fondamenti delle fedi tradizionali - anche i principi alla base dei credi non-religiosi. Lo ha proposto l'autorità del governo che regola i piani di studio delle scuole britanniche, la Qca, Qualification and curriculum authority, senza tuttavia volerne fare una regola obbligatoria per tutte le scuole; gli istituti di stampo religioso potranno quindi non attenersi alle nuove disposizioni. Nonostante alcune scuole affrontino già i temi dell'ateismo e dell'agnosticismo, non esistono per il momento linee guida ufficiali. «Vogliamo che i giovani studino le credenze non religiose nel contesto delle diverse religioni - ha affermato un portavoce del Qca -[...]».

l'olfatto

Già un secolo fa Georg Simmel notava che «la questione sociale
non è solo una questione morale, ma anche una questione di odorato»
di Marco Belpoliti


SAUL Steinberg era solito intrattenere i visitatori con la sua «teoria del naso». Il disegnatore romeno, emigrato in America, prendeva un grande foglio bianco di carta e con una serie di pieghe lo riduceva a un piccolo rettangolo; poi vi disegnava occhi, occhiali e bocca; infine con le forbici realizzava un piccolo foro al centro: lì infilava il naso. Era il suo autoritratto. Poi spiegava: il naso è la parte più primitiva, la parte più originale e privata di un individuo; mentre la faccia è la parte politica, il naso è invece la parte meno evoluta. «E' il naso che ci rende complici di noi stessi», diceva a conclusione della sua piccola performance. Steinberg probabilmente era al corrente delle teorie evolutive sul naso, o forse no. Fatto sta che, come ci spiegano i neurologi, è proprio dal naso che comincia a svilupparsi nel feto l'individuo. Ma non solo. Il nostro naso è collegato con la parte più antica del nostro cervello, quella che regola le emozioni. Forse è per questo che sentire un odore - gradito o sgradito che sia - scatena immediatamente reazioni istintive.
Il naso è connesso con il sistema libico, con il tronco dell'encefalo e con l'ipofisi. Quando noi percepiamo un odore, invece di elaborare lo stimolo e di cercare di definirlo, ci formiamo subito un'opinione al riguardo e reagiamo di conseguenza. Mentre un messaggio visivo, o linguistico, viene «tradotto» dal cervello, l'odore agisce immediatamente. Queste, come altre informazioni sul nostro sistema olfattivo, sono contenute in un interessante libro di Piet Vroon, uno psicologo sperimentale olandese, scomparso da poco, che lo ha redatto in collaborazione con un biologo e un collega: Il seduttore segreto. "Psicologia dell'olfatto" (Editori Riuniti, pp. 255, e14). Il naso è sì un senso rudimentale, ma in ogni caso molto complicato. A causa della struttura delle narici, è difficile dosare gli odori. Nel naso si formano correnti d'aria turbolenti; forse per questo nessuno annusa solo una volta, ma per aspirazioni successive. E non è solo il naso a sentire gli odori; anche la bocca ha la sua parte: mentre mangiamo percepiamo gli odori (e i sapori) e una piccola parte delle sostanze olfattive ci arrivano persino per le vie circolatorie.
Le pagine dedicate da Vroon alla anatomia e fisiologia del naso sono affascinanti. Gli odori si sentono meglio in ambiente umido, per questo abbiamo il naso umido. Il muco, con cui combattiamo quando siamo raffreddati, non ha solo la funzione di umidificare la nostra cavità superiore, ma anche di trattenere le molecole dell'aria più a lungo per consentirci di odorare. Sono parecchi gli animali a naso umido; ad esempio, i mammiferi. Ma hanno un ottimo olfatto anche i serpenti, i pesci, e alcuni anfibi; inoltre, i piccioni che popolano le piazze delle nostre città, pare siano in grado di elaborare mappe olfattive della zona in cui vivono; mentre la gran parte degli uccelli non sentono bene gli odori, dato che volano in zone dell'aria dove questi non arrivano o non restano a lungo.
Nonostante la rilevanza del naso, l'uomo non ha un grande senso dell'odorato, bensì uno modesto. La superficie del nostro organo di senso è ridottissima: un centimetro quadrato per narice (al confronto l'occhio è molto più grande). Ci sono circa 30.000 neuroni per millimetro quadrato, per un totale di 3 o 5 milioni di cellule sensoriali complessive; mentre il cane ne ha tra i 150 e i 220 milioni e il coniglio 50 milioni. Per fare un confronto con l'occhio: sulla retina umana non ci sono più di 200 milioni di bastoncelli e coni per intercettare la luce e i colori. L'occhio e il naso: senza dubbio la cultura umana ha sempre dato più importanza alla vista che all'olfatto considerato alla stregua del gusto un senso inferiore.
I filosofi hanno gettato un grande discredito sulle facoltà del nostro naso. Kant, a cui dobbiamo molte delle convinzioni riguardo al mondo sensibile, sosteneva che l'olfatto procura più nausee che piaceri. Il visivo ha dominato in modo incontrastato in Occidente, relegando gli altri sensi in posizione secondaria, come hanno dimostrato due storici della civilizzazione: Alain Corbin, autore della "Storia sociale degli odori" (Mondadori) e Piero Camporesi, che al tema degli odori ha dedicato pagine dell’"Officina dei sensi" (Garzanti). Vroon riabilita l'olfatto e ci fa capire la capacità che possiede di cogliere ciò che è volubile e variabile, di esplorare quel grande spazio in cui viviamo immersi senza che ne accorgiamo: l'aria.
Una delle cose che colpiscono maggiormente è l'associazione tra l'olfatto, intesto come senso dell'inafferrabile, e il linguaggio, lo strumento privilegiato della nostra comunicazione. Quello della classificazione degli odori è infatti uno dei capitoli più affascinanti della tassonomia umana. Non è un caso che sia stato proprio Linneo, il grande classificatore di piante e animali, che alla metà del Settecento notò le impressioni olfattive in sette classi, decidendo anche un ordine discendente di piacevolezza: aromatico, fragrante, ambrato o muschiato, agliaceo, fetido o caprino (sudore), velenoso e nauseabondo. La sua classificazione deriva dalla conoscenza del mondo vegetale, o meglio, dagli odori delle piante. Nella visione del mondo naturale elaborata da Linneo, gli odori si legano sia ai vegetali che agli organi genitali e alle loro secrezioni: il biancospino odora come la regione genitale femminile; mentre i fiori di sambuco, tiglio e castagno hanno un odore dolce, leggermente sgradevole, che ricorda lo sperma.
Nelle sue considerazioni finali, Piet Vroon ribadisce come l'impressione di un odore dipenda strettamente dalla concentrazione della sostanza: sostanze maleodoranti, a bassa concentrazione posso avere persino un buon odore; così come si percepiscono odori diversi a seconda della narice che inala. Tuttavia il problema fondamentale resta quello dell'orientamento olfattivo imposto dalle differenti culture: l'attrazione o il ribrezzo, la passione o la repulsione, sono sovente determinati dall'ambiente culturale o sociale in cui si è cresciuti. Ogni civiltà ha il suo naso: i giapponesi, ad esempio, non sopportano l'odore del formaggio. Alessandro Gusman, un giovane antropologo che studia le culture africane, ha affrontato questa questione in un volume, "Antropologia dell'olfatto" (Laterza, pp. 184, e18). Per farlo ha dovuto abbattere un tabù della stessa antropologia: la prevalenza del visivo sul sonoro e l'olfattivo nella conoscenza e descrizione delle singole culture, invitando a smettere di considerare le culture testi da studiare.
Naturalmente per descrivere in termini antropologici gli odori delle differenti civiltà occorre superare l'idea che l'odore sia legato alle caratteristiche fisiche e morali di una persona. Il che non vale solo per le culture non-occidentali. In Africa, presso alcune popolazioni, è diffusa l'idea che i bianchi «puzzino di cadavere», data la loro tendenza ad eliminare gli odori fisici, associati alla vita: l'assenza di odore richiama la morte fisica. I giapponesi possiedono un termine, bata kusai, con cui indicano quelli che «puzzano di burro», ovvero gli Occidentali, dediti ad una alimentazione troppo ricca di grassi, ma che sudano anche troppo e si lavano poco.
Che esista un legame culturale molto forte tra società e odorato, lo rilevava all'inizio del XX secolo il sociologo Georg Simmel: «La questione sociale non è solamente una questione morale, ma anche una questione di odorato». Nel corso del Settecento e dell'Ottocento in Europa, mentre s'andava definendo il confine netto tra pubblico e privato, mentre le case diventavano sempre più spazi privati, chiusi alla presenza degli altri, mentre diminuiva la promiscuità dei corpi, cresceva in parallelo l'impulso alla pulizia.
Come ha scritto l'antropologa Mary Douglas in "Purezza e pericolo" (il Mulino), «lo sporco è incompatibile con l'ordine». Che il nostro destino sia quello di rendere sempre più asettiche o profumate le nostre case e i nostri corpi? E fino a che punto potremo spingerci, senza rinnegare le nostre origini animali? Il nostro naso, per evolversi, ha impiegato milioni di anni e resta, come sosteneva Saul Steinberg, nonostante tutto la parte più originale di noi stessi. Abolirlo, anche per un problema di identità, non è davvero facile.

"psico-donna":
il business editoriale ci dà dentro...

due segnalazioni di Filippo Trojano

La Stampa 16.2.04
TRE MENSILI ITALIANI SULLA SCIA DI UN SUCCESSO FRANCESE DA 300 MILA COPIE
La psico-donna va in edicola
Il boom delle riviste «per guardarsi dentro»
di Raffaella Silipo


Per donne sull’orlo di una crisi di nervi, troppo ansiose per godersi a cuor leggero i servizi di moda, troppo sciroccate per interessarsi a creme e ricette, sono in arrivo ben tre mensili di psicologia: con un’attenzione speciale alle ragazze, perché è proprio il mondo femminile - o almeno così dicono le statistiche - a sentire più acutamente quella scontentezza di fondo che pare diventata la colonna sonora del nostro tempo. E dato che a ogni disagio corrisponde un potenziale business, ecco «Yourself», diretto da Piero Pantucci ed edito da Raffaello Geminiani, in edicola da metà gennaio, consulente editoriale Catherine Spaak. Il primo numero ha superato le centomila copie. Seguirà «Per me», in arrivo il 26 febbraio, edito da Mondadori e diretto da Patrizia Avoledo e Cipriana Dall’Orto, coppia di ferro già alla guida di «Donna Moderna» che si fa forte del successo della collana «Star bene con se stessi»: obiettivo duecentomila copie, direttore scientifico Raffaele Morelli di «Riza Psicosomatica». Il terzo, nei prossimi mesi, sarà la versione italiana del fenomeno francese «Psychologies», nato nel 1997, quasi trecentomila copie al mese: «Un mensile specchio - è la dichiarazione d’intenti che si legge nel sito - dedicato alla donna che vuole guardarsi dentro e non ha paura di cambiare». Per evitare di inflazionare il mercato, spiega Rossella Giorgetti di Hachette Rusconi «l’uscita italiana è rimandata. Ma le ricerche sono concordi nel dire che il filone “psi” sia il più forte al momento. Si tratta di trovare il modo giusto di trattarlo».
Il punto di partenza dei tre mensili è molto simile: psicologia vista non come terapia ma come strumento quotidiano per ritrovare un benessere nel rapporto con se stessi e con gli altri. Argomenti tipici dei femminili - moda, bellezza, cucina, shopping - raccontati però nel loro significato più emotivo: «Non dal punto di vista dei modelli di stile - spiega “Yourself” nell’editoriale - ma in quanto rivelatori del nostro modo di essere». D’altronde proprio le pagine psicologiche sono le più lette nei femminili tradizionali: «Abbiamo notato un’evoluzione nelle donne - dice la Dall’Orto - sono divise tra mille compiti e sentono forte il bisogno di un ritorno all’interiorità per capire e per capirsi». E, a conferma che sono le donne le più sensibili a questi temi, c’è l’indagine di Rq - Ricerche Qualitative secondo cui il lettore di riferimento è per il 60 per cento donna, di cultura medio superiore, età tra i 25 e i 44 anni, abitante nel Nord e Centro Italia.
Così in «Yourself» la copertina mostra una Marilyn Monroe sfocata, incerta nella sua identità. Dimmi che borsa hai e ti dirò chi sei, promette un servizio interno che divide le donne a seconda delle coordinate ordine-disordine, pochi oggetti-molti oggetti. Anche la recensione cinematografica di «Mystic River» è letta con gli occhi dell’analista e l’astrologo scrive uno «psicoroscopo» che divertirebbe molto Carl Gustav Jung. «Cosa si cerca in un giornale come il nostro? - dice Pantucci - Io credo soprattutto sicurezza, identità. Nelle molte lettere che riceviamo sono ricorrenti le domande su se stessi: chi sono, come mi colloco nel mondo, come posso migliorare il mio rapporto con gli altri. Non a caso la rubrica più letta è quella della grafologia, strumento immediato di autoconoscenza. C’è un disorientamento generalizzato, una forte ricerca d’aiuto. Tanta solitudine». Almeno stando ai sondaggi sono dodici milioni gli italiani che usano psicofarmaci, due milioni sono insonni, quattro milioni depressi, altri quattro milioni hanno disturbi psicosomatici. Un disagio non sempre così forte da andare da un terapeuta, ma che può trovare conforto nella lettura e nell’analisi di casi analoghi.
Ma c’è chi è critico sulla troppa divulgazione: «Siamo di fronte all’equivalente cartaceo degli psicofarmaci - è l’opinione di Gianandrea Abbate, dell’istituto di ricerca Lexis Psycholinguistic - una specie di Tavor formato magazine. Resta da vedere se il fenomeno non degenererà in una psicologia da discount». Non a caso in Francia è già in corso un dibattito sui rischi che corrono i «clinici della psiche» nell’affrontare le sirene dei mass media, giornali o tv che siano. «Dare l’impressione che il disagio possa essere eliminato presto e bene - scrive «Le Monde» - è il contrario dei principi su cui si basa la psicanalisi. E può persino impedire che l’individuo si faccia domande profonde, magari sconvolgenti». La psicologia deve tornare sul lettino? Non è detto, ammette «Le Monde»: «Basta che non si riduca a dare ricette, piuttosto offra uno sguardo diverso sul mondo, un’alternativa all’opinione generale». D’altronde, si sa, l’anima non è snob e parla attraverso le vie più diverse e misteriose. Persino in una borsetta, o al discount.

La Stampa 16.2.04
LO PSICANALISTA
«L’autoanalisi è una caratteristica femminile»
Carotenuto: le componenti emotive della personalità sono preponderanti


PROFESSOR Carotenuto, come mai la psicologia è soprattutto un affare da donne?
«L’animo femminile è più immerso in se stesso, le componenti emotive della personalità sono preponderanti rispetto a quelle razionali. Questo influisce sui rapporti interpersonali: la donna, infatti, è più “empatica”, sa immedesimarsi nell’altro, assumere il suo punto di vista liberando la mente e il cuore da stereotipi di ruolo e di genere o da rigidi preconcetti».
Quindi è vero quando si dice che la donna è più portata all’introspezione e l’uomo all’azione?
«In generale la donna ha una comprensione degli eventi più profonda rispetto all’uomo, che preferisce un approccio fenomenologico e meno speculativo. D’altro canto, non bisogna dimenticare che la donna è innanzitutto madre e quindi ha il potere della creazione: ogni essere umano nasce da una donna, da una condizione simbiotica di esistenza ove non esiste separazione tra il Sé e l'altro, da una vita intrauterina dominata dal sapore dell'infinito. La donna quindi prova dentro di sé la congiunzione degli opposti di cui l’animo ha bisogno. Non solo: la vita di ogni individuo è costellata dal continuo confronto con il femminile».
Ma se tutti nasciamo da una donna, perchè siamo così diversi?
«Perchè man mano che la bambina cresce, sente non di essere "diversa" dalla madre - come accade per il bambino - ma percepisce una affinità profonda. Quindi il bambino, per poter sviluppare la propria identità maschile, deve per forza “rompere” con la madre, la bambina può viceversa permanere a lungo nel limbo d'origine senza che questo comprometta la sua identità».
Insomma le donne sono privilegiate?
«In certo senso sì, persino in una cultura patriarcale come la nostra: la donna ha una possibilità in più, una carta importante da poter giocare durante l'esistenza. Questa possibilità ulteriore del femminile è data dalla sua capacità di destreggiarsi nell'ambito delle relazioni che implicano una identificazione. La donna stabilisce quindi un contatto più profondo con le proprie emozioni, sa interrogarsi sempre su ciò che si cela dietro l'apparenza quotidiana».
Eppure, si dice, gli uomini di oggi sono molto diversi da quelli di un tempo.
«Sì, negli ultimi anni si nota un riavvicinamento dell’uomo all’inconscio, e una maggiore propensione a intraprendere un percorso conoscitivo analitico. Ma evidentemente non è ancora un atteggiamento così generalizzato da entrare nelle indagini di mercato».

neurologi americani

Yahoo Notizie 16.2.04
Depressione : l’intolleranza alla Paroxetina ha basi genetiche
Di MedicinaNews.it


Ricercatori della Standford University School of Medicine (Usa) hanno valutato se le variazioni nei geni codificanti per il citocromo P450 (CYP2D6) o per il recettore della serotonina 5-HT-2A potessero essere alla base dell’intolleranza alla Paroxetina (Seroxat , Sereupin) , un antidepressivo SSRI.
I pazienti anziani (65 anni ed oltre) sono stati randomizzati a ricevere Paroxetina (n=124) o Mirtazapina (Remeron) , un antidepressivo NaSSA (n=122).
Lo studio è durato 8 settimane.
Il 46,3% dei pazienti con genotipo C/C del recettore della serotonina hanno dovuto interrompere il trattamento con la Paroxetina a causa degli effetti indesiderati contro il 16% di coloro che avevano uno o due alleli T.
La gravità degli effetti indesiderati è stata maggiore tra i pazienti con genotipo C/C.
Gli effetti indesiderati causati dalla Mirtazapina non sono invece risultati associati al genotipo del recettore della serotonina.
Il genotipo del complesso enzimatico CYP2D6 non è risultato associato agli effetti indesiderati di entrambi i farmaci. (Xagena 2004)

Murphy GM et al, Am J Psychiatry 2003; 160:1830-1835

storia:
risolto il mistero della congiura dei Pazzi (1478)

Repubblica 16.2.04
Uno storico italiano scopre il mandante della congiura dei Pazzi contro Lorenzo il Magnifico

Risolto dopo cinque secoli uno dei grandi misteri del Rinascimento, fu un vero intrigo internazionale
Dietro i sicari che uccisero Giuliano nella cattedrale di Firenze c'era il duca di Urbino, Federico da Montefeltro
Una lettera cifrata svela il mandante della Congiura dei Pazzi
di ALBERTO FLORES D´ARCAIS


NEW YORK. Grazie alla passione e alla certosina pazienza di uno studioso italiano, dopo oltre cinque secoli uno dei "misteri" della nostra storia passata - il complotto contro i fratelli Medici - è stato risolto. Il 26 aprile del 1478, domenica dell´Ascensione, un gruppo di sicari guidati da Francesco de´ Pazzi uccise con diciannove pugnalate Giuliano de´ Medici, mentre il fratello maggiore Lorenzo (il Magnifico) veniva ferito e riusciva a scampare alla morte rifugiandosi in sacrestia.
Oggi, 526 anni dopo i sanguinosi avvenimenti di quella domenica d´aprile - passati alla storia come la Congiura dei Pazzi - Marcello Simonetta, professore di storia e letteratura rinascimentale alla prestigiosa Wesleyan University in Connecticut, è riuscito a ricostruire tutti gli elementi del puzzle, "incastrando" con una prova documentale degna di un grande giallista uno dei protagonisti occulti di quella vicenda. Un potente dell´epoca, un uomo che finora, sia nella cronache contemporanee che nelle ricostruzioni storiografiche successive era riuscito a restarne fuori, a passare indenne da ogni sospetto: Federico da Montefeltro.
La Congiura dei Pazzi viene di solito presentata come un «affare di famiglia», in cui i Pazzi - potente famiglia fiorentina gelosa della potenza e del carisma dei Medici - organizzarono un complotto per eliminare Lorenzo e Giuliano. Dopo aver tentato di colpirli in diverse occasioni, facendo ricorso a "trucchi" e tradimenti, riuscirono a mettere in pratica il loro piano nel modo più sacrilego e spettacolare, agendo durante la messa solenne nella cattedrale di Firenze. Quello che di solito non si dice, e che sui banchi di scuola non abbiamo imparato, è che dietro questa sanguinaria saga familiare si nasconde una vera e propria congiura internazionale, in cui fanno da sfondo, più o meno occulti, i grandi protagonisti dell´epoca: dal papa Sisto IV (Francesco Della Rovere) al nipote Girolamo Riario, dal re di Napoli Ferrante d´Aragona al duca di Urbino Federico da Montefeltro.
L´enigmatico profilo che del Montefeltro fece Piero della Francesca, e che campeggia in bella mostra in una sala degli Uffizi, nasconde dunque una vicenda esemplare della nostra storia passata, dove intrighi e tradimenti personali e familiari si mescolavano alla religione e alla politica, in cui un papato che aspirava a "conquistare" tutta l´Italia centrale non si tirava indietro, anzi promuoveva, complotti e orrendi delitti.
A Marcello Simonetta il capolavoro di Piero della Francesca non sarebbe stato sufficiente per risolvere il problema. Dalla sua il giovane professore (classe 1968) - uno dei tanti cervelli che il baronale sistema universitario italiano ha indotto, o costretto, a cercare fortuna all´estero - ha avuto anche un pizzico di fortuna, che si é manifestata sotto forma di un trattatello del Quattrocento che insegnava a decifrare i dispacci diplomatici dell´epoca. L´autore del libretto è infatti Cicco Simonetta, Cancelliere degli Sforza a Milano, e antenato del professor Marcello.
Studiando il trattatello Marcello Simonetta ha scoperto la chiave per decriptare una lettera cifrata che aveva trovato nell´archivio privato Ubaldini a Urbino, una lettera inviata dal duca di Urbino ai suoi ambasciatori a Roma due mesi esatti prima che la Congiura dei Pazzi avesse luogo. In quella lettera ci sono le prove del coinvolgimento diretto di Federico da Montefeltro nella storica vicenda.
Decifrare quella lettera per il professore della Wesleyan University è stato tutt´altro che facile e gli ha richiesto parecchio tempo. «Mi sono basato sulla frequenza delle vocali e la combinazione di alcuni gruppi di lettere. Credevo di non venirne mai a capo. Alla fine, dopo circa un mese di lavoro, sono riuscito a penetrare il codice. Mi ha aiutato la ripetizione di una serie di simboli, che corrispondevano a sua santità, il papa Sisto IV».
Il risultato della ricerca è stato pubblicato su "Archivio storico italiano", una delle più importanti riviste in campo storiografico. Da quel documento - spiega il professor Simonetta - l´immagine di Federico da Montefeltro che ne viene fuori è profondamente machiavelliana: «Le sue "opere non furono leonine, ma di volpe", per usare la frase che Dante riferisce a Guido di Montefeltro, un antenato del duca sprofondato nell´Inferno. E questo ci costringe a riconsiderare una visione del Rinascimento edulcorato, "neoplatonico e armonizzato", frutto di una grandiosa copertura ideologica».
Il lavoro dello studioso italiano non finisce però qui. Nel suo libro "Il Rinascimento segreto: il mondo del Segretario da Petrarca a Machiavelli", appena pubblicato dall´editore Franco Angeli approfondisce i segreti del mondo umanistico e cancelleresco con ulteriori novità documentali e interpretative.