Corriere della Sera 20.6.04
NOI EUROPEI
Quello spirito critico che viene da Atene
di EMANUELE SEVERINO
Se c’è, in che consiste lo «spirito europeo»? La Costituzione europea appena approvata lo rispecchia? Si possono dare subito le risposte. Lo «spirito europeo» è lo «spirito critico». E nessuna Costituzione, inevitabile frutto di compromessi, può rispecchiare lo «spirito critico». Al senso di quest’ultima espressione, tuttavia, non si accede facilmente.
Lo spirito critico è lo spirito dell’Europa perché, comparso a un certo punto della storia dell’uomo, in Grecia, si è allargato sino a dominare tutti gli eventi del continente europeo, e nonostante tutto tende oggi a estendersi sull’intero pianeta. Nessun altro «spirito» è stato in grado di far questo.
Per millenni gli uomini vivono nel mito, cioè accettando le consuetudini culturali della società in cui vivono o, prima ancora, facendosi guidare dai loro impulsi. Poi, cinque secoli prima di Cristo, nell’antico popolo greco viene alla luce la volontà di dubitare di ogni consuetudine e di ogni impulso, e di respingere tutto ciò che si lascia respingere.
A questa volontà i Greci hanno dato il nome di «filosofia». «Filosofia» è sinonimo di «spirito critico». O ne è la radice. Respingendo i «sepolcri imbiancati» ed esaltando la «retta intenzione» Gesù è un grande sostenitore dello spirito critico - anche se sarà tradito da molti che si porranno al suo seguito. Il cristianesimo autentico è la religione filosofica per eccellenza, si è detto. Ed è giusto, per quel tanto che il cristianesimo è critica dei sepolcri. Alla base della libertà, della democrazia, del rispetto della dignità dell’uomo, che la Costituzione europea dichiara di promuovere, c’è quello spirito, cioè la lotta contro le antichissime e le più recenti tirannidi che esigono la cieca accettazione dei loro comandi.
L’atteggiamento critico si estende sin dove gli è possibile. Non si ferma sin quando gli è possibile detronizzare tiranni e abbattere idoli. Si ferma cioè solo dinanzi all’innegabile - e l’innegabile autentico è la verità. «Filo-sofia» significa, alla lettera, «cura per ciò che è luminoso ( saphés )»; e la verità è per essenza ciò che si mantiene nella luce.
Tutte le forme della cultura e della civiltà europea tengono al loro centro questa volontà di verità. Che non può essere regolata da leggi esterne - e in questo senso è «anarchica» -, ma solo dalla legge che prescrive di respingere tutto ciò che può esser respinto - e in questo senso è sommamente non anarchica. È palese l’anima comune della verità, della scienza moderna e della crescente razionalizzazione dell’agire in Europa. E anche dell’arte europea - la quale conduce sì nel sogno, ma perché ha costantemente dinanzi i connotati della veglia, cioè della verità del mondo, da cui vuol prendere provvisorio o definitivo congedo.
Il rapporto alla verità divide gli uomini perché di fronte a essa ogni individuo deve essere solo e perdere in qualche modo di vista quel che fanno gli altri. Non guardava in questa direzione Gesù, quando diceva di esser venuto a portare la spada? Nessuna meraviglia se, a differenza di quanto accade negli Stati Uniti, gli Stati europei, come le antiche città greche, e ripetendo la diaspora degli individui rispetto alla verità, siano così differenti, divergenti, in lotta e liberi gli uni dagli altri. Una libertà, questa, che non ha nulla a che vedere con le degenerazioni dello spirito critico, come la libertà che è licenza delle masse europee e occidentali, o come l’inerzia culturale che trasforma in un dogma lo stesso spirito critico. Del quale il cristianesimo, nel suo sviluppo storico, è stato un grande nemico.
Si comprende quindi che cosa stia al fondo delle riserve di chi avrebbe dovuto inserire nella Costituzione europea il riconoscimento delle nostre «radici cristiane». È breve il tragitto che (indipendentemente dalle intenzioni) conduce da questo riconoscimento a quello della sopravvivenza di tali radici e dunque al riconoscimento che l’Europa è uno Stato cristiano - con l’inevitabile conseguenza che una condotta di vita non cristiana sarebbe una violazione della Costituzione europea. È un’affermazione dello spirito critico che l’Europa non abbia i suoi «Patti Lateranensi».
Fuori discussione, dunque, l’importanza della Costituzione europea. Ma è ancora un passo formale. Più decisivo è come l’Europa possa disporre, sul piano della politica estera, di una «capacità operativa ricorrendo a mezzi civili e militari» (art. 40 della Costituzione).
L’Europa non può allontanarsi dagli Stati Uniti, ma può esserne un interlocutore credibile e dunque un valido alleato solo se è militarmente forte. Penso alla forza che, in un mondo sempre più pericoloso, non può essere improvvisata, e che però esiste già, ed è l’armamento nucleare russo. Europa e Russia stanno già da tempo riavvicinandosi.
Come potrebbe essere diversamente? Se si prospetta l’aggregazione della Turchia all’Europa, come ignorare, oltre al resto, che lo «spirito critico» ha condotto in Russia al tramonto del comunismo?
Detto questo, il passo più decisivo incomincia a questo punto: gettar luce nell’abisso inesplorato da cui lo «spirito critico» è emerso.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
domenica 20 giugno 2004
dagli USA:
nuove terapie per ricchi contro lo stress
In Usa si usa
Contro lo stress il gioco del barbone
di ALESSANDRA FARKAS
NEW YORK - Dopo New York, Montreal, Londra e Parigi, gli organizzatori sono decisi ad esportare la nuova moda per ricchi insoddisfatti in tutte le capitali europee, Roma inclusa. Se ci riusciranno, anche nella "città eterna" politici di grido e manager di successo presto potranno riscattare i propri peccati attraverso lo "Street Retreat", ritiro spirituale (e non solo) sulla strada. Popolarissimo tra i broker di Wall Street che lo praticano nella vicina Bowery, lo street retreat è concepito per mondare lo spirito, non certo il corpo. I partecipanti sono invitati ad indossare stracci e a non lavarsi per una settimana prima di imbarcarsi nel viaggio mistico di tre giorni e due notti tra i topi e la spazzatura dei quartieri più malfamati delle ricche metropoli occidentali.
"Per calarsi nell'esperienza bisogna puzzare, assomigliando a homeless veri - spiega Francisco Lugovina, un monaco buddista del Peacemaker Center di New York, che organizza i ritiri da anni - i partecipanti non possono usare cellulari, orologi, soldi e libri. Sono ammessi solo i sacchi di plastica, per raccogliere cibo dai centri d'accoglienza per poveracci".
Gli effetti del ritiro? "Miracolosi", replica Tom Wolfe, autore del "Falò delle vanità", che ne ha tratto ispirazione per uno dei suoi libri. "E' un'alternativa straordinaria alle costosissime Terme - gli fa eco Robert Dunne, investment bunker - dopo mille diete fallite, è l'unico sistema che mi ha fatto dimagrire".
Ma gli avvocati degli homeless gridano già allo scandalo. "E' un divertimento per ricchi viziati che alla fine del gioco tornano nelle loro ville con piscina e servitù", punta il dito il sociologo Bob Rosen. "Scimmiottare il dramma degli homeless è osceno ed immorale - gli fa eco la psicologa Liz Hase - chi lavora con i senzatetto sa quanto devastante è la vita sulla strada".
La tentazione di scambiarsi i ruoli non è affatto nuova, come testimonia "Il Principe e il Povero" di Mark Twain. "Ma nessun miliardario ha pensato di aprire la propria casa ad un homeless per tre giorni - ribatte Rosen - potrebbe prenderci gusto e rifiutarsi di tornare tra i topi".
Contro lo stress il gioco del barbone
di ALESSANDRA FARKAS
NEW YORK - Dopo New York, Montreal, Londra e Parigi, gli organizzatori sono decisi ad esportare la nuova moda per ricchi insoddisfatti in tutte le capitali europee, Roma inclusa. Se ci riusciranno, anche nella "città eterna" politici di grido e manager di successo presto potranno riscattare i propri peccati attraverso lo "Street Retreat", ritiro spirituale (e non solo) sulla strada. Popolarissimo tra i broker di Wall Street che lo praticano nella vicina Bowery, lo street retreat è concepito per mondare lo spirito, non certo il corpo. I partecipanti sono invitati ad indossare stracci e a non lavarsi per una settimana prima di imbarcarsi nel viaggio mistico di tre giorni e due notti tra i topi e la spazzatura dei quartieri più malfamati delle ricche metropoli occidentali.
"Per calarsi nell'esperienza bisogna puzzare, assomigliando a homeless veri - spiega Francisco Lugovina, un monaco buddista del Peacemaker Center di New York, che organizza i ritiri da anni - i partecipanti non possono usare cellulari, orologi, soldi e libri. Sono ammessi solo i sacchi di plastica, per raccogliere cibo dai centri d'accoglienza per poveracci".
Gli effetti del ritiro? "Miracolosi", replica Tom Wolfe, autore del "Falò delle vanità", che ne ha tratto ispirazione per uno dei suoi libri. "E' un'alternativa straordinaria alle costosissime Terme - gli fa eco Robert Dunne, investment bunker - dopo mille diete fallite, è l'unico sistema che mi ha fatto dimagrire".
Ma gli avvocati degli homeless gridano già allo scandalo. "E' un divertimento per ricchi viziati che alla fine del gioco tornano nelle loro ville con piscina e servitù", punta il dito il sociologo Bob Rosen. "Scimmiottare il dramma degli homeless è osceno ed immorale - gli fa eco la psicologa Liz Hase - chi lavora con i senzatetto sa quanto devastante è la vita sulla strada".
La tentazione di scambiarsi i ruoli non è affatto nuova, come testimonia "Il Principe e il Povero" di Mark Twain. "Ma nessun miliardario ha pensato di aprire la propria casa ad un homeless per tre giorni - ribatte Rosen - potrebbe prenderci gusto e rifiutarsi di tornare tra i topi".
«il modello di sapere razionale ha neutralizzato l'altro da sè»
La Stampa TuttoLibri 19.6.04
Le emozioni fanno bene alla ragione
Come dimostrano l’amore e il dolore, formano i nostri giudizi sul mondo, non c’è logos senza pathos Martha Nussbaum intreccia filosofia e letteratura, Aristotele e gli Stoici con Dante, Proust e Joyce
di Marco Vozza
TRA ragione e passione esiste un disaccordo antico, di cui la filosofia è la principale responsabile. Ripercorrere la storia del pensiero filosofico - almeno da Platone a Kant - significa innanzitutto cogliere le differenti modalità mediante le quali il modello di sapere razionale ha neutralizzato l'altro da sè, individuato nel plesso di emozioni, desideri, affetti e passioni, che agiscono nella vita degli individui determinandone prospettive, valutazioni e decisioni. Il modello aristotelico che utilizza eticamente la forza delle passioni, modificandole razionalmente, che accoglie la ricchezza della struttura cognitiva insita nelle emozioni e nei sentimenti, non è stato certamente quello vincente nella tradizione del pensiero filosofico. Ad esso si contrappone il modello stoico, secondo il quale le passioni vanno estirpate alla radice, modello repressivo la cui influenza sarà ancora avvertita nei testi di Cartesio e di Kant. Alla luce del paradigma normativo introdotto dagli Stoici, ogni credenza espressa attraverso un contenuto emotivo o passionale è da considerarsi falsa o irrazionale. Per gli Stoici le passioni sono giudizi falsi, erronee valutazioni di un anima turbata, da cui il sapiente è immune. Questa istanza logocentrica presuppone una nuova accezione dell'identità della filosofia, concepita in età ellenistica come medicina dell'anima, terapia del desiderio, cura delle malattie causate da false opinioni, così come il sapere medico cerca di lenire quelle causate dal corpo. Ora la filosofia è diventata pharmakon, rimedio, tecnica di ripristino, correttivo terapeutico nei confronti dei dettami naturali affermati dai desideri e dalle passioni. Mentre Aristotele e i suoi seguaci peripatetici si accontentano di moderare le passioni, gli Stoici sostengono che esse vanno risolutamente bandite da quel dominio razionale della saggezza che richiede assoluta imperturbabilità, perenne apathéia, assenza di dolore ma anche privazione affettiva: ogni passione è colpevole di oltraggio alla ragione, di corruzione della verità, di pervertimento del bene, di deviazione dalla retta via; non esistono pertanto passioni moderate, compatibili con l'esercizio della virtù razionale. Le passioni sono la manifestazione di un'astuzia della natura da combattere mediante l'astuzia della ragione; in quanto medicina per l'anima, analgesico per lenire il dolore dell'esistenza, per debellarne la contingenza, la filosofia, piuttosto che assecondare, deve contrastare la natura, deve negare legittimità ai suoi decreti spontanei, diffidando di ogni forma di esperienza sensibile e immediata. Per gli Stoici e per tutti i fautori della neutralizzazione epistemica delle passioni, il logos deve emergere dalle rovine del pathos, la ragione deve trionfare sulla follìa conseguente all'assenso accordato alle impressioni sensibili, all'eccessivo interesse rivolto al mondo esterno, al ritmo delle sue precarie fluttuazioni, ai dettami instabili della carne. Martha Nussbaum ci ha spiegato esemplarmente queste strategie filosofiche di immunizzazione del logos nel volume intitolato Terapia del desiderio (tradotto lodevolmente qualche anno fa da Vita e Pensiero). Nel ricostruire la dottrina ellenistica, l'autrice suggeriva già una prospettiva meno schematica, muovendo dal dubbio che l'ideale di autoderminazione della ragione richieda l'estinzione delle passioni, che il conseguimento dell'eudaimonía implichi il distacco dal mondo; si potrebbe invece immaginare una nozione più estesa di razionalità pratica capace di accogliere sentimenti quali l'amore, la simpatia, lo stupore e la sofferenza, una concezione della verità in cui comprendere il significato di una proposizione non sia più una fredda operazione dell'intelletto analitico bensì un evento che mobiliti una riserva di passioni, anche quelle dolorose, al fine di coinvolgere tutto il proprio essere e predisporlo ad un eventuale cambiamento. Se è dal mondo della vita che scaturiscono e traggono significato le nostre strutture intellettuali, non vi è logos senza pathos, non vi è ragione che non sia alimentata dalla passione, dall'alterità dell'emozione, dalla contingenza dell'affetto, dalla vibrazione del piacere, dalla contrazione del dolore, istanze le quali - lungi dall'ostacolarne la manifestazione - costituiscono la sua irrinunciabile soluzione nutritizia. Queste premesse sono ora sviluppate in modo autonomo in un libro, o meglio in un'enciclopedia di 850 pagine, che costituisce il più importante contributo contemporaneo alla teoria delle emozioni: L'intelligenza delle emozioni (tuttavia, nell'originale del 2001: Upheavals of Thought. The Intelligence of Emotions). Si dovrà premettere che la filosofia degli ultimi due secoli - almeno da Nietzsche in poi - ha operato una cospicua valorizzazione pragmatica delle passioni e, più recentemente, si è assistito al significativo riconoscimento da parte delle neuroscienze del ruolo delle emozioni nella costruzione dei modelli di razionalità (si pensi agli studi di Damasio); ma l'intento della Nussbaum è ancor più ambizioso, volendo dimostrare come le emozioni siano un dispositivo di pensiero capace di conoscere e valutare gli eventi del mondo esterno, che consideriamo rilevanti per il nostro benessere, per la nostra prosperità personale. Pertanto, non soltanto pensieri ed emozioni cooperano nell'attività cognitiva, ma - ben più radicalmente - le emozioni sono pensieri, attive in particolar modo laddove il soggetto scopre la propria passività nei confronti del mondo esterno, la propria ingovernabile vulnerabilità: l'esperienza del dolore e l'elaborazione del lutto sono a tal proposito decisive, come mostra l'autrice analizzando le proprie reazioni di fronte alla malattia e alla morte della madre. Le emozioni sono dunque forme di giudizio valutativo nei confronti di eventi incontrollabili dall'agente, concernenti per lo più il nostro essere in relazione con altri. Con un termine fuorviante perché non privo di ambiguità, Nussbaum considera neostoica la sua teoria delle emozioni, in quanto condivide il presupposto che il logos non può essere partecipe di elementi non-cognitivi, concezione emendata dal falso assunto che le emozioni siano giudizi fallaci. Le emozioni sono sensibili alla configurazione data del mondo esterno, esprimono la consapevolezza dell'autonomia degli eventi contingenti e registrano le modificazioni che essi apportano alla compagine del Sé, ai progetti e alle prospettive coltivate in vista di una auspicabile eudaimonìa, individuale e collettiva. Siamo innanzitutto creature percettive, oltre che inquiete, esposte ad eventi e situazioni mutevoli, che spesso ci feriscono e scardinano il nostro involucro narcisistico, il quale diventa una zavorra quando le nostre emozioni riguardano l'esperienza dell'amore, a cui Nussbaum dedica trecento pagine di stupefacente acume analitico, scegliendo la letteratura - da Dante a Joyce - come terreno elettivo di indagine. Questo libro, che annovera Proust tra gli autori più citati (insieme alla stessa autrice che, in quanto a narcisismo, non ha nulla da invidiare a certi suoi accreditati colleghi), si conclude con un suggestivo tentativo di dimostrare l'improbabile compatibilità dell'amore con l'idea di una vita eticamente accettabile. Notoriamente, Eros non è democratico né liberale e tantomeno persegue il pluralismo o l'interesse collettivo, ma è comunque possibile ipotizzare (favoleggiare?) una riforma etica dell'amore che tuteli l'individualità dell'altro, promuova la compassione e rispetti il requisito di reciprocità. Se abbandonassimo sconsiderati desideri d'onnipotenza, gelosie e prevaricazioni, solipsismi e narcisismi, forse potremmo finalmente fare esperienza di una vita affettivamente connotata dal disinteresse. Ma tutto ciò non compete ad Eros, semmai evoca Philìa.
Le emozioni fanno bene alla ragione
Come dimostrano l’amore e il dolore, formano i nostri giudizi sul mondo, non c’è logos senza pathos Martha Nussbaum intreccia filosofia e letteratura, Aristotele e gli Stoici con Dante, Proust e Joyce
di Marco Vozza
TRA ragione e passione esiste un disaccordo antico, di cui la filosofia è la principale responsabile. Ripercorrere la storia del pensiero filosofico - almeno da Platone a Kant - significa innanzitutto cogliere le differenti modalità mediante le quali il modello di sapere razionale ha neutralizzato l'altro da sè, individuato nel plesso di emozioni, desideri, affetti e passioni, che agiscono nella vita degli individui determinandone prospettive, valutazioni e decisioni. Il modello aristotelico che utilizza eticamente la forza delle passioni, modificandole razionalmente, che accoglie la ricchezza della struttura cognitiva insita nelle emozioni e nei sentimenti, non è stato certamente quello vincente nella tradizione del pensiero filosofico. Ad esso si contrappone il modello stoico, secondo il quale le passioni vanno estirpate alla radice, modello repressivo la cui influenza sarà ancora avvertita nei testi di Cartesio e di Kant. Alla luce del paradigma normativo introdotto dagli Stoici, ogni credenza espressa attraverso un contenuto emotivo o passionale è da considerarsi falsa o irrazionale. Per gli Stoici le passioni sono giudizi falsi, erronee valutazioni di un anima turbata, da cui il sapiente è immune. Questa istanza logocentrica presuppone una nuova accezione dell'identità della filosofia, concepita in età ellenistica come medicina dell'anima, terapia del desiderio, cura delle malattie causate da false opinioni, così come il sapere medico cerca di lenire quelle causate dal corpo. Ora la filosofia è diventata pharmakon, rimedio, tecnica di ripristino, correttivo terapeutico nei confronti dei dettami naturali affermati dai desideri e dalle passioni. Mentre Aristotele e i suoi seguaci peripatetici si accontentano di moderare le passioni, gli Stoici sostengono che esse vanno risolutamente bandite da quel dominio razionale della saggezza che richiede assoluta imperturbabilità, perenne apathéia, assenza di dolore ma anche privazione affettiva: ogni passione è colpevole di oltraggio alla ragione, di corruzione della verità, di pervertimento del bene, di deviazione dalla retta via; non esistono pertanto passioni moderate, compatibili con l'esercizio della virtù razionale. Le passioni sono la manifestazione di un'astuzia della natura da combattere mediante l'astuzia della ragione; in quanto medicina per l'anima, analgesico per lenire il dolore dell'esistenza, per debellarne la contingenza, la filosofia, piuttosto che assecondare, deve contrastare la natura, deve negare legittimità ai suoi decreti spontanei, diffidando di ogni forma di esperienza sensibile e immediata. Per gli Stoici e per tutti i fautori della neutralizzazione epistemica delle passioni, il logos deve emergere dalle rovine del pathos, la ragione deve trionfare sulla follìa conseguente all'assenso accordato alle impressioni sensibili, all'eccessivo interesse rivolto al mondo esterno, al ritmo delle sue precarie fluttuazioni, ai dettami instabili della carne. Martha Nussbaum ci ha spiegato esemplarmente queste strategie filosofiche di immunizzazione del logos nel volume intitolato Terapia del desiderio (tradotto lodevolmente qualche anno fa da Vita e Pensiero). Nel ricostruire la dottrina ellenistica, l'autrice suggeriva già una prospettiva meno schematica, muovendo dal dubbio che l'ideale di autoderminazione della ragione richieda l'estinzione delle passioni, che il conseguimento dell'eudaimonía implichi il distacco dal mondo; si potrebbe invece immaginare una nozione più estesa di razionalità pratica capace di accogliere sentimenti quali l'amore, la simpatia, lo stupore e la sofferenza, una concezione della verità in cui comprendere il significato di una proposizione non sia più una fredda operazione dell'intelletto analitico bensì un evento che mobiliti una riserva di passioni, anche quelle dolorose, al fine di coinvolgere tutto il proprio essere e predisporlo ad un eventuale cambiamento. Se è dal mondo della vita che scaturiscono e traggono significato le nostre strutture intellettuali, non vi è logos senza pathos, non vi è ragione che non sia alimentata dalla passione, dall'alterità dell'emozione, dalla contingenza dell'affetto, dalla vibrazione del piacere, dalla contrazione del dolore, istanze le quali - lungi dall'ostacolarne la manifestazione - costituiscono la sua irrinunciabile soluzione nutritizia. Queste premesse sono ora sviluppate in modo autonomo in un libro, o meglio in un'enciclopedia di 850 pagine, che costituisce il più importante contributo contemporaneo alla teoria delle emozioni: L'intelligenza delle emozioni (tuttavia, nell'originale del 2001: Upheavals of Thought. The Intelligence of Emotions). Si dovrà premettere che la filosofia degli ultimi due secoli - almeno da Nietzsche in poi - ha operato una cospicua valorizzazione pragmatica delle passioni e, più recentemente, si è assistito al significativo riconoscimento da parte delle neuroscienze del ruolo delle emozioni nella costruzione dei modelli di razionalità (si pensi agli studi di Damasio); ma l'intento della Nussbaum è ancor più ambizioso, volendo dimostrare come le emozioni siano un dispositivo di pensiero capace di conoscere e valutare gli eventi del mondo esterno, che consideriamo rilevanti per il nostro benessere, per la nostra prosperità personale. Pertanto, non soltanto pensieri ed emozioni cooperano nell'attività cognitiva, ma - ben più radicalmente - le emozioni sono pensieri, attive in particolar modo laddove il soggetto scopre la propria passività nei confronti del mondo esterno, la propria ingovernabile vulnerabilità: l'esperienza del dolore e l'elaborazione del lutto sono a tal proposito decisive, come mostra l'autrice analizzando le proprie reazioni di fronte alla malattia e alla morte della madre. Le emozioni sono dunque forme di giudizio valutativo nei confronti di eventi incontrollabili dall'agente, concernenti per lo più il nostro essere in relazione con altri. Con un termine fuorviante perché non privo di ambiguità, Nussbaum considera neostoica la sua teoria delle emozioni, in quanto condivide il presupposto che il logos non può essere partecipe di elementi non-cognitivi, concezione emendata dal falso assunto che le emozioni siano giudizi fallaci. Le emozioni sono sensibili alla configurazione data del mondo esterno, esprimono la consapevolezza dell'autonomia degli eventi contingenti e registrano le modificazioni che essi apportano alla compagine del Sé, ai progetti e alle prospettive coltivate in vista di una auspicabile eudaimonìa, individuale e collettiva. Siamo innanzitutto creature percettive, oltre che inquiete, esposte ad eventi e situazioni mutevoli, che spesso ci feriscono e scardinano il nostro involucro narcisistico, il quale diventa una zavorra quando le nostre emozioni riguardano l'esperienza dell'amore, a cui Nussbaum dedica trecento pagine di stupefacente acume analitico, scegliendo la letteratura - da Dante a Joyce - come terreno elettivo di indagine. Questo libro, che annovera Proust tra gli autori più citati (insieme alla stessa autrice che, in quanto a narcisismo, non ha nulla da invidiare a certi suoi accreditati colleghi), si conclude con un suggestivo tentativo di dimostrare l'improbabile compatibilità dell'amore con l'idea di una vita eticamente accettabile. Notoriamente, Eros non è democratico né liberale e tantomeno persegue il pluralismo o l'interesse collettivo, ma è comunque possibile ipotizzare (favoleggiare?) una riforma etica dell'amore che tuteli l'individualità dell'altro, promuova la compassione e rispetti il requisito di reciprocità. Se abbandonassimo sconsiderati desideri d'onnipotenza, gelosie e prevaricazioni, solipsismi e narcisismi, forse potremmo finalmente fare esperienza di una vita affettivamente connotata dal disinteresse. Ma tutto ciò non compete ad Eros, semmai evoca Philìa.
«depressione e ansia sono autentiche malattie sociali»
La Stampa TuttoLibri 19.6.04
Ma siamo sempre più tristi
Specie tra i giovani cresce il disagio psichico in un’epoca di incertezza, di fronte a un futuro visto come minaccia, individui solitari, con legami e affetti effimeri, liquidi: le analisi concordi di Benasayag e Schmit e di Zygmunt Bauman
di Lelio Demichelis
SIAMO tristi e ansiosi, chiusi e impauriti, ma viviamo in società esasperatamente edoniste. Se tutto è permesso, perché non farlo? Eppure, depressione e ansia sono autentiche malattie sociali. Una contraddizione? No. Miguel Benasayag e Gérard Schmit - filosofo e psicanalista il primo, psichiatra infantile il secondo - operano in Francia nel campo dei servizi di aiuto psicologico al disagio giovanile. Hanno scritto un libro splendido, da leggere e meditare, L’epoca delle passioni tristi. Preoccupati dal dilagare delle patologie psichiche tra i giovani, i due autori hanno cercato di capirne le cause. Ad essere in crisi è oggi soprattutto (prima di tutto) la società, ma è una crisi diversissima da quelle del passato, perché ribalta i suoi fondamenti culturali e simbolici. Una società attraversata oggi da quelle che Spinoza chiamava appunto «passioni tristi», riferendosi non alla tristezza del pianto ma all’impotenza e alla disgregazione. Impotenza per una realtà che non si controlla e che si subisce; disgregazione per la svalutazione di valori e legami. I legami tra persone, soprattutto, oggi debolissimi, fragili. Già Aristotele - ricordano Benasayag e Schmit - spiegava che «schiavo è colui che non ha legami. Libero è invece colui che ha molti legami e molti obblighi verso gli altri e il luogo in cui vive. Paradossalmente - concludono - la nostra società ha un ideale di libertà che somiglia alla vita dello schiavo secondo Aristotele». Oggi davvero siamo sempre più «individui» solitari, sempre meno «persone» capaci di legami e di ascolto. E la novità: le crisi psichiche individuali «avvengono in effetti in una società essa stessa in crisi». Una società - dominata dalla tecnica, dalla logica economicistica e dal bisogno di confermare incessantemente questo «ordine» che cura con i farmaci e non con l’ascolto del paziente. Quell’ascolto che oggi le nostre società (e non solo la medicina) hanno quasi del tutto rimosso. Ogni paziente è invece sempre e soprattutto una «persona» e come tale andrebbe trattata. «Persona» implica qualcosa di molteplice e di aperto al mondo, mai etichettabile rigidamente, mai classificabile «a priori» secondo questionari astratti e modelli preconfezionati di patologie, secondo una certa psicanalisi. Ma la tecnica non ama il molteplice, deve sempre ridurlo a norma, a standard. Anche la medicina. Come la società intera. Qualcosa di radicalmente nuovo è successo: il futuro ha cambiato «segno». Un paradosso astratto? No. «Assistiamo infatti, nella civiltà occidentale al passaggio da una fiducia smisurata a una diffidenza altrettanto estrema nei confronti del futuro». Trionfa l’incertezza. Non che sia sempre negativa, l’incertezza, anzi. Ma certo siamo passati dal mito «dell’onnipotenza dell’uomo costruttore della storia ad un altro mito simmetrico e speculare, quello della sua totale impotenza di fronte alla complessità del mondo». Il mondo non più come «promessa» e come Futuro/Progresso da costruire, dunque, ma come «minaccia» incessante. Ecco allora la paura, la chiusura in se stessi ma anche l’educazione dei giovani alla competizione, al successo, al far da soli. Libero davvero è solo colui che domina, dicono il pensiero (il conformismo) contemporaneo e la nuova pedagogia sociale. Alla fine non si domina nulla, nemmeno se stessi. Perché (ci) siamo privati di quella cosa fondamentale che si chiama legami. Come uscirne? Con la clinica della situazione e dell’accompagnamento, come la definiscono Benasayag e Schmit - dell’ascolto soprattutto. «Dobbiamo sostenere i legami concreti che spingono le persone fuori dall’isolamento nel quale la società tende a rinchiuderle in nome degli ideali individualistici». Che sono ideali fasulli, utili solo ad un nuovo ordine sociale.
Ma come creare legami se il modello dominante è fondato su legami deboli, transitori, effimeri, da consumare rapidamente? Anche nell’amore, ma non solo: ed ecco allora questo Amore liquido di Zygmunt Bauman, uno dei maggiori sociologi di oggi, teorico proprio di quella modernità liquida che ha preso il posto della vecchia modernità pesante, vecchia fabbrica e vecchia società di massa. Legami oggi da poter sciogliere e interrompere come se si cliccasse col mouse e si uscisse dal collegamento. Non legami finché morte non ci separi, dunque, ma legami deliberatamente deboli. Con un di più. Quell’homo oeconomicus «solitario, egoistico ed egocentrico» unito all’homo consumens, altrettanto «solitario, egoista ed egocentrico» che non conosce altra cura per la propria solitudine che il consumare eterodiretto. «Sono uomini e donne privi di legami sociali, gli abitanti ideali dell’economia di mercato e il genere di persone che fanno felici gli analisti del Pil». Cosa può, contro questo meccanismo, l’economia morale, il dono, l’aiuto? Chi crede davvero di dover amare il prossimo suo come se stesso? Come ri-creare legami e solidarietà? L’analisi di Bauman è come sempre efficace. E feroce: la solidarietà umana - scrive - «è la prima vittima dei trionfi del mercato dei consumi». A conferma che è la società ad essere malata.
Ma siamo sempre più tristi
Specie tra i giovani cresce il disagio psichico in un’epoca di incertezza, di fronte a un futuro visto come minaccia, individui solitari, con legami e affetti effimeri, liquidi: le analisi concordi di Benasayag e Schmit e di Zygmunt Bauman
di Lelio Demichelis
SIAMO tristi e ansiosi, chiusi e impauriti, ma viviamo in società esasperatamente edoniste. Se tutto è permesso, perché non farlo? Eppure, depressione e ansia sono autentiche malattie sociali. Una contraddizione? No. Miguel Benasayag e Gérard Schmit - filosofo e psicanalista il primo, psichiatra infantile il secondo - operano in Francia nel campo dei servizi di aiuto psicologico al disagio giovanile. Hanno scritto un libro splendido, da leggere e meditare, L’epoca delle passioni tristi. Preoccupati dal dilagare delle patologie psichiche tra i giovani, i due autori hanno cercato di capirne le cause. Ad essere in crisi è oggi soprattutto (prima di tutto) la società, ma è una crisi diversissima da quelle del passato, perché ribalta i suoi fondamenti culturali e simbolici. Una società attraversata oggi da quelle che Spinoza chiamava appunto «passioni tristi», riferendosi non alla tristezza del pianto ma all’impotenza e alla disgregazione. Impotenza per una realtà che non si controlla e che si subisce; disgregazione per la svalutazione di valori e legami. I legami tra persone, soprattutto, oggi debolissimi, fragili. Già Aristotele - ricordano Benasayag e Schmit - spiegava che «schiavo è colui che non ha legami. Libero è invece colui che ha molti legami e molti obblighi verso gli altri e il luogo in cui vive. Paradossalmente - concludono - la nostra società ha un ideale di libertà che somiglia alla vita dello schiavo secondo Aristotele». Oggi davvero siamo sempre più «individui» solitari, sempre meno «persone» capaci di legami e di ascolto. E la novità: le crisi psichiche individuali «avvengono in effetti in una società essa stessa in crisi». Una società - dominata dalla tecnica, dalla logica economicistica e dal bisogno di confermare incessantemente questo «ordine» che cura con i farmaci e non con l’ascolto del paziente. Quell’ascolto che oggi le nostre società (e non solo la medicina) hanno quasi del tutto rimosso. Ogni paziente è invece sempre e soprattutto una «persona» e come tale andrebbe trattata. «Persona» implica qualcosa di molteplice e di aperto al mondo, mai etichettabile rigidamente, mai classificabile «a priori» secondo questionari astratti e modelli preconfezionati di patologie, secondo una certa psicanalisi. Ma la tecnica non ama il molteplice, deve sempre ridurlo a norma, a standard. Anche la medicina. Come la società intera. Qualcosa di radicalmente nuovo è successo: il futuro ha cambiato «segno». Un paradosso astratto? No. «Assistiamo infatti, nella civiltà occidentale al passaggio da una fiducia smisurata a una diffidenza altrettanto estrema nei confronti del futuro». Trionfa l’incertezza. Non che sia sempre negativa, l’incertezza, anzi. Ma certo siamo passati dal mito «dell’onnipotenza dell’uomo costruttore della storia ad un altro mito simmetrico e speculare, quello della sua totale impotenza di fronte alla complessità del mondo». Il mondo non più come «promessa» e come Futuro/Progresso da costruire, dunque, ma come «minaccia» incessante. Ecco allora la paura, la chiusura in se stessi ma anche l’educazione dei giovani alla competizione, al successo, al far da soli. Libero davvero è solo colui che domina, dicono il pensiero (il conformismo) contemporaneo e la nuova pedagogia sociale. Alla fine non si domina nulla, nemmeno se stessi. Perché (ci) siamo privati di quella cosa fondamentale che si chiama legami. Come uscirne? Con la clinica della situazione e dell’accompagnamento, come la definiscono Benasayag e Schmit - dell’ascolto soprattutto. «Dobbiamo sostenere i legami concreti che spingono le persone fuori dall’isolamento nel quale la società tende a rinchiuderle in nome degli ideali individualistici». Che sono ideali fasulli, utili solo ad un nuovo ordine sociale.
Ma come creare legami se il modello dominante è fondato su legami deboli, transitori, effimeri, da consumare rapidamente? Anche nell’amore, ma non solo: ed ecco allora questo Amore liquido di Zygmunt Bauman, uno dei maggiori sociologi di oggi, teorico proprio di quella modernità liquida che ha preso il posto della vecchia modernità pesante, vecchia fabbrica e vecchia società di massa. Legami oggi da poter sciogliere e interrompere come se si cliccasse col mouse e si uscisse dal collegamento. Non legami finché morte non ci separi, dunque, ma legami deliberatamente deboli. Con un di più. Quell’homo oeconomicus «solitario, egoistico ed egocentrico» unito all’homo consumens, altrettanto «solitario, egoista ed egocentrico» che non conosce altra cura per la propria solitudine che il consumare eterodiretto. «Sono uomini e donne privi di legami sociali, gli abitanti ideali dell’economia di mercato e il genere di persone che fanno felici gli analisti del Pil». Cosa può, contro questo meccanismo, l’economia morale, il dono, l’aiuto? Chi crede davvero di dover amare il prossimo suo come se stesso? Come ri-creare legami e solidarietà? L’analisi di Bauman è come sempre efficace. E feroce: la solidarietà umana - scrive - «è la prima vittima dei trionfi del mercato dei consumi». A conferma che è la società ad essere malata.
da Repubblica:
il canale del parto
il canale del parto
una segnalato da Rita e da Tonino Scrimenti
Dall’inserto di Repubblica "Salute" del 17 giugno 2004 .
IL NEONATO PER USCIRE DAL CORPO DELLA MAMMA È SOTTOPOSTO A VIOLENTI SFORZI COSI’ IL FETO PRODUCE LIVELLI ELEVATISSIMI DI CATECOLAMINE, ADRENALINA E NORADRENALINA CHE GLI CONSENTONO DI ADATTARSI AL MONDO ESTERNO
di Johann Rossi Mason
Venire al mondo dopo nove mesi in cui si è stati protetti e cullati dal ventre materno è certamente un evento stressante. Tanto che sembra che nella parte più profonda della nostra mente, in particolari momenti, vi sia un desiderio intenso di tornare alla beatitudine del ventre materno. Nascere quindi, e affrontare un mondo completamente nuovo, di luci violente, di suoni non più ovattati, di sensazioni tattili e sensoriali intense, non più mediate dal tiepido liquido amniotico. Un bel impegno per un esserino che viene al mondo completamente dipendente dalle cure materne per sopravvivere. Un vero e proprio stress, direbbero alcuni, in quanto sicuramente la nascita è un evento stressante: l'importante è che dopo il neonato ritrovi la serenità grazie alle amorevoli cure di una madre "sufficientemente buona".
Ma purtroppo non è sempre così, e studi sulla fisiologia dello stress, unitamente alla valutazione del comportamento dei neonati come indicatore di disagio, ci pone il dubbio che questi bambini vengano al mondo un po' più stanchi, un po' più provati e, pertanto, quasi già stressati al primo vagito.
Il neonato durante il travaglio è costretto nel canale del parto per diverse ore: la testa è sottoposta aduna forte pressione, l'ossigeno va e viene a causa delle contrazioni dell'utero. Per nascere il feto produce livelli elevatissimi di catecolamine, adrenalina e noradrenalina, che gli consentiranno di adattarsi all'ambiente esterno. I picchi ormonali servono a liberare i polmoni e a prepararli al primo respiro, grassi e glicogeno vengono messi a disposizione come fonte di energia e per fronteggiare le prime ore in attesa ella prima poppata al seno o al biberon. Dopo questo vero e proprio tour de force, tutto torna alla normalità. E' la quiete dopo la tempesta ormonale. Il neonato è pronto per il primo, magico incontro con la madre e poi riposerà tranquillo, per recuperare le forze.
Diverso è il caso in cui, al contrario, il neonato è sottoposto a stimoli stressanti da periodi prolungati precedenti al parto e rimane sottoposto all'azione degli stressor ambientali anche nelle settimane dopo la nascita sino al compimento del primo anno di vita. Tuttavia tale condizione è una risposta adattiva rispetto a stimoli esterni che tendono a turbare l'equilibrio del nostro organismo. Un esempio lo fornisce il professor Andrea Sgoifo, capo del Laboratorio di Fisiologia dello Stress all'Università di Parma: «Immaginiamo di camminare, di notte, in una zona della città che ci è familiare. Tutto è tranquillo, siamo rilassati. Ad un certo punto percepiamo un rumore improvviso, che innesca una serie di reazioni fisiologiche: il cuore accelera, la pressione sanguigna aumenta, il sangue affluisce ai muscoli. Le pupille si dilatano per favorire la vista al buio, intanto gli zuccheri depositati nel fegato vengono riversati nel sangue in modo di mettere a disposizione un carburante di pronto utilizzo nel caso di fuga o di lotta. Magari cominciamo a sudare, per dissipare il calore in eccesso e mettere i muscoli in condizione di lavorare alle condizioni ottimali. Si attiva un insieme di meccanismi nervosi e ormonali che immettono in circolo le famose catecolamine o più semplicemente gli 'ormoni dello stress' in particolare adrenalina e noradrenalina».
Può accadere che lo stimolo di allerta resti alterato nel tempo e ciò indica una situazione continua in cui alcuni valori sono alterati. Aggiunge Sgoifo: «Nello stress cronico rimangono stabilmente modificati alcuni neurotrasmettitori (come la serotonina), ormoni (come il cortisolo) finanche alcuni parametri fisiologici (come la pressione sanguigna): questa situazione può rappresentare un fattore di rischio anche per l'insorgenza di patologie o peggiorarne lo stato».
**Tonino**
Dall’inserto di Repubblica "Salute" del 17 giugno 2004 .
IL NEONATO PER USCIRE DAL CORPO DELLA MAMMA È SOTTOPOSTO A VIOLENTI SFORZI COSI’ IL FETO PRODUCE LIVELLI ELEVATISSIMI DI CATECOLAMINE, ADRENALINA E NORADRENALINA CHE GLI CONSENTONO DI ADATTARSI AL MONDO ESTERNO
di Johann Rossi Mason
Venire al mondo dopo nove mesi in cui si è stati protetti e cullati dal ventre materno è certamente un evento stressante. Tanto che sembra che nella parte più profonda della nostra mente, in particolari momenti, vi sia un desiderio intenso di tornare alla beatitudine del ventre materno. Nascere quindi, e affrontare un mondo completamente nuovo, di luci violente, di suoni non più ovattati, di sensazioni tattili e sensoriali intense, non più mediate dal tiepido liquido amniotico. Un bel impegno per un esserino che viene al mondo completamente dipendente dalle cure materne per sopravvivere. Un vero e proprio stress, direbbero alcuni, in quanto sicuramente la nascita è un evento stressante: l'importante è che dopo il neonato ritrovi la serenità grazie alle amorevoli cure di una madre "sufficientemente buona".
Ma purtroppo non è sempre così, e studi sulla fisiologia dello stress, unitamente alla valutazione del comportamento dei neonati come indicatore di disagio, ci pone il dubbio che questi bambini vengano al mondo un po' più stanchi, un po' più provati e, pertanto, quasi già stressati al primo vagito.
Il neonato durante il travaglio è costretto nel canale del parto per diverse ore: la testa è sottoposta aduna forte pressione, l'ossigeno va e viene a causa delle contrazioni dell'utero. Per nascere il feto produce livelli elevatissimi di catecolamine, adrenalina e noradrenalina, che gli consentiranno di adattarsi all'ambiente esterno. I picchi ormonali servono a liberare i polmoni e a prepararli al primo respiro, grassi e glicogeno vengono messi a disposizione come fonte di energia e per fronteggiare le prime ore in attesa ella prima poppata al seno o al biberon. Dopo questo vero e proprio tour de force, tutto torna alla normalità. E' la quiete dopo la tempesta ormonale. Il neonato è pronto per il primo, magico incontro con la madre e poi riposerà tranquillo, per recuperare le forze.
Diverso è il caso in cui, al contrario, il neonato è sottoposto a stimoli stressanti da periodi prolungati precedenti al parto e rimane sottoposto all'azione degli stressor ambientali anche nelle settimane dopo la nascita sino al compimento del primo anno di vita. Tuttavia tale condizione è una risposta adattiva rispetto a stimoli esterni che tendono a turbare l'equilibrio del nostro organismo. Un esempio lo fornisce il professor Andrea Sgoifo, capo del Laboratorio di Fisiologia dello Stress all'Università di Parma: «Immaginiamo di camminare, di notte, in una zona della città che ci è familiare. Tutto è tranquillo, siamo rilassati. Ad un certo punto percepiamo un rumore improvviso, che innesca una serie di reazioni fisiologiche: il cuore accelera, la pressione sanguigna aumenta, il sangue affluisce ai muscoli. Le pupille si dilatano per favorire la vista al buio, intanto gli zuccheri depositati nel fegato vengono riversati nel sangue in modo di mettere a disposizione un carburante di pronto utilizzo nel caso di fuga o di lotta. Magari cominciamo a sudare, per dissipare il calore in eccesso e mettere i muscoli in condizione di lavorare alle condizioni ottimali. Si attiva un insieme di meccanismi nervosi e ormonali che immettono in circolo le famose catecolamine o più semplicemente gli 'ormoni dello stress' in particolare adrenalina e noradrenalina».
Può accadere che lo stimolo di allerta resti alterato nel tempo e ciò indica una situazione continua in cui alcuni valori sono alterati. Aggiunge Sgoifo: «Nello stress cronico rimangono stabilmente modificati alcuni neurotrasmettitori (come la serotonina), ormoni (come il cortisolo) finanche alcuni parametri fisiologici (come la pressione sanguigna): questa situazione può rappresentare un fattore di rischio anche per l'insorgenza di patologie o peggiorarne lo stato».
**Tonino**
LE IMMAGINI DI LATMOS SU MAWIVIDEO
Le immagini di Latmos sono visibili collegandosi con un click al seguente indirizzo:
www.mawivideo.it/latmos.html
(puoi leggere su questo stesso blog - più sotto, in data 10.6 - alcune informazioni anche sulla Mostra in corso al Museo Archeologico di Napoli fino al 31 luglio, e un articolo di Repubblica a proposito di questo sito archeologico della Turchia occidentale)
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