lunedì 17 gennaio 2005

i referendum sulla fecondazione

www.liberazione.it
L’embrione entra in politica
di Ritanna Armeni


Chi ha paura dei referendum? Chi vuole cancellarli, edulcorarli, far perdere loro la carica politica e innovativa? Chi vuole ridurli ad adempimento burocratico per poi archiviarli e fare come se niente fosse? Chi vuole evitare schieramenti e prese di posizione troppo precise?
E’ stato chiaro, già dopo qualche ora dalla decisione della Corte costituzionale di respingere il referendum abrogativo della legge sulla procreazione assistita, che il partito di coloro che avrebbero voluto eliminare i referendum, anche quelli promossi dalla Consulta, era vasto e giustamente i promotori, a cominciare dai radicali, hanno lanciato un grido di allarme sulla possibilità di un inciucio in Parlamento. I buonisti del Polo da una parte, i comprensivi e i preoccupati delle opposizioni dell’altro, hanno rilasciato dichiarazioni e lanciato accattivanti esche. I referendum possono essere evitati, hanno detto, basta un po’ di buona volontà e qualche ritocco qua e là alla legge.
Non ci riusciranno. Le questioni poste dai quattro referendum sono difficilmente riducibili ad emendamenti della legge. Una nuova discussione in Parlamento provocherebbe discussioni e divisioni che le forze politiche della maggioranza e dell’opposizione non possono permettersi a tre mesi dalle elezioni regionali.
Oggi il pericolo per i referendum è un altro. Viene da quel fronte ampio che va da Berlusconi a Prodi (Romano e Paolo) che riduce il voto del referendum ad “un voto di coscienza” e mette in guardia contro una politicizzazione che dividerebbe e lacererebbe i cittadini.
Affermare che bisogna votare secondo coscienza è ovvio fino ad essere banale. Se lo si dice e lo si ripete oggi è perché si vuole dire un’altra cosa. Non si vuole un referendum politico e si vuole evitare uno scontro - anch’esso tutto politico - su temi che dalla politica si vorrebbero estromettere e che invece nella politica, proprio grazie ai quesiti referendari, stanno rientrando: la famiglia, la procreazione, la maternità, il ruolo della donna. I valori della vita, della solidarietà e della compassione. Il rapporto con la scienza, l’idea di responsabilità del singolo e della collettività.
Sono queste questioni che riguardano la coscienza? Certamente: proprio per questo riguardano la politica. Possono due o più schieramenti o partiti scontrarsi alle elezioni, proporre una loro idea di società e quindi di rapporti fra gli uomini e le donne e fra questi e lo Stato senza dire la loro su questi temi?
La legge sulla fecondazione medicalmente assistita approvata nel febbraio scorso dalla maggioranza di centro destra possiede un’intima e terribile coerenza. Il corpo della donna è contenitore e veicolo neutro e inconsapevole. La famiglia è tradizione e sicurezza prima che amore e solidarietà. La maternità e la paternità sono riconosciuti solo all’interno di questa tradizione e sicurezza. Chi, per scelta o per disgrazia, non ne fa parte, è escluso. Come è escluso dalla compassione e dalla solidarietà della comunità chi, malato, non può neppure affidare le sue speranze ad una ricerca scientifica che pensi di alleviare il suo male. Quel che conta per questa legge è salvare i cosiddetti valori: la famiglia, l’embrione riconosciuto come persona fin dal concepimento, e naturalmente quel Dio che - secondo i legislatori - cerca il sacrificio della donna e di chiunque abbia avuto la disgrazia di non poter essere curato con gli attuali ritrovati scientifici.
Dire di sì a questa legge è un atto politico. E’ dire di sì ad un sistema di valori. Dire di no è un altro atto altrettanto politico. Che poi possano dire di sì uomini e donne che non fanno parte dello schieramento politico che ha voluto la legge, è un altro discorso che non si può esorcizzare depoliticizzando lo scontro. La politica non è solo buona o cattiva amministrazione. Non è solo legge finanziaria e ordinamento giudiziario. Non è solo Prodi e Berlusconi. Per le donne e gli uomini che vanno a votare non solo è questo, ma anche molto, molto altro. E’ anche tutto quello che i quattro referendum propongono alla discussione. Andare a votare, fare la campagna elettorale, significa scegliere secondo coscienza non una società senza valori, ma altri importanti valori. Non una società senza responsabilità, ma con una responsabilità più ampia e non delegata. Per la sinistra e per chi ne fa parte attivamente il sì ai quattro quesiti referendari ha un valore aggiunto enorme. Significa portare nel proprio schieramento un’idea della politica ben più ricca, complessa, difficile e affascinante di quella che finora gli addetti ai lavori pensano di proporre. I referendum sono un’occasione straordinaria e importante per una battaglia culturale dentro e fuori il proprio schieramento. Anche nelle opposizioni - per intenderci - finora preoccupate solo di non destabilizzare un sistema di valori e di consuetudini, di non scuotere e turbare i propri elettori prima delle elezioni regionali e politiche. E invece è bene provocare e destabilizzare. Questi referendum sono un’opportunità. Possono essere una fortuna.

una intervista a Fausto Bertinotti

Il Giornale 17.1.05
BERTINOTTI NON TEME L'ALA DESTRA DELLA GAD
"AL MASSIMO SARÀ LA QUERCIA A SOFFRIRE"

Il leader di Rifondazione ammette: «La nostra alleanza è bipolare. Ma i centristi devono fare come facemmo noi comunisti: chiedersi che senso ha oggi esser riformisti»
di Roberto Scafuri


Sgombrati dal campo "equivoci, falsi obbiettivi, ambiguità", la sinistra ha fatto "due passi in avanti nella direzione giusta", dice Fausto Bertinotti. «A essere cancellata è l'idea di una scorciatoia di ingegneria organizzativa (la lista unica cara a Diliberto, ndr): il fine della Camera di consultazione della sinistra radicale è dichiarato, costruire una rete orizzontale. Non c'è altro, basta». Le componenti della sinistra radicale sono diverse ed è bene che resti anche la concorrenza interna, aggiunge Bertinotti, «in comune basta avere l'interpretazione della fase e quali possano essere gli obiettivi di medio periodo perseguibili». Anche le sinistre restano due e «per un lungo periodo la strada della convivenza contemplerà competizione e convergenza, né si può pensare che l'affermazione dell'una uccida l'altra». L'«ala destra» di Rutelli non fa paura, anzi. Sarà contrastata nel programma della Gad con l'arma del convincimento e della mediazione onorevole. Può costituire persino un elemento di "trasparenza", chiarendo che l'Alleanza al suo interno è fortemente bipolare. Guai a chi sta al centro e si vede scaricare addosso le inevitabili tensioni. Quercia e Prodi? «Qui si parrà lor nobilitate», sorride Bertinotti, il leader rifondatore ha appena lanciato l'idea di «strutturarsi in fondazione o Università popolare» al migliaio di partecipanti al Forum delle riviste (Aprile, Carta, Alternative, Quaderni laburisti, Ecoradio) riunito all'"Angelicum", Università pontificia di Roma. Il weekend che ha predicato l'unità della sinistra radicale si conclude così ineluttabilmente nell'aula "Giovanni Paolo II", sotto l'enorme crocefisso ligneo.
Si ribalta il copione del '98, nel quale passavate per sfasciacarrozze. Ma la deriva centrista di Rutelli non mina davvero le fondamenta dell'Alleanza?
«No, non credo che questo sia nei propositi di Rutelli. E poi l'ipotesi neocentrista sta nella società, e vi fanno riferimento tanto Rutelli nella Cad che altri spezzoni nel centrodestra».
Allora lei ha capito a che gioco gioca il leader della Margherita...
«Non voglio insegnare nulla a nessuno. Però penso che come noi di Rifondazione ci siamo posti il problema di che cosa voglia dire oggi il comunismo, i riformisti avrebbero dovuto porsi la stessa domanda sul riformismo. Invece si è scelta la scorciatoia di ingegnerie organizzative, che finiscono per ingigantire il problema che si cerca di esorcizzare».
Già, ma Rutelli che ci guadagna a far saltare la «Fed» (o forse addirittura Prodi)?
«Non credo che salti nulla, né che voglia questo. Attraverso quelle parole sulla socialdemocrazia, Rutelli realizza una caratterizzazione, occupa uno spazio preciso all'interno della coalizione, una trincea che gli serve per aumentare la capacità di tirare dalla sua parte...».
Non la preoccupa?
«Guardi, è un'operazione speculare alla nostra, sul versante di sinistra».
Ma il centro della Gad soffre.
«E soffra. Qui si parrà sua nobilitate».
Insomma, non è un problema.
«Credo che sia ormai chiaro e fisiologico che nell'Alleanza ci sia una destra e una sinistra. Se questo dato raggiunge la trasparenza non è così male, per la dialettica interna».
Sarà pure ambigua la posizione dei Ds nell'alleanza, ma qui rischia di essere bruciato Prodi. L'ipotesi alternativa di una leadership Veltroni la considera?
«Non c'è. Non è che non la considero: non c'è».
All'inizio di marzo ci sarà il congresso di Rifondazione. Sull'ingresso al governo lei rischia grosso, tanto da aver gonfiato il tesseramento, dicono...
«Accuse ridicole... Lamentarsi perché il partito cresce e aumentagli iscritti, perché raggiunge traguardi prima insperati... non gli basta mai. Segni di debolezza degli oppositori, forse invidia...».
Ma è sicuro di vincere?
«Honny s'engage. C'è il tempo della semina e quello del raccolto. Sono tranquillo».
Lei ha anche detto che il congresso si vince con il 51 per cento, e i perdenti si dovranno adattare.Vale anche per il programma della Gad?
«Esistono materie indisponibili e no. Sulle prime non si transige: come fossero norme costituzionali, varranno il consenso, la mediazione, il compromesso. Sulle materie disponibili valel il principio di una testa un voto, lo sono sempre per la democrazia di massa: nel sindacato, nel partito, nella Gad».
La patrimoniale sulle grandi rendite finanziarie è materia disponibile?
«Sulla patrimoniale un referendum si può fare... ».
Se perde le primarie,varrà il programma di Prodi e lei s'adatterà?
«Prodi non lo ha mai sostenuto. Gli accordi e le regole delle primarie non sono queste. Si terranno su candidati, su dichiarazioni di intenti; poi verrà il programma, su questo non ci piove».

sinistra
una "fondazione" per la sinistra
e in Puglia ha vinto il Prc

Repubblica 16.1.05
La proposta di Bertinotti accolta con favore da molti alleati

L'intenzione è quella di creare un laboratorio di proposte radicali
Spunta l'idea di una fondazione


ROMA - Una fondazione per dare forma e voce alla componente di sinistra della Gad. È questa l'idea lanciata al termine di una giornata di lavori del convegno "Fuoriprogramma", organizzato dalla rivista Aprile e sponsorizzata dal manifesto.
L'idea, proposta per prima da Fausto Bertinotti, è quella di mettere in piedi una sorta di organismo permanente di stimolo e di consultazione per i massimi vertici del cartello d'opposizione. Lo scopo nell'immediato è quello di mettere a punto proposte innovative per il programma dell'Alleanza, ma in futuro dovrebbe diventare un laboratorio per mantenere a sinistra la barra dell'Ulivo, anche dopo un eventuale successo alle elezioni politiche.
La proposta avanzata dal segretario di Rifondazione è piaciuta un po' a tutti, da Fabio Mussi, a Giovanni Berlinguer, a Paolo Cento. Ma la platea dell'Università pontificia 'Angelicum' che ha ospitato il convegno era in realtà animata da molte anime diverse e non solo dai partiti che formano la Gad. L'incontro, oltre che dalla rivista Aprile, è stato organizzato infatti anche da altri periodici impegnati nella sinistra radicale: Carta, Quaderni Laburisti e dall'emittente 'Ecoradio'. E moltissime altre testate, tra le quali MicroMega, e Liberazione, hanno aderito in un secondo momento.

La Stampa 17.1.05
PUGLIA, ALLE URNE OTTANTAMILA ELETTORI. PARISI: L’AFFLUENZA E’ STATA UN RISULTATO STRAORDINARIO

Vendola vince le primarie
La Quercia nella bufera

Nella notte il clamoroso successo del candidato di Rifondazione
Sconfitto di mille voti Boccia appoggiato da Ds e Margherita
Amedeo La Mattina inviato a BARI


A sfidare Raffaele Fitto sarà «Nichi il Rosso». Il dato clamoroso - ma non inaspettato - è arrivato nella notte dai 112 seggi delle primarie dove sono andati a votare 80 mila elettori: Francesco Boccia della Margherita, sostenuto dalla stragrande maggioranza dei partiti del centrosinistra, è stato battuto con oltre mille voti di differenza da Nichi Vendola esponente di Rifondazione comunista.
«Questo flusso di opinione pubblica - spiega emozionato e frastornato Vendola - scavalca le logiche di schieramento e degli apparati di partito che sono indietro rispetto ai desideri della gente. Adesso con Boccia dobbiamo abbracciarci e insieme andare al'attacco di Fitto: sono sicuro che vinceremo le elezioni regionali». E Boccia ha assicurato il proprio sostegno all’ex avversario che «ha vinto meritatamente». Per Fausto Bertinotti quello di Vendola «è un grande successo della politica alta. Un un evento enorme, tanti equilibri posticci saltano»
Al centro raccolta dati, nella sede della Margherita a piazza Aldo Moro, ma mano che arrivano i dati, il clima si fa pesantissimo, la tesione si taglia a fette. Le facce più cupe sono quelle dei dirigenti della Quercia. I quali si rendono subito conto del significato che la vittoria di Vendola avrà, e non solo in Puglia: a «tradire» nell'urna sono stati soprattutto gli elettori diessini che hanno seguito le indicazioni del Correntone (l'altro giorno era venuto qui Folena), dei consiglieri regionali Mineo, Ventricelli, Maniglia. Ma è la base del partito, anche quella che si riconosce in Fassino, a voltare le spalle a Boccia per assestare un colpo a Massimo D'Alema considerato qui il «padre padrone di cui non se ne può più». «È la definitiva deflagrazione dei Ds», spiega il sindaco di Bari Emiliano che ha sostenuto Boccia ma in lotta con D'Alema.
La Quercia è ora nel caos. Il contraccolpo arriverà forte anche a Roma, a via Nazionale, nella sede centrale dei Ds. «Tutto questo - dice con la faccia terrea Beppe Vacca - sarà devastante». L'onorevole Peppino Caldarola rimane senza fiato («adesso dovremo andare dietro a Vendola») e non vuole commentare gli effetti che questa sconfitta annunciata da troppi, tanti segnali avrà nel partito. Per non parlare poi delle conseguenze che ci saranno negli equilibri dell'intera coalizione che si prepara alle primarie nazionali tra Prodi e Bertinotti.
Rimane comunque il fatto che queste primarie pugliesi sono state un grande successo. In una domenica freddissima, 80 mila elettori si sono recati nelle sezioni dei partiti per scegliere il candidato alla presidenza della Regione. Nel pomeriggio erano stati gli stessi Boccia e Vendola a sottolineare che non sarebbe uscito un vincitore e uno sconfitto. «Lo sconfitto ci sarà - ha sostenuto l'esponente di Rifondazione comunista - e sarà Raffaele Fitto perchè con lui la Puglia ha conosciuto un deficit di vita democratica». Per Boccia, assessore all'Economia nella giunta comunale di Bari, la prima vittoria c'è già stata: «I seggi sono stati presi d'assalto. Vince la gran voglia della gente di decidere e di partecipare alla vita politica».
Al di là del fair play tra i due e delle frasi di circostanza, in effetti ieri davanti ai seggi c'era la fila. I segretari delle sezioni che hanno svolto la funzione di presidenti dei seggi elettorali, erano sbalorditi. L'onorevole Giusy Servodio della Margherita a via Calefati temeva che le schede non fossero sufficienti. In via De Napoli, alla sezione del Prc nel quartiere San Pasquale, Luigi Liantonio parlava di un «successone»: «La prossima volta, se ci sarà, dovremo aprire più sezioni».
A Carbonara, quartiere tristemente noto per la faida tra bande, il segretario dei Ds Salvatore Tau confessava di essere stupito: «In questa sezione tanta gente non era mai entrata e poi sono persone di tutti i partiti, anche gente che ha votato per il centrodestra e mi ha detto di essersi pentita».
Musica per le orecchie di Arturo Parisi che più di ogni altro ha spinto per applicare in Italia il metodo delle primarie all'americana. Ieri ha seguito da vicino quello che lui ha definito «un eccezionale esperimento di democrazia e di partecipazione popolare»: «Sono venuto qui con un po' di ansia, ma ora mi sento confortato e rassicurato ad andare avanti. Questa esperienza è la prima in Italia di questo respiro. È una prova generale delle primarie nazionali che consentirà di scegliere il candidato alla presidenza del Consiglio. La Puglia sarà il nostro New Hampshire».
Per Parisi le primarie aperte sono state fatte qui e non in altre regioni perchè «qui hanno avuto piu' coraggio». L'esponente della Margherita, con una delegazione del comitato nazionale per le primarie che presiede, ha visitato alcuni seggi di Bari e della Provincia.

Bertinotti: ora Berlusconi chieda scusa agli italiani

«Le dichiarazioni di Berlusconi sono inammissibili per qualunque cittadino italiano, figurarsi per il presidente del Consiglio della Repubblica italiana». È il commento del segretario del Prc Fausto Bertinotti alle dichiarazioni rese oggi dal premier.
«Questa Repubblica - ha aggiunto Bertinotti - l'hanno fatta anche donne e uomini che hanno avuto l'orgoglio di chiamarsi comunisti. La Costituzione grazie alla quale Berlusconi è presidente del Consiglio porta la firma di un comunista. Parole come quelle dette da Berlusconi ricadono come massi su chi le ha dette, il presidente del Consiglio ha il dovere delle scuse nei confronti di chi ha contribuito a fare l'Italia. Ricorda la famiglia Cervi?».

la chiesa... «assediata»?

una segnalazione di Loredana Riccio

Divino
L'assedio inventato della chiesa
di Filippo Gentiloni


«La chiesa è una fortezza assediata?» si domanda la rivista La civiltà cattolica nell'editoriale del 18 dicembre.La risposta è interlocutoria, ma forse è piu' interessante analizzare i motivi del presunto assedio. Li possiamo ritrovare, fra l'altro, anche sulle pagine dell'Espresso e di Micromega.
Il punto di partenza dell'assedio sembra che sia la vicenda europea di Rocco Buttiglione: si ha l'impressione che la sua bocciatura abbia colpito direttamente e duramente i presunti diritti della chiesa. A questo "colpo" se ne devono aggiungere altri che possono apparire anche piu' gravi: dalla mancata menzione delle radici cristiane dell'Europa nella nuova costituzione alle leggi spagnole del governo Zapatero. Per non parlare della polemica, non nuova e come al solito piuttosto aspra, sul comportamento di Pio XII nei confronti della shoah.
Attacchi, tutti questi, che hanno preceduto l'ultimo, l'approvazione dei referendum sulla procreazione assistita. Se si faranno veramente, vedremo nei prossimi mesi un aggravamento del presunto "assedio".
A questo punto alcuni interrogativi sono inevitabili. Due soprattutto. Il primo: si tratta di un vero assedio o di un assedio inventato? Il secondo: come risponde la difesa della Chiesa?
Parlare di assedio sembra, per lo meno esagerato, se non pretestuoso. Soprattutto in Italia dove i privilegi della Chiesa cattolica continuano indisturbati. Dalla religione - cattolica - nelle scuole (dai notevoli privilegi recenti per gli insegnanti) ai finanziamenti per la scuola cattolica, sotto varie forme. In parecchie regioni una specie di gara per favorirla. Altro che assedio! Una semplice occhiata ai mass media ci rivela una presenza ecclesiastica straripante, in crescita. le poche voci contrarie sempre più emarginate.
È interessante osservare che questa sindrome da "fortezza assediata" non si riscontra nel mondo protestante europeo, anche se le motivazioni lo potrebbero egualmente preoccupare.
Sul secondo interrogativo, alcune ossevazioni si impongono. Molti cattolici sono perplessi. la stessa Civiltà cattolica invita a non drammatizzare. Non pochi cattolici, infatti, sono preoccupati non soltanto - e non tanto - per il presunto "assedio", quanto perché si trovano ad essere difesi da alcuni difensori laici di fede regiosa, a dir poco, incerta (primo fra tutti Giuliano Ferrara: si veda il suo dialogo con Gianni Vattimo su Micromega). E quindi con motivazioni, a dir poco, ambigue. Mentre il dibattito sui cattolici "assediati" rischia di confondersi, di giorno in giorno, con altri dibattiti più direttamente politici, come quello sull'Udc e sulla sua fedeltà a Berlusconi.
Per ora, dunque, niente assedio vero e proprio e nessun bisogno di difesa. Vedremo piuttosto, fra qualche settimana, come si schiereranno le truppe in campo per la battaglia sulla fecondazione assistita.

progetto di riforma delle superiori
e c'è ancora Freud nei licei

Il Messaggero 17.1.05
LICEO CLASSICO, ORE 8: LEZIONE DI DIALETTO LA NUOVA SCUOLA
Tra le novità l'introduzione dell'analisi matematica e la lettura di Freud e Marx
di Anna Maria Sersale


Dal ministero sonousciti i primi documenti sugli "Obbiettivi specifici dell'apprendimcnto", gli Osa, che saranno l'anima della riforma. Malgrado i mille proclami all'essenzialità dei saperi, la prima impressione è di una «moltiplicazione» delle conoscenze un po' in tutte le direzioni. Tabelle orarie e contenuti saranno materia di acceso dibattito. Da loro dipende il peso delle diverse materie e la definizione delle priorità alle quali dovrà fare riferimento la scuola del futuro. I programmi dovranno anche delineareil nuovo profilo dello studente e quali com petenze dovra avere per il mondo del lavoro, ammesso che il rapporto scuola-imprese abbia funzionato.
I licei saranno otto. Di cui cinque senza indirizzo: Classico, Scientifico, Linguistico, Musicale e coreutico, delle Scienze umane. E tre con degli indirizzi specialistici. Artistico per arti figurative, architettura, design audiovisivo-multimediale, scenografia; Economico, aziendale o istituzionale; Tecnologico, meccanico, elettronico, informatico, chimico biochimico, moda, agrario, costruzioni. Al momento i programmi usciti, Osa, riguardano il Classico e il Tecnologico.
Una delle novità che colpiscono è il dialetto che entra a scuola. L'Italia al tempo di Internet contrasta la globalizzazione tornano alle radici linguistiche che hanno caratterizzato la nostra storia. Al Classico per esempio, al secondo biennio si pensa di introdurre «Lessico dialettale», accanto allo studio per sviluppare "capacità di analisi", accanto «all'architettura logica del testo» ci saranno gli idiomi dei nostri nonni, che rischiavano di sparire. Tra gli obiettivi di apprendimento le strutture linguistiche hanno un ruolo centrale. La «lingua nel processo comunicativo» ma soprattutto la capacità di costituire un testo in modo logico. «unità, completezza, cocienza e coesione». In classe i ragazzi dovranno imparare anche «l'organizzazione di discorsi orali» e le «differenze tra idiversi tipi di testo: comuni, specialistici e letterari». Dunque, grande attenzione ad innalzare i livelli linguistici dei ragazzi, che, sulla base delle rilevazioni annuali svolte dall'Ocse, si classificano agli ultimi posti in Europa per le capacità di comprensione e di espressione. Attenzione anche al ragionamento logico con l'introduzione di «analisi matematica», prerogativa del liceo scientifico.
Altra novità è l'apertura alla psicanalisi, che al Classico si affianca alla filosofia Nell'elenco delle letture consigliate, accanto all'Organon di Socrate, all'Apologia di Socrate scritta da Platone o all'Introduzione della metafisica di Heidegger, spunta L'interpretazione dei sogni di Freud. E spunta uno dei testi sacri del Sessantotto: il Manifesto del partito comunista di Karl Marx. Letture consigliate, si dirà, ma pur sempre inserite negli "Obiettivi specifici di apprendimento". Quanto alla storia, tema delicato che suscita zuffe politiche ricorrenti, i nuovi programmi promettono di arrivare almeno fino al '48. Dopo la seconda rivoluzione industriale, l'Italia giolittiana, il mondo spartito dalle ideologie del Novecento (tra liberal-democrazia, fascismo, nazionalsocialismo, comunismo), la grande guerra, la crisi, la nascita dei regimi totalitari, la seconda guerra mondiale, fino alla guerra fredda e alla costituzione dell'Italia repubblicana, arrivando all'unione europea e alla dichiarazione dei diritti dell'uomo.
Le novità principali per il nascente liceo Tecnologico saranno l'introduzione della filosofia, della musica e soprattutto lo studio della lingua latina e del mondo classico nel primo biennio, quest'ultimo da «distribuire su italiano, storia, filosofia», con la finalità di «far conoscere agli studenti le radici classiche della cultura europea». Di contro, il Tecnologico indebolirà materie fortemente professionalizzanti che caratterizzano gli attuali indirizzi degli Istituti tecnici. Confindustria e ordini professionali non sono d'accordo.

neuroestetica

L'Unità 17.1.05
Neuroestetica
IL SOGNO RIDUZIONISTA DI RAMACHANDRAN
Salvo Fallica


Nel libro "Che cosa sappiamo della mente", edito da Mondadori, Vilayanyr S. Ramachandran, con uno stile chiaro e divulgativo, spiega cos'è il cervello umano. La struttura più complessa dell'universo: cento miliardi di neuroni organizzati per scambiarsi informazioni.
In 1500 centimetri cubici vi è una attività capace di produrre un numero di stati mentali superiori al numero di particelle elementari dell'universo conosciuto. Ma da cosa ha origine questa straordinaria e variegata ricchezza della vita psichica? Tutte le emozioni, le sensazioni, i pensieri, gli affetti, le ambizioni, il sentimento religioso e perfino la coscienza hanno origine da un piccolo grumo di cellule gelatinose all'interno del cranio. Per secoli le facoltà mentali sonostate attribuite a entità diverse: il cuore, il fegato, la bile, l'anima, l'istinto, l'inconscio. Le scoperte scientifiche hanno mutato il quadro, il contesto. Ma rimangono le domande sul funzionamento della mente, sulla validità delle percezioni e delle senzazioni, del pensiero logico e della coscienza, su quanto rientra nelle nostre scelte e quanto sfugge al controllo, sulle cause e sui fini. E dunque sul libero arbitrio. Questioni che accompagnano la storia dell'umanità.
Ramachandran è uno studioso che si prefigge grandi mete, crede nella neurologia come una dimensione cultural-scientifica che può aiutare l'uomo a comprendere la vita. Il cervello umano è una dimensione ancora da esplorare, che aprirà nuove frontiere nella conoscenza. Ramachandran si pone domande sul libero arbitrio, sul funzionamento del linguaggio, sul pensiero astratto. Si interroga anche sulla natura dell'arte. Propone una teoria "neuroestetica". Ma in questo originale ed intelligente tentativo, interessante sul piano speculativo, vi è un "riduzionismo", per il quale i criteri di critica filosofica, artistica, sembranp non essere considerati. Il punto è che spiegare in maniera oggettiva perché agli esseri umani piace l'opera di Picasso, di Van Gogh o di altri geni, non ci dice molto del senso autentico della loro attività culturale, dei messaggi delle loro opere, dei dettagli estetici delle composizioni, che possono avere o non avere valore oggettivo ma hanno spesso un significato esistenziale, profondo e variegato. Soggetto a molteplici interpretazioni.
Al di là dei dubbi, il suo sforzo merita una seria attenzione. "Le leggi della neuroestetica esauriscono il discorso dsull'arte? No, naturalmente; il mio è solo un inizio. Spero però di avere fornito suggerimenti utili a delineare i contorni di una futura teoria dell'arte e a illustrare in che modo un neuroscienziato potrebbe cercare di affrontare il problema". Ma basterà la neuroestetica a colmare lo spazio fra cultura scientifica ed umanistica? Può la scienza risolvere ogni questione intellettuale, esistenziale, che l'essere umano pone?

Vilayanur S. Ramachandran, "Che cosa sappiamo della mente", Mondadori, pagg 158, Euro 15,00

allattamento topi gioco d'azzardo: un guazzabuglio
e l'Unità s'affida al professor Oliverio...

L'Unità 17.1.05
PIACERE E DIPENDENZA: ECCO LE DROGHE «NATURALI»
Gioco d'azzardo, allattamento e cocaina hanno qualcosa in comune: due ricerche sul cervello
Cristiana Pulcinelli


Una mamma che allatta i suoi piccoli non lo fa solo per dovere. Chi ha fatto questa esperienza sa che un sottile piacere accompagna quello che è anche un atto necessario alla sopravvivenza del piccolo. Ma che tipo di piacere? Una ricerca appena pubblicata sul Journal of Neuroscience, dà una risposta a questa domanda: in essa si dimostra che i ratti femmina che stanno allattando i cuccioli presentano l'attivazione delle stesse aree cerebrali dei ratti cui è stata somministrata cocaina. Allattare sarebbe quindi una sorta di droga naturale.
In realtà era stato già dimostrato in precedenza che il sistema di ricompensa del cervello è coinvolto sia nell'allattamento che nella stimolazione da droghe. Ma si trattava di studi sul danneggiamento di parti del cervello. Nessuno aveva finora analizzato le immagini del cervello di un animale cosciente in queste condizioni. Craig Ferris dell'Università del Massachusetts e i suoi colleghi lo hanno fatto: i ricercatori hanno monitorato gli effetti dell'allattamento e dell'uso di cocaina sull'intero cervello con la tecnica della risonanza magnetica funzionale. Quando hanno confrontato le immagini, hanno scoperto che il cervello dei ratti che allattavano era in una condizione simile a quello dei ratti a cui era stata somministrata cocaina. Non solo. Se si offriva loro la possibilità di scegliere, i ratti con figli di età inferiore agli otto giorni preferivano l'allattamento dei piccoli all'uso della sostanza stupefacente. Mentre si è visto che se le madri ricevevano iniezioni di cocaina, il sistema della ricompensa nel loro cervello diminuiva di attività.
Negli stessi giorni, è uscita sulla rivista Nature Neuroscience un'altra ricerca. Questa volta si parla di gioco d'azzardo, ma anche in questo caso si dimostra che quest'attività ha delle caratteristiche simili alla droga e che e associata a disfunzioni di alcune aree del cervello. Alcuni neurologi, coordinati da Christian Buechel della Universitaets-Krankenhaus Eppendorf di Hamburg (Germania), hanno confrontato l'attività del cervello di giocatori d'azzardo con quella di persone non abituate al gioco. Gli esperti hanno chiesto a tutti i volontari di cimentarsi in un semplice gioco con le carte. I giocatori dovevano prendere una carta scegliendola tra due e, se erano fortunati da prelevare quella di colore rosso, vincevano un euro. Il gioco era truccato in modo che tutto il campione vincesse e perdesse la stessa quantità di denaro. Ciononostante i ricercatori, che durante tutta la prova avevano monitorato il cervello dei volontari con la risonanza magnetica funzionale per mappare le aree attive, l'attivita di una regione chiamata "striato ventrale" era molto piu sopita nei giocatori incalliti rispetto ai non giocatori. Lo striato ventrale, ha spiegato Buchel, è una regione gia conosciuta dai neurologi perché è coinvolta nell'elaborazione di stimoli legati ai premi, alle ricompense, alla gratificazione. La sua attività è compromessa spesso anche nel cervello dei tossicodipendenti. È possibile che la scarsa attività di questa regione nelle "vittime" dell'azzardo, impedisca loro di uscire dal tunnel delgioco esattamente come avviene per i tossicodipendenti.
Due casi di droghe naturali che, nel bene e nel male, ripercorrono strade simili a quelle delle tossicodipendenze. Come si sono formati questi meccanismi? E quale significato hanno? «In alcuni casi - spiega Alberto Oliverio, psicobiologo - ci troviamo di fronte a meccanismi evolutivi che favoriscono comportamenti che devono essere svolti per il mantenimento della specie. È il caso dell'allattamento, ma anche del sesso. Perché si dovrebbe fare sesso se non ci fosse piacere? E in effetti quasi tutte le specie animali, salvo quelle più semplici, provano piacere, il che vuol dire che si liberano nell'organismo sostanze simili agli oppioidi o alla dopamina. Tuttavia, in alcuni casi il meccanismo ci inganna e ci fa portare avanti comportamenti che altrimenti non attueremmo. È il caso del meccanismo di rinforzo connesso alla dipendenza dalle droghe. Oggi, in realtà, si parla di polidipendenze perché si è visto che i meccanismi di rinforzo, quelli che ad esempio fanno assumere dosi sempre maggiori di alcol ad un alcolista o di eroina ad un eroinomane, si assomigliano tutti. Anche se ci sono delle persone che hanno delle soglie piu alte: ad esempio, coloro che per emozionarsi hanno bisogno di praticare uno sport estremo».
Tutte e due le ricerche hanno utilizzato la risonanza magnetica funzionale.Le nuove tecniche di imaging del cervello hanno permesso di scoprire cose che finora erano rimaste oscure. «Sicuramente abbiamo capito molte cose di come funziona il sistema nervoso centrale. I e tecniche di imaging però ci danno informazioni solo sui alcune aree, quelle che superano una certa soglia di attività. Non possiamo ignorare le altre, quelle che sono meno attve e ma non per questo meno importanti nel determinare i comportamenti. Nel futuro dovremo scoprire il loro ruolo».

Cina
è morto Zhao Ziyang, segretario del partito
si oppose alla repressione di Tienanmen

Corriere della Sera 17.1.05
Per la sua posizione riformista finì in disgrazia: quindici anni agli arresti domiciliari. Era in coma da giorni
Addio a Zhao Ziyang, difese gli studenti

È morto l’ex segretario del partito comunista cinese. Non voleva la strage di Tienanmen
dal nostro corrispondente Fabio Cavalera


PECHINO - L'uomo stempiato in lacrime con gli occhialoni da miope che gli scendono un po' sul naso e il megafono impugnato nella mano destra. E attorno gli studenti del movimento e della rivolta democratica che lo ascoltano con le facce stordite.
Nella storia di ogni Paese ci sono immagini che diventano documenti perché fermano per un istante un dramma che è lì, dietro l'angolo.
Nella storia della Cina il volto di Zhao Ziyang stampato in bianco e nero con il dolore negli occhi che nasconde quanto solo lui sa e cioè che il leader della modernizzazione Deng Xiaoping sta per applicare la legge marziale e sta per ordinare all'esercito di sparare sui giovani della pacifica protesta di piazza Tienanmen, quel volto è una pagina che la censura dell'apparato comunista non è mai riuscita a cancellare. Ed è rimasta per quasi sedici anni, dall'aprile del 1989, e per sempre rimarrà a testimoniare i tormenti, le spaccature, la vergogna di un vecchio regime autoritario che non voleva ascoltare le ragioni di chi rivendicava libertà e democrazia e scambiava queste ragioni per un attentato al potere assoluto del partito e dello Stato.
Zhao Ziyang, che è morto ieri vecchio di 85 anni, ammalato al cuore e ai polmoni (da giorni era in coma all’ospedale), costretto fino all'ultimo al silenzio e all’emarginazione degli arresti domiciliari sia pure in una bella casa di Pechino, all'epoca dei fatti di Tienanmen era già un corpo quasi estraneo a quel regime. Capiva che il suo spazio si era ridotto al minimo schiacciato dalla prepotenza dei conservatori. Ma tentò invano di convincere quei ragazzi a desistere dall'occupare la piazza; ché se non lo avessero seguito le speranze di innovare il sistema si sarebbero azzerate e si sarebbe scatenata l'ira della restaurazione.
Zhao era stato nominato a capo del Consiglio di Stato, il governo, nel 1980 ma costretto a dimettersi nel 1987 in quanto le sue fughe in avanti sul riformismo economico e politico avevano irritato e sconvolto sia l'ortodossia comunista sia le cautele e le prudenze dei modernizzatori. Aveva mantenuto la carica di segretario del partito comunista eppure non rappresentava ormai che se stesso o poco più. Il premier che gli era succeduto, Li Peng, e il capo della commissione per la pianificazione di Stato, Yao Yilin, erano riusciti a portare dalla loro parte Deng Xiaoping che a sua volta aveva il controllo delle forze armate e della sicurezza. Zhao doveva essere neutralizzato e l'entusiasmo con il quale stava seguendo il passaggio dalla economia collettivista alla economia di mercato andava fortemente ridimensionato.
La sorte di quell'uomo, segretario del partito comunista, che piange davanti agli studenti e li implora era in verità segnata. Nessuno può dire se una diversa decisione del movimento, se il movimento si fosse ritirato davanti alla minaccia della forza, avrebbe cambiato il corso degli eventi. Nell'aprile del 1989 la parola fine fu pronunciata dai carri armati che schiacciarono la protesta dei giovani e piegarono le illusioni di chi oltre al riformismo economico aveva ipotizzato una timida liberalizzazione nel campo politico. Da lì a poco, dopo il sangue di Tienanmen, Zhao Ziyang sarebbe sparito. Inghiottito dal silenzio.
Umiliato dagli arresti e dalla espulsione dal partito. E pensare che al partito aveva dedicato la sua vita. Ne aveva ricevuto gloria, fatiche e dolori. Figlio di una famiglia della provincia dello Henan si era unito alla gioventù comunista fin dal 1932 ma il primo incarico importante, segretario del Guangdong, gli fu attribuito nel 1960. Non era il funzionario zelante e indottrinato. Piuttosto un marxista attento ai turbamenti sociali, un precursore della modernizzazione e un dirigente equilibrato, per questo apprezzato, che cominciava allora a intuire la necessità di svoltare rispetto al modello sovietico della pianificazione e del totalitarismo. Non è certamente un caso che gli orrori e le purghe del fanatismo propri della rivoluzione culturale caddero anche sulla sua persona. Zhao Ziyang fu preso dalle guardie rosse, costretto a sfilare per Guangzhou con un cappuccio sulla testa, poi accusato di revisionismo e spedito nella Mongolia Interna. Da dove qualche tempo più tardi, nel 1973, Zhou Enlai lo riabilitò. Riprese il suo posto e morto Mao, nel 1977 Deng Xiaoping lo chiamò nel comitato centrale e successivamente nel politburo, il vertice del partito. Fu un riformista ante litteram ma accelerò troppo e pagò.
La Cina ufficiale ha tentato invano di cancellare Zhao Ziyang dalla sua storia. Anche la Cina di oggi, imbarazzata e ingessata, timorosa di chissà quali conseguenze potesse provocare una seconda riabilitazione.
Lo ha abbandonato nella speranza che il ricordo affievolisse e sparisse. Ma quella foto nessuno è riuscito a cancellarla. E' un documento che continua a parlare. Zhao Ziyang era in piazza Tienanmen con le lacrime che gli scendevano e il megafono in mano. «Vi supplico...» Al suo fianco, a sinistra, un uomo, che ancora pochi conoscevano. Era Wen Jiabao che sarebbe diventato, tredici anni dopo il massacro in piazza, il premier della Cina del libero mercato. Nemmeno lui in questo periodo ha avuto il coraggio di manifestare un gesto di riconciliazione con quel vecchio compagno che ben prima si era battuto per un Cina più aperta e moderna.

storia d'Italia
Gladio e il Codice Cosmos

L'Unione Sarda 17.1.05
Cronaca Italiana
Il grande segreto del codice Cosmos: assassinare tutti i big della sinistra
Le esplosive rivelazioni di un ex appartentente a "Gladio militare" Enrico Berlinguer tra le vittime designate (e tenute sotto sorveglianza)


Un colpo di pistola dietro l'orecchio. Così avrebbe dovuto morire Enrico Berlinguer, segretario del più importante Partito comunista dell'Europa occidentale. Obiettivo sensibile e sorvegliato speciale dei servizi segreti Usa-Nato, sino a tre quattro anni prima che un ictus se lo portasse via qualche giorno dopo un comizio elettorale a Padova nel 1984. C'era anche lui nel lungo elenco della nomenclatura di sinistra, 186 nomi da spegnere, da eliminare perché troppo pericolosi per gli interessi degli Stati Uniti nel mondo. Tra questi, Armando Cossutta, Luciano Lama, Lucio Magri, Mario Capanna e Rossana Rossanda. Erano gli anni bui, molto bui, della Guerra Fredda. Quando Usa e Urss giocavano sullo scacchiere mediterraneo sistemando le loro pedine un po' dovunque e controllandosi a vicenda. In questo scenario da spy story (e non è sicuramente una novità), l'Italia ha avuto un ruolo di grande importanza. E non solo per la sua particolare posizione geografica. Ha fornito uomini e strategie, ma anche aree della penisola, tuttora a uso e consumo degli alleati americani. Sino a non molto tempo fa, queste zone (che non troverete in nessuna mappa ufficiale) venivano utilizzate anche dalla cosiddetta "Gladio Militare", niente a che vedere con quella civile, la famosa "Stay Behind", composta dai famosi 622 patrioti, più che altro dei crocerossini male in arnese e del tutto incapaci di far fronte a un'eventuale avanzata dell'armata sovietica. La "Gladio Militare codice Cosmos" era davvero tutt'altra cosa. «Eravamo dei soppressori speciali, quanto meno studiavamo per esserlo», precisa Fantasmino, nome di battaglia di uno dei 3250 gladiatori assoldati direttamente dalla Nato tramite l'Esercito. «Operavamo nella massima segretezza, studiando metodi e sistemi di guerra convenzionale e non convenzionale». Nessuno, tranne i vertici europei della Nato, era a conoscenza dell'organizzazione. Che pure esisteva, eccome se esisteva: 18 centri d'ascolto in tutta l'Italia, operazioni Sigint ed Echelon con Nsa, Nro e Cia. Con lo scopo di fare da supporto agli Alleati in caso di invasione da parte di truppe del Patto di Varsavia. «Il punto debole della Nato era l'Italia meridionale», racconta Fantasmino «in particolare la Calabria. Era qui che si temeva potessero sbarcare le colonne corazzate dell'esercito sovietico con 36 mila uomini al seguito, 300 carri armati, 480 mezzi per il trasporto di truppe motorizzate, artiglieria, 12 elicotteri e poca logistica per alimentarsi. Avrebbero fatto razzia durante il tragitto verso Napoli e Taranto. Lo scopo dei sovietici, dalle nostre informative, era quello di creare una spina nel fianco Nato, dividere le forze e impegnare i caccia delle portaerei americane di stanza nel Mediterraneo». Perché questa ipotesi? «Semplice, era il territorio con il più basso indice di popolazione e più facilmente raggiungibile partendo da paesi amici come Libia ed Egitto. Per cui, dopo l'eventuale contrasto militare, che secondo stime Nato sarebbe durato non più di 25 giorni, avremmo dovuto impiegare anche armi tattiche nucleari da 2, 5 e 10 kiloton per un totale di 500 kiloton, passando a uno stato di Defcon 1. Non potendo sfollare la popolazione civile, nonostante alcune misure preventive, dovevamo causare il minor danno possibile. Che potevano essere, per capirci, centomila morti». E lei lo chiama minor danno possibile? «Sì, sarebbe servito per intimorire i sovietici. La Calabria e il nord est della penisola sarebbero diventate il teatro per la cosiddetta guerra Nbc (acronimo che sta per nucleare, biologico e chimico, ndr). L'impiego di armi atomiche sarebbe poi avvenuto in Germania. Dovevamo far capire che se eravamo capaci di tanto nel nostro territorio chissà cosa avremmo fatto in casa loro. È chiamata guerra psicologica». Per fortuna, non c'è stata alcuna invasione. «Certo, è stato meglio così. Ma noi si era pronti a tutto. Ad avvelenare l'acqua, i cibi, a fare ogni cosa per disturbare e ritardare l'avanzata nemica. A Napoli e a Taranto non sarebbero mai arrivati. Il nostro compito era di debilitarli e sfiancarli con azioni di guerriglia, noi eravamo la migliore e unica forza speciale per la guerra non convenzionale». Quali erano invece gli altri compiti. «Diciamo che tutto ciò che noi facevamo aveva un solo obiettivo: combattere il Patto di Varsavia, il comunismo e i comunisti, naturalmente in caso di conflitto. Ci avevano addestrato e specializzato per intervenire su questo terreno. Abbiamo partecipato (faceva parte del progetto) all'eliminazione di decine di infiltrati di Kgb, Gru e Stasi (i servizi segreti militari dell'Urss e della Germania Est). Avevamo anche funzioni di lavanderia, termine che nel nostro gergo significava uccidere chi aveva posizioni di contrasto e dissenso nei confronti della Nato». Quindi il Pci e il suo vertice. «In caso di attacco sovietico, l'intera nomenclatura di sinistra, con in testa Berlinguer e Lama dovevano saltare. Un lungo elenco di personalità da spegnere era nelle mani delle Blue Light, un nucleo di 150 militari statunitensi, super addestrati e assolutamente privi di qualsiasi scrupolo». Si spieghi. «Vede, questi signori studiavano e si preparavano con noi, nelle basi logistiche di Miano, vicino Napoli, e Verona. Da loro avevamo appreso le tecniche per sopprimere, infiltrare e quant'altro. Erano, come dire, dei dormienti. Seguivano passo per passo i vertici comunisti, stando bene attenti a restare lontani dalle forze dell'ordine. Il loro fine era la destabilizzazione del Paese per ricondurlo a posizioni più filoamericane magari spostando l'elettorato con una serie di operazioni sporche da addebitare alle Brigate rosse. In realtà, si muovevano parallelamente alle Br ma erano molto più letali». Un esempio. «Il caso Moro, giusto per citarne uno. Nessuno di noi ha mai creduto alle Brigate Rosse. Non erano all'altezza di mettere in atto un'operazione militare di tale livello. Più verosimile che alcuni snipers Blue Light (cecchini, ndr) abbiano ucciso gli autisti e i carabinieri seduti di fianco nelle due auto sparando con armi ad altissima precisione da almeno tre quattrocento metri di distanza. Erano capaci, come noi d'altronde, di colpire il bersaglio anche a ottocento metri. Quindi, hanno lasciato il campo al commando brigatista. Vorrei porre un quesito: perché non è mai stata resa nota la perizia balistica sulle armi usate in via Fani? Chi avrebbe dovuto dirlo non lo ha mai detto». Secondo lei? «Era meglio che non si sapesse. Le Blue Light dovevano continuare ad agire nell'ombra e l'Italia non poteva mettere in discussione nulla con la Nato. Far credere che le Brigate rosse avessero progettato, organizzato e messo in atto il sequestro e l'omicidio del leader politico, era più semplice e conveniente. Per tutti».