L'ORA DI RELIGIONE
DI MARCO BELLOCCHIO (ITALIA 2002)
TELE + GRIGIO 21.55 (102')
(dal manifesto del 3.6.03)
Sulla pay tv il più bel film italiano della stagione passata, profonda ricognizione del sentimento laico fin dove può spingersi, e lo vediamo andare molto oltre. Bellocchio mantiene il suo punto di vista critico nei conftonti della famiglia come luogo di tortura e della religione ufficiale che può sfociare in grandiose beffe (come la santificazione di una donna piuttosto stupida che santa). Sergio Castellitto è un grandissimo interprete ed alter ego del regista nel suo lungo percorso spirituale, che mai si è sporcato le mani con materiale di bassa lega, e nei suoi ultimi tre film dimostra di essere un vero maestro.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
martedì 3 giugno 2003
un'immagine femminile
(ricevuta da Antonella La Greca)
DONNA DI RIVIERE
Sei donna di marine,
donna che apre riviere.
L'aria delle mattine
bianche è la tua aria
di sale e sono vele
al vento, sono bandiere
spiegate a bordo l'ampie
vesti tue così chiare.
(Giorgio Caproni, da "Finzioni", 1941)
DONNA DI RIVIERE
Sei donna di marine,
donna che apre riviere.
L'aria delle mattine
bianche è la tua aria
di sale e sono vele
al vento, sono bandiere
spiegate a bordo l'ampie
vesti tue così chiare.
(Giorgio Caproni, da "Finzioni", 1941)
George Orwell
il manifesto 3.6.03
Il secolo del bipensiero
George Orwell nasceva cento anni fa: immaginò un totalitarismo misero. Ma nel benessere sotto sorveglianza in cui viviamo oggi, il Grande Fratello è uno show televisivo e la deregulation investe anche la «polizia del pensiero». L'essere controllati è diventata una dimensione normale che rimuoviamo.
di Marco D'Eramo
Durante la cena, il Tg ci mostra il sospetto che cammina in stazione, o per strada, o in un grande magazzino, ignaro delle telecamere che lo riprendono. Dopo cena apriamo i messaggi e-mail che sono già stati setacciati dal sistema di sorveglianza Echelon. Il telefono cellulare segnala la nostra posizione sempre, anche quando è spento. Sono in fase avanzata i software che riconoscono le voci, identificano le facce. I progressi della tecnologia fanno sembrare trogloditici trabiccoli i diabolici strumenti che George Orwell aveva immaginato nel suo 1984. Ma questa sorveglianza continua, noi la patiamo senza l'angoscia che descriveva Orwell nella sua utopia negativa (distopia). Le telecamere non ci tolgono l'appetito, le intercettazioni non ci impediscono di scrivere in intimità; l'essere sorvegliati - il vivere in pubblico - è diventata una condizione normale che rimuoviamo. Proprio come nel mondo di Winston Smith nel 1984: «Dovevate vivere (e di fatto vivevate, in virtù dell'abitudine che diventa istinto) presupponendo che qualsiasi rumore da voi prodotto venisse ascoltato e qualsiasi movimento - che non fosse fatto al buio - attentamente scrutato» (ma noi siamo scrutati anche al buio, dagli infrarossi).
Attualissimo quindi Orwell (1903-1950) nel centenario della nascita: non ci proclamano ogni giorno che «Guerra è Pace» (uno dei tre slogan di 1984)? Non vi richiama nulla «il nemico contingente incarna sempre il male assoluto»? E non vi fa drizzare le orecchie questo passo: «Nel generale imbarbarimento, pratiche che erano state abbandonate, in qualche caso per centinaia di anni - incarcerazioni senza processo, ..., ricorso alla tortura al fine di estorcere confessioni, ... - non solo ridiventano comuni, ma sono tollerate e persino difese da persone che si considerano illuminate e progressiste» (corsivi miei)?
Invece della bigotta espressione «pensiero unico», non vi pare più appropriato il concetto di bipensiero? «Raccontare deliberatamente menzogne e nello stesso tempo crederci davvero», «dimenticare tutto ciò che era necessario dimenticare ma, all'occorrenza essere pronti a richiamarlo alla memoria, per poi eventualmente dimenticarlo di nuovo. Soprattutto, saper applicare il procedimento al procedimento stesso». In 1984, un giorno il nemico è Estasia e l'alleato è Eurasia; il giorno dopo alleanze e ostilità cambiano. Nel 2002 un giorno il grande nemico è Osama bin Laden, e il grande schermo non parla d'altro. Il giorno dopo bin Laden è dimenticato e si parla solo di Saddam Hussein. Ma poi anche Saddam cade nell'oblio.
Eppure, pur fra tanti elementi orwelliani, a noi non sembra di vivere nello stato totalitario che tanto angosciava Orwell. La prima ragione è che, se lo scrittore inglese aveva ragione sul tipo di mondo futuro, sbagliava invece su chi l'avrebbe attuato. Il soggetto della distopia orwelliana era lo Stato totalitario. Da noi invece a esercitare i compiti di «psicopolizia» sono per lo più i privati, le forze del mercato: i nostri dati circolano con le carte di credito, nei moduli degli acquisti online, nei tagliandi di garanzia dei nostri acquisti, nei telepass austostradali, nei codici a barre dei tesserini aziendali. «Fino agli anni `90 - coerentemente con l'orwelliano 1984 -, si assumeva ancora che il più grande pericolo inerente alla sorveglianza informatizzata fosse costituito dallo stato-nazione, mentre la grande impresa capitalistica era ritenuta una fonte di rischio decisamente secondaria» (David Lyon, La società sorvegliata. Tecnologie di controllo della vita quotidiana, Feltrinelli, 2002). Ma la deregulation ha investito anche la «polizia del pensiero»: quando i database sono connessi in rete, «non è più necessario un sistema di sorveglianza centralizzato quale quello paventato da Orwell». Siamo insomma in piena «sorveglianza postmoderna»: alla luce del liberismo che ispira l'attuale leader del Labour party inglese, sembra quasi un'ironia della storia che il vero cognome di Orwell fosse Blair.
Nel 1984 è la Pornosez del Ministero della Verità (Reparto Finzione) a produrre il materiale che poi «i giovani prolet compreranno di nascosto, con l'illusione di compiere un'azione illegale»; da noi è il mercato che inonda la rete con film porno che saranno piratati e masterizzati di nascosto. Non è un caso se il Grande Fratello è uno show delle tv private (però in inglese Big Brother vuol dire fratello maggiore).
Il passaggio dal Leviatano statale alla sorveglianza di mercato produce anche uno slittamento del registro, dal tragico/gotico all'attuale pulp: le nostre vite scorrono non in un inferno, ma in un film da quattro soldi. L'equivalente attuale di 1984 sarebbe Matrix, ma proprio nel paragone si legge la differenza tra i due secoli. Matrix ci appare onirica, mentre negli anni `50 1984 risuonava di un suo truce realismo.
Questo declassamento di registro è dovuto anche al benessere (per quanto relativo) delle società industrializzate. Lo stato totalitario di 1984 è insopportabile non solo perché la sorveglianza è continua, con il Ministero dell'Amore (degli interni) sempre in agguato, ma soprattutto perché incombe la miseria, il «caffè Vittoria» è vomitevole, le sigarette Vittoria sono così vuote che a tenerle dritte il tabacco cade, il gin Vittoria «emana un odore nauseante, odioso, che ricorda l'alcol di riso cinese», le case sono «fatiscenti, con i fianchi sorretti da travi di legno, le finestre rattoppate col cartone, i tetti ricoperti da fogli di lamiera ondulata» e la vita è «solo un mesto sgobbare, una lotta al coltello per un posto a sedere in metropolitana, un rammendare calzini consunti, un mendicare una pasticca di saccarina, un mettere da parte le cicche di sigaretta».
Il mondo del 1984 è orribile non solo e non tanto perché la libertà è soppressa, ma perché è immerso in una lurida, pulciosa indigenza. Ma che effetto fa una progressiva soppressione di libertà senza indigenza? in fondo il nazismo, fino al 1939, fu proprio questo: il suo militar-keynesismo fece superare alla Germania la terribile depressione del 1929-1932 e fu proprio il ritrovato benessere a costituire la sua base di consenso presso i tedeschi. Certo è che con un buon vino e un gelato saporito, la dittatura ha tutto un altro aspetto. (Orwell tardò molto, forse troppo, a convincersi che bisognava combattere la Germania nazista).
Negli anni `60 andai in Grecia dove regnava la dittatura dei colonnelli. Mi aspettavo carri armati a ogni incrocio, polizia segreta su ogni traghetto, e invece il paese appariva pacioso, con libri di Marx nelle librerie, struscio per le strade, ristoranti pieni: la dittatura c'era, ma io ne avevo un'immagine sbagliata e perciò non la vedevo. Ci è dipinto un quadro così melodrammatico delle tirannie che non riusciamo a capire come tanti nostri bravi genitori (o nonni) fossero stati fascisti o nazisti. La verità è che la libertà di stampa e di espressione si riduce a poco a poco, la sorveglianza si accentua, la sfera d'indipendenza si restringe, ma noi continuiamo ad andare al mare d'estate, al cinema la sera, e il Milan vince la Coppa dei campioni.
In realtà, a rivelarsi transeunte e, per un certo verso, fuorviante è la categoria di «totalitarismo» - che Orwell contribuì a plasmare e a propagandare.
Quel mondo, e quel secolo, sono davvero finiti per sempre. Il 1984 si è concluso nel 1989. Grazie anche al contributo di Orwell, si è dissolta nel vento quell'Unione sovietica che incuteva tanto timore, tanto odio, e tanta speranza (ambedue ingiustificati alla lunga). Tanto che oggi risultano illeggibili libri che allora avevo divorato: 1984 (finito a fatica) e La fattoria degli animali (che ho mollato esasperato): e non ho il coraggio di riprendere in mano Omaggio alla Catalogna che all'epoca mi appassionò. Rimane la straordinaria creatività linguistica di Orwell (bipensiero, Grande Fratello, neolingua): fu lui a coniare il termine «guerra fredda». Ma emerge il razzismo («Da un membro del Partito si esigeva un atteggiamento simile a quello di un antico ebreo»), la misoginia («Erano infatti le donne - specie le più giovani - a fornire al partito i suoi affiliati più bigotti, pronte come erano a ingoiare ogni slogan e a fare le spie dilettanti»). Che poi lo stesso Orwell abbia «fatto la spia dilettante» e sia stato informatore dei servizi (vedi articolo accanto), mostra che egli stesso era vittima di quel bipensiero che aveva coniato.
Una vita tra scrittura e malattia
George Orwell, dalla guerra di Spagna alla morte in ospedale
George Orwell è lo pseudonimo di Eric Arthur Blair, nato il 25 giugno 1903 a Mothari in Bengala. Suo padre - Richard Walmesley - era funzionario coloniale del Dipartimento dell'oppio del Governo inglese in India. Nel 1904 la madre, Ida Mabel Limouzin, riportò in Inghilterra Eric e la sua sorella maggiore Marjorie, mentre il padre Richard restò in India. Nel 1918 Eric entrò nel migliore liceo privato inglese, a Eton. Vi si diplomò nel 1921, ma non andò all'università. Dal 1922 al 1927 fu ufficiale in Birmania nella Polizia imperiale. Nel 1927 andò a Parigi per diventare scrittore. Finiti i soldi, fece il lavapiatti. Tornò in Inghilterra alla fine del 1929 e visse vagabondando da barbone. Dal 1932 insegnò in una scuola privata. Il suo primo libro con le esperienze tra i diseredati, Senza un soldo a Parigi e Londra (Down and Out in Paris and London), fu pubblicato nel 1933 con lo pseudonimo di George Orwell. Nel 1934 uscì il primo romanzo, Giorni in Birmania (Burmese Days). Nel 1935 pubblicò La figlia del Reverendo (A Clargyman's Daughter) e incontrò la sua futura prima moglie, Eileen Maud O'Shaughnessy. All'inizio del 1936 uscì il romanzo Fiorirà l'aspidistra (Keep the Aspidistra Flying). A giugno Orwell sposò Eileen; a dicembre andò a combattere la guerra civile spagnola nella brigata del Poum (Partido Obrero de Unificación Marxista). All'epoca Orwell era critico nei confronti del comunismo ma si considerava un socialista. Nel marzo 1937 pubblicò La strada di Wigan Pier (The Road to Wigan Pier); a maggio fu ferito al collo. Nel suo ultimo periodo in Spagna combatté contro i comunisti e tornò in Inghilterra nel luglio 1937. Le esperienze nella guerra civile spagnola sono raccontate nel suo più bel libro, Omaggio alla Catalogna (Homage to Catalonia aprile 1938). Seguirono Una boccata d'aria (Coming Up for Air giugno 1939), Nel ventre della balena e altri saggi (Inside the Whale marzo 1940), The Lion and the Unicorn e The Socialism and the English Genius (1941). Dall'agosto 1941 Orwell tenne alla Bbc una trasmissione settimanale sull'India per contrastare la propaganda giapponese. Intanto scriveva recensioni per Time and Tide, Tribune, Observer, Partisan Review, e Manchester Evening News. Nel 1943 si dimise dalla BBC; a novembre divenne critico letterario del Tribune. Nel febbraio 1944 terminò Animal Farm che però fu rifiutato da tutti gli editori. A giugno, con Eileen, adottò un bambino, Richard. Nel marzo 1945 Orwell si dimise dal Tribune per diventare corrispondente di guerra dell'Observer. Eileen morì in marzo e Animal Farm fu infine pubblicato in agosto: ebbe subito un enorme successo.
Nel febbraio 1946, Orwell pubblicò Critical Essays. Lasciò Londra per vivere nell'isola di Jura con suo figlio e un'infermiera. Qui iniziò 1984 (Ninety Eighty-Four) mentre le sue condizioni di salute peggioravano per la tubercolosi che aveva trascurato. Nel gennaio 1949 entrò nel sanatorio Cranham; 1984 fu pubblicato e riscosse immenso successo. In settembre fu ricoverato all'University College Hospital di Londra. Sposò Sonia Bronwell in ottobre. Morì a 46 anni, il 21 gennaio 1950. Postumi uscirono Shooting an Elephant and Other Essays (1950) e Such, Such Were the Joys (1953). (m. d'e.)
Il secolo del bipensiero
George Orwell nasceva cento anni fa: immaginò un totalitarismo misero. Ma nel benessere sotto sorveglianza in cui viviamo oggi, il Grande Fratello è uno show televisivo e la deregulation investe anche la «polizia del pensiero». L'essere controllati è diventata una dimensione normale che rimuoviamo.
di Marco D'Eramo
Durante la cena, il Tg ci mostra il sospetto che cammina in stazione, o per strada, o in un grande magazzino, ignaro delle telecamere che lo riprendono. Dopo cena apriamo i messaggi e-mail che sono già stati setacciati dal sistema di sorveglianza Echelon. Il telefono cellulare segnala la nostra posizione sempre, anche quando è spento. Sono in fase avanzata i software che riconoscono le voci, identificano le facce. I progressi della tecnologia fanno sembrare trogloditici trabiccoli i diabolici strumenti che George Orwell aveva immaginato nel suo 1984. Ma questa sorveglianza continua, noi la patiamo senza l'angoscia che descriveva Orwell nella sua utopia negativa (distopia). Le telecamere non ci tolgono l'appetito, le intercettazioni non ci impediscono di scrivere in intimità; l'essere sorvegliati - il vivere in pubblico - è diventata una condizione normale che rimuoviamo. Proprio come nel mondo di Winston Smith nel 1984: «Dovevate vivere (e di fatto vivevate, in virtù dell'abitudine che diventa istinto) presupponendo che qualsiasi rumore da voi prodotto venisse ascoltato e qualsiasi movimento - che non fosse fatto al buio - attentamente scrutato» (ma noi siamo scrutati anche al buio, dagli infrarossi).
Attualissimo quindi Orwell (1903-1950) nel centenario della nascita: non ci proclamano ogni giorno che «Guerra è Pace» (uno dei tre slogan di 1984)? Non vi richiama nulla «il nemico contingente incarna sempre il male assoluto»? E non vi fa drizzare le orecchie questo passo: «Nel generale imbarbarimento, pratiche che erano state abbandonate, in qualche caso per centinaia di anni - incarcerazioni senza processo, ..., ricorso alla tortura al fine di estorcere confessioni, ... - non solo ridiventano comuni, ma sono tollerate e persino difese da persone che si considerano illuminate e progressiste» (corsivi miei)?
Invece della bigotta espressione «pensiero unico», non vi pare più appropriato il concetto di bipensiero? «Raccontare deliberatamente menzogne e nello stesso tempo crederci davvero», «dimenticare tutto ciò che era necessario dimenticare ma, all'occorrenza essere pronti a richiamarlo alla memoria, per poi eventualmente dimenticarlo di nuovo. Soprattutto, saper applicare il procedimento al procedimento stesso». In 1984, un giorno il nemico è Estasia e l'alleato è Eurasia; il giorno dopo alleanze e ostilità cambiano. Nel 2002 un giorno il grande nemico è Osama bin Laden, e il grande schermo non parla d'altro. Il giorno dopo bin Laden è dimenticato e si parla solo di Saddam Hussein. Ma poi anche Saddam cade nell'oblio.
Eppure, pur fra tanti elementi orwelliani, a noi non sembra di vivere nello stato totalitario che tanto angosciava Orwell. La prima ragione è che, se lo scrittore inglese aveva ragione sul tipo di mondo futuro, sbagliava invece su chi l'avrebbe attuato. Il soggetto della distopia orwelliana era lo Stato totalitario. Da noi invece a esercitare i compiti di «psicopolizia» sono per lo più i privati, le forze del mercato: i nostri dati circolano con le carte di credito, nei moduli degli acquisti online, nei tagliandi di garanzia dei nostri acquisti, nei telepass austostradali, nei codici a barre dei tesserini aziendali. «Fino agli anni `90 - coerentemente con l'orwelliano 1984 -, si assumeva ancora che il più grande pericolo inerente alla sorveglianza informatizzata fosse costituito dallo stato-nazione, mentre la grande impresa capitalistica era ritenuta una fonte di rischio decisamente secondaria» (David Lyon, La società sorvegliata. Tecnologie di controllo della vita quotidiana, Feltrinelli, 2002). Ma la deregulation ha investito anche la «polizia del pensiero»: quando i database sono connessi in rete, «non è più necessario un sistema di sorveglianza centralizzato quale quello paventato da Orwell». Siamo insomma in piena «sorveglianza postmoderna»: alla luce del liberismo che ispira l'attuale leader del Labour party inglese, sembra quasi un'ironia della storia che il vero cognome di Orwell fosse Blair.
Nel 1984 è la Pornosez del Ministero della Verità (Reparto Finzione) a produrre il materiale che poi «i giovani prolet compreranno di nascosto, con l'illusione di compiere un'azione illegale»; da noi è il mercato che inonda la rete con film porno che saranno piratati e masterizzati di nascosto. Non è un caso se il Grande Fratello è uno show delle tv private (però in inglese Big Brother vuol dire fratello maggiore).
Il passaggio dal Leviatano statale alla sorveglianza di mercato produce anche uno slittamento del registro, dal tragico/gotico all'attuale pulp: le nostre vite scorrono non in un inferno, ma in un film da quattro soldi. L'equivalente attuale di 1984 sarebbe Matrix, ma proprio nel paragone si legge la differenza tra i due secoli. Matrix ci appare onirica, mentre negli anni `50 1984 risuonava di un suo truce realismo.
Questo declassamento di registro è dovuto anche al benessere (per quanto relativo) delle società industrializzate. Lo stato totalitario di 1984 è insopportabile non solo perché la sorveglianza è continua, con il Ministero dell'Amore (degli interni) sempre in agguato, ma soprattutto perché incombe la miseria, il «caffè Vittoria» è vomitevole, le sigarette Vittoria sono così vuote che a tenerle dritte il tabacco cade, il gin Vittoria «emana un odore nauseante, odioso, che ricorda l'alcol di riso cinese», le case sono «fatiscenti, con i fianchi sorretti da travi di legno, le finestre rattoppate col cartone, i tetti ricoperti da fogli di lamiera ondulata» e la vita è «solo un mesto sgobbare, una lotta al coltello per un posto a sedere in metropolitana, un rammendare calzini consunti, un mendicare una pasticca di saccarina, un mettere da parte le cicche di sigaretta».
Il mondo del 1984 è orribile non solo e non tanto perché la libertà è soppressa, ma perché è immerso in una lurida, pulciosa indigenza. Ma che effetto fa una progressiva soppressione di libertà senza indigenza? in fondo il nazismo, fino al 1939, fu proprio questo: il suo militar-keynesismo fece superare alla Germania la terribile depressione del 1929-1932 e fu proprio il ritrovato benessere a costituire la sua base di consenso presso i tedeschi. Certo è che con un buon vino e un gelato saporito, la dittatura ha tutto un altro aspetto. (Orwell tardò molto, forse troppo, a convincersi che bisognava combattere la Germania nazista).
Negli anni `60 andai in Grecia dove regnava la dittatura dei colonnelli. Mi aspettavo carri armati a ogni incrocio, polizia segreta su ogni traghetto, e invece il paese appariva pacioso, con libri di Marx nelle librerie, struscio per le strade, ristoranti pieni: la dittatura c'era, ma io ne avevo un'immagine sbagliata e perciò non la vedevo. Ci è dipinto un quadro così melodrammatico delle tirannie che non riusciamo a capire come tanti nostri bravi genitori (o nonni) fossero stati fascisti o nazisti. La verità è che la libertà di stampa e di espressione si riduce a poco a poco, la sorveglianza si accentua, la sfera d'indipendenza si restringe, ma noi continuiamo ad andare al mare d'estate, al cinema la sera, e il Milan vince la Coppa dei campioni.
In realtà, a rivelarsi transeunte e, per un certo verso, fuorviante è la categoria di «totalitarismo» - che Orwell contribuì a plasmare e a propagandare.
Quel mondo, e quel secolo, sono davvero finiti per sempre. Il 1984 si è concluso nel 1989. Grazie anche al contributo di Orwell, si è dissolta nel vento quell'Unione sovietica che incuteva tanto timore, tanto odio, e tanta speranza (ambedue ingiustificati alla lunga). Tanto che oggi risultano illeggibili libri che allora avevo divorato: 1984 (finito a fatica) e La fattoria degli animali (che ho mollato esasperato): e non ho il coraggio di riprendere in mano Omaggio alla Catalogna che all'epoca mi appassionò. Rimane la straordinaria creatività linguistica di Orwell (bipensiero, Grande Fratello, neolingua): fu lui a coniare il termine «guerra fredda». Ma emerge il razzismo («Da un membro del Partito si esigeva un atteggiamento simile a quello di un antico ebreo»), la misoginia («Erano infatti le donne - specie le più giovani - a fornire al partito i suoi affiliati più bigotti, pronte come erano a ingoiare ogni slogan e a fare le spie dilettanti»). Che poi lo stesso Orwell abbia «fatto la spia dilettante» e sia stato informatore dei servizi (vedi articolo accanto), mostra che egli stesso era vittima di quel bipensiero che aveva coniato.
Una vita tra scrittura e malattia
George Orwell, dalla guerra di Spagna alla morte in ospedale
George Orwell è lo pseudonimo di Eric Arthur Blair, nato il 25 giugno 1903 a Mothari in Bengala. Suo padre - Richard Walmesley - era funzionario coloniale del Dipartimento dell'oppio del Governo inglese in India. Nel 1904 la madre, Ida Mabel Limouzin, riportò in Inghilterra Eric e la sua sorella maggiore Marjorie, mentre il padre Richard restò in India. Nel 1918 Eric entrò nel migliore liceo privato inglese, a Eton. Vi si diplomò nel 1921, ma non andò all'università. Dal 1922 al 1927 fu ufficiale in Birmania nella Polizia imperiale. Nel 1927 andò a Parigi per diventare scrittore. Finiti i soldi, fece il lavapiatti. Tornò in Inghilterra alla fine del 1929 e visse vagabondando da barbone. Dal 1932 insegnò in una scuola privata. Il suo primo libro con le esperienze tra i diseredati, Senza un soldo a Parigi e Londra (Down and Out in Paris and London), fu pubblicato nel 1933 con lo pseudonimo di George Orwell. Nel 1934 uscì il primo romanzo, Giorni in Birmania (Burmese Days). Nel 1935 pubblicò La figlia del Reverendo (A Clargyman's Daughter) e incontrò la sua futura prima moglie, Eileen Maud O'Shaughnessy. All'inizio del 1936 uscì il romanzo Fiorirà l'aspidistra (Keep the Aspidistra Flying). A giugno Orwell sposò Eileen; a dicembre andò a combattere la guerra civile spagnola nella brigata del Poum (Partido Obrero de Unificación Marxista). All'epoca Orwell era critico nei confronti del comunismo ma si considerava un socialista. Nel marzo 1937 pubblicò La strada di Wigan Pier (The Road to Wigan Pier); a maggio fu ferito al collo. Nel suo ultimo periodo in Spagna combatté contro i comunisti e tornò in Inghilterra nel luglio 1937. Le esperienze nella guerra civile spagnola sono raccontate nel suo più bel libro, Omaggio alla Catalogna (Homage to Catalonia aprile 1938). Seguirono Una boccata d'aria (Coming Up for Air giugno 1939), Nel ventre della balena e altri saggi (Inside the Whale marzo 1940), The Lion and the Unicorn e The Socialism and the English Genius (1941). Dall'agosto 1941 Orwell tenne alla Bbc una trasmissione settimanale sull'India per contrastare la propaganda giapponese. Intanto scriveva recensioni per Time and Tide, Tribune, Observer, Partisan Review, e Manchester Evening News. Nel 1943 si dimise dalla BBC; a novembre divenne critico letterario del Tribune. Nel febbraio 1944 terminò Animal Farm che però fu rifiutato da tutti gli editori. A giugno, con Eileen, adottò un bambino, Richard. Nel marzo 1945 Orwell si dimise dal Tribune per diventare corrispondente di guerra dell'Observer. Eileen morì in marzo e Animal Farm fu infine pubblicato in agosto: ebbe subito un enorme successo.
Nel febbraio 1946, Orwell pubblicò Critical Essays. Lasciò Londra per vivere nell'isola di Jura con suo figlio e un'infermiera. Qui iniziò 1984 (Ninety Eighty-Four) mentre le sue condizioni di salute peggioravano per la tubercolosi che aveva trascurato. Nel gennaio 1949 entrò nel sanatorio Cranham; 1984 fu pubblicato e riscosse immenso successo. In settembre fu ricoverato all'University College Hospital di Londra. Sposò Sonia Bronwell in ottobre. Morì a 46 anni, il 21 gennaio 1950. Postumi uscirono Shooting an Elephant and Other Essays (1950) e Such, Such Were the Joys (1953). (m. d'e.)
ancora su Paul Ricoeur
il manifesto 3.6.03
Ricoeur, la via lunga dell'interpretazione
«Itinerari ermeneutici», oggi a Roma una giornata di studi in omaggio al filosofo francese
di Giuseppe Martini
Oggi, presso l'Aula Magna del Rettorato di via Ostiense 159, si svolgerà in Roma una Giornata di studi in omaggio a Paul Ricoeur, che vedrà la partecipazione dello stesso filosofo francese. La giornata, dal titolo «Itinerari ermeneutici a partire da la memoria, la storia, l'oblio», attraversa significativamente la prima e l'ultima delle opere di Ricoeur tradotte in italiano, la cui diversità sottende in realtà una molteplicità di interconnessioni (come del resto la sua intera produzione), che rimandano, ad esempio, al rapporto tra il lavoro del lutto e la memoria, alla tematica della narrazione, alla questione del soggetto. Si inizia la mattina, con una introduzione dell'organizzatrice, Francesca Brezzi, e una prima sessione, coordinata da Angela Ales Bello, che prevede le relazioni di Paul Ricoeur (La mémoire après l'histoire), Franco Bianco e Giacomo Marramao. Seguono interventi di Marco Maria Olivetti, Leonardo Casini, Attilio Danese e Daniella Iannotta, traduttrice presso Cortina de La memoria, la storia, l'oblio. Nel pomeriggio il discorso si sposta invece intorno al testo Dell'Interpretazione, recentemente riproposto dal Saggiatore con un ampio saggio introduttivo di Domenico Jervolino. A partire di qui tre filosofi (Donatella Di Cesare, Domenico Jervolino, Francesco Saverio Trincia) e uno psicoanalista (Giuseppe Martini) discuteranno su «Il cammino dell'interpretazione». La questione non è di quelle marginali: l'interpretazione appare in filosofia come in psicoanalisi costantemente attuale e costantemente a rischio. A fronte della sua universalizzazione proposta dalla filosofia ermeneutica (la posizione interpretante è la inevitabile posizione dell'uomo nel suo essere al mondo), interpretare risulta un compito sempre più difficile e incerto, forse in ogni campo della conoscenza pratica. La psicoanalisi è stata profondamente attraversata da questa difficoltà, che si è tradotta nel progressivo «decentramento» dell'interpretazione «freudiana» in quanto strumento terapeutico e conoscitivo. Quanto a Ricoeur, già quaranta anni fa, in Dell'interpretazione, aveva abbozzato, con una riflessione straordinariamente lungi-mirante, una concezione dialettica della psicoanalisi che, lontana dall'essere pacificatoria, ha tuttt'oggi una portata eversiva non indifferente, come testimonia la sua difficoltà di penetrazione nell'ambiente psicoanalitico ove solo nella seconda metà degli anni `90 ha iniziato ad avere accoglienza. Aprirsi alle innumerevoli difficoltà che comporta una posizione dialettica, rappresenta per uno psicoanalista un oneroso, continuo interrogarsi sul senso e sulle modalità del proprio lavoro. Ma è questo che giustifica l'impegnativa lettura di Dell'interpretazione, che ha la caratteristica forma ricoeuriana della «via lunga». Anche l'opera più recente, La memoria, la storia, l'oblio, si presenta come un itinerario complesso, che passa da una fenomenologia della memoria, attraverso l'epistemologia delle scienze storiche, fino a una «ermeneutica della condizione umana». In fondo la «via lunga» di Ricoeur è proprio una attestazione delle possibilità costitutive della condizione umana nel riconoscimento dei limiti. Ed è questa duplice consapevolezza, dei limiti e delle possibilità, che ci autorizza, anzi forse ci impone, il passaggio «dal testo all'azione», dalla filosofia alla prassi, e che fornisce al suo discorso , ma anche al nostro agire, una connotazione inevitabilmente etica.
Ricoeur, la via lunga dell'interpretazione
«Itinerari ermeneutici», oggi a Roma una giornata di studi in omaggio al filosofo francese
di Giuseppe Martini
Oggi, presso l'Aula Magna del Rettorato di via Ostiense 159, si svolgerà in Roma una Giornata di studi in omaggio a Paul Ricoeur, che vedrà la partecipazione dello stesso filosofo francese. La giornata, dal titolo «Itinerari ermeneutici a partire da la memoria, la storia, l'oblio», attraversa significativamente la prima e l'ultima delle opere di Ricoeur tradotte in italiano, la cui diversità sottende in realtà una molteplicità di interconnessioni (come del resto la sua intera produzione), che rimandano, ad esempio, al rapporto tra il lavoro del lutto e la memoria, alla tematica della narrazione, alla questione del soggetto. Si inizia la mattina, con una introduzione dell'organizzatrice, Francesca Brezzi, e una prima sessione, coordinata da Angela Ales Bello, che prevede le relazioni di Paul Ricoeur (La mémoire après l'histoire), Franco Bianco e Giacomo Marramao. Seguono interventi di Marco Maria Olivetti, Leonardo Casini, Attilio Danese e Daniella Iannotta, traduttrice presso Cortina de La memoria, la storia, l'oblio. Nel pomeriggio il discorso si sposta invece intorno al testo Dell'Interpretazione, recentemente riproposto dal Saggiatore con un ampio saggio introduttivo di Domenico Jervolino. A partire di qui tre filosofi (Donatella Di Cesare, Domenico Jervolino, Francesco Saverio Trincia) e uno psicoanalista (Giuseppe Martini) discuteranno su «Il cammino dell'interpretazione». La questione non è di quelle marginali: l'interpretazione appare in filosofia come in psicoanalisi costantemente attuale e costantemente a rischio. A fronte della sua universalizzazione proposta dalla filosofia ermeneutica (la posizione interpretante è la inevitabile posizione dell'uomo nel suo essere al mondo), interpretare risulta un compito sempre più difficile e incerto, forse in ogni campo della conoscenza pratica. La psicoanalisi è stata profondamente attraversata da questa difficoltà, che si è tradotta nel progressivo «decentramento» dell'interpretazione «freudiana» in quanto strumento terapeutico e conoscitivo. Quanto a Ricoeur, già quaranta anni fa, in Dell'interpretazione, aveva abbozzato, con una riflessione straordinariamente lungi-mirante, una concezione dialettica della psicoanalisi che, lontana dall'essere pacificatoria, ha tuttt'oggi una portata eversiva non indifferente, come testimonia la sua difficoltà di penetrazione nell'ambiente psicoanalitico ove solo nella seconda metà degli anni `90 ha iniziato ad avere accoglienza. Aprirsi alle innumerevoli difficoltà che comporta una posizione dialettica, rappresenta per uno psicoanalista un oneroso, continuo interrogarsi sul senso e sulle modalità del proprio lavoro. Ma è questo che giustifica l'impegnativa lettura di Dell'interpretazione, che ha la caratteristica forma ricoeuriana della «via lunga». Anche l'opera più recente, La memoria, la storia, l'oblio, si presenta come un itinerario complesso, che passa da una fenomenologia della memoria, attraverso l'epistemologia delle scienze storiche, fino a una «ermeneutica della condizione umana». In fondo la «via lunga» di Ricoeur è proprio una attestazione delle possibilità costitutive della condizione umana nel riconoscimento dei limiti. Ed è questa duplice consapevolezza, dei limiti e delle possibilità, che ci autorizza, anzi forse ci impone, il passaggio «dal testo all'azione», dalla filosofia alla prassi, e che fornisce al suo discorso , ma anche al nostro agire, una connotazione inevitabilmente etica.
Catherine Deneuve sul set sarà Marie Bonaparte, la allieva di Freud
L'Unione Sarda 3.6.03
Cinema.
L’attrice francese protagonista di “Princesse Marie” diretto da Benoit Jacquot
Catherine sul lettino di Freud
La Deneuve è Maria Bonaparte, “salvata” dal grande psicanalista
Catherine Deneuve va dallo psicanalista, e non da uno qualsiasi, ma dal padre della psicanalisi, Sigmund Freud: naturalmente per esigenze di copione. A lei il regista Benoit Jacquot ha affidato il difficile e intrigante ruolo di Maria Bonaparte, la straordinaria principessa psicanalista che ammise di essere stata salvata dalla depressione da Freud e che “saldò” il debito permettendo al Maestro, nel 1938, di fuggire da Vienna e dai nazisti per rifugiarsi a Londra. Le riprese di Princesse Marie, alla quale si deve la creazione nel 1926 della Società psicanalitica di Parigi, e nel 1934 dell’Istituto di psicanalisi, sono agli ultimi ciak. Il film in due episodi è stato girato in Austria, nelle foreste austriache a sud ovest di Vienna, a Parigi, sui laghi del nord Italia, poi la troupe si è spostata per le scene finali a Saint Tropez, dove Marie Bonaparte morì nel 1962 a 80 anni.
Princesse Marie era la pronipote di Lucien, fratello di Napoleone Bonaparte, e aveva sposato Georges, secondo figlio del re di Grecia, ma era molto di più di una principessa. «Era una donna coraggiosa, indipendente, intelligente, intransigente», dice Catherine Deneuve: «Forse quel che mi ha più sedotto nel personaggio è una certa virilità, quel suo modo di prendere in mano la vita, la sua e quella degli altri, di affrontare la realtà, di saper mostrare vero coraggio davanti ad eventi dolorosi o terribilmente tragici. Marie non tace mai, è frontale». Nei panni del Maestro la Deneuve ha ritrovato Heinz Bennent, suo marito ne L’ultimo metrò, e il film scritto da Louis Gardel e Francois-Olivier Rousseau è incentrato sul doppio debito, quello che Marie pensa di avere nei confronti di Freud che l’ha salvata dall’orribile depressione che la stava divorando, e quello che Freud ha verso di lei che gli ha letteralmente salvato la vita. «È una donna complessa, non è mai una sola, qualcuno che si osserva costantemente», dice la Deneuve, al suo secondo film televisivo dopo Les liaisons dangereuses di Josée Dayan.
Il film comincia con una scena piuttosto drammatica e ardua, un’operazione chirurgica particolare voluta da Marie «che aveva in sé il mistero del desiderio di ritoccare il suo corpo che le sembrava non risponderle più, di cercare soluzioni tecniche a quella che definiva la sua frigidità», spiega l’attrice. «Un fatto singolare se ci si ricorda che è stata una delle prime discepole di Freud e che perciò avrebbe dovuto ricercare altrove le soluzioni al suo problema». Sul set anche due figli d’arte: Anne, la figlia di Heinz Bennent, nei panni di Anna, la figlia di Freud, e Christian Vadim, nato dall’unione della Deneuve e di Roger Vadim, nel ruolo di Antoine Leandri, il primo amante della Princesse Marie. «Niente paura», ironizza la Deneuve: «Ovviamente non sono io che recito la parte di Marie giovane, ma Marie Christine Friedrich». Difficoltà durante le riprese? Sì, ammette la Deneuve: «Stare a lungo sdraiata sul divano, in una posizione di vulnerabilità estrema. E poi la concentrazione molto densa nel rapporto tra paziente e psicanalista, difficile da trovare per dare il sentimento del segreto dello studio e al tempo stesso far sì che tutto parli allo spettatore».
Cinema.
L’attrice francese protagonista di “Princesse Marie” diretto da Benoit Jacquot
Catherine sul lettino di Freud
La Deneuve è Maria Bonaparte, “salvata” dal grande psicanalista
Catherine Deneuve va dallo psicanalista, e non da uno qualsiasi, ma dal padre della psicanalisi, Sigmund Freud: naturalmente per esigenze di copione. A lei il regista Benoit Jacquot ha affidato il difficile e intrigante ruolo di Maria Bonaparte, la straordinaria principessa psicanalista che ammise di essere stata salvata dalla depressione da Freud e che “saldò” il debito permettendo al Maestro, nel 1938, di fuggire da Vienna e dai nazisti per rifugiarsi a Londra. Le riprese di Princesse Marie, alla quale si deve la creazione nel 1926 della Società psicanalitica di Parigi, e nel 1934 dell’Istituto di psicanalisi, sono agli ultimi ciak. Il film in due episodi è stato girato in Austria, nelle foreste austriache a sud ovest di Vienna, a Parigi, sui laghi del nord Italia, poi la troupe si è spostata per le scene finali a Saint Tropez, dove Marie Bonaparte morì nel 1962 a 80 anni.
Princesse Marie era la pronipote di Lucien, fratello di Napoleone Bonaparte, e aveva sposato Georges, secondo figlio del re di Grecia, ma era molto di più di una principessa. «Era una donna coraggiosa, indipendente, intelligente, intransigente», dice Catherine Deneuve: «Forse quel che mi ha più sedotto nel personaggio è una certa virilità, quel suo modo di prendere in mano la vita, la sua e quella degli altri, di affrontare la realtà, di saper mostrare vero coraggio davanti ad eventi dolorosi o terribilmente tragici. Marie non tace mai, è frontale». Nei panni del Maestro la Deneuve ha ritrovato Heinz Bennent, suo marito ne L’ultimo metrò, e il film scritto da Louis Gardel e Francois-Olivier Rousseau è incentrato sul doppio debito, quello che Marie pensa di avere nei confronti di Freud che l’ha salvata dall’orribile depressione che la stava divorando, e quello che Freud ha verso di lei che gli ha letteralmente salvato la vita. «È una donna complessa, non è mai una sola, qualcuno che si osserva costantemente», dice la Deneuve, al suo secondo film televisivo dopo Les liaisons dangereuses di Josée Dayan.
Il film comincia con una scena piuttosto drammatica e ardua, un’operazione chirurgica particolare voluta da Marie «che aveva in sé il mistero del desiderio di ritoccare il suo corpo che le sembrava non risponderle più, di cercare soluzioni tecniche a quella che definiva la sua frigidità», spiega l’attrice. «Un fatto singolare se ci si ricorda che è stata una delle prime discepole di Freud e che perciò avrebbe dovuto ricercare altrove le soluzioni al suo problema». Sul set anche due figli d’arte: Anne, la figlia di Heinz Bennent, nei panni di Anna, la figlia di Freud, e Christian Vadim, nato dall’unione della Deneuve e di Roger Vadim, nel ruolo di Antoine Leandri, il primo amante della Princesse Marie. «Niente paura», ironizza la Deneuve: «Ovviamente non sono io che recito la parte di Marie giovane, ma Marie Christine Friedrich». Difficoltà durante le riprese? Sì, ammette la Deneuve: «Stare a lungo sdraiata sul divano, in una posizione di vulnerabilità estrema. E poi la concentrazione molto densa nel rapporto tra paziente e psicanalista, difficile da trovare per dare il sentimento del segreto dello studio e al tempo stesso far sì che tutto parli allo spettatore».
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