venerdì 5 settembre 2003

Corriere della Sera 4.9.03
Grande ressa alla proiezione di «Buongiorno, notte», ultimo titolo italiano in concorso
Bellocchio «libera» Moro, ma è un sogno
Applausi all’anteprima, la storia divisa tra ricostruzione psicologica e filmati d’epoca
di M. Po.

VENEZIA - Grande ressa ieri sera per la prima proiezione di Buongiorno, notte di Marco Bellocchio, riservata alla stampa che alla fine ha accolto il film con due lunghissimi applausi, uno dei quali ha finito per andare sulle immagini finali con la sfilata di tutti i capi democristiani nelle immagini documentarie del funerale di Moro. Ma poiché tutto il film è anche giocato tra la realtà degli eventi e la fantasia della brigatista che vorrebbe salvare la vita al prigioniero, vince nell’ultimissima sequenza l’immagine di Moro che se ne va per la strada finalmente liberato, sigla di un episodio che è sempre rimasto con un alone misterioso.
Ma è un sogno della brigatista Chiara (la brava Maya Sansa), personaggio inventato da Bellocchio, che percorre tutto il film con la sua basilare contraddizione: da una parte il fascino dell’utopia rivoluzionaria, dall’altra la pietà per un essere umano ridotto in cattività e kafkianamente processato dal tribunale proletario. Le due anime del film sono quindi proprio il suo lato documentario, attraverso la continua partecipazione di brani televisivi dell’epoca (si inizia con gli auguri di Montesano per il 1978) e la storia dell’incubo privato del personaggio inventato, ma verosimile, della terrorista.
Bellocchio ricostruisce puntigliosamente gli interni borghesi della prigione di Moro, dove la ragazza legge La sacra famiglia di Marx e Engels e le Lettere dei condannati a morte della Resistenza, mentre sopra il letto dove sogna l’impossibile lieto fine c’è persino un crocefisso. La cella di Moro corrisponde all’iconografia ed è quasi sempre vista dal buco della serratura. Davanti al manifesto rosso con la stella br, lo statista, benissimo reso da Roberto Herlitzka, difende pacatamente e cristianamente la sua vita e, mentre la Carrà balla al sabato sera, egli parla della Dc come del partito della normalità, della tranquillità, del modesto benessere. E si intrattiene con i suoi carcerieri anche su questioni filosofiche come la paura della morte.
Lo si vede che scrive al Papa, Paolo VI, anch’egli fra le partecipazioni straordinarie del film, in cui non mancano neppure la famosa seduta spiritica per ritrovare lo statista rapito (accolta con qualche risata) e una serie di equivoci quotidiani che danno a tutta la storia il sapore di un match fra un gesto «straordinario» e disperato e la rivincita della vita di tutti i giorni che difficilmente sopporta gli eccessi di un gesto così perfido.
Oggi la presentazione ufficiale del film in concorso - che esce nelle sale domani ed è dedicato al padre di Bellocchio: nell’immaginare Moro ha spesso pensato al padre scomparso, un uomo tenace e conservatore -. Per stasera tutto esaurito ma senza mondanità e senza nessun familiare dello statista ucciso.

ancora su Buongiorno, notte: c'è un'intera pagina di Liberazione, non disponibile in rete. Sarà sul blog domani

Buongiorno, notte: L'Unità

L'Unità 05.09.2003
Un labirinto di identificazioni in un capolavoro di Bellocchio
di Alberto Crespi


VENEZIA. È quasi un peccato sapere già tutto, o quasi, del nuovo film di Marco Bellocchio Buongiorno, notte. Sapere che parla del caso Moro, che la macchina da presa ci porterà nel covo Br di via Gradoli, che passeremo 100 minuti assieme allo statista democristiano sequestrato dai terroristi e ai suoi carcerieri. Eppure... eppure facciamo, per qualche riga, un gioco. Facciamo finta di essere uno spettatore lituano o congolese o marziano che non abbia mai sentito parlare di Moro, delle Brigate rosse, del ’78 in Italia e dell’Italia tout court. Cosa vediamo, entrando in sala? Una giovane coppia visita un appartamento in vendita e ascolta il discorso da imbonitore dell’agente immobiliare (curioso il dettaglio dell’ingresso direttamente dal garage). Nella sequenza successiva la ragazza è nella casa ancora vuota, ma assieme ad un altro giovane: insieme festeggiano il capodanno del ’78.

Che sia la storia di un triangolo? Altra scena: stavolta sono in tre, fanno lavori di ristrutturazione, costruiscono una finta parete di librerie. Cosa si dovrà nascondere in quella casa? Poco dopo, la ragazza è sola in casa e guarda ansiosa la tv: un’edizione speciale del Tg2 annuncia che attentatori ancora ignoti hanno assalito la macchina di Aldo Moro, massacrato la scorta, rapito l’uomo politico. Seduta di fronte al televisore, la ragazza esulta, e in quel mentre suonano alla porta: è la vicina, che le chiede di tenerle un attimo il figlioletto neonato mentre lei va a prendere l’altro figlio a scuola. La ragazza fa per rifiutare, ma la vicina le molla il pupo e corre via. Proprio in quel momento si sente trambusto dalla porta che dà sul garage. Tre giovani (i due già visti più un terzo, più maturo, con i baffi) portano in casa un enorme baule e lo trascinano dietro la finta libreria. Dentro c’è Aldo Moro. Suona il campanello. Tensione. Mani che corrono alle pistole. La ragazza va ad aprire, riconsegna il bimbo alla mamma. Praticamente, comincia il film.

Spiegazione del gioco: nel primo quarto d’ora di Buongiorno, notte, Marco Bellocchio ci regala un prologo alla Hitchcock. Poi, il thriller lascia il posto al Kammerspiel, al dramma da camera. In senso letterale: la claustrofobia domina, il centro di ogni sequenza ­ anche quando si va per strada, all’aperto, «fra la gente» che parla dei brigatisti come degli assassini ­ è sempre quella cameretta angusta, dominata da una bandiera rossa con la stella a 5 punte, dove Moro è rinchiuso. Spesso vediamo l’onorevole inquadrato attraverso lo spioncino della porta: è il modo in cui lo vede sempre Chiara, la nostra ragazza, «vivandiera» delle Br liberamente ispirata alla brigatista Anna Laura Braghetti e al suo libro Il prigioniero. Il giovanotto coi baffi, l’avete già capito, è Moretti, l’ideologo: ma nel film si chiama Mariano. Gli altri due sono i piatti della bilancia, Ernesto è quello che entra in crisi e vorrebbe vivere una vita normale, Primo è il debole devoto a Mariano: a voler fare il gioco del «chi è chi?», potrebbero essere Maccari e Gallinari, ma Buongiorno, notte non è un film-museo delle cere: in fondo Roberto Herlitzka non somiglia molto a Moro né è truccato allo scopo, come a suo tempo Volonté nel Caso Moro di Ferrara e in Todo modo di Petri. Bellocchio l’ha scelto ­ oltre che per la straordinaria bravura, si capisce perché è del Nord e parla «settentrionale» là dove tutti sappiamo che Moro era pugliese: la verità, spiega il regista, è che «nell’immaginare il personaggio di Moro spesso mi è venuta in mente la figura di mio padre, che è morto quando ero piccolo. Aveva qualcosa in comune con Moro, era un uomo molto tenace, un conservatore, che però aveva un’umanità profonda che ho cancellato con la sua morte».

Alt. Questa è una traccia. Siamo di fronte a un labirinto di identificazioni che ci dicono molte cose sul film. Se Moro è ­ in senso lato ­ il padre di Bellocchio, allora non è un caso che Ernesto, uno dei terroristi, sia interpretato da suo figlio Pier Giorgio che gli assomiglia in modo impressionante; né che Chiara sia Maya Sansa, la giovane attrice alla quale Bellocchio aveva dato il ruolo del titolo nella Balia, e che qui entra in scena fingendosi moglie di Ernesto, accudendo un neonato e poi facendo credere di essere incinta quando sviene... davanti al prete che è venuto a benedire l’appartamento, proprio nel giorno in cui i brigatisti hanno deciso per l’«esecuzione».

Kammerspiel, certo: forse addirittura dramma familiare, come già I pugni in tasca quasi 40 anni fa. Là un figlio ribelle uccideva la madre, qui dei figli degeneri ammazzano un padre ideale. Ma allora non dobbiamo meravigliarci che Buongiorno, notte sia un film stranamente poco «politico»: non si parla mai dell’ipotesi delle Br eterodirette né dello scontro, all’interno dei partiti, fra chi voleva trattare e chi no; l’ideologia fa capolino solo nei discorsi deliranti di Mariano/Moretti, ai quali Moro risponde con pacata saggezza (uno dei risvolti se vogliamo «politici» del film è la spaventosa differenza di livello culturale e politico fra Moro e i suoi carcerieri: lui era uno statista, loro erano non solo dei fanatici ma forse anche dei cretini; è un tema importante, non il più importante). Ma il cuore di Buongiorno, notte è tutto, scusate il bisticcio, nel cuore di Chiara. Lei è l’unica che vediamo fuori dal covo. È l’unica che lavora (fa la bibliotecaria). Fa la spesa, lava i panni (meravigliosa la battuta di Moro che dice: «C’è una donna fra voi? L’ho capito da come sono piegate le calze»).
Sogna, spesso. E quando sogna, Bellocchio le mette nella coscienza spezzoni di film sovietici, immagini di Lenin e Stalin ma anche paesaggi innevati e sogni di fede, come quando immagina i tre compagni che si fanno il segno della croce prima di mangiare. Lei vorrebbe salvare Moro. Non accetta l’idea della sua morte. E questo ­ci siamo arrivati ­ è il cuore vero del film. Dice l’allora extraparlamentare Bellocchio: «Ammazzare una persona significa non avere un rapporto con la realtà», e questo per un politico è il difetto più grave. Attraverso la toccante scena del pranzo fuori porta dove i parenti di Chiara intonano Fischia il vento, Bellocchio ci dice che c’è stata una stagione della violenza necessaria (la Resistenza) e una della violenza insensata (gli anni di piombo).
Buongiorno, notte è una riflessione alta su valori che vanno al di là della politica. È un’opera onirica, labirintica, spesso di difficile decifrazione, che lascia la voglia di rivederla più volte. È il film gemello dell’Ora di religione ed è altrettanto bello. Gli attori, soprattutto Herlitzka e la Sansa, sono stupendi. Bellocchio sta attraversando una fase di grazia e Venezia, regalandoci il suo film e quello di Bertolucci, ci ha fatto almeno un bel regalo. A proposito: The Dreamers si chiude con Jimi Hendrix sulle barricate di Parigi nel ’68, Buongiorno, notte termina con Shine On You Crazy Diamond dei Pink Floyd sulle immagini di repertorio dei funerali di Moro nel ‘78. C’è sempre una chitarra elettrica, nei film dei figli di quella generazione, ad accompagnare i momenti salienti della storia.

Tifo commosso per un film da Leoni
di Gabriella Gallozzi

VENEZIA. A due giorni dalla fine questa Mostra numero 60 ha già il suo vincitore morale. È Marco Bellocchio con Buongiorno, notte, potente e spiazzante ricostruzione del caso Moro che non ha tradito le aspettative dei tanti accreditati in attesa dell'«italiano» da Leone d'oro. Nessun film in concorso, fino a ieri, era riuscito ad accendere l'entusiasmo travolgente che ha suscitato quello di Bellocchio. Alla proiezione per la stampa gli applausi hanno letteralmente tirato giù la sala, partendo a raffica cinque volte consecutive sui titoli di coda, fino a quando si sono riaccese le luci. E ancora applausi, calorosi, sentiti e interminabili si sono levati ieri mattina nel corso della conferenza stampa con cast e regista. Giornalisti in piedi e acclamanti hanno accolto Roberto Herlitzka, «gigantesco» nei panni di Aldo Moro. Poi applausi per i giovani «terroristi» Maya Sansa, Luigi Lo Cascio, Pier Giorgio Bellocchio, Giovanni Calcagno e soprattutto per lo stesso regista che è riuscito a stento a trattenere le lacrime. «Davvero non mi aspettavo questa accoglienza - dice Marco Bellocchio. Fino ad ora il film era stato visto da singole persone, l'impatto con un pubblico vero segna il salto di qualità. E l'importante ora è capire come andrà nei cinema», dove arriva da oggi in 170 copie distribuite dalla 01 di RaiCinema, coproduttrice con la Filmalbatros, dello stesso regista, e la Sky di Mardoch che ha firmato per il preacquisto dei diritti televisivi.
Ispirato al romanzo Il prigioniero di Anna Laura Braghetti, la «vivandiera» del sequestro Moro, Buongiorno notte non è un film di ricostruzione storica che va a cercare mandanti o trame oscure «nascosti» dietro alle Br, come ha fatto di recente Piazza delle Cinque Lune di Renzo Martinelli. «Non mi interessava una lettura di questo tipo - dice il regista - la sfida, piuttosto, era ricercare in quell'inumana tragedia una traccia che contraddicesse l'ineluttabilità di quella vicenda». Puntando, cioè, sul «fattore umano», sulla crisi che coglie la giovanissima terrorista, ma anche i suoi compagni e lo stesso prigioniero. Tanto da arrivare ad un finale spiazzante e liberatorio, in cui tra sogno e realtà, vediamo Aldo Moro uscire per le strade di Roma, finalmente libero. «Come cittadino - spiega Bellocchio - allora ero per la trattativa che, al contrario dell'opinione comune, pensavo come un atto di coraggio e di forza politica. Non ho mai potuto accettare, infatti, l'idea che un uomo potesse essere ucciso in quel modo».

Dedicato a suo padre che il regista dice di aver «ritrovato via via nella figura stanca di Moro prigioniero», Buongiorno, notte è tutto girato all'interno dell'appartamento-prigione di via Montalcini - ricostruito a Cinecittà - dove si sviluppa il rapporto quotidiano tra carcerieri e vittima. «Quasi una vita di famiglia - spiega Bellocchio - di fronte alla quale appare ancora più folle e spietata la sentenza finale di morte». Una sentenza che, quando arriva per voce di Lo Cascio - Mario Moretti, il regista affianca ad un insieme di immagini potenti che fanno da sfondo alla lettura della protagonista delle Lettere dei condannati a morte della Resistenza. «Ho scelto immagini - prosegue - tratte da Paisà e da vecchi filmati sulle fucilazioni dei partigiani eseguite dalla X Mas per mettere in relazione gli stati d'animo di fronte a quei momenti tragici». La Resistenza, ancora irrompe nel film, con la scena di un matrimonio in cui vecchi partigiani cantano in coro Fischia il vento. «In quegli anni - dice il regista - una delle accuse dell'estrema sinistra era di aver ridotto lo spirito della Resistenza a puro cerimoniale. Eppure non dimentichiamo che anche Lama è stato un partigiano e lo vediamo nel film fare il suo lungo discorso, forse pieno di retorica, ma di una retorica altissima, almeno per me che in quella cultura sono cresciuto». La «retorica» dei Br, nel film, invece, appare davvero insostenibile. Tanto che Bellocchio, interrogato su eventuali polemiche, dice di «temere, paradossalmente, più le critiche da sinistra che da destra. Ai Br viene dato degli stupidi e dei pazzi, cosa che potrebbe non andare giù a qualcuno». Per il momento l'unica polemica in corso è stata quella con la figlia del leader Dc, Maria Fida Moro che, sposato in toto il film di Martinelli, si è mostrata poco contenta di una nuova pellicola su suo padre. Al contrario, invece, di suo fratello Giovanni Moro che dopo aver visto il film ha inviato al regista e alla Rai una lettera di apprezzamento. Ancora un giudizio positivo sul film, poi, è arrivato dal segretario dello statista democristiano, Guerzoni. «Mi ha detto di aver amato molto il finale - conclude Bellocchio - perché gli ha suggerito che lo spirito di Aldo Moro, in qualche modo, sia ancora tra noi. Quella tragedia, infatti, segna ancora il nostro presente e non si può cancellare».

Buongiorno, notte: La Repubblica

La Repubblica 5.9.03
Il cinema che riscopre la memoria
CURZIO MALTESE

NEL bellissimo film di Bellocchio sul rapimento di Aldo Moro, presentato a Venezia e da oggi nei cinema, non c´è nulla di quello che ci s´aspetta. Non una sola relazione fra le miriadi che ogni anno, da 25 anni, complicano il più denso mistero della nostra storia recente, né un accenno al ruolo della Cia o del Kgb o della P2. Non c´è traccia del definitivo giudizio morale o politico d´una generazione ribelle sulla tragedia che ha sepolto le speranze nate attorno al ´68, né tantomeno il colpo di spugna invocato da molti
C´è piuttosto qualcosa di più intimo, profondo e sorprendente. La discesa agli inferi fra i piccoli demoni del brigatismo, nel chiuso di una mente e di una prigione, dentro l´appartamento piccolo-borghese che fu allora il luogo più segreto d´Italia e rimane ancora oggi uno dei più nascosti della coscienza collettiva. Eppure il film di Bellocchio è un fenomeno politico importante. Perché qui il cinema riesce dove da sempre falliscono la società e la politica italiane, invischiate in un´eterna pantomima di guerra civile. Nella capacità di elaborare il lutto per una storia di odio e di follia ideologica per poter ricominciare da un´altra parte.
Questo spiega il senso di sollievo con cui si esce dalla sala, in fondo a un´opera così claustrofobica, come liberati da un´ossessione. Il caso Moro rappresentò, fra le tante cose, una cesura nella cultura italiana. La letteratura, il teatro e soprattutto il cinema erano stati dal dopoguerra alla fine degli anni Settanta fortemente politici, concentrati nel descrivere e leggere la realtà sociale, dal neorealismo di De Sica e Rossellini all´impegno civile di Rosi e Petri, al cinema sessantottino fino alla commedia all´italiana, a suo modo. Dal '78 in poi il nostro cinema cambia pelle e in pochi anni diventa intimista, avviluppato intorno a storie privatissime. Smette di girare per il mondo.
Gli ultimi film da esportazione o da Oscar narravano di italiani degli anni Trenta o al massimo Cinquanta, come in Tornatore, Salvatores, Benigni e perfino nel recente e celebrato "Respiro" di Crialese si vedono pescatori poveri d´altri tempi. Quasi che nelle radici dell´Italia contemporanea fosse calata una nebbia o un tabù. Soltanto oggi, a trent´anni di distanza, il cinema ha il coraggio di tornare sui decenni cruciali della grande trasformazione fra il '68 e gli anni '80. Con "La meglio gioventù" di Marco Tullio Giordana, il film di Bernardo Bertolucci sui sognatori del '68 e ora "Buongiorno, notte", e il cinema italiano riacquista la memoria.
La parabola di Bellocchio è esemplare. Da giovanissimo e coetaneo dei capi sessantottini diventa il regista simbolo della rivolta. Nel '77, alla vigilia del caso Moro, esce il suo ultimo film politico, "Marcia trionfale", violenta denuncia del militarismo. Dal '79, attraverso una rilettura di Cechov e "Salto nel vuoto", comincia per Bellocchio un´altra vita artistica. La politica smette di essere il terreno di ricerca della libertà. Fino a oggi, ieri, quando il maestro torna all´anno della svolta. Non a caso, nel presentare il film a Venezia, Bellocchio ha collegato la vicenda Moro con un altro lutto irrisolto, personale, per la morte di suo padre. Ma non è certo più il regista dei "Pugni in tasca", quello che dà anche la linea, in "Buongiorno, notte" è resa tutta l´ambiguità di un´epoca, il rovesciamento di ruoli fra un potente ridotto a vittima di aspiranti potenti il paradosso di un Moro che nella prigione parla la lingua semplice dell´umanità a carcerieri che gli rispondono con formule in politichese, assai più prigionieri in fondo di lui. C´è la schizofrenia delle presunte avanguardie rivoluzionarie, i brigatisti che sognano in bianco e nero la panchina di Lenin mentre l´Italia reale comincia a sognare con la tv a colori e Raffaella Carrà. C´è l´impazzimento del terrorismo visto come nella "Meglio gioventù" senza preoccupazioni di politicamente corretto, ma piuttosto con la dolorosa consapevolezza di chi l´ombra di follia l´ha sfiorata e sofferta, vista nascere e crescere nelle fabbriche, negli uffici, nel compagno di studi, moderna malapianta di un´antica ossessione religiosa.
Moro è fin dal principio «colui che deve morire», dice Bellocchio. Una figura cristologica resa più cruda dallo straordinario talento dell´interprete, Roberto Herlitzka. La sua prigionia è un calvario con figure mentre le istituzioni celebrano un rito funebre lungo 40 giorni, con tanto di sedute spiritiche e necrologi anticipati in attesa dell´inesorabile condanna a morte. Ed è qui che scatta, l´ultima ribellione di Bellocchio. L´immaginazione torna al potere e compie il vero atto rivoluzionario: la liberazione del prigioniero. La passeggiata di Moro libero per le strade di Roma rimarrà a lungo negli occhi degli spettatori. La storia italiana è andata per un´altra via in cui la porta si è chiusa per sempre. Ma nella storia del nostro cinema, fatti i conti con il passato, forse si sta aprendo un passaggio verso un futuro diverso.


Il figlio Giovanni parla dell´opera di Bellocchio. A Venezia il regista riapre la polemica sulla trattativa: bisognava salvare quella vita
Moro: "Mio padre in quel film 25 anni dopo"
Incontro con Giovanni Moro dopo la proiezione: "È stato doloroso, ma lo consiglierò ai miei figli"
"Questo film aiuterà i giovani vedranno la pazzia di allora"

La realtà Questo è un caso in cui la creazione artistica ha fatto crescere la conoscenza della realtà
la verità Sarei pronto a barattare anche la giustizia con la verità, purché finalmente la dicano
prima volta Non avevo mai voluto vedere un´opera su quei giorni: mi ha convinto la qualità del regista
le possibilità La possibile fine: la morte, la libertà. Io credo che mio padre le abbia pensate entrambe fino all´ultimo

di CONCITA DE GREGORIO
DICE che non vuol dire se suo padre fosse davvero così, «perché nessuno può farlo e poi io non lo so, ci stavo troppo vicino». Dice che non importa, comunque, questa faccenda della somiglianza: «Sono dettagli. Questo film ha il merito della distanza, e il pregio di non voler essere fedele alla realtà di quella vicenda». "Quella vicenda" sono i 55 giorni: il sequestro, l´omicidio. «Lasciamo perdere lo spessore biografico, non conta. È la figura di un padre, quella che emerge. Non solo del mio. Un padre per l´Italia: un uomo che ispirava e dava fiducia. Sicuro, pacato, autorevole. È finito tutto allora. Da quel momento ci trasciniamo dietro un fantasma. È stato come l´8 settembre. Tutti si ricordano dov´erano il 16 marzo, il giorno in cui è scomparso dalle nostre vite».
Giovanni Moro ha i capelli bianchi, le mani del padre e due figli adolescenti. Il primogenito si chiama Aldo. «Non mi faccia domande troppo personali, non le risponderei», dice, e sorride. Del film sì, ne parla perché lo vedranno tanti che di "quella vicenda" non hanno memoria, ragazzi nati dopo. Perché gli è piaciuto, anche se di piacere in questa storia ce n´è poco per tutti: «L´ho molto apprezzato, diciamo meglio». E forse perché, passato un quarto di secolo, è arrivato il momento. «Chi vedrà il film non avendo vissuto quegli anni avrà potenziata la reazione che abbiamo avuto noi: questi sono pazzi, dirà, erano pazzi. Ma davvero pensavano a un´insurrezione rivoluzionaria della classe operaia e dei ceti medi? Ma come potevano non capire quel che mio padre aveva capito per primo: che la fine del mondo diviso in blocchi era vicina, che le grandi ideologie erano al tramonto. In quegli anni è cambiata la nostra storia. Vedere il film è stato doloroso, ma consiglierò ai miei figli di farlo».
I figli, ecco. È tutta una storia di padri e di figli, questa di "Buongiorno, notte". Una resa dei conti fra generazioni. Venticinque anni dopo la Storia passa di mano. La prendono in carico i figli, che hanno oggi l´età dei padri allora. C´è un regista, Bellocchio, che dedica il film a suo padre, morto quando lui era bambino, e che costruisce così la figura del protagonista: «Mio padre aveva qualcosa in comune con Moro, che non ho mai conosciuto né visto. Anche lui era un uomo molto tenace, un conservatore con una umanità profonda. L´immagine di mio padre è entrata nel film e ha dato corpo al personaggio». C´è un produttore, Giancarlo Leone, che è figlio del presidente della Repubblica di quei giorni: Giovanni Leone era pronto a firmare la grazia a un "detenuto politico", gesto che avrebbe forse salvato la vita all´ostaggio. Fu fermato. Nel film il suo vero volto compare due volte, nelle immagini di repertorio dei funerali della scorta e del presidente DC. C´è Giovanni Moro, figlio della vittima. Ha scritto al produttore Leone, suo coetaneo, una lettera: «Questo è un caso in cui la creazione artistica è stata capace d´accrescere la conoscenza della realtà», dice. «Penso che chi vedrà il film potrà cogliere il senso del dramma di un uomo posto di fronte a un destino tragico quanto insensato». La lettura della lettera, a Venezia, è stata accolta da un lungo applauso.
Non aveva mai voluto vedere un film su quei 55 giorni, racconta ora. È questo il primo. «Mi ha convinto la qualità del regista, e la correttezza delle persone che mi hanno invitato. D´altra parte era un invito non dovuto: un film non richiede imprimatur da parte della famiglia, meno che meno da parte di un suo componente. E l´approvazione o il dissenso dei familiari non aggiungerebbe né toglierebbe nulla». Non ha mai voluto incontrare nessuno dei brigatisti, «ma non sono d´accordo con chi dice che i parenti delle vittime vogliono solo e sempre il sangue dei colpevoli. Non è affatto così. In questo paese che ha tanta difficoltà a chiudere i conti col suo passato, un paese che ha il record mondiale di stragi insolute le vittime hanno avuto un ruolo importante nel tenere viva la memoria». Solo che «il perdono può arrivare solo dopo la verità», ripete ogni volta: «sarei pronto a barattare anche la giustizia con la verità, purché finalmente la dicano. Forse si può ancora fare, siamo ancora in tempo».
Non ha mai voluto sedere accanto ad Andreotti né a Cossiga, nelle molte commemorazioni di questi lunghi anni. «È un fatto che - in quel caso e solo in quello - lo Stato italiano decise di non trattare coi terroristi né di cercare seriamente di liberare il prigioniero. Ci sono delle responsabilità precise: una delle due cose dovevano farla». Ma non gli interessa entrare nel merito di "quella vicenda", qui. Il film non lo fa «ed è questo il suo pregio». È un film scarno, sobrio. Notturno. Anche di suo padre lui ha sempre detto: «È stato un padre notturno». «Di giorno non c´era, il nostro rapporto viveva la notte. Aveva la pressione bassa, abitudini mediterranee. Si cenava tardi, si parlava la notte».
La brigatista, nel film, lo vede comparire quando viene il buio: sono visioni. Chissà quante volte anche il figlio ha sentito accanto a sé la sua presenza. «Non le dirò dei miei rimpianti né dei miei pensieri, ma certo nelle vite ci si trova, e le scelte sono meno di quelle che si pensa. Per me vale il detto di Heidegger: nessuno può saltare oltre la propria ombra. Nessuno sceglie fino in fondo di stare nella propria condizione: semplicemente c´è. Io non saprei dire come sarebbe stata la mia vita senza quei 55 giorni. È come quando rimani vittima di un terremoto: non puoi dire cosa sarebbe stato senza, perché è stato quello». E poi c´è l´eredità da portare. La politica. «Mio padre diceva: dobbiamo uscire da questo castello in cui ci siamo rinchiusi. Pensava che le forme tradizionali della politica rischiassero di estinguersi, che si dovesse contare nella democrazia anche fuori dai partiti». È quello che Giovanni Moro fa con "Cittadinanza attiva", un´associazione nata proprio nel '78 col nome di Movimento federativo democratico. «Era la strada che avevo preso già prima. L´avrei fatto anche se lui non fosse stato ucciso».
Se non fosse stato ucciso. Il film si chiude così. Le immagini vere dei funerali di Stato, funerale senza salma a cui la famiglia non partecipò, e subito dopo la figura di Moro libero, che cammina sorridente in un´alba di pioggia. Il sogno della ragazza-terrorista, figlia immaginaria di un padre da lei stessa condannato a morte. «È un finale molto delicato, no? È affascinante questa sovrapposizione di mondi possibili che si incrociano fino alla fine. La morte, la libertà». La verità è stata una, però. «La nostra, certo. Ma io credo che mio padre le abbia pensate entrambe fino all´ultimo. La morte, o un ritorno a piedi, forse all´alba, verso casa».

LA TESTIMONIANZA
Abbiamo visto il film con uno dei carcerieri dello statista. È libero dal 1995
Valerio Morucci turbato dieci minuti senza parole
"I nostri schemi non erano adeguati a capire lo Sato borghese che lui ci descriveva"
di GIOVANNI MARIA BELLU

ROMA - Non guarda più lo schermo della tv. Fissa il piano della scrivania, scarabocchia sui fogli degli appunti. Eppure un attimo fa aveva sorriso. Ma quella era la fiction. Ora ci sono le immagini di un vecchio telegiornale e scorrono una dopo l´altra le cinque foto dei poliziotti assassinati nell´agguato. Valerio Morucci li riconosce. Cioè riconosce, tra i cinque, chi è caduto sotto il fuoco del fucile mitragliatore che era nelle sue mani. No, non dice chi, non ne fa il nome. Ma lo sa. Ed è forse proprio questa - conoscere il nome di chi hai ucciso - la differenza tra il terrorismo e la guerra.
Aveva sorriso Valerio Morucci - che dal 1995 è libero, vive a Roma con la moglie e un figlio, fa il consulente informatico e lo scrittore - per la reazione di uno dei carcerieri di Aldo Moro alla notizia della comparsa, dentro l´ascensore di un ministero, di una stella a cinque punte, il simbolo delle Brigate rosse: «E´ fatta. Se anche gli impiegati si ribellano è fatta». Aveva sorriso scuotendo la testa: «No, questo non mi sembra credibile: le Br non si occupavano dei contadini e quasi consideravano controrivoluzionari gli operai disoccupati. Figuriamoci se ce ne fregava qualcosa degli impiegati».
Già, lo scontro ideologico, il capello tagliato in quattro, la ricetta per cambiare il mondo in tasca, il viso nascosto da un passamontagna e le armi in pugno. Morucci ne era fanatico. Era suo il mitra Skorpion usato per l´esecuzione della sentenza di morte pronunciata dalla "giustizia proletaria" nei confronti di Aldo Moro. Questa Bellocchio ce la risparmia. Anzi, sembra che abbia voluto cambiare il finale: Moro è libero, passeggia per le strade dell´Eur. Ma questa è la sceneggiatura che il regista avrebbe voluto scrivere. Dura poco. Adesso è di nuovo nella sua prigione, lo vediamo mentre va al patibolo. Il film finisce qua. Morucci sembra turbato. Per una decina di minuti non dice una parola.
Lì, nel covo di via Montalcini, lui non ci entrò mai. Dopo l´agguato si occupò della prima parte del trasferimento dell´ostaggio e tornò a casa. Ma poi curò la distribuzione delle lettere e, dopo l´omicidio, fu lui a telefonare a un collaboratore di Moro per far sapere che il cadavere era nel bagagliaio di una Renault rossa parcheggiata a Roma, in via Caetani. «Via Caetani» lo ripetè due volte con la voce rotta dalla paura e dall´emozione. Forse anche dalla vergogna. Era stato tra quelli che, nelle Br, si erano opposti alla condanna a morte. Così come, nel film, Laura Braghetti-Maya Sansa. E in un certo senso, dice ora, Mario Moretti.
Questa poi, Mario Moretti, l´esecutore materiale? «Ho riconosciuto Mario nell´interpretazione di Luigi Lo Cascio. È assieme deciso e turbato, determinato e incerto. Sì, lui votò per la condanna e disse che l´avrebbe eseguita dopo che tutti gli altri si tirarono indietro». Appunto, dunque? «C´è quella scena iniziale che aiuta a capire, quando dice a Moro: "Non ce l´abbiamo con te ma con ciò che rappresenti". C´era questa scissione...».
In realtà sembra qualcosa di più, sembra una forma di schizofrenia. In un suo libro, "Diario di un terrorista da giovane", Morucci descrive se stesso come un rivoluzionario continuamente tentato dai piaceri della vita borghese, ma qua siamo molto oltre: un killer che s´impietosisce per la vittima. «Con Moro scattò una specie di sindrome di Stoccolma al contrario. Ci sconcertò: Moretti pensava di processarlo, di sottoporlo a stringenti interrogatori, ma si trovò davanti a un uomo che dava risposte complesse, articolate. I nostri schemi non erano adeguati a capire lo Stato borghese che lui ci descriveva. Continuava ad agire in modo politico, ed era l´unico a farlo fino in fondo. I suoi amici negavano autenticità alle sue lettere mentre alcuni di noi, nel leggerle, ci trovavamo ad associarle a quelle dei condannati a morte della Resistenza. Questo il film lo sottolinea, ed è proprio vero. Fu una cosa sconvolgente. Sentii che ero finito senza accorgermene dall´altra parte. Dalla parte degli aguzzini. Il simbolo era diventato un uomo. Non puoi uccidere il nemico quando lo vedi in faccia. Per questo, prima, ho abbassato lo sguardo».

"Bisognava salvare la sua vita"
Il regista riapre il dibattito sulla linea della fermezza
il film di Bellocchio
Presentato a Venezia "Buongiorno Notte"
Ricostruzione dei 55 giorni del rapimento di Aldo Moro
Per raccontare una vicenda umana, non solo la verità
Ispirato al libro scritto da Anna Laura Braghetti
"Ma non ho avuto io l´idea del film, che mi è stato commissionato da Raicinema"
NATALIA ASPESI

VENEZIA - «E va bene, il mio pensiero oggi è che lasciare uccidere Aldo Moro fu un grave errore politico oltre che umano. Non si trattava di cedere a un ricatto terroristico, ma di dimostrare la forza, la superiorità, l´eticità dello Stato per il quale più importante di tutto doveva essere salvare una vita in contrapposizione alle Brigate Rosse per le quali la vita non valeva nulla». Finalmente Marco Bellocchio abbandona ogni elegante sofisma e si rivela: quel sentimento di greve fatalità, di tragico errore, di improvvida cecità, che "Buongiorno Notte" comunica allo spettatore, lui l´ha voluto e costruito sapientemente. Scena dopo scena, il regista trascina gli spettatori in una scia di malessere, di incredulità, che alla fine sfocia in un grande applauso liberatorio.
Davvero Aldo Moro fu sacrificato a quello Stato rappresentato dai volti impenetrabili dei potenti, che il regista ci fa vedere, assiepati uno accanto all´altro, ripresi durante il funerale di Stato respinto dalla famiglia e quindi senza il corpo del Presidente assassinato? Davvero il partito della fermezza così largamente rappresentato a destra e a sinistra, riteneva un nemico potente con cui non si poteva venire a patti, quei quattro assassini che vediamo preparare la minestra, rammendare vestiti, tubare con i canarini in gabbia, guardare Raffaella Carrà in televisione e poi, calcato sulla faccia il passamontagna, mettersi a interrogare il loro prigioniero di cui non capiscono né il linguaggio, né le idee, né la fede, né la sapienza, né le emozioni?
Un film è un film, non è un documento, non ambisce a raccontare la verità ma solo una sua storia: però è inquietante che il regista non abbia ritenuto necessario ricordare che in quegli acri anni '70, c´era un clima particolare di rifiuto delle istituzioni, ed erano in tanti a dire, né con lo Stato né con le Br. «I terroristi certo avevano l´acqua in cui nuotare, ma volutamente mi sono preso molte infedeltà». La massima infedeltà Bellocchio se l´è presa col personaggio di Chiara (Maya Sansa), ispirandosi al libro "Il prigioniero", ripubblicato adesso da Feltrinelli e scritto da Anna Laura Braghetti, la terrorista che anche nel film si divide tra una vita normale, "fuori", di bibliotecaria solitaria e senza sorriso, e quella monotona, "da donna", (è lei a cucinare e stirare), "dentro", nell´appartamento di via Montalcini in cui lei e tre giovani che in realtà rappresentano Mario Moretti, (Luigi Lo Cascio), Prospero Gallinari (Giovanni Calcagno), Germano Maccari (Pier Giorgio Bellocchio), tennero prigioniero l´inerme Presidente della DC dal 16 marzo al 9 maggio del '78, sottoponendolo a processo e condanna in nome di un proletariato che di loro e della loro violenza non voleva saperne.
Piena di dubbi da subito, troppo spaventata e poco spietata, si commuove per la sorte di Moro, vorrebbe rimandarne la fine, lo immagina di notte mentre esce dal suo buco e vaga per la casa, sogna di liberarlo. Pare proprio buona e pentita, nel film: peccato che nella realtà, nel febbraio dell´80, parteciperà alla spietata esecuzione del professor Bachelet. «Diciamo che lo sguardo della ragazza sugli eventi e sulla loro feroce conclusione è il mio. La sua commozione per la sorte di Moro è la mia. Non mi aspettavo che alla fine la sua figura avrebbe suscitato tanta simpatia e pietà, ma così è stato. Anche per me».
È probabile che sia merito di Roberto Herlitzka se questo Aldo Moro fragile e forte nello stesso tempo, capace di tener testa ai suoi sequestratori ma non di piegarli, che non vuole morire ma si rassegna a morire, fa venire le lacrime a Chiara e pure agli spettatori. Nel '68 Bellocchio non ancora trentenne non girò un solo film, «perché per fare politica dovevo lasciar perdere l´identità di regista». Uscito dal PCI nel '69, anche nel '78 non lavorò ma neppure si interessò ai tragici eventi politici, «perchè stavo mettendo in discussione me stesso, passando dall´analisi individuale a quella collettiva. Però con "Buongiorno notte" non voglio chiudere i conti con nessuno, non voglio riparare alla mia non partecipazione di allora. Del resto non ho avuto io l´idea del film, che mi è stato commissionato da Raicinema».
È angosciante rivedere i telegiornali di allora che scandiscono il mondo chiuso e irreale dei terroristi: al comizio di Lama vedono l´immensa folla battere le mani alle parole del sindacalista che rifiuta l´"attacco al cuore dello Stato" e loro si stupiscono, si chiedono perché quei proletari con tutte le loro bandiere rosse non si ribellino, non seguano chi in loro nome sta facendo la rivoluzione. È grottesca la scena in cui generali e uomini politici partecipano alla famosa seduta spiritica in cui fu fatto il nome di (via) Gradoli, è feroce quella in cui Papa Paolo VI in mezzo alle sue bianche suorine eccitate, riceve un biglietto misterioso che gli intima di chiedere la liberazione di Moro ma senza condizioni. Pare nascere da un rimpianto, o da un´accusa, la figura di Moro-Herlitzka che agile, sorridente, dentro uno stretto elegante abito blu, nel sogno di Chiara, esce da quella porta fatale per le strade di Roma, libero, vivo.

LA POLEMICA
Bertolucci risponde alle critiche di "Le Monde". E scherza con Bellocchio
"Io, voyeur professionista "
In "Buongiorno notte" una citazione di "La luna"
"E´ un gioco fra amici, di cui Marco mi aveva avvertito circa un mese fa, chiedendomi anche il permesso di poterlo utilizzare"
di Aldo Lastella

VENEZIA - Due grandi registi, due amici quasi coetanei, due conterranei, entrambi sono emiliani, due artisti che con il cinema e con il loro amore per il cinema riescono anche a giocare. Così ecco Marco Bellocchio che nello struggente e serissimo "Buongiorno, notte" rievoca la celebre seduta spiritica del 2 aprile 1978 dalla quale scaturì il nome "Gradoli" come luogo in cui veniva tenuto prigioniero Aldo Moro. Ma Bellocchio ritrae questo episodio avvolto in un´atmosfera grottesca (fra i presenti compare lui stesso) e con una trovata, benevola e scherzosa, che chiama in causa Bernardo Bertolucci. Lo spirito richiamato dai partecipanti si chiama Bernardo, si presenta come uno spiritello malandrino e, richiesto di suggerire il luogo del carcere brigatista, compita le parole "la luna" con grande scorno di tutti. «Una birichinata» l´ha definita lo stesso Bellocchio.
«In effetti, nel ´78 stavo proprio girando il mio film "La luna"» rivela divertito Bertolucci, che confessa di non avere ancora visto il lavoro di Bellocchio «E´ un gioco fra amici, di cui Marco mi aveva avvertito circa un mese fa, chiedendomi anche il permesso di poterlo utilizzare». Il regista di "I sognatori" ricorda le tante cose che lo legano a Bellocchio. «C´è una specie di affinità elettiva tra noi. Abbiamo cominciato praticamente insieme, forse io un anno prima di lui. Poi io andavo sul set di Pasolini mentre lui frequentava il Centro sperimentale. Ma soprattutto lui è di Piacenza e io di Parma e penso che sia questa rivalità il motivo dello scherzo. Tanti anni fa, dentro il mio film "Partner" c´era una battuta che diceva: "Di Piacenza l´Italia ne fa senza". Credo che Marco con questa trovata abbia voluto vendicarsi».
Mentre si gode il clamore e i tanti consensi a "I sognatori", Bertolucci dichiara fuori dai denti di aver poco gradito le pesanti considerazioni sul suo film da parte del critico del francese "Le Monde". Il quale ha stigmatizzato la «concupiscenza con cui filma quei giovani corpi nudi senza mai evocare altra trasgressione che il suo personale voyeurismo». «Se si parla di concupiscenza» ribatte il regista «mia moglie mi ha sempre accusato di guardare con concupiscenza anche una tazza di tè. E per quanto il riguarda il voyeurismo, è ovvio che io, come regista, mi sento un voyeur professionista». Nel resto d´Europa i consensi per "I sognatori" brillano per entusiasmo. In Gran Bretagna, "Evening Standard", "Daily Telegraph" e "Daily Mirror" lo promuovono a pieni voti; in Germania, la "Frankfurter Allgemeine" definisce il film di Bertolucci «un inno alla gioventù in un capolavoro a cinque stelle».

Giuseppe Verdi
La Marcia dell´Aida

L´ONIRICA libertà di Moro che passeggia per la casa, omaggio di Bellocchio al padre, è accompagnata da Schubert. Per sottolineare le parole feroci dei brigatisti il regista sceglie immagini di repertorio di Stalin accompagnate dalla Marcia trionfale dell´Aida di Verdi, «perché ho saputo che proprio Stalin aveva scelto Verdi per alcune parate».


PINK FLOYD
La musica di allora

L´ELETTRONICA evocativa di "Shine on you crazy diamond" per l´ultimo atto del prigioniero Moro e l´urlo struggente di "The great gig in the sky" per l´ultima lettera del condannato. «Buongiorno, notte» è fortemente segnato dalla musica dei Pink Floyd. «In quella musica c´è tutta la disperazione e il senso di ribellione di quegli anni» dice Bellocchio «vale più di mille parole».

Buongiorno, notte: L'Arena di Verona e Brescia oggi

L'Arena di Verona e Brescia oggi 5.9.03
Bellocchio da Leone d’oro
Mostra del Cinema
«Buongiorno, notte» racconta il rapimento del politico Una ricostruzione asciutta, onesta e coinvolgente
Il regista: «Il mio film su Moro non è verità storica»

Venezia. La presentazione dei film in concorso alla penultima giornata conosce un benefico soprassalto con la visione del film di Marco Bellocchio «Buongiorno notte». L'enfant terrible, ormai sessantaquattrenne, de «I pugni in tasca» ha lungamente elaborato la pellicola che si occupa del caso Moro, ferita non rimarginata, purtroppo assieme a molte altre, nella recente storia nazionale. Dopo aver consultato la vasta e composita documentazione disponibile, prendendo spunto inizialmente soprattutto da «Il prigioniero» della brigatista Anna Laura Braghetti, Bellocchio non s'è scostato dall'atteggiamento che gli è abituale e quindi ha evitato di dare una sua versione dei fatti e di contraddire altre versioni. Il suo «Buongiorno notte», tra i più attesi della Mostra e tra i prevedibili candidati al Leone, colpisce nel segno come il classico pugno allo stomaco. Ma il regista mette le mani avanti: « L’oggetto del mio film non è la verità storica » .
Il film inizia con il sopralluogo per affittare l'appartamento in cui Moro sarà detenuto. Il personaggio più seguito - in cui si sommano i tratti di alcune delle donne attive nelle BR - è Chiara (Maya Sansa) che cura l'alloggio con la copertura della sua attività di bibliotecaria. Mariano (Luigi Lo Cascio) è il responsabile del gruppo di quattro combattenti che predispone la stanza segreta per il sequestro. Il volo dell'elicottero della polizia e il telegiornale che rendono noto a Chiara dell'avvenuto sequestro, con esibizione di micidiale capacità di fuoco, la riempiono di gioia. Poi, con la custodia del Presidente (Roberto Herlitzka) e gli inevitabili contatti per fornirgli il cibo, per il rito del processo proletario, per la gestione della strategia, attuata con lettere e memoriali, atta a farsi in qualche modo "riconoscere" dallo Stato, Chiara entra in una crisi che agita i suoi sogni, traspare nei rapporti di lavoro, complica le relazioni col gruppo.
Bellocchio si serve del dettaglio quotidiano e del colpo d'ala visionario, onirico per ritagliare uno spazio in cui è agibile la valutazione di coscienza. Nei sogni di Chiara le immagini della rivoluzione leninista sono seguite da quelle dei partigiani assassinati quando coglie l'assonanza tra la lettera di Moro alla moglie e quelle dei condannati a morte della Resistenza ai famigliari. L'ubriacatura insurrezionale convince uno del gruppo, Ernesto (Piergiorgio Bellocchio, figlio del regista), che una stella a cinque punte disegnata nell'ascensore dell'università sia il segno dell'adesione impiegatizia: "È fatta!".
La pochezza della strategia sanguinaria è rilevata dallo stesso Moro con piane considerazioni. E Chiara immagina il Presidente che sgattaiola fuori dalla cella, sogna la sua liberazione sottolineata da un Momento musicale di Schubert. Il titolo contraddittorio, suggerito da una poesia di Emily Dickinson, focalizza la terribile alternativa vita-morte. I giudizi sono dolorosamente impliciti. La dedica al padre, la cui perdita non è recente per il regista, è un gesto significativo assieme all'immagine affranta di Paolo VI che suggella il film.
Più sbiadite, anche se di qualche interesse, le altre presenze della giornata nella sezione Venezia 60. Il serbo Srdjan Karanovic con «Occhi che brillano» offre una panoramica ironica e affettuosa (il regista vanta il suo come primo film postbellico senza morti e violenze) del permanente sconvolgimento delle esistenze nei Balcani, attraverso le traversie sentimentali di Labud (Senad Alihodzic) che cerca una soluzione ai suoi guai ricorrendo a una disorganizzata agenzia matrimoniale ed è costantemente perseguitato dai fantasmi della madre e di altri personaggi contrari alla fusione delle etnie. Divertente ma un tantino ripetitivo.
Il coreano «La moglie di un buon avvocato» mette in scena una coppia segnata dall'insoddisfazione e tentata da legami esterni, insiste a illustrare la collisione tra morte ed eros, tenta d'indicare un esito ottimista.

Buongiorno, notte: Il Tempo

Una rigorosa analisi del dissidio brigatista
di GIAN LUIGI RONDI

FINALMENTE un autore, Marco Bellocchio, che per dirci di quei giorni terribili in cui durò la lunga «notte» del sequestro Moro non si perde nella ridda di ipotesi su un «caso», come hanno fatto invece — male — altri film precedenti. Il suo «Buongiorno notte», infatti, parafrasi, nel titolo, di un verso di Emily Dickinson, punta diritto alle persone, trascurandone intenzionalmente la vera identità — salvo per Aldo Moro — e immaginando invece le reazioni di fronte al crimine orrendo che si accingevano a perpetrare.
Da una parte, così, i duri del terrorismo, pronti ad andare fino in fondo in nome di ideali totalmente fraintesi anche se pervicacemente conclamati. Da un’altra quelli più turbati dalla situazione, chiusi in un appartamento a tu per tu con un grande prigioniero cui danno del tu, pur chiamandolo sempre «Presidente», anche se si sentono rispondere con il lei e che, ascoltandolo e ascoltando due delle sue lettere dal carcere, quella alla moglie, dopo la condanna a morte, e quella a Paolo VI, sentono a poco a poco venir meno le loro certezze infami. Specialmente una donna, qui chiamata Chiara, che, figlia di un partigiano assassinato dai repubblichini, finisce per collegare, sempre più in crisi, quel lontano omicidio a quello che lì, con il suo voto contrario, si sta per compiere.
Bellocchio, che si è scritto anche il testo, analizza a fondo questa crisi, evocandovi attorno, condannandoli, l’ambiente e i caratteri — verosimili anche nell’invenzione — di quegli esponenti delle Brigate rosse in equilibrio precario tra la decisione e l’esitazione.
Con un linguaggio cinematografico che, privilegiando il buio di quella «notte», serra da vicino tutti i personaggi, anche quando, specie Chiara, li segue all’esterno; scandendoli con ritmi quasi ossessivi che si placano solo di fronte al Prigioniero, alla sua calma rassegnata, alle sue risposte sempre alte: lasciando che la voce di Roberto Herlitzka, chiamato a reinterpretarne la figura, susciti, nella vicenda, momenti grondanti commozione; come, appunto, la lettura della lettera alla moglie e di quella al Papa.
Dà vita, intensamente, al travaglio di Chiara l’interpretazione lacerata e lacerante di Maya Sansa: la cifra del film, il segno giusto del suo stile.
Altro film in concorso, difficile però da accostarsi alla nobile impresa di Bellocchio, «Occhi che brillano» del serbo Srdjan Karanovic. Una commedia sentimentale nella confusione tra guerra e dopoguerra a Belgrado. Con la trovata di far interloquire con i vivi dei defunti, parenti o amici. Un grottesco sorridente.

Annunciato già dall’applauso dei giornalisti alla proiezione ...
... dell'altra sera, il Leone d'oro a «Buongiorno, notte» di Marco Bellocchio (il titolo è tratto da un verso di Emily Dickinson) è stato praticamente richiesto per acclamazione alla conferenza stampa del film, che ha registrato la più trionfale accoglienza riservata dalla Mostra ad un regista, con tanto di «standing ovation» per Bellocchio e cast.
Ecco, il cast. Destinati un po' a sparire sotto la personalità di un regista così «ingombrante», gli attori di «Buongiorno, notte» sono tutti bravissimi. Da Maya Sansa a Luigi Lo Cascio, anche se una citazione particolare la merita il più defilato di tutti, Roberto Herlitzka, uno dei maggiori attori del nostro teatro, che nel film dà vita ad un Aldo Moro sofferente ma distaccato.
«Se mi uccidete, per la gente io diventerò un martire che vi condannerà all'emarginazione», ammonisce nel film Herlitzka-Moro, presagendo da politico consumato la fine stessa delle Br che iniziò proprio dalla clamorosa uccisione del presidente della Dc.
«All'epoca dei fatti, nel 1978, io fui molto colpito dalla ferocia dimostrata dai brigatisti - ricorda Herlitzka - Ora dico che lo Stato non volle salvare lo statista. Ma il mio tentativo è stato quello di rendere con efficacia più che il personaggio pubblico, le sue emozioni. Quelle che provava un uomo anziano rinchiuso dentro uno stanzino per 55 giorni nell'attesa di essere ucciso. Io credo di non essermi neppure avvicinato a mostrare ciò che lui deve aver provato. Ma mi basta sapere che se sono riuscito a far capire al pubblico anche una sola piccola parte della sua angoscia, bene, allora il mio lavoro non è stato inutile».
Coraggioso, Herlitzka. Che ammette come per un attore di teatro come lui, defilato da sempre da feste e mondanità «una passerella come quella della Mostra di Venezia potrebbe, se fossi ancora giovane come gli altri protagonisti del film, farmi letteralmente perdere la testa».
Herlitzka interpreta il secondo Moro della storia del nostro cinema. Il primo, nell'86, fu impersonato da Gian Maria Volonté in «Il caso Moro» di Giuseppe Ferrara. Herlitzka, che pure da Volontè è fisicamente assai differente, ammette di non aver visto il film di Ferrara ma di aver ammirato Volonté in «Todo Modo» di Elio Petri, «un personaggio che a Moro, in qualche maniera, assomigliava».
Il film di Bellocchio, rigoroso (ma il regista dice che non ha rispettato la verità storica, specie nella ribellione del personaggio della Sansa, che ombreggia la Braghetti) contiene almeno un momento di calcolata ironia. Allorché il medium della seduta spiritica che dovrebbe consentire il ritrovamento di Moro chiede con quale spirito sta parlando. Ecco la risposta dall'aldilà: «Sono lo spirito di Bernardo». Impossibile non riconoscere un amichevole sfottò all'amico-rivale di sempre Bernardo Bertolucci. Dal quale è attesa adesso una risposta.
di Antonello Sarno

Buongiorno, notte: Il Mattino

Il Mattino 5.9.03
Orrore e pietà della coscienza brigatista
VALERIO CAPRARA

Venezia. L'orrore e la pietà. Il cinema che, a dispetto del solito reducismo giaculatorio, fa giustizia dei balli in maschera e pretende l'anima dello stile e la carne dell'emozione. Gli occhi del regista, che trapassano l'immobile buio della cronaca e colgono le luci individuali di cui è fatta la Storia. Il capolavoro di Marco Bellocchio «Buongiorno, notte» incarna un viaggio di purissima fantafiction attraverso le immagini dello showdown clamoroso della Prima Repubblica, il rapimento e l'assassinio di Aldo Moro: la miserevole fine, nella primavera del '78, dei «Dreamers» bertolucciani col pugno chiuso e l'inizio degli anni di piombo contrassegnato dal cadavere dello statista rannicchiato nel bagagliaio di un'automobile abbandonata. Il grande regista non ha niente da offrire ai maniaci della dietrologia e del complotto, il suo pathos è talmente alto e limpido da non potersi spalmare sulla lavagna delle dimostrazioni, la sua verità è tanto amara da convivere con gli incubi di un'intera generazione. Nella fusione dei soprassalti fisici, psicologici e ideologici di sequestrato e sequestratori con i brani documentari dell’epoca rifulge, insomma, una memorabile intensità di stile che precipita il film nello scontro kafkiano tra i diktat della clandestinità e la ribellione di un quotidiano che non sopporta la perfidia della presunta rivoluzione.
Tratto liberamente dall'impressionante ricostruzione «Il prigioniero» di Anna Laura Braghetti, condannata all'ergastolo e attualmente ammessa, dopo ventidue anni di carcere, alla libertà condizionale, «Buongiorno, notte» si concentra sul rapporto tra Moro - interpretato da uno scarnificato, sublime Roberto Herlitzka - e i suoi fantasmi persecutori, in particolare la vivandiera Chiara (Maya Sansa) per nulla convinta della necessità politica di uccidere l'ostaggio. Aggrappata alle distruttive certezze di chi le vive vicino o le dorme accanto, si scopre sempre più a disagio nel vivere i ritmi di sempre: un ufficio anonimo, il lavoro insospettabile, le reazioni dei colleghi distanti anni luce dal suo ruolo di «combattente» e le attenzioni di un coetaneo che sembra leggerla nel profondo, più di quanto a lei stessa riesca.
Così le sagome dei brigatisti emergono dalle stanze del covo come quelle di parenti stretti dei fanatici fautori della santità ne «L'ora di religione»: i flash dal teleschermo del bilancio sanguinoso dell'agguato di via Fani, delle rotonde dichiarazioni dei leader democristiani, dei rituali raduni della sinistra parlamentare (con la violenta ripulsa dei criminali affidata all'oratoria di Luciano Lama) si riflettono nei volti che hanno la funebre, vitrea fissità di zombies accecati.
Nel mix affascinante di prosaica realtà e ricorrenti incubi, il ricordo del padre di Chiara ritorna sotto forma di «Paisà» e «Tre canti su Lenin», lampi di orgoglio partigiano e spezzoni di sfilate del Primo maggio staliniano che riportano i dubbi e i tormenti in un album di famiglia inequivocabile, eppure così distorto. Un'evocazione stupefacente, un oratorio cinematografico dove gli slogan demenziali («la classe operaia deve dirigere tutto») contrappuntano il nobile atteggiamento di Moro, che non sa più quali parole scegliere per tranquillizzare la famiglia o implorare l'aiuto dei potenti. Senza rimestare nel torbido gioco dei Grandi Vecchi, Bellocchio entra in una trance ipnotica che risucchia nel taglio dell'inquadratura, nella catarsi delle musiche e nella concisione dei movimenti le grottesche sedute spiritiche (che veramente s'organizzarono per aggiungere confusione alla confusione degli inquirenti), i fogli che svolazzano sullo scrittoio dell'affranto Paolo VI e la lacrima che finalmente solca l'incarnato della brigatista prossima a perdersi.
Impossibile, dunque, restare indifferenti al magnifico movimento finale, con il sogno impossibile che fa sentire l'aria fresca del mattino sui passi frettolosi dello statista liberato e la ieratica carrellata sui funerali di stato. Ingrao accanto ad Andreotti, Cossiga accanto a Zaccagnini, Craxi accanto a Berlinguer, Almirante accanto a Dalla Chiesa: se Belzebù esiste, bisogna rassegnarsi ad accettare che s'agiterà per sempre in una duplice, tetra identità, quella di Chiara e dei suoi complici e quella delle autorità sconfitte.

«BUONGIORNO NOTTE» IN CONCORSO
Venezia, consensi per il film di Bellocchio sulle Brigate rosse
«Un errore non trattare per Moro»
Il regista: «Il mio film, un atto di infedeltà nei confronti della storia». «Ho preso una vicenda clou della vita italiana per raccontarla in modo personale»
Dall'inviato a Venezia Titta Fiore

Si vedono, nella scena finale di «Buongiorno, notte», il film bello e importante di Marco Bellocchio sul caso Moro accolto ieri alla Mostra del cinema da un successo straordinario, le facce impietrite dello stato maggiore della Dc, il giorno dei funerali venticinque anni fa a Roma: si vedono Andreotti, Fanfani, Zaccagnini, Leone e più indietro i leader della sinistra Berlinguer e Craxi, e poi il segretario della Cgil Lama, il leader del Msi Almirante e quanti s'erano divisi, nei 55 giorni del rapimento del presidente democristiano da parte delle Br, tra il partito della fermezza e quello della trattativa.
Si vedono espressioni smarrite, teste precocemente incanutite, sguardi testardi, volti annichiliti di chi ha consumato tutte le parole, tutte le speranze. Dice il regista: «Lasciare uccidere Moro fu un errore politico. Un gesto di debolezza e non di forza da parte dello Stato. Del resto, non sono io ma gli storici a sostenere che la catastrofe della prima Repubblica sia cominciata lì. Come cittadino ero per la trattativa, la possibilità che un uomo venisse assassinato così, a freddo, mi sembrava folle».
«Buongiorno, notte», come un verso di Emily Dickinson fin troppo evocativo, per riandare a un periodo oscuro, notturno, angosciante. «Buongiorno, notte», come un sogno o un'invocazione, per un film volutamente infedele alla storia, per una vicenda nient'affatto cronachistica e perciò plausibile. «In quegli anni non appartenevo a schieramenti, la mia stagione politica era finita nel '69, e quindi oggi mi trovo nella condizione di non dover chiudere conti con nessuno, di poter avere una certa libertà» continua Bellocchio. «Ho cercato di fare un film con una struttura solida. Come reagirà il pubblico? Da chi all'epoca non era ancora nato o era troppo piccolo per ricordare, ho avuto segnali di sorprendente emozione. I più adulti potrebbero arrabbiarsi, non tanto a destra, forse, quanto a sinistra. Comunque, mi auguro non ci siano strumentalizzazioni. Ho preso una vicenda clou della storia italiana per raccontarla in chiave personale. Ad altre condizioni non avrei accettato il film quando Rai Cinema me lo propose».
Attesissimo alla Mostra e subito candidato al Leone, «Buongiorno, notte» è stato accolto da un quarto d’ora di applausi in sala e da una standing ovation in conferenza stampa: non era mai successo alla Mostra del cinema, Bellocchio lo sa ed è il primo a stupirsene: «Non mi aspettavo che la figura di Moro suscitasse tanta pietà e tanta simpatia», commenta. Di quei giorni del 1978 ricorda la confusione, lo sperdimento, l'indignazione: «Mi colpì che le scuole furono chiuse e i bambini mandati a casa, come dopo una calamità, e infatti l'idea originale era di far cominciare il film con il nipotino di Moro, Luca, che tornava improvvisamente da scuola». Sempre in un primo momento, per sottolineare il taglio particolarissimo del film, del presidente della Dc si sarebbe dovuta sentire solo la voce: «Volevo girare nella casa, filmare quella finta vita di famiglia messa in scena dai brigatisti carcerieri e poi rischiare di guardare nella cella del prigioniero» continua il regista.
Per prepararsi, naturalmente, ha letto molti libri, documenti, atti, da Sciascia a Flamigni, e «prezioso» gli è sembrato il libro della Br Anna Laura Braghetti, «Il prigioniero», perché racconta dal di dentro i giorni della prigionia, la doppia vita dei sequestratori divisi tra la ferocia della loro azione e i riti della quotidianità usati come copertura. A Maya Sansa, una sorta di alter ego della Braghetti, così come Lo Cascio interpreta Moretti, Pier Giorgio Bellocchio Maccari e Giovanni Calcagno Gallinari, il cineasta ha affidato il ruolo centrale: attraverso lei il film racconta anche l'ipotetico rapporto umano tra Moro e i suoi aguzzini. «Non ho accettato l'ineluttabilità della tragedia né mi interessava indicare i responsabili, capire chi c'era dietro i terroristi, affrontare quel dibattito sul complotto che per anni ha riempito le cronache. Diventando infedele alla storia, ho dato alla ragazza una possibilità di reagire, come purtroppo non è avvenuto nella realtà».
Sul filo dell'irrealismo il film mescola la prigionia di Moro e le lettere dei condannati a morte della Resistenza («le cita la Braghetti nel libro, in uno dei momenti in cui si rammarica di non essersi ribellata ai suoi compagni»), filmati del Luce e immagini di «Paisà» di Rossellini, spezzoni di tg e stralci delle lettere inviate dallo statista alla famiglia, all'«adorata Noretta» e al nipotino Luca, «che più tardi capirà». C'è anche una dedica al padre di Bellocchio, una specie di risarcimento per una perdita mai del tutto metabolizzata: «L'ho messa all'ultimo momento, forse perché Roberto Herlitzka nei panni di Moro me lo ha ricordato».

Con Incerti dietro le quinte
Con «Stessa rabbia, stessa primavera», mediometraggio dei Nuovi Territori che richiama nel titolo la «Storia di un impiegato» di De Andrè, il regista npoletano Stefano Incerti (foto) riprende Bellocchio durante le riprese di «Buongiorno notte». Ma al tempo stesso, mentre si interroga su cosa spinga un regista intransigente come lui a cercare il confronto con un episodio ingombrante come il caso Moro, Incerti si confronta egli stesso con gli anni Settanta e il tragico evento che fece da spartiacque del decennio. «Questo documentario - spiega - vuol provocare un corto circuito tra il cinema di Bellocchio e alcuni nodi nevralgici della storia del paese».

GLI ATTORI
«Non un giallo
ma un dramma
di uomini»

Venezia. Il merito di «Buongiorno, notte» sta «nel non parlare del caso Moro come di un giallo, ma di una storia di persone, un dramma di uomini: Moro non è uno statista ma un uomo, un padre e i brigatisti sono uomini disperati e distrutti, non solo dei mostri». Parole di Pier Giorgio Bellocchio, figlio del regista, che interpreta la parte di Germano Maccari, l'uccisore materiale di Aldo Moro. «Tutti noi come interpreti di personaggi storici sul set sentivamo di vivere un destino ineluttabile», spiega Giovanni Calcagno, nel film Primo, ruolo ricalcato su Prospero Gallinari. E Luigi Lo Cascio (Mariano, nella parte di Mario Moretti) ricorda una singolare coincidenza: «Peppino Impastato, che ho interpretato in ”I cento passi” fu ritrovato morto il 9 maggio, lo stesso giorno di Moro. Abitavo a Palermo, avevo 11 anni allora e ricordo benissimo quel giorno. Forse uscimmo prima da scuola, mi è rimasto impresso il ritorno a casa, sull'autobus il conducente fece ascoltare tutte le edizioni straordinarie dei gr».
La protagonista Maya Sansa (la brigatista Chiara, ispirata ad Anna Laura Braghetti) aveva solo due anni quel 9 maggio: «Non ne sapevo quasi nulla prima di girare il film, lo ammetto. Ma la trama è soprattutto basata sul percorso di un personaggio che deve fare i conti con la grande fiducia che aveva nella rivoluzione e poi con una realtà dei fatti che non comprende più».
«C'è stata una precisa intenzione di non salvare Moro». Roberto Herlitzka, che nel film interpreta la parte dello statista, critica duramente la decisione di non trattare ai tempi del rapimento: «Durante la prigionia lo Stato faceva azioni di mera facciata. Moro doveva essere eliminato, lo volevano russi e americani». Ancora più duro il resto del cast: «Nella vicenda Moro lo Stato non ha vinto, ma ha stravinto», rilancia Calcagno, «non trattando ha cancellato insieme un movimento e l'unico politico che poteva portare a un accordo con il Pci». «Questi cinque poveri esseri umani, Moro compreso, non aspettavano altro che un segnale che non arrivava mai», interviene Bellocchio junior. E Lo Cascio: «La ragion di Stato è un alibi. Niente può giustificare l'uccisione di un uomo».
Per interpretare il ruolo dello statista Herlitzka si è basato «sulle lettere che scrisse dalla prigione che, a parte il lucido tentativo di salvarsi la vita, esprimevano un affetto vero e sincero per la famiglia. Ho visto qualche spezzone televisivo di interviste con Moro, ma non ho voluto imitarlo».
Il film è piaciuto «tantissimo» anche al presidente della Rai, Lucia Annunziata: «”Buongiorno, notte” prende in contropiede la mia generazione che ha rimosso il caso perché fu una sconfitta, fu la fine di tutto. Trovo liberatorio che Bellocchio abbia lasciato sullo sfondo il dibattito dietrologico su Cia, Kgb e complotti su cui molti di noi si incagliarono e si persero».

IL FIGLIO DELLO STATISTA
Venezia. «Ho molto apprezzato il film di Bellocchio»: Giovanni Moro, figlio di Aldo, scrive così in una lettera inviata a Giancarlo Leone, amministratore di Rai Cinema, che ha coprodotto il film «Buongorno, notte»: «Trovo che Bellocchio scegliendo di riflettere sull'esperienza dell’uomo Aldo Moro in carcere senza vincoli o ambizioni di ricostruzione storica o di fedeltà all'insieme dei fatti, abbia illuminato aspetti importanti di quella vicenda. Non sono un critico cinematografico, ma mi viene da dire che questo è un caso in cui una creazione artistica è stata capace, proprio restando tale, di accrescere la conoscenza della realtà».
La lettera prosegue: «Penso che chi vedrà il film potrà cogliere il senso del dramma di un uomo posto di fronte a un destino tragico quanto insensato, non necessario, da lui vissuto in modo tanto più acuto quanto più era netta la sua percezione dell'incombente fine del mondo diviso in blocchi e dell’obsolescenza delle ideologie che aveva improntato di sé il secolo». Giovanni Moro ha visto il film in anteprima, su suggerimento proprio di Leone. «Un invito tanto più gradito in quanto non dovuto, giacché il film non richiedeva alcun visto o imprimatur da parte della famiglia».
Nei giorni scorsi la figlia di Moro, Maria Fida, aveva invece criticato il film pur senza averlo visto. «A tutti non posso che ripetere quello che vado dicendo da 25 anni: basta, pietà»: questo era stato il suo appello, nei primi giorni della Mostra, a commento delle possibili polemiche. Maria Fida si era lamentata con il regista e la produzione («potevano almeno avvisarci con una lettera»), ricordando di aver saputo che il film sul padre sarebbe uscito solo a metà agosto da un trailer passato in tv. «Me ne avevano parlato», ha spiegato in un'intervista, «mi avevano però detto che sarebbe uscito in autunno, dunque non ero psicologicamente preparata a udire ancora una volta, a tradimento, l'addio di mio padre, nel cuore di una notte di fine estate». E poi: «Non è possibile che chiunque - tranne noi - possa parlare del caso Moro.E non è possibile che chi ha sequestrato e ucciso mio padre possa scrivere libri, fare film, partecipare a dibattiti tv e ottenere interviste»

Buongiorno, notte: La Stampa

La Stampa 5 Settembre 2003
Il Moro di Bellocchio prigioniero non politico
«Buongiorno, notte» non ricostruisce la storia, racconta le persone Le ripetitive abitudini quotidiane dei carcerieri, i sogni, le paure La vittima sempre calma e pacata, la scena dell’uccisione omessa
di Lietta Tornabuoni

VENEZIA. ALDO Moro, presidente del partito della Democrazia Cristiana destinato a diventare presidente della Repubblica, venne rapito a Roma, in un'azione sanguinosa rivendicata dal gruppo armato Brigate Rosse, il 16 marzo 1978. Venne tenuto sotto sequestro in un appartamento romano per 55 giorni, sottoposto a processo politico, ucciso. Il suo cadavere venne fatto ritrovare dentro un'automobile, in un luogo romano a metà strada fra le sedi nazionali della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista, il 9 maggio 1978. Su questa tragedia, trauma profondo e indimenticato della politica italiana, nell'ultimo quarto di secolo si sono moltiplicati processi infiniti, indagini, ricostruzioni, testimonianze, perizie, memorie storiche, film, libri: tra i diversi libri firmati da sequestratori e uccisori che non hanno mai detto la verità c'è «Il prigioniero», scritto con Paola Tavella da Anna Laura Braghetti che fu custode del prigioniero e dell'appartamento-prigione, pubblicato da Feltrinelli. A questo libro si è liberamente ispirato Marco Bellocchio per «Buongiorno, notte», con Maya Sansa, Luigi Lo Cascio e il meraviglioso Roberto Herlitzka nella parte di Moro, presentato in concorso alla Mostra.
Nel film dedicato «a mio padre» e realizzato su commissione della Rai, Bellocchio non intendeva ricostruire la ben nota cronaca del fatto, ma analizzare i rapporti tra carcerieri e carcerato nel chiuso dell'appartamento dalle finestre serrate all'interno del quale era stato ricavato con tramezzi di legno un angusto stambugio-carcere per il prigioniero, analizzare pensieri, sentimenti e immaginazioni della ragazza. «Buongiorno, notte» ha almeno quattro livelli evidenti. La vita nell'appartamento, dove la tragicità della situazione quasi si ottunde in una routine quotidiana: mettere e togliere il passamontagna, dormire e vegliare, interrogare il prigioniero che risulta sempre trattato con il massimo rispetto e chiamato «presidente», dargli da mangiare, ritirare e impostare le lettere da lui scritte ai colleghi politici, ai destinatari più autorevoli, alla famiglia o agli amici, ripetere i propri slogan («La classe operaia deve dirigere tutto»). Poi l'esistenza del prigioniero, rappresentato come calmo, laconico, ragionatore, senza scatti d'ira nè d'insofferenza, intento a pregare e a scrivere. Poi la tripla vita della ragazza carceriera, piena di dubbi e contraddizioni: il solito lavoro quotidiano in biblioteca; la usuale fatica della spesa, della cucina, dell'accudire i compagni di sequestro; l'osservare spessissimo il prigioniero; il sognarlo aggirarsi senza costrizioni nella casa e (quando lo portano bendato a morte) andarsene fuori libero, camminando per strada con passo svelto a allegro. Infine, il mondo esterno della politica e della cronaca percepito attraverso i telegiornali: la strada dell'aggressione, Luciano Lama che parla al grande comizio post-rapimento dei sindacati, Andreotti che sollecita le famiglie dei sequestratori a denunciarli, il Papa che invoca «liberate l'onorevole Aldo Moro», la tetra sfilata delle facce di governanti e politici.
Nessuna scena cruenta: Moro addormentato portato nell'appartamento dentro una cassa, Moro interrogato, Moro turbato dall'inerzia dei democristiani («Non mi riconoscono più, credono che io sia un altro: ma io sono sempre lo stesso»); la famosa seduta spiritica a Bologna (Bellocchio è tra gli astanti); riunioni anniversarie di anziani ex partigiani di «Fischia il vento»; Moro che ascolta la propria condanna a morte e scrive l'addio alla moglie («Mia dolcissima Noretta»). Gli unici morti si vedono in citazioni da «Paisà» e in immagini d'archivio di uccisioni, fucilazioni, annegamenti di partigiani compiuti da fascisti o nazisti durante la seconda guerra mondiale.
La cronaca del caso Moro è dunque appena accennata. La politica politicante, neppure sfiorata. Il rapporto tra carcerieri e carcerato non è un rapporto tra persone ma tra emblemi di diverse politiche di cambiamento o di conservazione, emblemi astratti, rigidi, schematici o agiografici (Moro, spesso accompagnato da musiche sublimi, è rappresentato quasi come il santo che non era). La ragazza carceriera ha pochi spazi drammatici. Bellocchio è così bravo che non farà mai nulla di brutto: «Buongiorno, notte» è interessante e ha momenti belli; anche se non dice, né dà molto, il senso di morte che dominò quel periodo e quel momento è fortissimo.

IL TERRORISMO ALLA MOSTRA DEL CINEMA
Annunziata
«Buongiorno, notte» è «un film molto liberatorio», dice il presidente Rai, Lucia Annunziata che ha già visto il film «ben tre volte». «Trovo catartico che Bellocchio abbia rimesso sullo sfondo la politica e in primo piano la psicologia. Questo film colma un vuoto nella nostra generazione, che ha scritto di tutti tranne che di Moro e del terrorismo. In fondo siamo stati presi tutti in ostaggio da una banda di persone meno brave e meno intelligenti di noi .
Giovanni Moro
«Ho molto apprezzato il film di Bellocchio» scrive il figlio di Aldo Moro, Giovanni, in una lettera a Giancarlo Leone, amministratore di Rai Cinema. «Trovo che scegliendo di riflettere sull'esperienza dell'uomo Aldo Moro senza ambizioni di ricostruzione storica o di fedeltà all'insieme dei fatti e degli atti noti, abbia davvero illuminato aspetti importanti della vicenda. E’ un caso in cui una creazione artistica è capace di accrescere la conoscenza delle reltà».
Gallinari
«Vedrò il film nelle due ore di libertà che ho al giorno, dalle 16 alle 18 - dice Prospero Gallinari - ma i fatti sono una cosa, l'arte è un'altra». Ma contesta il fatto che fossero, loro carcerieri di Moro, deliranti e avulsi dalla realtà: «Eravamo radicati nei quartieri, nelle fabbriche, sapevamo dunque quello che la gente pensava. Sapevamo che poteva non esserci via d'uscita. D'altronde nessuno volle trovarla: il Papa e il Pci hanno avuto grosse responsabilità».
Braghetti
Esce di nuovo il 17 ottobre, da Feltrinelli, il libro di Anna Laura Braghetti e Paola Tavella «Il prigioniero», da cui è liberamente tratto il film di Marco Bellocchio, pubblicato per la prima volta da Mondadori nel '98. Romana, condannata all'ergastolo, la Braghetti non ha mai usufruito di sconti di pena e dopo 22 anni di carcere ha avuto nel 2002 la libertà condizionale. Nel '95 con l'ex militante dei Nar, Francesca Mambro, ha pubblicato «Nel cerchio della prigione» (Sperling & Kupfer).

Il regista: come cittadino credo che lo Stato abbia fatto un errore politico a non trattare
Simonetta Robiony
inviata a VENEZIA

Neanche Woody Allen che è Woody Allen ed era la prima volta che si faceva vedere in carne e ossa alla Mostra, ha avuto la standing ovation che ha accolto in conferenza stampa Marco Bellocchio e il suo «Buongiorno notte», il film sul caso Moro che ha commosso l'altra sera anche la platea degli addetti ai lavori tanto che il lunghissimo applauso, scivolando sui titoli di coda, certo senza intenzioni, ha finito per coinvolgere anche il nome della brigatista Anna Laura Braghetti dal cui libro il regista ha tratto ispirazione. Accompagnato dai suoi attori, Bellocchio, molto emozionato, ha esordito leggendo la lettera che gli ha scritto Giovanni Moro, il figlio dello statista, il solo della famiglia ad aver visto il film, una lettera di sostegno all'autore lontana dalla polemica aperta dalla sorella Maria Fida che s'era dichiarata amareggiata per non esser stata coivolta nè lei, nè alcuno dei familiari, in questa operazione. Prodotto e voluto dalla Rai che aveva chiesto esplicitamente a Bellocchio un film sul caso Moro, è da oggi nelle sale in 170 copie, il più grosso lancio mai fatto per un film italiano alla Mostra ma, chiarisce Giancarlo Leone capo di Raicinema, gli esercenti ne avrebbero volute 250, segno che il rapporto tra il nostro pubblico e il suo cinema s'è ristabilito.
Quando ha scelto di raccontare la tragedia di Moro dal punto di vista di una terrorista?
«Quando ho avuto tra le mani il libro di Anna Laura Braghetti, un libro che racconta fatti concreti di vita quotidiana. A me non interessava la ricostruzione storica, l'analisi della complessità della situazione politica di quegli anni e ancora meno costruire una indagine sugli eventuali responsabili occulti, che fossero gli uomini della CIA o quelli del KGB. Da cittadino sono cose che mi stanno profondamente a cuore, ma come regista non le so fare. A me intertessava analizzare i rapporti che si erano stabiliti nella casa dove Moro fu tenuto prigioniero. Perciò mi sono preso alcune libertà».
Per dire cosa?
«Che quella morte fu una tragedia non solo per il carcerato ma anche per i carcerieri. E naturalmente fu una tragedia per il paese e per la sinistra che da allora non riuscì più a far politica negli stessi modi di prima».
C'erano due partiti allora: quello della trattativa con i socialisti in testa, e quello della fermezza con i comunisti: lei da che parte stava?
«Ero per la trattativa. A me pareva di una ferocia inaudita dover condannare a morte un uomo con cui si era divisa l'esistenza per 55 giorni. Ed ero convinto che per lo stato trattare sarebbe stato un atto di forza non di debolezza. Un convincimento che oggi è diventato di molti».
C'era una'altra polemica allora, quella per cui i terroristi sarebbero stati figli dei partigiani.
«E' vero, tra quelli che avevano fatto la Resistenza c'erano alcuni che accusavano la sinistra di averne svenduto i valori e, forse, quelli potevano pensare ancora alla rivoluzione. Ma non era il mio caso. Io sono cresciuto con il mito della Resistenza. I libri di Marx, le immagini dei partigiani uccisi, i manifesti con la faccia di Stalin, appartengono al mio immaginario. Sono imbevuto di quelle immagini. E dal momento che un film si costruisce sulle immagini, queste ho usato per far passare le mie emozioni».
Crede che il film susciterà critiche?
«Ho più paura di quelle che mi verranno da sinistra che da destra. Ci sarà qualcuno che dirà che ho rappresentato i brigatisti in maniera semplicistica, li ho fatti apparire degli stupidi in confronto alla sagacia politica e umana di Moro».
Cosa ha aggiunto e cosa ha tolto al libro della Braghetti?
«Ho letto anche altri libri: quello di Sciascia, quello di Flamigni, le lettere di Moro dal carcere, quelle dei partigiani ai familiari. Però, certo, il libro della Braghetti è stato fondamentale per liberare la mia fantasia. Ho inventato il personaggio del compagno di lavoro della terrorista, un aspirante sceneggiatore che viene alla fine arrestato per sbaglio, in quei giorni di inettitudine e confusione. Ma son partito da un fatto autentico: nella borsa di Moro c'era una sceneggiatura».
E' un'ennesima prova del suo anti-clericalismo che i brigatismi si facciano il segno della croce?
«No. Davvero vivevano una dimensione religiosa più intensa di quella dei democristiani».
Il film è dedicato a suo padre.
«L'ho aggiunta alla fine, la dedica. M'è parso che questo Moro molto privato, molto personale somigliasse a mio padre, un padre che ho perso da bambino. Quando Moro s'aggira nella casa al buio mentre i suoi carcerieri dormono, fa una cosa che faceva mio padre e che io spiavo fingendo di tenere gli occhi chiusi».

Buongiorno, notte: il Corriere della Sera

Corriere della Sera 5.9.03
Un sogno, che altro? Deluderà qualcuno
I significati di quest’opera dalla impeccabile fattura sembrano sfuggire un po’ all’autore
di Tullio Kezich

E avrei voglia di sapere da lui quanto vi ritrova l’atmosfera di via Montalcini, gli atteggiamenti dei carcerieri, le angosce di quei 55 giorni. L’assurda ipotesi è autorizzata da una strampalata fantasia che emerge dal film stesso, dove i sequestratori trovano nella famosa borsa dello statista un copione intitolato «Bongiorno, notte», del quale in seguito si dichiara autore un ambiguo collega di Chiara, la protagonista mezza bibliotecaria e mezza brigatista. Anche se il regista si è ispirato al memoriale «Il prigioniero» di Anna Laura Braghetti, la pellicola non affronta la materia in chiave di docudramma (come Il caso Moro di Giuseppe Ferrara) o di dietrologia (come Pi azza delle Cinque Lune di Martinelli). «Un sogno, che altro?»: la battuta che suggella «Il Principe di Honburg» di Kleist, da Bellocchio trasferito in immagini, potrebbe essere il motto di Buongiorno, notte . Chi si aspettava un altro film che gridasse a un complotto più o meno arbitrariamente ricostruito, sarà rimasto deluso.
Ciò che preme all’autore non sono la verità dei fatti, le motivazioni politiche, le spiegazioni logistiche. Sulle prime il film sembra voler essere la storia di un appartamento, che vediamo affittato da Chiara e dal suo finto marito in figura di giovani sposi; e infatti la macchina da presa non si sposterà granché da questa scena centrale, con la sua tana segreta dove il prigioniero viene trasferito prelevandolo da una cassa come fosse già cadavere.
Roberto Herlitzka, che presta a Moro un volto pallido e dolente, lo scopriamo poco a poco da fessure o spioncini: solo verso le ultime battute il rimorso fantasticante di Chiara lo farà circolare per le stanze e addirittura prendere la fuga per le vie della città sull’onda del «Momento musicale» di Schubert. Lungo tutto il film gli echi del mondo esterno, incluse le notizie di cronaca, arrivano attraverso la tv citata nei servizi e programmi d’epoca. L’evento è interiorizzato sotto l’incubo di un tormento che attanaglia quasi tutti i congiurati, dei quali il regista sottolinea la matrice cattolica (il segno della Croce prima dei pasti), non si capisce se in un misurato tentativo di nobilitazione o di denuncia di ogni integralismo. Ci sono anche l’incongrua benedizione della casa, con svenimento di Chiara, e un Paolo VI che sembra uscito da un film di Buñuel.
Congelando la fresca disponibilità di Maya Sansa, il regista non le concede di variare molto l’espressione sempre allarmata, preoccupata, lacerata. Chiara fa un pellegrinaggio sulla tomba del padre, seguito da una bicchierata campestre con gli ex partigiani al canto di «Fischia il vento» e da una commossa rievocazione delle lettere dei condannati a morte della Resistenza. Per assimilare al loro sacrificio quello di Moro, che scrive alla moglie, o per dirci che i brigatisti, pur considerandosi paladini della supersinistra, nel loro operare cieco e crudele sono omologabili agli sgherri del nazifascismo? Ogni tanto i significati di questo film dalla fattura impeccabile sembrano sfuggire un po’ alle mani dell’autore: ma si possono controllare i sogni?

«Ho solo raccontato la psicologia dei terroristi»
Bellocchio: «Non è un film-indagine su Moro. Quei segni della croce? Erano fondamentalisti»
di Maurizio Porro

VENEZIA - Marco Bellocchio, al Lido, ha dovuto ieri difendersi dall'uragano di consensi che ha accolto «Buongiorno, notte », il film sul caso Moro che ha dedicato alla presenza invisibile ma affettuosa di suo padre, scomparso quando era piccolo. Sedici minuti di applausi e cartelli inneggianti al Leone d’oro alla proiezione per il pubblico ieri sera. Le prime reazioni: il figlio dello statista, Giovanni Moro, ha mandato una lettera d'appoggio, avendo gradito il film; l'ex segretario di Moro, Guerzoni, approva il doppio sogno del finale in cui il senatore cammina libero per Roma: «La sua presenza - dice Bellocchio - è viva, non si può sotterrarla».
Piacerà a tutti il film che la Rai si appresta a far uscire oggi in 170 copie in Italia? Eppure Bellocchio, che analizzando le zone intime e oscure dei terroristi rischia di focalizzare i fattori umani accettando i rischi di strumentalizzazioni, teme critiche a sinistra più che a destra.
«Ho accettato il progetto, ma non per girare un film-inchiesta di cui non sono capace: non so se è stata colpa del Kgb, della Cia o della P2, non mi interessa stabilirlo, ma affermare la mia infedeltà rispetto ai fatti. Volevo conoscere la psicologia dei terroristi, il quotidiano nella casa piccolo borghese alla periferia di Roma, la lotta tra l'utopia rivoluzionaria e la vita di tutti i giorni. Mi interessava la complessità della loro situazione, Moro non doveva neanche comparire».
Fu un momento di gran dissoluzione. «Ricordo maghi e veggenti che varcavano il portone del ministero degli Interni, in totale confusione: si dice che la catastrofica crisi della sinistra cominci da lì. Ma dentro al film ci sono anche le radici della mia cultura, nella Resistenza, le immagini di Paisà e anche le evocative musiche dei Pink Floyd».
Ai tempi, da che parte stava? «Ero di quelli che volevano trattare perché mi sembrava intollerabile che un uomo potesse morire così. Credo che la vera fermezza del governo sarebbe stata la trattativa».
Il regista de L’ora di religione ha creato dal suo ingegno analitico, ma si è attenuto al libro della Braghetti «Il prigioniero», che racconta i personaggi noti. Maya Sansa, bravissima, dà luce alla crisi di una brigatista che non sa da che parte stare. E sogna, come piace a Bellocchio, creatore di immagini freudiane. In un letto sopra il quale svetta un crocifisso, sogna la panchina di Lenin, Stalin, i brigatisti che si fanno il segno della Croce e Moro che passeggia per casa come il papà del regista quando era piccolo e fingeva di dormire.
«I più religiosi, i più fondamentalisti erano loro, come dice Moro, il segno di croce fa parte della dimensione ineluttabile del destino».
Emozionati anche gli attori, quelli che allora c'erano e quelli non c'erano (e che oggi hanno in mente solo la foto storica del bagagliaio della Renault col cadavere dello statista).
«Per me - dice l'attrice - il caso Moro era una cosa lontana, da libri di storia, ma mi sono buttata a leggere, vedere, studiare; poi Marco mi ha protetto dallo sconquasso emotivo».
«Io avevo 11 anni, a Palermo - dice Lo Cascio - ricordo che uscii prima da scuola, c'erano le edizioni straordinarie dei giornali. Poi c'è un segno: il cadavere di Peppino Impastato, che ho recitato nei Cento passi , fu ritrovato lo stesso giorno di Moro, il 9 maggio».
«Io invece c'ero - afferma il bravissimo Roberto Herlitzka, che fa Moro -. Andai al funerale e ne ricordo lo sgomento. Per interpretarlo ho risentito la sua voce alla radio, visto spezzoni, ma poi ho trovato una dimensione interiore naturale e mi fa piacere sapere che, a Bellocchio, complice il personaggio, ho ricordato suo padre».

Quella poesia della Dickinson
«Buongiorno - Mezzanotte / Sto tornando a Casa / Il Giorno - si è stancato di Me / Come potrei Io - di Lui?». All’incipit della poesia di Emily Dickinson (sopra, nell’immagine ) si è ispirato Marco Bellocchio per dare il titolo al suo Buongiorno, notte . E durante il film ne ha fatto recitare alcuni versi ai suoi attori. « Good morning - Midnight » della poetessa americana fu pubblicata per la prima volta ad Amherst nel 1844. Ora, nella sua versione italiana, il primo verso è stato stampato in bianco su t-shirt nere che lo staff della produzione del film di Bellocchio ha indossato mercoledì sera durante la proiezione. Un successo. Tanto che ieri le magliette sono andate a ruba. Tutti i fan del film e della scrittrice del Massachusetts ne hanno voluto una.

Il magistrato: la matrice cattolica c’era ma vivevano lontano da tutti, senza fede
di Marco Imarisio

A lui è capitato di interrogare una terrorista che di giorno cercava di insegnare il catechismo a un bambino gravemente handicappato. E, quando i genitori del bimbo furono convocati in Procura, dissero che no, non era possibile, non era stata la loro baby sitter a «firmare» uno dei delitti più vigliacchi di quegli anni, perchè la loro baby sitter «credeva fermamente a quello che diceva a nostro figlio». Maurizio Laudi la domanda se l’è fatta più volte. Da dove veniva ai terroristi la forza di fare quel che facevano. Uccidere, rapire, sopportare la vita in clandestinità, l’addio ai familiari. Il magistrato torinese, oggi sostituto procuratore, ne ha visti tanti, nella Torino degli anni di piombo. Pentiti e non. «E quella domanda non ha ancora risposta».
Nel film di Bellocchio i terroristi prima di uccidere si fanno il segno della croce.
«Se è una trovata per rappresentare la matrice cattolica di alcuni di essi, ha un suo fondamento. Ma solo in questo caso».
Prospero Gallinari, uno degli uomini del sequestro Moro, dice che quella trovata è «grottesca».
«A me nei terroristi di quegli anni ha sempre colpito il loro senso di straniamento. Sembrava di parlare con gente che aveva staccato la spina dai normali meccanismi della vita reale, come la fede».
Il regista Marco Bellocchio sembra dare rilievo alla matrice cattolica dei terroristi. Un terrorista non poteva farsi il segno della croce o pregare?
«In clandestinità, secondo quanto ho potuto constatare, vivevano in una bolla dalla quale restava escluso il loro vissuto personale, compresa una eventuale dimensione religiosa».
Esiste una componente cattolica nei giovani che scelsero la lotta armata?
«Per alcuni di essi il senso di giustizia inappagato, l’illusione di raggiungere una maggiore giustizia sociale, veniva anche da esperienze cattoliche. Nel primo periodo brigatista, quello di Curcio, la dimensione religiosa di un militante non era certo motivo di diffidenza da parte degli altri. "Frate mitra", ovvero Silvano Girotto, si infiltra nelle Br sfruttando anche il fascino del suo personaggio, fede e terzomondismo».
Il sequestro Moro appartiene alle Br di Mario Moretti, la «seconda generazione».
«Nell’ondata di fine anni Settanta ho incontrato qualche forma di cattolicesimo tra i terroristi di "Prima linea", che venivano da esperienze più variegate, dal movimento e dall’autonomia. Non tra i brigatisti, più monoliticamente marxisti. E non mi risulta che tra i carcerieri di Moro vi fossero dei credenti».
Secondo lei, queste distinzioni finivano con la scelta della clandestinità.
«Non credo che la dimensione religiosa fosse qualcosa che un terrorista "attivo" e militante poteva sentire e sostenere veramente».

OMAGGIO
«Bernardo?

«Spirito di Bernardo, se ci sei, batti un colpo. Dov'è nascosto Aldo Moro?». «Nella Luna, nella Luna». Uno spirito burlone quel Bernardo fatto evocare da Bellocchio nella seduta medianica del film. «Quel Bernardo sono io - svela a sorpresa Bertolucci (foto) - Bellocchio mi telefonò: "Ti spiace se uso il tuo nome durante la seduta spiritica?". La cosa naturalmente mi divertiva, gli ho detto sì. Uno scherzo tra amici e colleghi che da sempre si stimano. E la risposta che Marco fa dare allo spirito è un omaggio a un mio film, La Luna , che girai proprio nel '78». «Il giorno che lo sequestrarono resta per me indimenticabile: il 16 marzo, il mio compleanno», conclude Bertolucci, che considera quei fatti come la conclusione del '68 da lui evocato nel suo film I sognatori . (g.ma.)

Buongiorno, note: il manifesto

il manifesto 5.9.03
Aldo Moro, la storia in una stanza
Applausi per il film di Marco Bellocchio «Buongiorno, notte» che rievoca il sequestro del leader Dc. E in un trittico conclude le «lezioni» veneziane, dopo «Segreti di stato» e «The Dreamers»
Io ho sempre pensato che si dovesse trattare, non era accettabile che un uomo morisse in quel modo. La cosa più folle è quell'assassinio a freddo. Forse per questo, al di là di quanto c'è nel libro, l'ho voluto mettere in relazione ai tedeschi che gettavano i partigiani nel fiume
di Roberto Silvestri

Millenovecentosettantotto, cinque cadaveri in divisa sul selciato, Moro, sequestrato, dopo un processo nazional-proletario, verrà condannato. Lo scambio di prigionieri politici non ci sarà. Scaduti gli ultimatum, il brigatista Maccari lo giustizierà (fuori campo) con una scarica di mitra... Il film, come in Il caso Moro di Giuseppe Ferrara, è un kammerspiele non manicheo. Un appartamento agiato. Una libreria col doppio fondo prigione. Una branda. La stella a cinque punte. La scritta troppo gialla sopra il drappo troppo rosso. Chiara, l'affittuaria-sequestratrice di 23 anni, bibliotecaria, figlia di partigiani. Lei, dentro e fuori il covo. Al lavoro e al lavoro politico. Coi suoi occhi e con i suoi sogni, deformati, umidi e secchi, vedremo un pezzo nevralgico della nostra storia. Ma c'è anche Marco Bellocchio in quell'appartamento. Tra le mani di Chiara il regista le impone, attraverso un collega d'ufficio inventato, una sua sceneggiatura. Contiene quel che il movimento, superato lo sbigottimento e il cinico umorismo della indecente notizia, pensò in quei giorni dell'insurrezione scippata sperando in un finale più «aperto». La coscienza di Chiara è un po' il coro di quella tragedia greca... Invece. I cappucci neri dei rivoluzionari rossi, impazziti a forza di difendersi da anni con le armi, paiono una macchia grigia, di piombo, indelebilmente analoga, nell'immaginario, agli incappucciati della P2, che tolgono la parola politica a tutti gli altri soggetti sociali, come Maurizio Costanzo fa oggi, fanaticamente, privando di etere ogni altra comunità che non sia il partito-azienda. E, nel loro internazionalismo al sangue, visionario e troppo lucido nell'assalto al sistema militar-industriale delle multinazionali, Moretti (nel film un Luigi Lo Cascio già «abbattuto» in partenza) e compagni ricordano le goffaggini spietate di qualche cupola segreta cattolica reazionaria italo-latino-americana che in quel momento, il Mundial di calcio dei torturatori di Videla è alle porte, sta pianificando, dopo il Cile, la soluzione finale contro la gioventù democratica di Argentina e Brasile...e se strettamente necessario anche d'Italia. Forse furono i demenziali metropolitani del `77, più che le ritirate strategiche del Pci, a salvarci la vita? Le lettere di Moro vanno in dissolvenza incrociata su quelle, pubblicate da Einaudi, dei condannati a morte della Resistenza. Le immagini di Roberto Herlizka, il sequestrato, mostro della recitazione minimalista cui a stento Riccardo Giagni restituisce spessore e calore umano, viste dallo spioncino della sua cella nel covo insonorizzato, sembrano a Chiara quelle di un divo di Griffith, con l'alone circolare nero, ancora più antiche e mitiche delle immagini di un altro illustre collega statista, Stalin, e di quelle dei partigiani trucidati per mano nazi-fascista...E di Emanuele Rocco, Santalmassi, Vespa in contumacia, che certificano invece il passaggio alla tv e all'Italia a colori di La Repubblica e dei suoi sondaggi «basta `68!». In Il ritorno di Cagliostro una statua nuda e urlante prende a un tratto vita ma le ombre prefabbricate di Ciprì la trasformano nella silhouette nera di una «donna con il burka». E la morale è: siamo nella fase del cinema obliquo, anfibio. Traducete ogni informazione nel suo contrario. Per fare resistenza occorrono occhi biforcuti. Se tutto sembra andare a rotoli, traduce John Sayles nel bellissimo Casa de los Babys (concorso B, perché non A?) consideratevi l'unica stella sopravvissuta in un firmamento totalmente buio. Bel titolo, Buongiorno, notte, dunque, tratto dal verso di Emily Dickinson «Buongiorno, mezzanotte». Il dio dei cristiani separò il giorno e la notte, ma una divinità yoruba inventò Mezzogiono e Mezzanotte. Eccoci allora a dare il benvenuto a un film non cristiano e d'anticlericalismo fertile, alla Ernesto Rossi, dove si spiega che lo Stato, da Almirante a Ingrao, da papa Montini agli amici più fidati e affranti dello statista rapito (Zaccagnini, Galloni, Prodi e Cossiga) non impedirono l'esecuzione di Aldo Moro. Anzi, fecero anche qualche seduta spiritica fraintesa, superstiziosa, forse propiziatoria...

Il film esplicitamente «infedele», «falso» di Marco Bellocchio (non apprenderemo un solo capo d'accusa proletario contro il presidente della Dc, né Avola né una delle tanti stragi di stato) sul rapimento e sul sequestro di Aldo Moro, chiude le tre lezioni di storia sul secondo dopoguerra italiano aperte, qui alla Mostra di Venezia, da Paolo Benvenuti, con Segreti di stato, sui crimini mai processati della Dc (e parodia del teorema Calogero?), proseguito da Bertolucci, sull'immaginazione pericolosamente al potere tra il maggio `68 e via Caetani (The Dreamers), e chiuso appunto nel 1978 da Buongiorno, notte, quando l'immaginazione di potere ne prese fin troppo, morendone d'indigestione, a patricidio compiuto. Un film compatto, dark, suggestivo, spalmato di musica mai d'ambiente, come dire: se Curcio e Moretti avessero frequentato Art Ensemble of Chicago e Pink Floyd quanto Raniero Panzieri e Renzo Del Carria, la storia d'Italia sarebbe cambiata in meglio e il proletariato giovanile avrebbe ottenuto qualche sconto in più sui biglietti d'ingressi del Palalido. Che ha utilizzato Il prigioniero di Tavella-Braghetti per tratteggiare con l'ipnosi in una mano e Brecht nell'altra, il personaggio centrale, la combattente per il comunismo Chiara, le lettere del dc di Maglie e i ricordi della famiglia Bellocchio (il film è dedicato al padre) che una certa responsabilità nella nascita del movimento di contestazione generale ce l'ha: il «caso Braibanti» fu la prova generale della cospirazione Valpreda, e fu architettato per motivi di speculazioni edilizie a Piacenza proprio dai dc nemici d'affari della famiglia del regista.

La mia verità, nient'altro che cinema
La cronaca di quei 55 giorni di rapimento l'ha tratta liberamente da «Il prigioniero», il libro scritto da Anna Laura Braghetti insieme a Paola Tavella, ma il regista dei «Pugni in tasca» non inseguiva la realtà
di Cristina Piccino

VENEZIA. Emozionato, teso persino Marco Bellocchio, che quell'applauso lunghissimo con cui è stato accolto il suo Buongiorno, notte non se lo aspettava: «credevo che avesse un'accoglienza molto più controversa» sussurra. Tanto da sembrare sfuggente, o forse no, è che di spiegare il film in risposte che sono certezze non ne ha voglia, lo fa proprio come quel pezzo di Storia italiana rimasta oscura e mai metabolizzata, il rapimento Moro, le Br, la fine dei movimenti, ce la racconta sullo schermo: non un'inchiesta, piuttosto un punto di vista personalissimo che vuole escludere tesi «a priori». Dice il regista dei Pugni in tasca, generazione di cinema che è anche quella di Bertolucci e del suo Sessantotto sognato: «penso che sarebbe importante fare un film sul caso Moro dove si dica se erano coinvolti i servizi, la Cia, il Kgb ma io non ne sono capace. Ci sono dei frammenti in Buongiorno, notte, ad esempio la scena in cui si vedono tutti quei poliziotti fuori della casa dove è prigioniero che ci mostra il caos in cui si muoveva lo stato in quel momento. Oppure la carrellata finale che dice agli uomini della repubblica, non siete riusciti a salvarlo». Dunque Il prigioniero, libro di Anna Laura Braghetti, la Chiara del film di cui incarna le contraddizioni Maya Sansa, e Paola Tavella. I sogni, la figura di Moro libero in sovrimpressione a un Padre, quello assente sempre del regista a cui è dedicato il film, la «band à part» delle immagini di ieri, i tg, altra verità negata-impossibile, e il film oggi la cui verità sta nel non volerla rappresentare. Non c'è Lanfranco Pace - un altro libro/film - ma c'è un bimbo, il figlio di una vicina quando Moro arriva nell'appartamento di ordinaria piccola-borghesia, che esaspera l'assurdità del gesto. E c'è in ellissi la fine dei movimenti, la repressione, il ragazzo arrestato con l'immaginazione al potere che era forse la pulsione più vitale del `77. Poi una frase che il regista inserisce nelle note di regia sul titolo, un verso di Emily Dickison: «Buongiorno, notte contiene una contraddizione che mi sembra interessante, perché evoca quel periodo notturno, angosciante, oscuro. Ma se oggi sia giorno non lo so».

C'è un molteplice piano visuale, il suo film e i tg del '78, che diventa quasi chiave narrativa. È un segno di una verità che non possiamo stabilire?

Mi piaceva l'idea di una messinscena in forma di rituale, l'appartamento piccolo-borghese, la tv, i gesti da casalinga del personaggio femminile, cucinare, stirare, quella finta vita di famiglia che sterza con violenza quando lei guarda dentro, vede il prigioniero nella cella. In una prima sceneggiatura la figura di Moro non doveva neanche apparire, poi abbiamo deciso di svelarlo. Non credo che sia possibile rappresentare quella realtà in sé, e per questo non mi interessa se le cose siano andate come Anna Laura Braghetti scrive nel suo libro o no, è stato una fonte preziosa da cui abbiamo ricavato diversi episodi, ad esempio la lettura che la ragazza fa delle Lettere dalla Resistenza, poi ci siamo mossi molto liberamente. Sono materiali grezzi, la cronaca da trasformare in cinema. Nel libro di Braghetti cercavo soprattutto un segno che le cose potevano andare diversamente.

Infatti nel sogno della donna Moro si allontana vivo all'alba il giorno che lo hanno ucciso.

Lo stile del film non è realistico, come dicevo l'oggetto non è la verità storica, chi c'era dietro ai terroristi o altro. Volevo cercare nell'infedeltà qualcosa che contrastasse l'ineluttabile di quella tragedia, che sono le contraddizioni del personaggio di Chiara. Braghetti si rimprovera di non avere agito, ma è andata così. Il resto sono i sogni, Moro che vaga nelle stanze guidato dalla musica di Schubert, la panchina dove è morto Lenin nel paesaggio con la neve: senza fare della psicanalisi è come se lei sentisse tutto raggelato il giorno della loro vittoria, il rapimento segna l'avvio della sua catastrofe interiore.

Allora lei, Bellocchio, cosa ha provato?

Ho sempre pensato che si dovesse trattare, che farlo non significava debolezza, al contrario sarebbe stato un atto di coraggio e di forza politica. Non era accettabile che un uomo morisse in quel modo. Che la cosa più folle è quell'assassinio a freddo, forse per questo, al di là di quanto c'è nel libro, l'ho voluto mettere in relazione ai tedeschi che gettavano i partigiani nel fiume.

Ecco, i materiali sulla Resistenza, Paisà di Rossellini sono ancora un altro piano del racconto.

In una parte della sinistra quegli anni si criticava il modo di interpretare i valori della Resistenza nel presente, si diceva che erano stati diluiti, ridotti a una semplice celebrazione. La figura di Lama, ad esempio: è stato un partigiano e il suo discorso in quel frangente per quanto retorico ha un'efficacia straordinaria. Inoltre io sono cresciuto con quei valori e mi sembrava che quelle immagini li esprimessero con forza. Ma non le avrei mai utilizzate senza la musica dei Pink Floyd (da Wish you were here, ndr). È stata Francesca Calvelli, mia compagna e montatrice del film a suggerirla. Non è un bagaglio della mia generazione, non sapevo neanche che esistesse, ma credo che sintetizzi la ribellione e la disperazione di quegli anni.

Il film è dedicato a suo padre.

L'ho deciso all'ultimo momento, è una figura assente nei miei film e Roberto Herlitzka me lo ricordava. L'ho perduto da adolescente e ho sempre rimosso quel dolore. Le passeggiate di Moro nell'appartamento vengono dai ricordi di mio padre, che ci guardava la notte mentre dormivamo.

Oltre i fatti, affiorano le emozioni
I commenti alla proiezione del film di Bellocchio sul sequestro Moro

«Si tratta della questione di come mai, in quel caso e solo in quello, lo Stato italiano decise di non trattare con i terroristi né cercare seriamente di liberare il prigioniero»: così, sottolineando il cuore del problema, si conclude la lettera che il figlio di Aldo Moro, Giovanni, ha scritto all'amministratore delegato di Rai Cinema Giancarlo Leone per ringraziarlo del film di Marco Bellocchio Buongiorno notte dedicato al sequestro di suo padre. «Sono persuaso - scrive ancora Giovanni Moro - che corrisponda a quanto fu vissuto dal prigioniero e insieme metta in luce in modo pacato ma netto il nodo ancora non sciolto di quella vicenda anche dal punto di vista storico, politico e giudiziario». «Ho molto apprezzato il film - ha raccontato poi il figlio del leader Dc invitato all'anteprima della proiezione - trovo che Bellocchio scegliendo deliberatamente di riflettere sull'esperienza dell'uomo Aldo Moro in carcere, senza vincoli o ambizioni di ricostruzione storica o di fedeltà all'insieme dei fatti, abbia illuminato aspetti importanti di quella vicenda». Con qualche resistenza (avrebbe preferito parlare di qualcosa già visto) Prospero Gallinari, uno dei brigatisti che fu protagonista del sequestro Moro, ha deciso di commentare il film. «Si tratta di un film di fronte al quale ognuno può pensare e sentire quello che crede; i fatti sono una cosa, l'arte è un'altra».

«È un film che prende in contropiede la mia generazione perché nessuno da anni parla più del caso Moro, lo abbiamo rimosso: fu una sconfitta, la fine di tutto». Il presidente della Rai Lucia Annunziata trova «liberatorio che Bellocchio abbia lasciato sullo sfondo tutto quel dibattito dietrologico su Cia, Kgb e complotti su cui molti di noi si incagliarono e si persero», spiega poi. «Buongiorno, notte - continua Annunziata - ci riporta a quegli anni e mostra come fummo sopraffatti e distrutti da un branco che non era né più intelligente né migliore di noi. In quegli anni - aggiunge - lavoravo al manifesto e me ne occupai direttamente come giornalista».

«Mi auguro che il film di Bellocchio sia un film d'autore cioé si preoccupi di raccontare le emozioni, la vicenda e le contraddizioni umane».Valerio Morucci, ex br tra gli autori del sequestro Moro, il film non lo ha visto ma non esclude che potrebbe andarlo a vedere: «molti giornali mi hanno già contattato per avere un mio commento in diretta durante una visione privata in cassetta. Spero però non sia l'ennesimo film sui fatti. Ne hanno già realizzati due che sono da dimenticare».


BERTOLUCCI
«Dreamers» piovono molotov
di Mariuccia Ciotta

«Inudi di The Dreamers (e di Twenty Nine Palms) non fanno sognare Venezia» titola Le Monde. E «Dreamers, 68 façon 69» scrive Libération, che insiste in prima pagina con il richiamo giocato sulla rivoluzione-cul come culturare e come culo. Cosa è successo agli spregiudicati cinephiles d'oltralpe, ai due quotidiani autorevoli nel paese di Genet e Klossowski e delle Follies Bergères? È vero che l'Europa rischia la matrice dell'integralismo religioso, ma almeno Parigi dovrebbe resistere. Il film di Bernardo Bertolucci ha scandalizzato i due inviati al Lido. Thomas Sotinel per Le Monde dice dell'incastro prismatico tra sequenze mitiche dell'immaginario sessantottino descrivendole come «petit jeu cinephile», stupidità pretestuose per intrattenere nudi i tre ragazzi, quando è proprio in quella materia dei «sogni» che The Dreamers ri-costruisce il `68 e salda emozioni e politica. Non c'è una stanza chiusa dove si fa sesso mentre nella strada «gronde la revolte». Il Sessantotto sprigiona nel corpo gemello (fratello-sorella) le pulsioni contrastanti e separate della politica, l'aldiqua e l'aldilà, il piacere dello schermo e dell'azione. Godard e le barricate. Il maggio è francese ma anche la cecità di Le Monde e Libé che trasforma l'esperienza di una «perversione» violenta e liberatoria in uno sguardo di «concupiscenza sui giovani corpi» con cui Bertolucci «evoca una sola trasgressione, il suo voyeurismo». Il `68 inventò il diritto alla felicità. L'urgenza di coniugare se stessi con la lotta, essere sì «perversi» e violenti contro i ricorrenti maestri del buon senso, ancora oggi al comando. The Dreamers è nostalgia del futuro, non solo esercizio di memoria. Le Monde e Liberation ne escono turbati. «I dialoghi politici sono di una vacuità particolarmente sconvolgente per l'autore di Prima della rivoluzione» scrive Sotinel. Non ci sono dialoghi «politici» in The Dreamers. Anzi le parole dei codici della politica si spezzano, vengono annientate e sopraffatte, sovrimpresse dal linguaggio di un'altra epoca che Bertolucci ci restituisce gioiosamente, come allora con L'ultimo Tango a Parigi. Qui esultiamo alla domanda se è giusto sognare o proseguire verso lo schieramento di polizia. La risposta è tutti e due, contemporaneamente. Anche Bellocchio ci pone davanti allo stesso dilemma, i desideri/armati. Due corpi, due ragazze, per Bertolucci e per Bellocchio come non più creature estranee - debolezza, sentimenti, pietà - ma nuovo soggetto che trascende, umano. Le Monde scrive: «lo sguardo del cineasta è di una strana miopia, come deformato da una nostalgia morbosa». I due quotidiani stroncano Bertolucci perché ha realizzato un film da voyeur morboso, anche un po' bisex e incestuoso con la scusa del `68? Aiuto. Ma di che stanno parlando gli inviati dei due prestigiosi giornali francesi? Didier Peron scrive su Liberation: «... prima di diventare uno dei mammouth della superproduzione autoriale di lusso, Bertolucci era un giovane italiano di estrema sinistra, figlio di un grande poeta...». E ora in pieno «esaurimento ormonale», il regista si fa prendere dall'esperienza intima di tre teen-ager... e via come Le Monde verso una scandalizzata descrizione di The Dreamers, film di un «dandy romantico e lascivo». Se il '68 di Bertolucci fa questo effetto ha colpito nel segno. Il «voyeur» ha visto giusto in questo magma di interdetti, di negazioni e paure. The Dreamers è uno «scandalo». È violento è senza buon senso, è sessualmente sconvolgente, mischia Greta Garbo a De Gaulle, Langlois ai no-global di Genova, fa sesso triadico, usa la metafora bisex e corre con una molotov in mano verso l'ordine costituito. Sì. Insieme a Bertolucci, il `68 è stato questo e molto più. Ed è arrivato fino al terzo millennio per minacciare i set mentali dei normalizzatori di professione.