certamente sì ai diritti civili, individuali e privati, di tutti e di ciascuno, ma certamente no all'indicazione di modelli decisamente minoritari di comportamento privato come portatori di particolari e "superiori" significati rivoluzionari collettivi sociali e culturali validi per tutti nella presunta prospettiva che "distruggendo" i - così li chiamano - "ruoli sessuali" di uomo e di donna si darebbe come per magia un colpo decisivo alla "riproduzione del capitale"!
Inseriamo qui un link che permette a chi lo volesse di documentarsi andando a vedere un articolo di Aldo Nove, apparso domenica 26 su "Queer", inserto domenicale di Liberazione, dal titolo "L'ano tra sesso e rivoluzione".
il testo dell'articolo si trova qui: http://www.liberazione.it/giornale/050626/default.asp
e poi cliccando su "Queer" (nella spalla sinistra dell'home page che sarà apparsa) e successivamente su "L'importante lavoro del filosofo...")
la pagina intera in PDF è visibile qui:
http://www.liberazione.it/giornale/050626/pdf/XY_IV-LIB-3+.pdf
Chi eventualmente volesse poi riceverla per posta elettronica può chiederla a "segnalazioni".
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
giovedì 30 giugno 2005
hanno detto no con una lettera al giornale anche due redattori militanti di Liberazione
Segnalazione di Roberto Altamura e di Dimitri Nicolau
Liberazione, 28.6.05
Lettere & Rubriche
“Queer”
Sesso e rivoluzione
Caro direttore, è con disagio e anche con senso di umiliazione che abbiamo letto sull’inserto di domenica l’articolo che si fregia dell’evocativo titolo “L’ano tra sesso e rivoluzione” e il cui (penetrante?) incipit fa: «La rivoluzione proletaria passa anche attraverso il buco del culo». Francamente da militanti e giornalisti che scrivono su questo foglio da tanti anni, non ci era mai capitato di imbatterci in temi tanto eccelsi e chic, ancorché “oscuri”. A parte le teorie – anzi rimasticature – malamente assimilate e trascritte di cui l’articolo firmato da Aldo Nove (ma non solo) dà prova, ci domandiamo a chi interessa e chi vuole stupire mai un simile elaborato: vuol forse stupire i borghesi, i carabinieri, i bambini delle primine? Ci sembra strana, e a dir la verità “sospetta”, la martellante frequenza con cui “Queer” insiste e dibatte di sesso di qualsivoglia tipo: non sarà un’ossessione? Non sarà un caso di regressione infantile, appunto anale? Non sarà un modo indecoroso e falsamente trasgressivo di introdurre i pur importanti temi della sessualità? Non sarà un espediente troppo facile e francamente vieto di catturare visibilità a tutti-tutti i costi? Domande umilianti per noi, militanti e giornalisti di vecchia data, per più di una ragione attaccati all’orgoglio e alla serietà di questo giornale, la onorata testata del nostro partito (un sentimento che certo anche tu condividerai). Un fatto ci preme comunque sottolineare: saremo comunisti ortodossi come scrive il signor Aldo Nove (forse intendeva dire trinariciuti), ma lo assicuriamo che il complesso anale noi lo abbiamo superato nell’età giusta (vedi Freud). Non sappiamo se così è stato per lui e “Queer”.
Carissimi, affidatevi al lettino di Lacan, lasciate stare “Liberazione”.
Finalmente! Un’importante “polemica sulla sessualità” nella puntuale lettera al Direttore Piero Sansonetti di due giornalisti e militanti di “Liberazione” e del P.R.C.
… ma il «lettino di Lacan» (ancora!) sta dalla parte della cura o della malattia stessa da curare?
Roberto Altamura
Liberazione, 28.6.05
Lettere & Rubriche
“Queer”
Sesso e rivoluzione
Caro direttore, è con disagio e anche con senso di umiliazione che abbiamo letto sull’inserto di domenica l’articolo che si fregia dell’evocativo titolo “L’ano tra sesso e rivoluzione” e il cui (penetrante?) incipit fa: «La rivoluzione proletaria passa anche attraverso il buco del culo». Francamente da militanti e giornalisti che scrivono su questo foglio da tanti anni, non ci era mai capitato di imbatterci in temi tanto eccelsi e chic, ancorché “oscuri”. A parte le teorie – anzi rimasticature – malamente assimilate e trascritte di cui l’articolo firmato da Aldo Nove (ma non solo) dà prova, ci domandiamo a chi interessa e chi vuole stupire mai un simile elaborato: vuol forse stupire i borghesi, i carabinieri, i bambini delle primine? Ci sembra strana, e a dir la verità “sospetta”, la martellante frequenza con cui “Queer” insiste e dibatte di sesso di qualsivoglia tipo: non sarà un’ossessione? Non sarà un caso di regressione infantile, appunto anale? Non sarà un modo indecoroso e falsamente trasgressivo di introdurre i pur importanti temi della sessualità? Non sarà un espediente troppo facile e francamente vieto di catturare visibilità a tutti-tutti i costi? Domande umilianti per noi, militanti e giornalisti di vecchia data, per più di una ragione attaccati all’orgoglio e alla serietà di questo giornale, la onorata testata del nostro partito (un sentimento che certo anche tu condividerai). Un fatto ci preme comunque sottolineare: saremo comunisti ortodossi come scrive il signor Aldo Nove (forse intendeva dire trinariciuti), ma lo assicuriamo che il complesso anale noi lo abbiamo superato nell’età giusta (vedi Freud). Non sappiamo se così è stato per lui e “Queer”.
Carissimi, affidatevi al lettino di Lacan, lasciate stare “Liberazione”.
Maria R. Calderoni
Giancarlo Lannutti
Giancarlo Lannutti
Finalmente! Un’importante “polemica sulla sessualità” nella puntuale lettera al Direttore Piero Sansonetti di due giornalisti e militanti di “Liberazione” e del P.R.C.
… ma il «lettino di Lacan» (ancora!) sta dalla parte della cura o della malattia stessa da curare?
Roberto Altamura
Marco Bellocchio a Pesaro
il manifesto 30.6.05
LE MANI DI BELLOCCHIO
Marco Bellocchio, cui è dedicato l'evento speciale della mostra, lascerà oggi (18,30, cortile di Palazzo Gradari) l'impronta delle sue mani sulla piastrella di ceramica creata dall'atelier Franco Bucci. La citazione esplicita è il Walk of fame hollywoodiano, nel progetto di eventi in omaggio agli artisti ospiti del Festival. A Bellocchio è dedicata anche la mostra (Galleria Franca Mancini): bozzetti di preparazione dei film, tra cui anche disegni inediti del suo ultimo (ancora in fase di lavorazione) Il registra di matrimoni. Sabato tavola rotonda sull'immagine «bellocchiana» (Cinema Astra) e a chiudere la retrospettiva la proiezione della Balia . Venerdì sarà a Pesaro anche Barbora Bobulova, già interprete per Bellocchio de Il principe di Homburg, ad accompagnare il corto Spendo i soldi che non ho di Daniela Ceselli.
Marco Bellocchio è stato il protagonista diuna lunga intervista trasmessa questa sera dalle 19 a Hollywood Party, una trasmissione di Rai Radio Tre il cui archivio sonoro dovrebbe essere rintracciabile sul sito dell'emittente:
http://www.radio.rai.it/radio3/
L'Unità 30 Giugno 2005
Delitto Pasolini, un documentario
rimasto «inedito» per trent’anni
«Il silenzio è complicità» girato nel ’76 da registi come Bellocchio, Bolognini, Monicelli
di Francesca De Sanctis
«IL SILENZIO È COMPLICITÀ», questo il titolo del filmato proiettato ieri sera alla Festa dell’Unità agli ex mercati generali (Ostiense). Un filmato in-
chiesta sulla morte di Pier Paolo Pasolini in cui le voci di quindici registi italiani indagano sul movente di quell’atroce delitto e denunciano la voglia di archiviazione dell’omicidio. «Il film era stato proiettato solo una volta, nel settembre del 1976, durante un festival della Fgci» ricorda Gianni Borgna, allora dirigente della Fgci romana e oggi assessore capitolino alla cultura. Ieri sera è intervenuto al dibattito «Ricordando Pasolini» assieme a Goffredo Bettini e a Mario Martone prima che il film venisse proiettato davanti al pubblico della Festa dell’Unità.
In quaranta minuti la pellicola racconta una verità che va cercata nel contesto di quegli anni, gli anni della strage di piazza Fontana, di Brescia, dell’Italicus... Tra i registi che hanno girato quel filmato ci sono Marco Bellocchio, Giuseppe Bertolucci, Mauro Bolognini, Laura Betti, Dario Bellezza, Franco Brusati, Sergio Citti, Dacia Maraini, Ninetto Davoli, Elio Petri, Enzo Siciliano, Ettore Scola, Mario Monicelli, Lietta Tornabuoni. «È un documento molto interessante - sottolinea Borgna -, è impressionante che escano fuori solo ora le verità che questo filmato raccontava già trent’anni fa». Le poche copie del filmato, custodito a Bologna nel Fondo Pasolini, le ha fatte girare Laura Betti, che ne regalò una copia a Borgna e una a Bettini. «“Il silenzio è complicità” denuncia la mancanza di indagini che non furono fatte», insiste l’assessore.
Il filmato fu girato nella primavera del ‘76 e raccoglie le voci dei giovani comunisti di allora che parlano di Pasolini, a volte condividendo coi lui delle cose altre volte meno; ragazzi che parlano del rapporto tra il poeta e i giovani. E sullo sfondo si intravede il Pincio, dove proprio un anno prima della sua morte, Pasolini aveva partecipato al festival della Fgci. «Aveva tenuto il discorso sui giovani e la droga» ricorda Borgna. Ma la questione più importante de “Il silenzio è complicità” riguarda proprio il delitto, perché l’insieme delle testimonianze delinea un quadro non diverso dalla recente rivelazione di Pino Pelosi (finora considerato unico colpevole del delitto), e cioè che l’omicidio sarebbe opera di più persone. La pensava così già allora il regista Sergio Citti che recentemente ha più volte ribadito di voler testimoniare, per raccontare la sua versione in base alle prove da lui stesso raccolte subito dopo l’omicidio.
Ora l’avvocato Guido Calvi ha formalmente fatto depositare a Citti la sua testimonianza che verrà consegnata dal Comune di Roma ai magistrati, spiega Borgna, il quale ricorda che il Comune si è costituito parte lesa e che quindi sta portando avanti le proprie indagini. «Entro l’autunno - assicura l’assessore - il Comune ricostruirà la sua ipotesi ed il movente».
LE MANI DI BELLOCCHIO
Marco Bellocchio, cui è dedicato l'evento speciale della mostra, lascerà oggi (18,30, cortile di Palazzo Gradari) l'impronta delle sue mani sulla piastrella di ceramica creata dall'atelier Franco Bucci. La citazione esplicita è il Walk of fame hollywoodiano, nel progetto di eventi in omaggio agli artisti ospiti del Festival. A Bellocchio è dedicata anche la mostra (Galleria Franca Mancini): bozzetti di preparazione dei film, tra cui anche disegni inediti del suo ultimo (ancora in fase di lavorazione) Il registra di matrimoni. Sabato tavola rotonda sull'immagine «bellocchiana» (Cinema Astra) e a chiudere la retrospettiva la proiezione della Balia . Venerdì sarà a Pesaro anche Barbora Bobulova, già interprete per Bellocchio de Il principe di Homburg, ad accompagnare il corto Spendo i soldi che non ho di Daniela Ceselli.
Marco Bellocchio è stato il protagonista diuna lunga intervista trasmessa questa sera dalle 19 a Hollywood Party, una trasmissione di Rai Radio Tre il cui archivio sonoro dovrebbe essere rintracciabile sul sito dell'emittente:
http://www.radio.rai.it/radio3/
L'Unità 30 Giugno 2005
Delitto Pasolini, un documentario
rimasto «inedito» per trent’anni
«Il silenzio è complicità» girato nel ’76 da registi come Bellocchio, Bolognini, Monicelli
di Francesca De Sanctis
«IL SILENZIO È COMPLICITÀ», questo il titolo del filmato proiettato ieri sera alla Festa dell’Unità agli ex mercati generali (Ostiense). Un filmato in-
chiesta sulla morte di Pier Paolo Pasolini in cui le voci di quindici registi italiani indagano sul movente di quell’atroce delitto e denunciano la voglia di archiviazione dell’omicidio. «Il film era stato proiettato solo una volta, nel settembre del 1976, durante un festival della Fgci» ricorda Gianni Borgna, allora dirigente della Fgci romana e oggi assessore capitolino alla cultura. Ieri sera è intervenuto al dibattito «Ricordando Pasolini» assieme a Goffredo Bettini e a Mario Martone prima che il film venisse proiettato davanti al pubblico della Festa dell’Unità.
In quaranta minuti la pellicola racconta una verità che va cercata nel contesto di quegli anni, gli anni della strage di piazza Fontana, di Brescia, dell’Italicus... Tra i registi che hanno girato quel filmato ci sono Marco Bellocchio, Giuseppe Bertolucci, Mauro Bolognini, Laura Betti, Dario Bellezza, Franco Brusati, Sergio Citti, Dacia Maraini, Ninetto Davoli, Elio Petri, Enzo Siciliano, Ettore Scola, Mario Monicelli, Lietta Tornabuoni. «È un documento molto interessante - sottolinea Borgna -, è impressionante che escano fuori solo ora le verità che questo filmato raccontava già trent’anni fa». Le poche copie del filmato, custodito a Bologna nel Fondo Pasolini, le ha fatte girare Laura Betti, che ne regalò una copia a Borgna e una a Bettini. «“Il silenzio è complicità” denuncia la mancanza di indagini che non furono fatte», insiste l’assessore.
Il filmato fu girato nella primavera del ‘76 e raccoglie le voci dei giovani comunisti di allora che parlano di Pasolini, a volte condividendo coi lui delle cose altre volte meno; ragazzi che parlano del rapporto tra il poeta e i giovani. E sullo sfondo si intravede il Pincio, dove proprio un anno prima della sua morte, Pasolini aveva partecipato al festival della Fgci. «Aveva tenuto il discorso sui giovani e la droga» ricorda Borgna. Ma la questione più importante de “Il silenzio è complicità” riguarda proprio il delitto, perché l’insieme delle testimonianze delinea un quadro non diverso dalla recente rivelazione di Pino Pelosi (finora considerato unico colpevole del delitto), e cioè che l’omicidio sarebbe opera di più persone. La pensava così già allora il regista Sergio Citti che recentemente ha più volte ribadito di voler testimoniare, per raccontare la sua versione in base alle prove da lui stesso raccolte subito dopo l’omicidio.
Ora l’avvocato Guido Calvi ha formalmente fatto depositare a Citti la sua testimonianza che verrà consegnata dal Comune di Roma ai magistrati, spiega Borgna, il quale ricorda che il Comune si è costituito parte lesa e che quindi sta portando avanti le proprie indagini. «Entro l’autunno - assicura l’assessore - il Comune ricostruirà la sua ipotesi ed il movente».
MARCO BELLOCCHIO
l'intervista su La Repubblica
l'intervista su La Repubblica
REPUBBLICA DOMENICA, 26 GIUGNO 2005, pag. 48
L'INCONTRO
Bilanci artistici
MARCO BELLOCCHIO
di Paolo D'Agostini
ROMA. SERGIO CASTELLITTO - protagonista condiviso con La stella che non c'è di Gianni Amelio - se n'è volato in Cina dove il film si sta girando e Marco Bellocchio dovrà aspettarlo per completare le riprese di Il regista di matrimoni. Bellocchio è immerso in una fase del lavoro che tiene alla larga le distrazioni, troppo "dentro" il film in corso per parlarne. Ma la Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro (25 giugno-3 luglio) ripercorre l'intera sua carriera rendendo omaggio ai quarant'anni di cinema del ribelle dei Pugni in tasca che oggi, sessantaseienne, soprattutto dopo L'ora di religione, sta vivendo una rinnovata stagione di giovinezza creativa e di consensi. E questo lo ha convinto ad accettare una conversazione, diciamo, retrospettiva.
Ma usa con fermezza l'occasione per difendere "tutta" la sua biografia artistica. In altre parole, Bellocchio non ne può più delle sottovalutazioni o delle ironie dei detrattori su quella parte della sua produzione che più direttamente è stata influenzata dal rapporto con la scuola dello psichiatra e psicanalista Massimo Fagioli e dall'esperienza della "analisi collettiva" propria di quella scuola: la produzione che si situa tra gli anni Ottanta e il ‘94 di Il sogno della farfalla, quella che culmina nella collaborazione di Fagioli alla costruzione dei film e nella firma dell'analista affiancata a quella del regista sotto le sceneggiature. È noto, infatti, che la comunità critica ha diffidato di quell'incontro artistico. E che il pubblico ne è stato disorientato, forse allontanato. Ma che cosa è successo, da La balia in poi e all'indomani di quella stagione controversa, che ha donato al suo cinema una nuova "accessibilità" - perché questo è un fatto, fuori da ogni polemica - e il recupero di un pubblico giovanile che si era disperso?
Bellocchio non rifiuta, spiega. «La mia vita non prescinde dal mio lavoro e viceversa. Le mie immagini provengono dalla mia esperienza. C'è un film che divide il mio percorso in due: è Il diavolo in corpo, di vent´anni fa. È stato una rivoluzione per me. Quella novità si è sviluppata poi attraverso altre ricerche e altri esperimenti e da lì, è vero, il mio lavoro è diventato più "accessibile". Ma non ho mai smesso di essere un ribelle. Neanche con L'ora di religione: ribellione alla cultura assoggettata all'autorità della Chiesa. I giovani (si dice: se non si è ribelli a vent'anni... Poi purtroppo molti se lo dimenticano) amano il mio atteggiamento nei confronti del potere culturale istituzionale. Nessun mio film è venuto meno a questo principio, ma negli ultimi forse la mia maturità ha trovato una comunicabilità più diretta».
Ed eccoci al punto, per chi si sentisse ancora autorizzato a pensare che la felicità dell'ultima stagione nasce dal distacco dalla tutela (direbbero i detrattori) fagioliana. «Non c'è stata una rottura da parte mia dopo il periodo di "collaborazione fagioliana" compiuto con Il sogno della farfalla: c'è continuità, pur nella separazione artistica da Fagioli, per quel che riguarda le mie convinzioni su quella ricerca che non solo non rinnego ma seguo ancora e condivido».
Ma il punto non è quello di ipotizzare una rinuncia, da parte dell'ultimo Bellocchio più comunicativo e più sereno, alla vocazione di ribelle per sempre. Il punto è confrontare la percezione che si ha della sua storia da fuori con quella che lui ha di se stesso. E lui spiega: «Nella tradizione artistica spesso ci sono inizi folgoranti e poi un declino lento ma inesorabile. È come se nei quarant'anni successivi a I pugni in tasca, che fu un film di ribellione nichilista, io mi sia ribellato al successo di quella ribellione e all'identità che mi aveva dato. Certamente molti ancora mi definiscono "l'autore dei Pugni in tasca". Non ne disconosco la paternità, ma non mi è bastato. Tutto il mio lavoro successivo ha sempre evitato la ripetizione di quell'esperienza. E Il diavolo in corpo è stata una nuova ribellione, un nuovo rischio che per qualcuno è stato un suicidio, ma con il tempo si è rivelato una vittoria. Poi, dopo altri film più aristocratici come La visione del Sabba, La condanna e Il sogno della farfalla, sono arrivati film più "popolari" ma quella "rinascita", rappresentata appunto da Il diavolo in corpo, non l´ho mai annullata».
È piuttosto evidente che Marco Bellocchio gradirebbe un riesame di quella parte del suo cinema che è piaciuta di meno. «Ho chiesto al curatore della retrospettiva di Pesaro, Adriano Aprà, di inserire nel volume pubblicato per l'occasione un saggio dello psichiatra Gabriele Cavaggioni che affronta per la prima volta il rapporto tra il mio lavoro di regista e la mia vita, la mia esperienza nell'analisi collettiva, la mia adesione alla teoria fagioliana. Quel periodo viene spesso "saltato". Ho cominciato l'analisi collettiva nel ‘77, poi ci sono state interruzioni ma il mio rapporto sia pur conflittuale, dialettico o difficile, ha lasciato il segno. Ora in una riflessione sul mio lavoro è indubbio che questa mia scelta debba essere considerata: il mio rapporto con la psichiatria e con la psicanalisi».
A partire dal trentennale del suo storico documentario "basagliano" Matti da slegare, il festival Anteprima di Bellaria ha da poco celebrato il tema "cinema e psichiatria". Gli sarà capitato spesso, a Bellocchio, di essere coinvolto in convegni psichiatrici o psicanalitici ma c'è da scommettere che non è questo il tipo di attenzione da lui richiesta. «L'ora di religione è stato discusso in un convegno freudiano. Suppongo sia stato interpretato in un modo che non condivido, ma è importante che le idee e le immagini circolino. Io ho capito da molto tempo che la mia identità è quella di regista cinematografico. Mi interesso e mi appassiono alle idee di sanità e di malattia mentale, non credo al male né al bene, sono radicalmente ateo, ma questo riguarda essenzialmente la mia sfera privata».
Ecco un utilissimo snodo che Bellocchio offre prima che una domanda lo solleciti. È immaginabile che sia stato, per uno spirito come il suo, motivo di interesse la vicenda del Papa, la partecipazione di massa, la richiesta di "santità subito". Non si fa pregare: «Il giorno dei funerali mi ha colpito che su tutti i canali televisivi ci fosse la stessa cosa. Nessuna attenzione verso chi, pur avendo grande rispetto per il Papa, volesse veder riconosciuta la libertà di guardare un altro programma. E poi il referendum (io ho votato quattro sì): formalmente la Chiesa non infrange la legge suggerendo di astenersi, ma nella sostanza è un comando. Un soprassalto di autonomia degli italiani sarebbe stato una grande manifestazione di libertà».
Già che ci siamo, un salto indietro: L'ora di religione è stato inteso come una ricerca di moralità o spiritualità "autentiche" in reazione al conformismo e all'opportunismo. La cosa non lo lusinga e Bellocchio non fa sconti: «È quanto ci hanno trovato molti cattolici. I quali cercano la conversione del non credente: anche soltanto nelle domande che il non credente si pone, nel rifiuto dell'ipocrisia della Chiesa cattolica. Ma io, da quando adolescente ho perso la fede, credo soltanto a questo mondo, alla mia vita breve che cerco di vivere nel migliore dei modi. C'è spesso purtroppo nell'ateo una "confusione" religiosa nel momento in cui usa dei concetti propri della cultura religiosa: bene e male. Ma a proposito degli orrori che accadono nel mondo io preferisco parlare di malattia mentale. Concetto che anche dalla cultura laica non è accettato, secondo l'idea che siamo un po' tutti matti».
Torniamo allo "spettacolo" dell'adesione giovanile di massa all'addio al Papa. Tra i risultati della cultura ribelle di cui Bellocchio è stato portabandiera ci fu l'allontanamento dei giovani dalla Chiesa e dalla religione. Poi che è successo? «Essendo venute a mancare risposte dall'utopia, dal progetto di un mondo sotto l'insegna di principi marxisti, che ha influenzato intere generazioni me compreso, la Chiesa cattolica e la religione sono tornate ad essere l'unico riferimento cui rivolgere entusiasmi ed energie. La politica non risponde più, la sinistra è timida. La Chiesa non solo propone la salvezza nell'aldilà ma anche l'assistere, il prendersi cura, opere di carità non solo benemerite ma necessarie. Senza però mettere in discussione le istituzioni, i principi. Una possibile risposta radicalmente laica trova la sinistra del tutto indifferente».
Vediamo, prendendola da un altro versante, se si riesce ad avere ulteriore prova della sua fedeltà a se stesso. Domanda: riconosce il peso dell'autobiografia nel suo percorso artistico? «Sì, purché non la si voglia relegare all'adolescenza. Le mie immagini sono la mia vita, tutta». Domanda: riconoscerà un particolare accanimento contro la famiglia? «Senz'altro, ma visto lungo tutto l'arco del mio cinema e della mia vita». Domanda: mai pensato che reiterare il motivo della necessità di "uccidere" i genitori le si potesse ritorcere contro, da genitore a sua volta? «Sono contrario all'assassinio del padre e della madre non per paura che i miei figli mi possano ammazzare. No, è pura follia, che non porta a nessuna liberazione». Domanda: c'entra la consapevolezza adulta di non essere migliori di chi ci ha preceduti? «Questo sarebbe un pensiero di rassegnazione: quando si hanno vent'anni si è rivoluzionari, quando si è maturi si ammette che i genitori non avevano tutti i torti. Ho dedicato Buongiorno notte a mio padre, ma continuo a considerarmi diverso da lui. Lui era un conservatore che ha accettato i valori della società in cui viveva, io li ho rifiutati».
Chissà quanto di tutto questo c'è ancora in Il regista di matrimoni? «L'attore, che è lo stesso, potrebbe far pensare a una continuazione de L'ora di religione», dice. «Qui è un regista che a un certo punto abbandona una situazione cui non crede più (sta girando un film dai Promessi sposi). Capita in Sicilia dove incontra uno che fa i filmini dei matrimoni, capisce che non gliene frega più niente del suo lavoro e che la sua avventura umana viene prima dell'essere regista. Capisce che deve impedire un matrimonio ("questo matrimonio non s´ha da fare") e il "suicidio" di una ragazza che», sottolinea perché non si pensi a un sordo anticlericalismo, «avverrebbe tanto se il matrimonio venisse celebrato in chiesa quanto in municipio». Per ora è tutto. In attesa di vedere e potergli chiedere se quel regista alle prese con più urgenti priorità è lui.
Corriere Adriatico 29.6.05
Franca Mancini ospita la presentazione
“Bellocchio” in Galleria
PESARO - Venerdì dalle ore 19 alle 20.30 Franca Mancini, presidente dell'Associazione Culturale " Il Teatro degli Artisti ", con il Circolo della Stampa e la sezione Marche dell'Associazione Imprenditrici e Donne Dirigenti d'Azienda, invitano alla presentazione dei volumi
tenuta da Adriano Aprà, direttore artistico dell'evento, alla presenza di Marco Bellocchio, di Giovanni Spagnoletti Direttore artistico Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, Bruno Torre presidente Comitato scientifico Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro e Stefano Caselli curatore della mostra.
L'INCONTRO
Bilanci artistici
MARCO BELLOCCHIO
di Paolo D'Agostini
«Non credo ai concetti di bene e di male, propri della cultura religiosa.
A proposito degli orrori che accadono nel mondo preferisco parlare di malattia mentale»
Quarant'anni di cinema, quarant'anni di film molto amati, molto stroncati, sempre molto discussi. Quarant'anni in cui il ribelle dei "Pugni in tasca" ha continuato a ribellarsi: anche contro il proprio successo e i cliché che ne derivavano. Ora, in occasione della Mostra di Pesaro che li ripercorre tutti, il regista accetta di mettersi in discussione e di raccontare le sue rivoluzioni
A proposito degli orrori che accadono nel mondo preferisco parlare di malattia mentale»
Quarant'anni di cinema, quarant'anni di film molto amati, molto stroncati, sempre molto discussi. Quarant'anni in cui il ribelle dei "Pugni in tasca" ha continuato a ribellarsi: anche contro il proprio successo e i cliché che ne derivavano. Ora, in occasione della Mostra di Pesaro che li ripercorre tutti, il regista accetta di mettersi in discussione e di raccontare le sue rivoluzioni
ROMA. SERGIO CASTELLITTO - protagonista condiviso con La stella che non c'è di Gianni Amelio - se n'è volato in Cina dove il film si sta girando e Marco Bellocchio dovrà aspettarlo per completare le riprese di Il regista di matrimoni. Bellocchio è immerso in una fase del lavoro che tiene alla larga le distrazioni, troppo "dentro" il film in corso per parlarne. Ma la Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro (25 giugno-3 luglio) ripercorre l'intera sua carriera rendendo omaggio ai quarant'anni di cinema del ribelle dei Pugni in tasca che oggi, sessantaseienne, soprattutto dopo L'ora di religione, sta vivendo una rinnovata stagione di giovinezza creativa e di consensi. E questo lo ha convinto ad accettare una conversazione, diciamo, retrospettiva.
Ma usa con fermezza l'occasione per difendere "tutta" la sua biografia artistica. In altre parole, Bellocchio non ne può più delle sottovalutazioni o delle ironie dei detrattori su quella parte della sua produzione che più direttamente è stata influenzata dal rapporto con la scuola dello psichiatra e psicanalista Massimo Fagioli e dall'esperienza della "analisi collettiva" propria di quella scuola: la produzione che si situa tra gli anni Ottanta e il ‘94 di Il sogno della farfalla, quella che culmina nella collaborazione di Fagioli alla costruzione dei film e nella firma dell'analista affiancata a quella del regista sotto le sceneggiature. È noto, infatti, che la comunità critica ha diffidato di quell'incontro artistico. E che il pubblico ne è stato disorientato, forse allontanato. Ma che cosa è successo, da La balia in poi e all'indomani di quella stagione controversa, che ha donato al suo cinema una nuova "accessibilità" - perché questo è un fatto, fuori da ogni polemica - e il recupero di un pubblico giovanile che si era disperso?
Bellocchio non rifiuta, spiega. «La mia vita non prescinde dal mio lavoro e viceversa. Le mie immagini provengono dalla mia esperienza. C'è un film che divide il mio percorso in due: è Il diavolo in corpo, di vent´anni fa. È stato una rivoluzione per me. Quella novità si è sviluppata poi attraverso altre ricerche e altri esperimenti e da lì, è vero, il mio lavoro è diventato più "accessibile". Ma non ho mai smesso di essere un ribelle. Neanche con L'ora di religione: ribellione alla cultura assoggettata all'autorità della Chiesa. I giovani (si dice: se non si è ribelli a vent'anni... Poi purtroppo molti se lo dimenticano) amano il mio atteggiamento nei confronti del potere culturale istituzionale. Nessun mio film è venuto meno a questo principio, ma negli ultimi forse la mia maturità ha trovato una comunicabilità più diretta».
Ed eccoci al punto, per chi si sentisse ancora autorizzato a pensare che la felicità dell'ultima stagione nasce dal distacco dalla tutela (direbbero i detrattori) fagioliana. «Non c'è stata una rottura da parte mia dopo il periodo di "collaborazione fagioliana" compiuto con Il sogno della farfalla: c'è continuità, pur nella separazione artistica da Fagioli, per quel che riguarda le mie convinzioni su quella ricerca che non solo non rinnego ma seguo ancora e condivido».
Ma il punto non è quello di ipotizzare una rinuncia, da parte dell'ultimo Bellocchio più comunicativo e più sereno, alla vocazione di ribelle per sempre. Il punto è confrontare la percezione che si ha della sua storia da fuori con quella che lui ha di se stesso. E lui spiega: «Nella tradizione artistica spesso ci sono inizi folgoranti e poi un declino lento ma inesorabile. È come se nei quarant'anni successivi a I pugni in tasca, che fu un film di ribellione nichilista, io mi sia ribellato al successo di quella ribellione e all'identità che mi aveva dato. Certamente molti ancora mi definiscono "l'autore dei Pugni in tasca". Non ne disconosco la paternità, ma non mi è bastato. Tutto il mio lavoro successivo ha sempre evitato la ripetizione di quell'esperienza. E Il diavolo in corpo è stata una nuova ribellione, un nuovo rischio che per qualcuno è stato un suicidio, ma con il tempo si è rivelato una vittoria. Poi, dopo altri film più aristocratici come La visione del Sabba, La condanna e Il sogno della farfalla, sono arrivati film più "popolari" ma quella "rinascita", rappresentata appunto da Il diavolo in corpo, non l´ho mai annullata».
È piuttosto evidente che Marco Bellocchio gradirebbe un riesame di quella parte del suo cinema che è piaciuta di meno. «Ho chiesto al curatore della retrospettiva di Pesaro, Adriano Aprà, di inserire nel volume pubblicato per l'occasione un saggio dello psichiatra Gabriele Cavaggioni che affronta per la prima volta il rapporto tra il mio lavoro di regista e la mia vita, la mia esperienza nell'analisi collettiva, la mia adesione alla teoria fagioliana. Quel periodo viene spesso "saltato". Ho cominciato l'analisi collettiva nel ‘77, poi ci sono state interruzioni ma il mio rapporto sia pur conflittuale, dialettico o difficile, ha lasciato il segno. Ora in una riflessione sul mio lavoro è indubbio che questa mia scelta debba essere considerata: il mio rapporto con la psichiatria e con la psicanalisi».
A partire dal trentennale del suo storico documentario "basagliano" Matti da slegare, il festival Anteprima di Bellaria ha da poco celebrato il tema "cinema e psichiatria". Gli sarà capitato spesso, a Bellocchio, di essere coinvolto in convegni psichiatrici o psicanalitici ma c'è da scommettere che non è questo il tipo di attenzione da lui richiesta. «L'ora di religione è stato discusso in un convegno freudiano. Suppongo sia stato interpretato in un modo che non condivido, ma è importante che le idee e le immagini circolino. Io ho capito da molto tempo che la mia identità è quella di regista cinematografico. Mi interesso e mi appassiono alle idee di sanità e di malattia mentale, non credo al male né al bene, sono radicalmente ateo, ma questo riguarda essenzialmente la mia sfera privata».
Ecco un utilissimo snodo che Bellocchio offre prima che una domanda lo solleciti. È immaginabile che sia stato, per uno spirito come il suo, motivo di interesse la vicenda del Papa, la partecipazione di massa, la richiesta di "santità subito". Non si fa pregare: «Il giorno dei funerali mi ha colpito che su tutti i canali televisivi ci fosse la stessa cosa. Nessuna attenzione verso chi, pur avendo grande rispetto per il Papa, volesse veder riconosciuta la libertà di guardare un altro programma. E poi il referendum (io ho votato quattro sì): formalmente la Chiesa non infrange la legge suggerendo di astenersi, ma nella sostanza è un comando. Un soprassalto di autonomia degli italiani sarebbe stato una grande manifestazione di libertà».
Già che ci siamo, un salto indietro: L'ora di religione è stato inteso come una ricerca di moralità o spiritualità "autentiche" in reazione al conformismo e all'opportunismo. La cosa non lo lusinga e Bellocchio non fa sconti: «È quanto ci hanno trovato molti cattolici. I quali cercano la conversione del non credente: anche soltanto nelle domande che il non credente si pone, nel rifiuto dell'ipocrisia della Chiesa cattolica. Ma io, da quando adolescente ho perso la fede, credo soltanto a questo mondo, alla mia vita breve che cerco di vivere nel migliore dei modi. C'è spesso purtroppo nell'ateo una "confusione" religiosa nel momento in cui usa dei concetti propri della cultura religiosa: bene e male. Ma a proposito degli orrori che accadono nel mondo io preferisco parlare di malattia mentale. Concetto che anche dalla cultura laica non è accettato, secondo l'idea che siamo un po' tutti matti».
Torniamo allo "spettacolo" dell'adesione giovanile di massa all'addio al Papa. Tra i risultati della cultura ribelle di cui Bellocchio è stato portabandiera ci fu l'allontanamento dei giovani dalla Chiesa e dalla religione. Poi che è successo? «Essendo venute a mancare risposte dall'utopia, dal progetto di un mondo sotto l'insegna di principi marxisti, che ha influenzato intere generazioni me compreso, la Chiesa cattolica e la religione sono tornate ad essere l'unico riferimento cui rivolgere entusiasmi ed energie. La politica non risponde più, la sinistra è timida. La Chiesa non solo propone la salvezza nell'aldilà ma anche l'assistere, il prendersi cura, opere di carità non solo benemerite ma necessarie. Senza però mettere in discussione le istituzioni, i principi. Una possibile risposta radicalmente laica trova la sinistra del tutto indifferente».
Vediamo, prendendola da un altro versante, se si riesce ad avere ulteriore prova della sua fedeltà a se stesso. Domanda: riconosce il peso dell'autobiografia nel suo percorso artistico? «Sì, purché non la si voglia relegare all'adolescenza. Le mie immagini sono la mia vita, tutta». Domanda: riconoscerà un particolare accanimento contro la famiglia? «Senz'altro, ma visto lungo tutto l'arco del mio cinema e della mia vita». Domanda: mai pensato che reiterare il motivo della necessità di "uccidere" i genitori le si potesse ritorcere contro, da genitore a sua volta? «Sono contrario all'assassinio del padre e della madre non per paura che i miei figli mi possano ammazzare. No, è pura follia, che non porta a nessuna liberazione». Domanda: c'entra la consapevolezza adulta di non essere migliori di chi ci ha preceduti? «Questo sarebbe un pensiero di rassegnazione: quando si hanno vent'anni si è rivoluzionari, quando si è maturi si ammette che i genitori non avevano tutti i torti. Ho dedicato Buongiorno notte a mio padre, ma continuo a considerarmi diverso da lui. Lui era un conservatore che ha accettato i valori della società in cui viveva, io li ho rifiutati».
Chissà quanto di tutto questo c'è ancora in Il regista di matrimoni? «L'attore, che è lo stesso, potrebbe far pensare a una continuazione de L'ora di religione», dice. «Qui è un regista che a un certo punto abbandona una situazione cui non crede più (sta girando un film dai Promessi sposi). Capita in Sicilia dove incontra uno che fa i filmini dei matrimoni, capisce che non gliene frega più niente del suo lavoro e che la sua avventura umana viene prima dell'essere regista. Capisce che deve impedire un matrimonio ("questo matrimonio non s´ha da fare") e il "suicidio" di una ragazza che», sottolinea perché non si pensi a un sordo anticlericalismo, «avverrebbe tanto se il matrimonio venisse celebrato in chiesa quanto in municipio». Per ora è tutto. In attesa di vedere e potergli chiedere se quel regista alle prese con più urgenti priorità è lui.
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Corriere Adriatico 29.6.05
Franca Mancini ospita la presentazione
“Bellocchio” in Galleria
PESARO - Venerdì dalle ore 19 alle 20.30 Franca Mancini, presidente dell'Associazione Culturale " Il Teatro degli Artisti ", con il Circolo della Stampa e la sezione Marche dell'Associazione Imprenditrici e Donne Dirigenti d'Azienda, invitano alla presentazione dei volumi
Marco Bellocchio, il cinema e i film
e Bellocchiana
e Bellocchiana
tenuta da Adriano Aprà, direttore artistico dell'evento, alla presenza di Marco Bellocchio, di Giovanni Spagnoletti Direttore artistico Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, Bruno Torre presidente Comitato scientifico Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro e Stefano Caselli curatore della mostra.
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Albert Speer, una «totale mancanza di emozioni»
La Stampa 30 Giugno 2005
La colpa tedesca nei misteri di Albert Speer
Alessandro Melazzini
«Chi è Speer?». Solo questo premeva sapere al sergente britannico giunto ad arrestare il favorito di Hitler nel castello in cui si era nascosto insieme ad altri fuggitivi, poco dopo la morte del Führer. È la stessa domanda con cui da anni lo storico tedesco Joachim Fest si arrovella studiando il carattere «dai tratti schizoidi» di Albert Speer (1905 - 1981): ammirato architetto e potentissimo ministro di Hitler, allo stesso tempo intimo del Führer e critico sprezzante verso i rozzi e avidi predatori che brulicavano intorno al dittatore. Dopo l'eccellente biografia dedicatagli qualche anno fa, Joachim Fest torna ora ad occuparsi di lui nel nuovo volume Le domande a cui non è possibile rispondere (Rowohlt Verlag, Reinbek). Titolo enigmatico, ma che merita una riflessione nella sua esemplarietà. Il libro raccoglie tutti gli appunti dei colloqui tenuti per lunghi anni dallo stesso Fest, in qualità di consulente editoriale, con Albert Speer mentre questi, dopo 20 anni a Spandau, si dedicava a redigere le proprie memorie. In questo senso è un testo rivelatore.
Sin dal primo incontro del '67, avvenuto pochi mesi dopo la scarcerazione, Fest venne colpito dalla «totale mancanza di emozioni» del suo interlocutore. Speer appariva come un distinto signore dall'eloquio incerto e impacciato in grado tuttavia di parlare con «meccanica freddezza» del proprio terribile passato. Ovvero degli anni in cui uno dei peggiori criminali della storia, pieno d'entusiasmo per lui, l'aveva ricoperto di elogi e investito di enormi poteri. Fest constatò con sorpresa come Speer mancasse palesemente di senso critico nei confronti del dittatore, che lo aveva innalzato ai fasti del regime.
Tra i suoi compiti, vi era la totale riprogettazione di quella Berlino mai troppo amata dal Führer. Per mezzo del giovane architetto la capitale del Reich avrebbe dovuto trasformarsi radicalmente, sconvolta nella pianta e spogliata persino dell'antico nome, così da diventare Germania, la «metropoli universale». Uno degli edifici commissionatigli da Adolf Hitler, l'enorme sala dei congressi capace di contenere al suo interno 180.000 persone, avrebbe dovuto giganteggiare sulla Porta di Brandeburgo tanto da rendere il monumento simbolo della città sulla Sprea praticamente invisibile. Ma al confronto con una tale enormità anche l'imponente basilica di San Pietro a Roma sarebbe apparsa un edificio dai tratti «intimi» e modesti. Fu il momento in cui si chiese se per caso con i suoi progetti architettonici «non stesse esagerando». Durò poco e presto si rimise al lavoro per i «grandiosi piani» del protettore.
Negli anni di maggior confidenza con il Führer, Speer ebbe a disposizione mezzi pressochè illimitati, oltre a godere come nessun'altro della considerazione del capo, tanto da essere considerato quasi il suo «amore infelice». Il rapporto di ammirazione reciproca tra Hitler e Speer, secondo Fest non scevro da tratti vagamente omosessuali, fu di natura speciale ed esclusiva poiché i due si consideravano innanzi tutto dei grandi artisti: l'uno dedito all'architettura, l'altro alla politica. Entrambi svincolati da ogni norma di rispettabilità borghese ed esentati da qualsiasi imperativo morale in grado di limitare il loro presunto genio. Ma pur avendo vissuto a diretto contatto con Hitler - ecco il punto -, Speer ha sempre sostenuto di non sapere nulla dei crimini contro l'umanità compiuti dal regime nazista. Quello che è certo - secondo Fest - è che durante gli anni della gloria e potere egli condivise l'«assoluta mancanza di scrupoli» del Führer e mai neppure un momento pensò di opporsi agli «sgomberi» degli abitanti ebrei di Berlino necessari per realizzare il ciclopico progetto dello Stato nazionalsocialista.
La più esplicita risposta che l'enigmatico Speer mai diede alle incalzanti domande di Joachim Fest sulla propria responsabilità personale ai crimini hitleriani, fu una richiesta. Quella di smettere di porre domande a cui «non è possibile rispondere».
alessandro@skabadip.com
La colpa tedesca nei misteri di Albert Speer
Alessandro Melazzini
«Chi è Speer?». Solo questo premeva sapere al sergente britannico giunto ad arrestare il favorito di Hitler nel castello in cui si era nascosto insieme ad altri fuggitivi, poco dopo la morte del Führer. È la stessa domanda con cui da anni lo storico tedesco Joachim Fest si arrovella studiando il carattere «dai tratti schizoidi» di Albert Speer (1905 - 1981): ammirato architetto e potentissimo ministro di Hitler, allo stesso tempo intimo del Führer e critico sprezzante verso i rozzi e avidi predatori che brulicavano intorno al dittatore. Dopo l'eccellente biografia dedicatagli qualche anno fa, Joachim Fest torna ora ad occuparsi di lui nel nuovo volume Le domande a cui non è possibile rispondere (Rowohlt Verlag, Reinbek). Titolo enigmatico, ma che merita una riflessione nella sua esemplarietà. Il libro raccoglie tutti gli appunti dei colloqui tenuti per lunghi anni dallo stesso Fest, in qualità di consulente editoriale, con Albert Speer mentre questi, dopo 20 anni a Spandau, si dedicava a redigere le proprie memorie. In questo senso è un testo rivelatore.
Sin dal primo incontro del '67, avvenuto pochi mesi dopo la scarcerazione, Fest venne colpito dalla «totale mancanza di emozioni» del suo interlocutore. Speer appariva come un distinto signore dall'eloquio incerto e impacciato in grado tuttavia di parlare con «meccanica freddezza» del proprio terribile passato. Ovvero degli anni in cui uno dei peggiori criminali della storia, pieno d'entusiasmo per lui, l'aveva ricoperto di elogi e investito di enormi poteri. Fest constatò con sorpresa come Speer mancasse palesemente di senso critico nei confronti del dittatore, che lo aveva innalzato ai fasti del regime.
Tra i suoi compiti, vi era la totale riprogettazione di quella Berlino mai troppo amata dal Führer. Per mezzo del giovane architetto la capitale del Reich avrebbe dovuto trasformarsi radicalmente, sconvolta nella pianta e spogliata persino dell'antico nome, così da diventare Germania, la «metropoli universale». Uno degli edifici commissionatigli da Adolf Hitler, l'enorme sala dei congressi capace di contenere al suo interno 180.000 persone, avrebbe dovuto giganteggiare sulla Porta di Brandeburgo tanto da rendere il monumento simbolo della città sulla Sprea praticamente invisibile. Ma al confronto con una tale enormità anche l'imponente basilica di San Pietro a Roma sarebbe apparsa un edificio dai tratti «intimi» e modesti. Fu il momento in cui si chiese se per caso con i suoi progetti architettonici «non stesse esagerando». Durò poco e presto si rimise al lavoro per i «grandiosi piani» del protettore.
Negli anni di maggior confidenza con il Führer, Speer ebbe a disposizione mezzi pressochè illimitati, oltre a godere come nessun'altro della considerazione del capo, tanto da essere considerato quasi il suo «amore infelice». Il rapporto di ammirazione reciproca tra Hitler e Speer, secondo Fest non scevro da tratti vagamente omosessuali, fu di natura speciale ed esclusiva poiché i due si consideravano innanzi tutto dei grandi artisti: l'uno dedito all'architettura, l'altro alla politica. Entrambi svincolati da ogni norma di rispettabilità borghese ed esentati da qualsiasi imperativo morale in grado di limitare il loro presunto genio. Ma pur avendo vissuto a diretto contatto con Hitler - ecco il punto -, Speer ha sempre sostenuto di non sapere nulla dei crimini contro l'umanità compiuti dal regime nazista. Quello che è certo - secondo Fest - è che durante gli anni della gloria e potere egli condivise l'«assoluta mancanza di scrupoli» del Führer e mai neppure un momento pensò di opporsi agli «sgomberi» degli abitanti ebrei di Berlino necessari per realizzare il ciclopico progetto dello Stato nazionalsocialista.
La più esplicita risposta che l'enigmatico Speer mai diede alle incalzanti domande di Joachim Fest sulla propria responsabilità personale ai crimini hitleriani, fu una richiesta. Quella di smettere di porre domande a cui «non è possibile rispondere».
alessandro@skabadip.com
mercanzie cattoliche
il manifesto 30.6.05
CHIESA CATTOLICA
Il mercato on line delle anime
LORIS CAMPETTI
Il contenitore riproduce una classica scatola di medicinali, tipo compresse di antistaminico o pillole anticoncezionali. E' il nome che suscita curiosità: «Rosario in grani». Per capire qualcosa siamo andati a leggere le istruzioni sul classico bugiardino: «Santificante effervescente». Composizione: «Ogni rosario contiene 50 Ave Maria, 5 Pater Nostro, 5 Gloria al Padre, 1 Salve Regina» per un totale di 61 grani «in plastica fosforescente, corona di tipo classico con 5 decine e croce». «Il prodotto - spiega la lettera inviata a una libreria per sollecitarne l'acquisto - è composto da: una scatola "Rosario in grani"; un foglietto con le indicazioni terapeutiche (...); una corona del rosario tipo classico. Il prezzo per l'intero prodotto (...) è di soli 2,00 euro più spese di spedizione (particolari condizioni di vendita solo per quantità rilevanti». Segue il nome della ditta produttrice (Net Magazine, via Antonelli 4 Milano) con tanto di numero di telefono e indirizzo di posta elettronica che vi risparmiamo. Non è uno scherzo, è il mercato della fede, anzi della Fede, «un simpatico modo per proporre la recita del Rosario a tutti, ma in special modo ai bambini per farli crescere sempre più nell'amore a Maria, Madre di Gesù», commercializzato «come se fosse un medicinale da banco». Vi chiederete, gente di poca fede, quale sia il principio attivo del farmaco: ovviamente «la Grazia di Dio». Occhio alle «indicazioni terapeutiche: contro la tiepidezza spirituale, aiuta nel cammino verso la Santità, elimina pruriti al Sacro, scoraggia dalle tentazioni, toglie acidità e pesantezza di coscienza, libera le anime dal Purgatorio». Infine, «effetti indesiderati: «Se recitato bene e ogni giorno può provocare un cerchio alla testa (vedi illustrazione)». Nell'illustrazione c'è un bimbo con aria sognante e aureola intorno alla testa.
Dal mercato delle indulgenze al supermercato del Santificante effervescente on line. Il povero Martin Lutero si sarebbe divertito.
CHIESA CATTOLICA
Il mercato on line delle anime
LORIS CAMPETTI
Il contenitore riproduce una classica scatola di medicinali, tipo compresse di antistaminico o pillole anticoncezionali. E' il nome che suscita curiosità: «Rosario in grani». Per capire qualcosa siamo andati a leggere le istruzioni sul classico bugiardino: «Santificante effervescente». Composizione: «Ogni rosario contiene 50 Ave Maria, 5 Pater Nostro, 5 Gloria al Padre, 1 Salve Regina» per un totale di 61 grani «in plastica fosforescente, corona di tipo classico con 5 decine e croce». «Il prodotto - spiega la lettera inviata a una libreria per sollecitarne l'acquisto - è composto da: una scatola "Rosario in grani"; un foglietto con le indicazioni terapeutiche (...); una corona del rosario tipo classico. Il prezzo per l'intero prodotto (...) è di soli 2,00 euro più spese di spedizione (particolari condizioni di vendita solo per quantità rilevanti». Segue il nome della ditta produttrice (Net Magazine, via Antonelli 4 Milano) con tanto di numero di telefono e indirizzo di posta elettronica che vi risparmiamo. Non è uno scherzo, è il mercato della fede, anzi della Fede, «un simpatico modo per proporre la recita del Rosario a tutti, ma in special modo ai bambini per farli crescere sempre più nell'amore a Maria, Madre di Gesù», commercializzato «come se fosse un medicinale da banco». Vi chiederete, gente di poca fede, quale sia il principio attivo del farmaco: ovviamente «la Grazia di Dio». Occhio alle «indicazioni terapeutiche: contro la tiepidezza spirituale, aiuta nel cammino verso la Santità, elimina pruriti al Sacro, scoraggia dalle tentazioni, toglie acidità e pesantezza di coscienza, libera le anime dal Purgatorio». Infine, «effetti indesiderati: «Se recitato bene e ogni giorno può provocare un cerchio alla testa (vedi illustrazione)». Nell'illustrazione c'è un bimbo con aria sognante e aureola intorno alla testa.
Dal mercato delle indulgenze al supermercato del Santificante effervescente on line. Il povero Martin Lutero si sarebbe divertito.
storia
Mussolini
Liberazione 30.6.05
L'antisemitismo del giovane Benito Mussolini
Francesco Germinario
Un saggio di Giorgio Fabre mette in luce le radici razziste del leader del fascismo, ben prima del suo arrivo al potere. Dal dibattito sulla razza di fine Ottocento alla pregiudiziale antiebraica di settori della stessa sinistra socialista
Come inquadrare la svolta antisemita del regime fascista, nel 1938, all'interno della biografia politica di Mussolini? E quest'ultimo divenne antisemita solo a partire da quel periodo, oppure atteggiamenti e istanze antisemite datavano nei suoi scritti e nelle dichiarazioni già da tempo?
Questi sono gli interrogativi cui cerca di rispondere il ponderoso e molto documentato saggio, Mussolini razzista. Dal socialismo al fascismo: la formazione di un antisemita, uscito in queste settimane per i tipi di Garzanti (pp. 508, euro 25,00). L'autore del saggio, giornalista al settimanale di destra Panorama, non è nuovo a studi sull'antisemitismo fascista.
Il libro di Giorgio Fabre analizza l'atteggiamento di Mussolini davanti alle teorie della razza e all'ebraismo dagli esordi sovversivi del giovane socialista romagnolo fino all'ascesa al potere nell'ottobre del 1922. Malgrado la ormai sterminata bibliografia su Mussolini, Fabre si muove su un terreno pressoché vergine. Del resto, il suo libro incrocia necessariamente alcuni temi e aspetti di quell'enorme dibattito sulla "razza" che caratterizzò la nostra cultura dall'ultimo ventennio dell'Ottocento fino alla prima guerra mondiale. Fu un dibattito che vide la partecipazione di medici, psichiatri, sociologi, criminologi, demografi, giuristi e che solo negli ultimi anni la nostra storiografia ha cominciato a ricostruire nelle sue voci più significative, cominciando a sfatare il mito strapaesano e criptocattolico per cui l'Italia è stata un paese immune dalle culture razziste.
Il giovane Mussolini studiato da Fabre è l'intellettuale del Novecento «che in Italia e non solo ha scritto (e pensato) più a lungo in termini di razza e razzismo» (p. 59). Almeno nei primi anni dieci sarebbe una forzatura parlare di un Mussolini antisemita; ma certamente dai suoi numerosi scritti traspare quella che Fabre definisce «un'ostilità sedimentata (...) anche se controllata» (p. 76) nei confronti degli ebrei. E' comunque necessario riconoscere che a determinare una spiccata sensibilità del giovane Mussolini nei confronti delle questioni della razza fu certamente una cultura personale in cui le suggestioni provenienti dai sociologi élitaristi (a cominciare da Pareto) si integravano con le istanze provenienti dalla frequentazione di opere di autori razzisti, fra i quali spiccavano Gobineau e quel Chamberlain teorico dell'arianesimo, che anche Hitler avrebbe poi inscritto nella galleria dei suoi maestri.
Del resto, anche in certa cultura socialista, i pregiudizi antiebraici erano tutt'altro che infrequenti, sol che si pensi all'opera di un Proudhon. Gli esordi di Mussolini sulla stampa socialista italiana avvengono qualche anno dopo che in Francia, sull'onda dell'Affaire Dreyfus, si era formata la destra del Novecento: una destra "rivoluzionaria", protestataria, esplicitamente antisemita e, a nostro avviso, anche attraversata da forti inclinazioni pretotalitarie, anticipatrice, insomma, di molte caratteristiche ideologiche e politiche dei successivi movimenti fascisti. Dopo alcune esitazioni iniziali, il movimento operaio francese, sotto la guida di Jaurés, si schierò a difesa delle istituzioni repubblicane minacciate dalle destra. Questa scelta di campo fece in modo che l'antisemitismo, fino ad allora molto presente in campo socialista, divenne invece una componente significativa del panorama ideologico delle destre. Anche in Italia, seppure a sinistra continuerà a persistere qualche stereotipo antiebraico, quale quello che identificava l'ebreo col capitalista, a partire dagli anni dieci l'antisemitismo divenne appannaggio della destra. I nazionalisti, ad esempio, faranno dell'antisemitismo esplicito con uno dei loro teorici, Francesco Coppola, e con un Paolo Orano, un transfuga del sindacalismo rivoluzionario approdato al "socialismo nazionale"; non a caso entrambi saranno esponenti del regime, e il secondo giocherà addirittura un ruolo di rilievo nelle campagne antisemite fasciste.
Quando possiamo parlare di un Mussolini esplicitamente antisemita? Sicuramente a partire dal 1917-18. Sono gli anni in cui in Europa comincia a diffondersi la teoria per cui la rivoluzione bolscevica era parte di un più generale complotto ordito dagli ebrei; che gli ebrei, considerate le origini ebraiche di numerosi dirigenti bolscevichi, da Trotsky a Zinov'ev, dopo avere preso il potere in Russia, stavano estendendo il complotto in Europa, suscitando rivoluzioni ad opera di altri ebrei, come la Luxemburg, Bela Kun ed altri. E' in questo periodo che nelle destre estreme europee è elaborata la categoria concettuale di "giudeobolscevismo", destinata a svolgere un ruolo fondamentale nell'ideologia nazista e nell'antisemitismo fascista.
Certamente, come ribadisce Fabre, il fascismo non aveva programmi antisemiti. E tuttavia, almeno due aspetti è necessario sottolineare in proposito. Il primo è che fin dai primi anni Venti il fascismo ebbe come interlocutori i movimenti antisemiti dell'estrema destra europea che, a cominciare proprio dal nazismo, guardavano sempre con molto interesse al movimento mussoliniano. Il secondo è che, quando nell'ottobre del 1922, il fascismo arrivò al potere, era pur sempre un movimento politico in cui le voci antisemite erano circoscritte ad alcuni settori, ma pur sempre presenti.
In Italia è in uso da anni un giornalismo di destra che pretende dalla carta stampata o da qualche pulpito televisivo, di spacciarsi per "revisionismo storico". In genere si tratta di giornalisti che ben difficilmente hanno frequentato una biblioteca e quasi sicuramente mai un archivio per scrivere i loro libri. Gli storici futuri avranno materia di studio, per questo atteggiamento che probabilmente un Gramsci derubricherebbe come paccottiglia utile per soddisfare il modesto appetito intellettuale del popolo delle scimmie. Al contrario dei suoi colleghi "revisionisti", Fabre ha consultato gli archivi e la consistente bibliografia sull'argomento. Inoltre, il suo è un libro che costringe a "rivedere" molti giudizi storiografici; né mancano giudizi critici nei confronti della storiografia italiana e internazionale, a cominciare da quella marxista, per finire a De Felice e Mosse. Ebbene, i colleghi di Fabre che chiacchierano di "revisionismo storico" o "revisionismo liberale" sono invitati ad andare a scuola da Fabre per apprendere i primi rudimenti del mestiere di storico.
L'antisemitismo del giovane Benito Mussolini
Francesco Germinario
Un saggio di Giorgio Fabre mette in luce le radici razziste del leader del fascismo, ben prima del suo arrivo al potere. Dal dibattito sulla razza di fine Ottocento alla pregiudiziale antiebraica di settori della stessa sinistra socialista
Come inquadrare la svolta antisemita del regime fascista, nel 1938, all'interno della biografia politica di Mussolini? E quest'ultimo divenne antisemita solo a partire da quel periodo, oppure atteggiamenti e istanze antisemite datavano nei suoi scritti e nelle dichiarazioni già da tempo?
Questi sono gli interrogativi cui cerca di rispondere il ponderoso e molto documentato saggio, Mussolini razzista. Dal socialismo al fascismo: la formazione di un antisemita, uscito in queste settimane per i tipi di Garzanti (pp. 508, euro 25,00). L'autore del saggio, giornalista al settimanale di destra Panorama, non è nuovo a studi sull'antisemitismo fascista.
Il libro di Giorgio Fabre analizza l'atteggiamento di Mussolini davanti alle teorie della razza e all'ebraismo dagli esordi sovversivi del giovane socialista romagnolo fino all'ascesa al potere nell'ottobre del 1922. Malgrado la ormai sterminata bibliografia su Mussolini, Fabre si muove su un terreno pressoché vergine. Del resto, il suo libro incrocia necessariamente alcuni temi e aspetti di quell'enorme dibattito sulla "razza" che caratterizzò la nostra cultura dall'ultimo ventennio dell'Ottocento fino alla prima guerra mondiale. Fu un dibattito che vide la partecipazione di medici, psichiatri, sociologi, criminologi, demografi, giuristi e che solo negli ultimi anni la nostra storiografia ha cominciato a ricostruire nelle sue voci più significative, cominciando a sfatare il mito strapaesano e criptocattolico per cui l'Italia è stata un paese immune dalle culture razziste.
Il giovane Mussolini studiato da Fabre è l'intellettuale del Novecento «che in Italia e non solo ha scritto (e pensato) più a lungo in termini di razza e razzismo» (p. 59). Almeno nei primi anni dieci sarebbe una forzatura parlare di un Mussolini antisemita; ma certamente dai suoi numerosi scritti traspare quella che Fabre definisce «un'ostilità sedimentata (...) anche se controllata» (p. 76) nei confronti degli ebrei. E' comunque necessario riconoscere che a determinare una spiccata sensibilità del giovane Mussolini nei confronti delle questioni della razza fu certamente una cultura personale in cui le suggestioni provenienti dai sociologi élitaristi (a cominciare da Pareto) si integravano con le istanze provenienti dalla frequentazione di opere di autori razzisti, fra i quali spiccavano Gobineau e quel Chamberlain teorico dell'arianesimo, che anche Hitler avrebbe poi inscritto nella galleria dei suoi maestri.
Del resto, anche in certa cultura socialista, i pregiudizi antiebraici erano tutt'altro che infrequenti, sol che si pensi all'opera di un Proudhon. Gli esordi di Mussolini sulla stampa socialista italiana avvengono qualche anno dopo che in Francia, sull'onda dell'Affaire Dreyfus, si era formata la destra del Novecento: una destra "rivoluzionaria", protestataria, esplicitamente antisemita e, a nostro avviso, anche attraversata da forti inclinazioni pretotalitarie, anticipatrice, insomma, di molte caratteristiche ideologiche e politiche dei successivi movimenti fascisti. Dopo alcune esitazioni iniziali, il movimento operaio francese, sotto la guida di Jaurés, si schierò a difesa delle istituzioni repubblicane minacciate dalle destra. Questa scelta di campo fece in modo che l'antisemitismo, fino ad allora molto presente in campo socialista, divenne invece una componente significativa del panorama ideologico delle destre. Anche in Italia, seppure a sinistra continuerà a persistere qualche stereotipo antiebraico, quale quello che identificava l'ebreo col capitalista, a partire dagli anni dieci l'antisemitismo divenne appannaggio della destra. I nazionalisti, ad esempio, faranno dell'antisemitismo esplicito con uno dei loro teorici, Francesco Coppola, e con un Paolo Orano, un transfuga del sindacalismo rivoluzionario approdato al "socialismo nazionale"; non a caso entrambi saranno esponenti del regime, e il secondo giocherà addirittura un ruolo di rilievo nelle campagne antisemite fasciste.
Quando possiamo parlare di un Mussolini esplicitamente antisemita? Sicuramente a partire dal 1917-18. Sono gli anni in cui in Europa comincia a diffondersi la teoria per cui la rivoluzione bolscevica era parte di un più generale complotto ordito dagli ebrei; che gli ebrei, considerate le origini ebraiche di numerosi dirigenti bolscevichi, da Trotsky a Zinov'ev, dopo avere preso il potere in Russia, stavano estendendo il complotto in Europa, suscitando rivoluzioni ad opera di altri ebrei, come la Luxemburg, Bela Kun ed altri. E' in questo periodo che nelle destre estreme europee è elaborata la categoria concettuale di "giudeobolscevismo", destinata a svolgere un ruolo fondamentale nell'ideologia nazista e nell'antisemitismo fascista.
Certamente, come ribadisce Fabre, il fascismo non aveva programmi antisemiti. E tuttavia, almeno due aspetti è necessario sottolineare in proposito. Il primo è che fin dai primi anni Venti il fascismo ebbe come interlocutori i movimenti antisemiti dell'estrema destra europea che, a cominciare proprio dal nazismo, guardavano sempre con molto interesse al movimento mussoliniano. Il secondo è che, quando nell'ottobre del 1922, il fascismo arrivò al potere, era pur sempre un movimento politico in cui le voci antisemite erano circoscritte ad alcuni settori, ma pur sempre presenti.
In Italia è in uso da anni un giornalismo di destra che pretende dalla carta stampata o da qualche pulpito televisivo, di spacciarsi per "revisionismo storico". In genere si tratta di giornalisti che ben difficilmente hanno frequentato una biblioteca e quasi sicuramente mai un archivio per scrivere i loro libri. Gli storici futuri avranno materia di studio, per questo atteggiamento che probabilmente un Gramsci derubricherebbe come paccottiglia utile per soddisfare il modesto appetito intellettuale del popolo delle scimmie. Al contrario dei suoi colleghi "revisionisti", Fabre ha consultato gli archivi e la consistente bibliografia sull'argomento. Inoltre, il suo è un libro che costringe a "rivedere" molti giudizi storiografici; né mancano giudizi critici nei confronti della storiografia italiana e internazionale, a cominciare da quella marxista, per finire a De Felice e Mosse. Ebbene, i colleghi di Fabre che chiacchierano di "revisionismo storico" o "revisionismo liberale" sono invitati ad andare a scuola da Fabre per apprendere i primi rudimenti del mestiere di storico.
Ernst Bloch
Il Messaggero Giovedì 30 Giugno 2005
Bloch, ancora sperare nonostante tutto
di SERGIO GIVONE
TORNA in libreria Il principio speranza di Ernst Bloch, uno dei testi filosofici più importanti del Novecento. Scritto nel decennio a cavallo dell’ultima guerra mondiale, fu pubblicato nel 1959 e apparve in italiano nel 1994 (trad. di E. De Angelis e di T. Cavallo e introd. di R. Bodei). Opportunamente l’editore Garzanti (2.600 pagine, 39,50 euro) ristampa ora quella traduzione.
Opera sterminata e vertiginosa, Il principio speranza mescola stili, generi, contenuti. Con impareggiabile virtuosismo saggistico, Bloch passa dalla filosofia dura e pura ad analisi minutissime di ordine sociologico e psicologico senza mai perdere di vista l’assunto di base e cioè l’idea che la realtà sia in movimento verso una dimensione utopica. Tutto diventa oggetto di riflessione: le tesi classiche della filosofia della storia, in particolare quelle hegeliane e marxiane, e i grandi processi in corso, giù giù fino alle trasformazioni che incidono sulla vita quotidiana e che trovano espressione nel cinema, nella letteratura, nella produzione delle merci di consumo.
«Lo sperare - scrive Bloch - superiore all’aver paura, non è né passivo come questo sentimento né, anzi meno che mai, bloccato nel nulla». Il principio speranza non è bloccato nel nulla poiché tende a qualcosa che trova conferma perfino là dove è smentito: per quanto profonde siano le delusioni patite, per quanto ripetitivi siano i fallimenti che di generazione in generazione accompagnano i progetti e i sogni degli uomini, è lo stesso scacco, col suo carico di sofferenza e di angoscia, a dimostrare che l’ultima parola non può essere il non senso.
Ma come dire questa parola in grado di sottrarsi alla logica della ripetizione del sempre uguale? A tal proposito Bloch mette in guardia la filosofia dal pensiero “anamnestico”, ossia dal pensiero che è tutt’uno con la presa d’atto dell’ordine delle cose, per identificarla invece col pensiero utopico, e quindi con la conoscenza di ciò che non è ancora mai stato ma che un giorno potrebbe essere.
Bloch, ancora sperare nonostante tutto
di SERGIO GIVONE
TORNA in libreria Il principio speranza di Ernst Bloch, uno dei testi filosofici più importanti del Novecento. Scritto nel decennio a cavallo dell’ultima guerra mondiale, fu pubblicato nel 1959 e apparve in italiano nel 1994 (trad. di E. De Angelis e di T. Cavallo e introd. di R. Bodei). Opportunamente l’editore Garzanti (2.600 pagine, 39,50 euro) ristampa ora quella traduzione.
Opera sterminata e vertiginosa, Il principio speranza mescola stili, generi, contenuti. Con impareggiabile virtuosismo saggistico, Bloch passa dalla filosofia dura e pura ad analisi minutissime di ordine sociologico e psicologico senza mai perdere di vista l’assunto di base e cioè l’idea che la realtà sia in movimento verso una dimensione utopica. Tutto diventa oggetto di riflessione: le tesi classiche della filosofia della storia, in particolare quelle hegeliane e marxiane, e i grandi processi in corso, giù giù fino alle trasformazioni che incidono sulla vita quotidiana e che trovano espressione nel cinema, nella letteratura, nella produzione delle merci di consumo.
«Lo sperare - scrive Bloch - superiore all’aver paura, non è né passivo come questo sentimento né, anzi meno che mai, bloccato nel nulla». Il principio speranza non è bloccato nel nulla poiché tende a qualcosa che trova conferma perfino là dove è smentito: per quanto profonde siano le delusioni patite, per quanto ripetitivi siano i fallimenti che di generazione in generazione accompagnano i progetti e i sogni degli uomini, è lo stesso scacco, col suo carico di sofferenza e di angoscia, a dimostrare che l’ultima parola non può essere il non senso.
Ma come dire questa parola in grado di sottrarsi alla logica della ripetizione del sempre uguale? A tal proposito Bloch mette in guardia la filosofia dal pensiero “anamnestico”, ossia dal pensiero che è tutt’uno con la presa d’atto dell’ordine delle cose, per identificarla invece col pensiero utopico, e quindi con la conoscenza di ciò che non è ancora mai stato ma che un giorno potrebbe essere.
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