una segnalazione di Paola Sinibaldi e Dina Battioni
Repubblica Cronaca di Roma giovedì 24.3.05
LA CERIMONIA
L'inaugurazione del nuovo anno accademico
A 702 anni la Sapienza inizia a parlare cinese
Il preside Masini: "Sono circa 400 i laureandi nelle discipline orientali"
BEATRICE RUTILONI
La Sapienza compie 702 anni e comincia a parlare il cinese. L´apertura al mercato asiatico precede di un paio d´anni le aspettative sul futuro dell´ateneo più grande d´Europa enunciate dal rettore Renato Guarini, alla cerimonia di inaugurazione dell´anno accademico che dichiara: «Particolare attenzione verrà data ai programmi di cooperazione e scambio con le università asiatiche».
Cna e il Giappone sembrano già essere le protagoniste dell´avventura internazionale della Sapienza: «cinese e giapponese sono le lingue più studiate dai nostri studenti dopo l´inglese e lo spagnolo - spiega il preside della facoltà di studi orientali, unica in Italia, Federico Masini - sono circa 400 i laureandi in queste discipline, in tutto duemila gli iscritti alla facoltà e 90 gli studenti che si trovano in questo momento nelle università di Pechino, Tokyo e Seul».
Una Sapienza nuova quella presentata ieri nell´Aula Magna della città universitaria, con una cerimonia antica e moderna, dove per primo ha parlato uno studente, anzi una matricola: «Ho scelto la Sapienza perché c´è la qualità dei suoi docenti, che continuano a richiamare matricole da ogni luogo», ha detto Vittorio Bachelet, nipote del docente di Scienze Politiche che fu ucciso dalle Brigate Rosse nell´atrio della sua facoltà.
Alla cerimonia erano presenti anche il sindaco Veltroni: «Spero di ottenere al più presto la ex Zecca, all´Esquilino - ha annunciato - per poterne fare la sede di Scienze della Comunicazione», il presidente della Crui, Piero Tosi, i rettori degli altri due atenei, Finazzi Agrò e Fabiani e il professor Sabino Cassese che ha concluso con una lezione magistrale sulla «Universalità del diritto».
Corriere della Sera cronaca di Roma, 24.3.05
LA SAPIENZA APRE LE PORTE ALLA CINA
Il rettore all'inaugurazione dell'anno accademico: scambi culturali, borse di studio e il Centro Confucio
Alessandro Capponi
Il rettore dedica all'argomento solo un passaggio: "Particolare attenzione verrà data ai programmi di cooperazione e interscambio scentifico, didattico e culturale con le istituzioni universitarie cinesi". E' l'inaugurazione dell'anno accademico della Sapienza, e nell'intervento del Magnifico, Renato Guarini, evidentemente non c'è tempo per entrare nel dettaglio. Dopo, sì. E' così che si scopre che "la nuova frontiera", per usare le parole del preside di Studi Orientali, Federico Masini, è proprio quella, la Cina. Non c'è un embargo in mezzo, e non ci sono missioni di Condoleezza Rice: è deciso, quello tra Sapienza e Cina è un ponte che già esiste e che sarà rinforzato. Dal prossimo anno, ecco borse di studio e un centro studi romano con finanziamenti cinesi. Ma non è che l'inizio.
"Il prossimo anno - spiega Masini - si costituirà questo centro Confucio per la diffusione della lingua e della cultura cinesi. Noi metteremo le strutture, loro i finanziamenti". Non è che uno degli "interscambi", come dice Guarini. Prima di altro futuro, però, ecco un po' di presente: "Alla Sapienza, dopo l'inglese e lo spagnolo, c'è il cinese. E' la terza lingua studiata - sostiene, con un tono soddisfatto, Masini - abbiamo 150 matricole ogni anno, un boom inatteso. Si può dire che gli studenti abbiano capito, prima di molti altri, da quale parte va il mondo...". E' così che nel giorno della tradizione, delle stole d'ermellino, si scopre che parte del futuro della Sapienza, va in una direzione esatta: "Nel fondo straordinario dato alla nostra università per i 700 anni - annuncia Masini - abbiamo 135mila euro per borse di studio a studenti cinesi. Si tratta di una cifra già in bilancio, che sarà trasformata in ospitalità per studenti asiatici dal prossimo anno". L'obiettivo di fondo è "intercettare gli studenti cinesi in quei settori per i quali la Sapienza può offrire una formazione d'avanguardia". Eccoli, tra gli altri, i settori: Architettura, Ingegneria, Medicina: facoltà che, guarda caso, hanno già avviato corsi e master destinati proprio a quel Paese. Dalla Cina, come detto, arriveranno studenti meritevoli premiati con borse di studio. "Il problema su operazioni di questo tipo ma in grandi numeri, è l'accoglienza", dice Masini. Ed è talmente evidente che lo stesso Guarini, del discorso, punta l'indice proprio su quest'aspetto, gli alloggi, anche per gli studenti italiani. Guarini: tra i prossimi progetti dell'ateneo, "Tele-Sapienza" e una radio. Ovviamente, la preoccupazione principale è per i finanziamenti: "Consentono a malapena la sopravvivenza". Al suo fianco, Vittorio Bachelet, matricola a Giurisprudenza, che porta il nome del nonno, docente ucciso dalle Brigate Rosse.
Il ragazzo, che alla vigilia ha chiesto il permesso di non usare la cravatta, ha usato toni pacati e concetti forti: "Finché non avremo un fisco serio, ogni aumento delle tasse universitari8e si risolverà in un'ulteriore riduzione del diritto all'accesso all'università dei capaci e meritevoli". Alcune segretarie, l'hanno ascoltato impassibili. Senza conoscere, per loro stessa ammissione, la vita di suo nonno, né la sua morte.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
giovedì 24 marzo 2005
VITTORIO FOA
su Pietro Ingrao, il comunismo, Fassino e Bush
La Stampa 24 Marzo 2005
intervista
Foa: «No, Fassino»
Riccardo Barenghi
L’altro pezzo si chiama Pietro Ingrao, nato in un paesino a qualche chilometro nell’entroterra, Lenola, che attraversiamo in macchina per giungere appunto a Formia. Su un grande muro di contenimento della strada che scende, vent’anni fa qualcuno scrisse a lettere colorate e cubitali «Ingrao meravigliao», poi corretto in «Ingrao rimeravigliao» quando lo storico leader della sinistra comunista decise di uscire dal Pds. Tra una settimana, il 31 marzo, Ingrao compie novant’anni, una sorta di fratello minore per Foa. O forse, politicamente parlando, un cugino. E i figli e nipoti di questi due grandi vecchi sono coloro che oggi dirigono la sinistra italiana, i Ds, Rifondazione, gli altri. Anche di loro parleremo con Foa, e non tanto bene. A lui, per esempio, l’intervista alla «Stampa» di Piero Fassino non è piaciuta: «Non sono per nulla d’accordo con Fassino. Capisco la sua intenzione positiva, ma io a Bush non concedo alcuna apertura di credito. Il Presidente americano si muove su un presupposto molto semplice: io ho ragione e basta, faccio quel che mi pare e il mondo deve seguirmi. Per me non è accettabile»,
Cominciamo proprio dagli errori. Qualche giorno fa, intervistato da Aldo Cazzullo sul «Corriere della sera», Ingrao ha riparlato dei suoi due grandi errori politici, essersi schierato contro la rivolta ungherese del ‘56 («Da una parte della barricata» si intitolava il suo famoso editoriale sull’«Unità» di cui era direttore) e non essersi opposto alla radiazione del gruppo del «manifesto» dal Pci nel ‘69, gruppo che poi erano i suoi «ragazzi».
«Intanto voglio fare tanti auguri molto caldi al caro Pietro, che è una grande figura di comunista. Anzi, sono parecchi i suoi comunismi e io me li ricordo tutti. Uno è appunto la capacità di riconoscere gli errori, e mi è molto piaciuto il suo generoso ricordo di questi errori. Ma quando penso a questa aperta confessione di errori commessi, non ci vedo tanto una disposizione a cambiare idea bensì la conferma di una linea».
Una linea che però lo stesso Ingrao giudica sbagliata da anni ormai.
«Non voglio dire la conferma di quella linea o quell’altra ma la conferma della fedeltà a un’idea. Un’idea che quando Ingrao si avvicina al Partito comunista è totalmente compresa del fascino della Rivoluzione, quella dell’Ottobre del 17 in Russia che ha rappresentato una sorta di prova collettiva della fattibilità del cambiamento. A chi, come me, diceva che per cambiare bisogna lasciar passare il tempo e lo spazio, far maturare le cose, si contrapponeva appunto la Rivoluzione. Che, all’opposto, significava che molte persone si mettono insieme per dimostrare che il futuro è fattibile. Ma la Rivoluzione ha fallito».
Era sbagliata non solo nella pratica ma anche come concetto?
«Un momento, anche se il cambiamento non c’è stato questo non vuol dire che sia sbagliata l’idea che la società possa cambiare per effetto della volontà umana. Per me è difficile pensare a rivoluzioni riuscite (tranne forse quella di San Paolo che si è mangiato l’Impero romano), ma il valore della Rivoluzione rimane intatto anche attraverso i suoi fallimenti».
E l’altro comunismo di Ingrao?
«Quello di Togliatti, che oggi si tende a dimenticare ma che fu decisivo per la nostra storia. Il comunismo di Togliatti è stato insieme un atto di fedeltà ai principi internazionali, all’Urss insomma, e un’efficace lotta di presenza nella democrazia italiana. Poi il comunismo si è avviato al declino e infine alla scomparsa. Tranne quello cinese, che non ha nulla di comunista se non la sua parte peggiore: la fermezza, la rigidità dello Stato, del comando. Proprio quel che molti di noi hanno meno amato del comunismo».
Ma lei Foa, comunista non lo è mai stato?
«No, mai. Però con i comunisti ho lavorato insieme tutta la vita. Qualcuno ancora mi chiede perché l’ho fatto, se cioè fosse accettabile quel comunismo. La mia idea era e resta diversa da quella, penso però che si debba accettare quantomeno come ricordo e valore del passato. Ma di Ingrao resta in me qualcosa che non è solo politica, la chiamerei un’esperienza esemplare. Nel senso che si vuole affermare con le idee anche un modello di vita pratica. In lui invidio le sue qualità poetiche, una ricchezza che io non ho mai raggiunto e me ne dispiace. Ma anche oltre la poesia: in un mondo pieno di cose che non piacciono, il mondo di Pietro è un mondo pulito. Al quale magari non si partecipa ma che si ama e si rispetta».
Ma è possibile che le vostre storie non sia siano mai incrociate?
«Diciamo che abbiamo perseguito per vie diverse lo stesso obiettivo, quello di un socialismo che non fosse autoritario. E poi c’è un metodo che ci accomuna, la ricerca. Nella mia esperienza con “il manifesto”, il ricordo più bello è appunto quello di un periodo di ricerca e non solo di conferma delle proprie idee. E nel mondo della ricerca, Ingrao trova tutto il suo posto».
Una ricerca che avrebbe potuto cambiare radicalmente il Partito comunista italiano?
«Ho qualche dubbio. Il Pci è stato una forza della democrazia e di stabilizzazione del sistema politico. Era difficile che dentro di esso potessero verificarsi rotture tali da creare qualcosa di veramente nuovo».
Gli eredi di quella storia però di rotture ne hanno compiute parecchie.
«Non vorrei fare polemiche con gli eredi, ma siamo poi così diversi da allora? Intendo nel modo di vedere le cose e di gestirle. Sotto questo aspetto, una grande differenza tra i Ds e il Pci non c’è. Prevalgono sempre gli elementi di stabilizzazione. Si guarda al futuro pensando al presente e guardando il passato, come una mera ripetizione di cose già vissute. Nei dirigenti della nostra sinistra, ai quali riconosco la capacità di scelte coraggiose, manca tuttavia l’idea che il futuro è un’altra cosa, che va guardato con altri occhiali, con una testa nuova. Oggi, per esempio, e ancor più domani, il rapporto non è più tra l’uomo e la natura ma tra l’uomo e l’uomo. Noi non combattiamo più per dominare la natura ma per dominare noi stessi, sappiamo che dobbiamo salvare l’umanità ma contemporaneamente facciamo di tutto per distruggerla. Ogni tanto mi domando come sarà, e se sarà, una vita umana tra 200 anni. Non riesco a immaginarmela».
Le guerre di quest’epoca hanno qualcosa a che fare con tutto questo?
«Ovviamente sì. Gli americani, per esempio, non fanno la guerra contro gli altri perché gli altri sbagliano o sono un pericolo per il mondo, bensì perché si sentono minacciati. In pericolo sentono la loro Madre Patria. E la fanno, la guerra, con in testa la propria superiorità, pretendono di decidere loro i destini del mondo».
Non vede nessuna novità nel Bush rieletto?
«Nessuna, l’atteggiamento non è minimamente cambiato. E mi dispiace che la sinistra dimostri una certa debolezza, chiamiamola pure subalternità a tutto questo».
Ma Fassino, pur rimanendo contrario alla guerra, riconosce che Bush si sta battendo per la libertà e la democrazia dove non ci sono.
«Mi dispiace ma non sono d’accordo. Bush vuole solo avere ragione e pretende fedeltà, pretende che il mondo lo segua. Io a questa concezione non voglio concedere proprio nulla».
intervista
Foa: «No, Fassino»
Riccardo Barenghi
«Il presidente degli Stati Uniti si muove su un presupposto molto semplice: io ho ragione e basta, faccio quel che mi pare e il mondo deve seguirmiFORMIA. E’ un pezzo di storia del novecento, un pezzo lunghissimo, lungo un secolo. Da Giovanni Giolitti a Silvio Berlusconi, passando per il fascismo e le sue carceri, la resistenza, la liberazione, la democrazia, il Partito d’azione, quello socialista, la Cgil ovviamente, il Psiup, il Pdup e la sinistra cosiddetta extraparlamentare. Oggi Vittorio Foa vive quasi tutto l’anno nella sua casa di Formia, un ex frantoio nel centro storico di questa piccola città del basso Lazio, insieme alla moglie Sesa Tatò (che della sinistra italiana e del sindacato ne sa qualcosa anche lei). Tra qualche mese, a settembre, Foa compirà novantacinque anni, dunque se c’è qualcuno che può parlare con cognizione di causa di un altro lungo pezzo di storia della nostra sinistra, che ha camminato parallelamente alla sua, spesso incrociandosi a volte scontrandosi, è proprio lui.
Per me tutto ciò non è accettabile»
Nessuna apertura alla linea di Bush
«L’atteggiamento di chi vuole avere solo ragione non è minimamente cambiato nel secondo mandato. E mi dispiace che la sinistra dimostri una certa debolezza, chiamiamola pure subalternità a tutto questo»
L’altro pezzo si chiama Pietro Ingrao, nato in un paesino a qualche chilometro nell’entroterra, Lenola, che attraversiamo in macchina per giungere appunto a Formia. Su un grande muro di contenimento della strada che scende, vent’anni fa qualcuno scrisse a lettere colorate e cubitali «Ingrao meravigliao», poi corretto in «Ingrao rimeravigliao» quando lo storico leader della sinistra comunista decise di uscire dal Pds. Tra una settimana, il 31 marzo, Ingrao compie novant’anni, una sorta di fratello minore per Foa. O forse, politicamente parlando, un cugino. E i figli e nipoti di questi due grandi vecchi sono coloro che oggi dirigono la sinistra italiana, i Ds, Rifondazione, gli altri. Anche di loro parleremo con Foa, e non tanto bene. A lui, per esempio, l’intervista alla «Stampa» di Piero Fassino non è piaciuta: «Non sono per nulla d’accordo con Fassino. Capisco la sua intenzione positiva, ma io a Bush non concedo alcuna apertura di credito. Il Presidente americano si muove su un presupposto molto semplice: io ho ragione e basta, faccio quel che mi pare e il mondo deve seguirmi. Per me non è accettabile»,
Cominciamo proprio dagli errori. Qualche giorno fa, intervistato da Aldo Cazzullo sul «Corriere della sera», Ingrao ha riparlato dei suoi due grandi errori politici, essersi schierato contro la rivolta ungherese del ‘56 («Da una parte della barricata» si intitolava il suo famoso editoriale sull’«Unità» di cui era direttore) e non essersi opposto alla radiazione del gruppo del «manifesto» dal Pci nel ‘69, gruppo che poi erano i suoi «ragazzi».
«Intanto voglio fare tanti auguri molto caldi al caro Pietro, che è una grande figura di comunista. Anzi, sono parecchi i suoi comunismi e io me li ricordo tutti. Uno è appunto la capacità di riconoscere gli errori, e mi è molto piaciuto il suo generoso ricordo di questi errori. Ma quando penso a questa aperta confessione di errori commessi, non ci vedo tanto una disposizione a cambiare idea bensì la conferma di una linea».
Una linea che però lo stesso Ingrao giudica sbagliata da anni ormai.
«Non voglio dire la conferma di quella linea o quell’altra ma la conferma della fedeltà a un’idea. Un’idea che quando Ingrao si avvicina al Partito comunista è totalmente compresa del fascino della Rivoluzione, quella dell’Ottobre del 17 in Russia che ha rappresentato una sorta di prova collettiva della fattibilità del cambiamento. A chi, come me, diceva che per cambiare bisogna lasciar passare il tempo e lo spazio, far maturare le cose, si contrapponeva appunto la Rivoluzione. Che, all’opposto, significava che molte persone si mettono insieme per dimostrare che il futuro è fattibile. Ma la Rivoluzione ha fallito».
Era sbagliata non solo nella pratica ma anche come concetto?
«Un momento, anche se il cambiamento non c’è stato questo non vuol dire che sia sbagliata l’idea che la società possa cambiare per effetto della volontà umana. Per me è difficile pensare a rivoluzioni riuscite (tranne forse quella di San Paolo che si è mangiato l’Impero romano), ma il valore della Rivoluzione rimane intatto anche attraverso i suoi fallimenti».
E l’altro comunismo di Ingrao?
«Quello di Togliatti, che oggi si tende a dimenticare ma che fu decisivo per la nostra storia. Il comunismo di Togliatti è stato insieme un atto di fedeltà ai principi internazionali, all’Urss insomma, e un’efficace lotta di presenza nella democrazia italiana. Poi il comunismo si è avviato al declino e infine alla scomparsa. Tranne quello cinese, che non ha nulla di comunista se non la sua parte peggiore: la fermezza, la rigidità dello Stato, del comando. Proprio quel che molti di noi hanno meno amato del comunismo».
Ma lei Foa, comunista non lo è mai stato?
«No, mai. Però con i comunisti ho lavorato insieme tutta la vita. Qualcuno ancora mi chiede perché l’ho fatto, se cioè fosse accettabile quel comunismo. La mia idea era e resta diversa da quella, penso però che si debba accettare quantomeno come ricordo e valore del passato. Ma di Ingrao resta in me qualcosa che non è solo politica, la chiamerei un’esperienza esemplare. Nel senso che si vuole affermare con le idee anche un modello di vita pratica. In lui invidio le sue qualità poetiche, una ricchezza che io non ho mai raggiunto e me ne dispiace. Ma anche oltre la poesia: in un mondo pieno di cose che non piacciono, il mondo di Pietro è un mondo pulito. Al quale magari non si partecipa ma che si ama e si rispetta».
Ma è possibile che le vostre storie non sia siano mai incrociate?
«Diciamo che abbiamo perseguito per vie diverse lo stesso obiettivo, quello di un socialismo che non fosse autoritario. E poi c’è un metodo che ci accomuna, la ricerca. Nella mia esperienza con “il manifesto”, il ricordo più bello è appunto quello di un periodo di ricerca e non solo di conferma delle proprie idee. E nel mondo della ricerca, Ingrao trova tutto il suo posto».
Una ricerca che avrebbe potuto cambiare radicalmente il Partito comunista italiano?
«Ho qualche dubbio. Il Pci è stato una forza della democrazia e di stabilizzazione del sistema politico. Era difficile che dentro di esso potessero verificarsi rotture tali da creare qualcosa di veramente nuovo».
Gli eredi di quella storia però di rotture ne hanno compiute parecchie.
«Non vorrei fare polemiche con gli eredi, ma siamo poi così diversi da allora? Intendo nel modo di vedere le cose e di gestirle. Sotto questo aspetto, una grande differenza tra i Ds e il Pci non c’è. Prevalgono sempre gli elementi di stabilizzazione. Si guarda al futuro pensando al presente e guardando il passato, come una mera ripetizione di cose già vissute. Nei dirigenti della nostra sinistra, ai quali riconosco la capacità di scelte coraggiose, manca tuttavia l’idea che il futuro è un’altra cosa, che va guardato con altri occhiali, con una testa nuova. Oggi, per esempio, e ancor più domani, il rapporto non è più tra l’uomo e la natura ma tra l’uomo e l’uomo. Noi non combattiamo più per dominare la natura ma per dominare noi stessi, sappiamo che dobbiamo salvare l’umanità ma contemporaneamente facciamo di tutto per distruggerla. Ogni tanto mi domando come sarà, e se sarà, una vita umana tra 200 anni. Non riesco a immaginarmela».
Le guerre di quest’epoca hanno qualcosa a che fare con tutto questo?
«Ovviamente sì. Gli americani, per esempio, non fanno la guerra contro gli altri perché gli altri sbagliano o sono un pericolo per il mondo, bensì perché si sentono minacciati. In pericolo sentono la loro Madre Patria. E la fanno, la guerra, con in testa la propria superiorità, pretendono di decidere loro i destini del mondo».
Non vede nessuna novità nel Bush rieletto?
«Nessuna, l’atteggiamento non è minimamente cambiato. E mi dispiace che la sinistra dimostri una certa debolezza, chiamiamola pure subalternità a tutto questo».
Ma Fassino, pur rimanendo contrario alla guerra, riconosce che Bush si sta battendo per la libertà e la democrazia dove non ci sono.
«Mi dispiace ma non sono d’accordo. Bush vuole solo avere ragione e pretende fedeltà, pretende che il mondo lo segua. Io a questa concezione non voglio concedere proprio nulla».
brevi dal web
repubblica.it 24 marzo 2005
Sentenza della suprema Corte nei confronti di un uomo di Trapani
"Responsabile del crac matrimoniale e di aver leso la dignità della consorte"
Cassazione, condannato il marito che non fa sesso con la moglie
ROMA - Il marito che rifiuta di fare sesso per anni con la moglie per la corte di Cassazione è colpevole due volte: non solo del crac matrimoniale ma anche per avere leso la "dignità" della consorte in quanto "donna" e come "moglie". La suprema corte, richiamando i coniugi ai loro doveri coniugali, prende spunto dal caso analizzato per stabilire che i mariti che rifiutano di fare l'amore con la moglie, in caso di separazione, si devono fare carico anche dei danni morali arrecati alle consorti con il loro 'rifiuto'.
Per essersi rifiutato "per ben sette anni di intrattenere normali rapporti affettivi e sessuali con la moglie", Francesco G., un uomo di Trapani, si è visto rendere definitivo l'addebito della separazione dalla moglie Piera N. Non solo, per la Prima sezione civile (sentenza 6276/05), l'uomo, avendo negato l'amore, ha arrecato "gravissima offesa alla dignità e alla personalità del partner", causando una "situazione che oggettivamente provoca senso di frustrazione e disagio, spesso causa di irreversibili danni dell'equilibrio psicofisico".
Invano il marito, cui già il Tribunale di Trapani (nel maggio 2000) e la Corte d'appello di Palermo (nel novembre 2001) avevano attribuito la colpa della separazione, si è difeso in Cassazione, sostenendo di avere interrotto i rapporti con la moglie perché "aveva preso le difese del fratello quando questi lo aveva ingiustamente accusato di essersi appropriato di somme appartenenti alla cooperativa edilizia da cui era stato realizzato l'appartamento coniugale e della quale era diventato presidente".
La suprema Corte, allinenandosi "pienamente" al verdetto dei giudici di merito che avevano sottolineato come anche il comportamento tenuto dalla moglie "non era certo confrorme ai doveri di solidarietà verso il marito", non ha potuto fare a meno di evidenziare la "gravità" del comportamento del marito che rifiutandosi di fare sesso ha causato alla consorte "lesione alla dignità di donna e di moglie".
Perché, come scrive il consigliere Sergio Del Core, non si può "dubitare che il rifiuto, protrattosi per ben sette anni, di intrattenere rapporti affettivi e sessuali con il coniuge costituisca gravissima offesa alla dignità e alla personalità del partner e situazione che oggettivamente provoca senso di frustrazione e disagio, spesso causa di irreversibili danni sul piano dell'equilibrio psicofisico".
Un rifiuto, quello della "prestazione sessuale" che, "ove volontariamente posto in essere non può che costituire addebitamento della separazione" in quanto rende "impossibile all'altro il soddisfacimento delle proprie esigenze di vita dal punto di vista affettivo e l'esplicarsi della comunione di vita nel suo profondo significato". Francesco G., il cui ricorso è stato dichiarato "inammissibile" dovrà sborsare anche 3.100 euro per avere portato la moglie in giudizio.
repubblica.it/salute 24 marzo 2005
L'insonnia si vince - Diagnosticare e curare subito
Approvate le Linee guida per il trattamento Un utile strumento indirizzato soprattutto ai medici di base. Le categorie a rischio, lo stile di vita e i farmaci possibili
Nate le prime Linee guida italiane per il trattamento dell'insonnia. Presentate in occasione della 5 Giornata del Dormiresano permetteranno ai medici di famiglia di poterla meglio diagnosticare e curare, anche e soprattutto in presenza di patologie concomitanti, in particolare le cardiovascolari e i disturbi dell'umore. L'insonnia può influenzare la prognosi di ipertensione e ischemia cardiaca (67%), spiegano gli esperti, e va sempre curata in presenza di depressione o disturbi dell'umore (il 70% degli insonni con conseguenze diurne mostra sintomi depressivi, contro il 38% dei pazienti senza disturbi del sonno).
Frutto della collaborazione tra 2000 medici di medicina generale e esperti dell'Aims (Associazione italiana medicina del sonno) le Linee "prevedono l'indicazione da parte del medico degli stili di vita adeguati, se necessario dell'uso dei farmaci ipnotici "ecologici", i non benzodiazepinici di ultima generazione - come lo zolpidem - privi di conseguenze sulle funzioni cognitive, scoraggiando e condannando autogestione e autoprescrizione (il 7,3% ricorre a cure fai da te)", spiega Luigi Ferini Strambi, presidente Aims.
Questi farmaci non costringono a una terapia continua e possono essere assunti al bisogno, sotto stretto controllo del medico, migliorando la qualità di vita (5 insonni su 10 hanno difficoltà di concentrazione e memoria) e diminuendo l'elevato rischio per i 12 milioni di italiani che soffrono di insonnia di veder compromesso seriamente il loro stato di salute generale. Il 40,5% degli insonni rifiuta le terapie, spesso per paura dei vecchi farmaci che davano assuefazione ed effetti collaterali.
"Entro un anno e mezzo avremo farmaci anche più evoluti dello zolpidem per una terapia sempre più personalizzata", sotiene Ferini Strambi.
Più di 4 su 10 pazienti che si recano tutti i giorni dal medico di famiglia è insonne. "Il medico di base grazie a una corretta indagine sul paziente può diagnosticare gran parte delle insonnie e impostare una terapia. Nel 70% dei casi è necessario il ricorso al farmaco, anche se è fondamentale anche la terapia comportamentale. Quando serve, il farmaco va dato subito, per evitare il "condizionamento negativo"", che l'insonne cioè, non riuscendo a dormire per giorni instauri un meccanismo d'ansia che può cronicizzare il disturbo. "Importante oltre al tempismo, la valutazione a distanza: il primo "follow up" a un mese circa. Non vogliamo creare soggetti farmaco-dipendenti", conclude lo specialista.
repubblica.it/salute 24 marzo 2005
Tra i depressi over 65 prime le donne
TRA i disturbi che più colpiscono gli anziani c'è la depressione, alla quale il Cnr ha dedicato uno studio che ha coinvolto 5600 persone in 12 anni. I numeri dicono che le donne over 65 sono le più colpite (58 per cento contro il 34 degli uomini). Inoltre tra le vittime del male oscuro, una su quattro viene colpita da un attacco di cuore. Tale conseguenza è dovuta al fatto che i depressi spesso fanno una vita meno sana. Per gli esperti è un problema di salute pubblica.
tempomedico.it 24 marzo 2005
Cannabis e psiche: un'associazione pericolosa
Nelle persone predisposte aumenta il rischio di psicosi nell'età adulta
di Chiara Finotti - Tempo Medico n. 790
La cannabis è ancora una volta sotto accusa: uno studio condotto presso l'Università di Maastricht, in Olanda, ha confermato la pericolosa associazione tra un suo consumo durante l'adolescenza e la comparsa di psicosi in età adulta.
"In realtà tale binomio è noto da tempo" spiega Jim van Os, coordinatore dello studio. "Il nostro è tuttavia il primo studio prospettico che evidenzia una relazione fra la predisposizione del soggetto ai fenomeni psicotici e il ricorso alla cannabis. Da studi recenti è emerso come l'uso di cannabis e la predisposizione individuale alle psicosi abbiano un effetto sinergico nell'innescare il fenomeno psicotico".
L'indagine ha coinvolto oltre 2.400 soggetti sani di età compresa fra i 14 e i 24 anni, invitati a rispondere a interviste standardizzate e coordinate da un'équipe di psicologi. L'attenzione degli studiosi si è focalizzata sulla loro abitudine a fare uso di cannabis, su un'eventuale predisposizione alla psicosi e sulla comparsa di sintomi psicotici; le interviste sono state condotte al momento del reclutamento dei partecipanti, avvenuto nel 1995, e ripetute quattro anni più tardi. La predisposizione a questo tipo di sintomatologia è stata determinata facendo riferimento a scale di valutazione attraverso l'assegnazione di un punteggio.
I dati raccolti, rielaborati eliminando i possibili fattori interferenti (l'età, il sesso, il background socioculturale, il consumo di altre droghe, di tabacco e alcol ed eventuali sintomi di depressione), dimostrano che il ricorso alla cannabis durante l'adolescenza aumenta il rischio di sviluppare una sintomatologia psicotica nell'età adulta, secondo un relazione dose-risposta. Tale rischio risulta più marcato negli individui che, all'inizio dello studio, presentavano una fisiologica predisposizione al disturbo.
corriere.it 24 marzo 2005
Non mancano gli esempi storici: da Henry Ford a Cristoforo Colombo
Ottimisti e mai stanchi? Siete «ipomaniaci»
I medici ormai la classificano come una malattia: colpisce chi «si butta» sempre e comunque, e a volte cade in depressione
NEW YORK – Che cos’hanno in comune il grande esploratore Cristoforo Colombo, il magnate automobilistico Henry Ford, la poetessa Emily Dickinson e il pioniere della mappatura genetica J. Craig Venter? Sono tutti “ipomaniaci", affetti cioè da una malattia, appena scoperta dagli scienziati Usa, che induce chi ne è affetto ad essere ambiziosissimo, ottimista, iperattivo e in definitiva a sfondare più degli altri.
«E’ una vera e propria psicosi maniaco-depressiva caratterizzata da forti correnti di energia mentale e creatività, ma senz’alcuna traccia di depressione», spiega al New York Times il professor Ronald Kessler, docente alla Harvard Medical School. «Questo disturbo mentale si chiama ipomania e affligge molte più persone di quanto si pensasse finora». «Se si guarda all’intero campo del disturbo maniaco-depressivo, meglio noto come bipolarismo, - incalza Kessler, - si può notare che dal 10 al 15% di quei pazienti non si deprimono mai. Lo scopo esistenziale di questi «malati» è l’ipomania costante: non si dorme mai troppo e si è sempre svelti, volonterosi, propositivi».
Circa il 6% degli studenti universitari americani hanno un punteggio alto nei test di personalità che misurano tendenze ipomaniacali, mentre circa il 10% dei bambini Usa hanno personalità «molto esuberanti»: una qualità principale dell’ipomania. Spesso persone afflitte dall’ipomania sono agitate, ansiose e piene di curiosità.
Come Laurence McKinney, 60enne di Boston, che dopo essersi laureato in matematica ad Harvard ha fatto di tutto nella vita: ha fondato una ditta farmaceutica, suonato in gruppi rock, creato chitarre per una delle maggiori marche di strumenti musicali e scritto un libro sulla neuroscienza della spiritualità. Nel tempo libero, oggi, fa il consulente aziendale.
Il fattore che porta la persona ipomaniacale ad avere tanto successo è che i piccoli trionfi nella vita creano in lui un enorme aumento di fiducia in se stesso, più della persona normale, stimolandolo a raggiungere livelli sempre più alti di successo. «Io non credo per nulla d’essere più intelligente degli altri, ma sono più veloce - afferma McKinney, - faccio più errori ma li faccio più velocemente degli altri: ho così tante padelle sul fuoco nello stesso tempo che qualche frittata riesce bene anche a me».
«Molte persone con inclinazioni ipomaniacali hanno una notevole determinazione», dice il dottor Kay Redfield Jamison, professore di psichiatria alla Johns Hopkins University ed autore del libro «Exuberance», in cui sostiene che episodi ipomaniacali sono spesso accompagnati da ispirazioni scientifiche, matematiche e letterarie. «Tanti geni del passato erano affetti da questo disturbo», assicura Jamison.
Il vero problema, secondo il prof Peter Whybrow, direttore dell’istituto neuropsichiatrico dell’università della California a Los Angeles, è che nella maggior parte dei casi le persone ipomaniacali crollano a mezz’età. «Di solito questi individui sono ricoverati o debbono andare dallo psichiatra, dopo che qualcosa nella vita gli va male. E riflettendo sul loro passato, precisa Whybrow, - si accorgono di aver intrapreso tantissimi progetti, ma di averne portati a termine ben pochi».
Sentenza della suprema Corte nei confronti di un uomo di Trapani
"Responsabile del crac matrimoniale e di aver leso la dignità della consorte"
Cassazione, condannato il marito che non fa sesso con la moglie
ROMA - Il marito che rifiuta di fare sesso per anni con la moglie per la corte di Cassazione è colpevole due volte: non solo del crac matrimoniale ma anche per avere leso la "dignità" della consorte in quanto "donna" e come "moglie". La suprema corte, richiamando i coniugi ai loro doveri coniugali, prende spunto dal caso analizzato per stabilire che i mariti che rifiutano di fare l'amore con la moglie, in caso di separazione, si devono fare carico anche dei danni morali arrecati alle consorti con il loro 'rifiuto'.
Per essersi rifiutato "per ben sette anni di intrattenere normali rapporti affettivi e sessuali con la moglie", Francesco G., un uomo di Trapani, si è visto rendere definitivo l'addebito della separazione dalla moglie Piera N. Non solo, per la Prima sezione civile (sentenza 6276/05), l'uomo, avendo negato l'amore, ha arrecato "gravissima offesa alla dignità e alla personalità del partner", causando una "situazione che oggettivamente provoca senso di frustrazione e disagio, spesso causa di irreversibili danni dell'equilibrio psicofisico".
Invano il marito, cui già il Tribunale di Trapani (nel maggio 2000) e la Corte d'appello di Palermo (nel novembre 2001) avevano attribuito la colpa della separazione, si è difeso in Cassazione, sostenendo di avere interrotto i rapporti con la moglie perché "aveva preso le difese del fratello quando questi lo aveva ingiustamente accusato di essersi appropriato di somme appartenenti alla cooperativa edilizia da cui era stato realizzato l'appartamento coniugale e della quale era diventato presidente".
La suprema Corte, allinenandosi "pienamente" al verdetto dei giudici di merito che avevano sottolineato come anche il comportamento tenuto dalla moglie "non era certo confrorme ai doveri di solidarietà verso il marito", non ha potuto fare a meno di evidenziare la "gravità" del comportamento del marito che rifiutandosi di fare sesso ha causato alla consorte "lesione alla dignità di donna e di moglie".
Perché, come scrive il consigliere Sergio Del Core, non si può "dubitare che il rifiuto, protrattosi per ben sette anni, di intrattenere rapporti affettivi e sessuali con il coniuge costituisca gravissima offesa alla dignità e alla personalità del partner e situazione che oggettivamente provoca senso di frustrazione e disagio, spesso causa di irreversibili danni sul piano dell'equilibrio psicofisico".
Un rifiuto, quello della "prestazione sessuale" che, "ove volontariamente posto in essere non può che costituire addebitamento della separazione" in quanto rende "impossibile all'altro il soddisfacimento delle proprie esigenze di vita dal punto di vista affettivo e l'esplicarsi della comunione di vita nel suo profondo significato". Francesco G., il cui ricorso è stato dichiarato "inammissibile" dovrà sborsare anche 3.100 euro per avere portato la moglie in giudizio.
repubblica.it/salute 24 marzo 2005
L'insonnia si vince - Diagnosticare e curare subito
Approvate le Linee guida per il trattamento Un utile strumento indirizzato soprattutto ai medici di base. Le categorie a rischio, lo stile di vita e i farmaci possibili
Nate le prime Linee guida italiane per il trattamento dell'insonnia. Presentate in occasione della 5 Giornata del Dormiresano permetteranno ai medici di famiglia di poterla meglio diagnosticare e curare, anche e soprattutto in presenza di patologie concomitanti, in particolare le cardiovascolari e i disturbi dell'umore. L'insonnia può influenzare la prognosi di ipertensione e ischemia cardiaca (67%), spiegano gli esperti, e va sempre curata in presenza di depressione o disturbi dell'umore (il 70% degli insonni con conseguenze diurne mostra sintomi depressivi, contro il 38% dei pazienti senza disturbi del sonno).
Frutto della collaborazione tra 2000 medici di medicina generale e esperti dell'Aims (Associazione italiana medicina del sonno) le Linee "prevedono l'indicazione da parte del medico degli stili di vita adeguati, se necessario dell'uso dei farmaci ipnotici "ecologici", i non benzodiazepinici di ultima generazione - come lo zolpidem - privi di conseguenze sulle funzioni cognitive, scoraggiando e condannando autogestione e autoprescrizione (il 7,3% ricorre a cure fai da te)", spiega Luigi Ferini Strambi, presidente Aims.
Questi farmaci non costringono a una terapia continua e possono essere assunti al bisogno, sotto stretto controllo del medico, migliorando la qualità di vita (5 insonni su 10 hanno difficoltà di concentrazione e memoria) e diminuendo l'elevato rischio per i 12 milioni di italiani che soffrono di insonnia di veder compromesso seriamente il loro stato di salute generale. Il 40,5% degli insonni rifiuta le terapie, spesso per paura dei vecchi farmaci che davano assuefazione ed effetti collaterali.
"Entro un anno e mezzo avremo farmaci anche più evoluti dello zolpidem per una terapia sempre più personalizzata", sotiene Ferini Strambi.
Più di 4 su 10 pazienti che si recano tutti i giorni dal medico di famiglia è insonne. "Il medico di base grazie a una corretta indagine sul paziente può diagnosticare gran parte delle insonnie e impostare una terapia. Nel 70% dei casi è necessario il ricorso al farmaco, anche se è fondamentale anche la terapia comportamentale. Quando serve, il farmaco va dato subito, per evitare il "condizionamento negativo"", che l'insonne cioè, non riuscendo a dormire per giorni instauri un meccanismo d'ansia che può cronicizzare il disturbo. "Importante oltre al tempismo, la valutazione a distanza: il primo "follow up" a un mese circa. Non vogliamo creare soggetti farmaco-dipendenti", conclude lo specialista.
repubblica.it/salute 24 marzo 2005
Tra i depressi over 65 prime le donne
TRA i disturbi che più colpiscono gli anziani c'è la depressione, alla quale il Cnr ha dedicato uno studio che ha coinvolto 5600 persone in 12 anni. I numeri dicono che le donne over 65 sono le più colpite (58 per cento contro il 34 degli uomini). Inoltre tra le vittime del male oscuro, una su quattro viene colpita da un attacco di cuore. Tale conseguenza è dovuta al fatto che i depressi spesso fanno una vita meno sana. Per gli esperti è un problema di salute pubblica.
tempomedico.it 24 marzo 2005
Cannabis e psiche: un'associazione pericolosa
Nelle persone predisposte aumenta il rischio di psicosi nell'età adulta
di Chiara Finotti - Tempo Medico n. 790
La cannabis è ancora una volta sotto accusa: uno studio condotto presso l'Università di Maastricht, in Olanda, ha confermato la pericolosa associazione tra un suo consumo durante l'adolescenza e la comparsa di psicosi in età adulta.
"In realtà tale binomio è noto da tempo" spiega Jim van Os, coordinatore dello studio. "Il nostro è tuttavia il primo studio prospettico che evidenzia una relazione fra la predisposizione del soggetto ai fenomeni psicotici e il ricorso alla cannabis. Da studi recenti è emerso come l'uso di cannabis e la predisposizione individuale alle psicosi abbiano un effetto sinergico nell'innescare il fenomeno psicotico".
L'indagine ha coinvolto oltre 2.400 soggetti sani di età compresa fra i 14 e i 24 anni, invitati a rispondere a interviste standardizzate e coordinate da un'équipe di psicologi. L'attenzione degli studiosi si è focalizzata sulla loro abitudine a fare uso di cannabis, su un'eventuale predisposizione alla psicosi e sulla comparsa di sintomi psicotici; le interviste sono state condotte al momento del reclutamento dei partecipanti, avvenuto nel 1995, e ripetute quattro anni più tardi. La predisposizione a questo tipo di sintomatologia è stata determinata facendo riferimento a scale di valutazione attraverso l'assegnazione di un punteggio.
I dati raccolti, rielaborati eliminando i possibili fattori interferenti (l'età, il sesso, il background socioculturale, il consumo di altre droghe, di tabacco e alcol ed eventuali sintomi di depressione), dimostrano che il ricorso alla cannabis durante l'adolescenza aumenta il rischio di sviluppare una sintomatologia psicotica nell'età adulta, secondo un relazione dose-risposta. Tale rischio risulta più marcato negli individui che, all'inizio dello studio, presentavano una fisiologica predisposizione al disturbo.
corriere.it 24 marzo 2005
Non mancano gli esempi storici: da Henry Ford a Cristoforo Colombo
Ottimisti e mai stanchi? Siete «ipomaniaci»
I medici ormai la classificano come una malattia: colpisce chi «si butta» sempre e comunque, e a volte cade in depressione
NEW YORK – Che cos’hanno in comune il grande esploratore Cristoforo Colombo, il magnate automobilistico Henry Ford, la poetessa Emily Dickinson e il pioniere della mappatura genetica J. Craig Venter? Sono tutti “ipomaniaci", affetti cioè da una malattia, appena scoperta dagli scienziati Usa, che induce chi ne è affetto ad essere ambiziosissimo, ottimista, iperattivo e in definitiva a sfondare più degli altri.
«E’ una vera e propria psicosi maniaco-depressiva caratterizzata da forti correnti di energia mentale e creatività, ma senz’alcuna traccia di depressione», spiega al New York Times il professor Ronald Kessler, docente alla Harvard Medical School. «Questo disturbo mentale si chiama ipomania e affligge molte più persone di quanto si pensasse finora». «Se si guarda all’intero campo del disturbo maniaco-depressivo, meglio noto come bipolarismo, - incalza Kessler, - si può notare che dal 10 al 15% di quei pazienti non si deprimono mai. Lo scopo esistenziale di questi «malati» è l’ipomania costante: non si dorme mai troppo e si è sempre svelti, volonterosi, propositivi».
Circa il 6% degli studenti universitari americani hanno un punteggio alto nei test di personalità che misurano tendenze ipomaniacali, mentre circa il 10% dei bambini Usa hanno personalità «molto esuberanti»: una qualità principale dell’ipomania. Spesso persone afflitte dall’ipomania sono agitate, ansiose e piene di curiosità.
Come Laurence McKinney, 60enne di Boston, che dopo essersi laureato in matematica ad Harvard ha fatto di tutto nella vita: ha fondato una ditta farmaceutica, suonato in gruppi rock, creato chitarre per una delle maggiori marche di strumenti musicali e scritto un libro sulla neuroscienza della spiritualità. Nel tempo libero, oggi, fa il consulente aziendale.
Il fattore che porta la persona ipomaniacale ad avere tanto successo è che i piccoli trionfi nella vita creano in lui un enorme aumento di fiducia in se stesso, più della persona normale, stimolandolo a raggiungere livelli sempre più alti di successo. «Io non credo per nulla d’essere più intelligente degli altri, ma sono più veloce - afferma McKinney, - faccio più errori ma li faccio più velocemente degli altri: ho così tante padelle sul fuoco nello stesso tempo che qualche frittata riesce bene anche a me».
«Molte persone con inclinazioni ipomaniacali hanno una notevole determinazione», dice il dottor Kay Redfield Jamison, professore di psichiatria alla Johns Hopkins University ed autore del libro «Exuberance», in cui sostiene che episodi ipomaniacali sono spesso accompagnati da ispirazioni scientifiche, matematiche e letterarie. «Tanti geni del passato erano affetti da questo disturbo», assicura Jamison.
Il vero problema, secondo il prof Peter Whybrow, direttore dell’istituto neuropsichiatrico dell’università della California a Los Angeles, è che nella maggior parte dei casi le persone ipomaniacali crollano a mezz’età. «Di solito questi individui sono ricoverati o debbono andare dallo psichiatra, dopo che qualcosa nella vita gli va male. E riflettendo sul loro passato, precisa Whybrow, - si accorgono di aver intrapreso tantissimi progetti, ma di averne portati a termine ben pochi».
il prof. Umberto Veronesi è per il sì ai referendum
Repubblica.it Salute 24.3.05
"Una legge inumana ed anti-scientifica"
A favore Umberto Veronesi
Nato a Milano nel 1925, è uno dei maggiori esperti mondiali nella cura dei tumori e autore di tecniche chirurgiche innovative. Dirige l'Istituto Europeo di oncologia.
Il professor Veronesi comincia con una premessa politica. "Il referendum", dice, "è un istituto che giustifica la propria natura proprio nei casi che toccano i diritti e la libertà di ogni singolo individuo. Così è stato nel divorzio, nell'aborto e così è nel caso della legge 40 sulla fecondazione assistita, una legge che viola in diversi punti la libertà riproduttiva della coppia e la libertà personale della donna. Prima ancora che come medico, voglio parlare come cittadino di una democrazia, ricordando, con Jean Jacques Rousseau, che "dato che ogni uomo è nato libero e padrone di sé stesso, nessuno può, sotto qualunque pretesto, assoggettarlo senza il suo consenso"".
Qual è la principale critica scientifica da fare a questa legge?
"L'imposizione alla donna di farsi impiantare contro la propria volontà tutti gli ovuli fecondati, anche se portatori di una malattia genetica. Come medico non posso non far rilevare che questo divieto rende inutile uno dei grandi progressi della scienza, cioè la selezione degli embrioni, che permette a un uomo e a una donna, minacciati da una malattia genetica nella propria discendenza, di generare un figlio sano. Rinunciare ai benefici scientifici dell'indagine genetica pre-impianto è vanificare la speranza di ridurre il tragico peso umano e sociale di 30 mila bimbi che ogni anno nascono in Italia con gravi malformazioni".
E le violazioni della libertà personale?
"La legge mette dei limiti che ci fanno arretrare rispetto all'Europa e che di fatto costringeranno le coppie sterili a ricorrere a costose trasferte all'estero, creando una differenza tra cittadini abbienti e non abbienti. Ad esempio, il divieto della fecondazione eterologa, cioè con gameti donati. Significa che la più antica e semplice delle metodiche è fuori dalla portata di quelle coppie che non riescono ad avere figli perché uno dei due è sterile. In questi casi, quando si esprime la volontà di diventare genitore di un figlio che si alleverà con amore anche se non ne sarà il genitore biologico, io credo che sia profondamente ingiusto negare il diritto all'autodecisione. Inoltre il ricorso alla fecondazione eterologa non supera il 20 per cento dei casi. Sono coppie che non scelgono questa strada per capriccio, ma vi arrivano dopo una penosissima odissea di tentativi falliti".
Le legge può causare problemi di salute alle donne?
"La legge non consente la produzione di un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario ad un unico e contemporaneo impianto degli embrioni, e fissa a 3 il loro numero massimo. Considerando che la percentuale di gravidanze avviate con ovociti fecondati in vitro non supera il 15-20 per cento, ciò significa che in caso di fallimento la coppia non potrà più avvalersi di embrioni congelati, che dovrà sottoporsi da capo a tutta la non facile procedura, e che la donna dovrà subire ogni volta una nuova stimolazione ormonale, dannosa per la salute".
E sulle staminali?
"I limiti che la legge, di fatto, mette alla ricerca sulle staminali embrionali espropriano gli italiani anche dei frutti di questo settore di ricerca. Ribadisco: è una legge ingiusta, inumana e antiscientifica. Andrò a votare al referendum e voterò "si" a tutti i quesiti".
"Una legge inumana ed anti-scientifica"
A favore Umberto Veronesi
Nato a Milano nel 1925, è uno dei maggiori esperti mondiali nella cura dei tumori e autore di tecniche chirurgiche innovative. Dirige l'Istituto Europeo di oncologia.
Il professor Veronesi comincia con una premessa politica. "Il referendum", dice, "è un istituto che giustifica la propria natura proprio nei casi che toccano i diritti e la libertà di ogni singolo individuo. Così è stato nel divorzio, nell'aborto e così è nel caso della legge 40 sulla fecondazione assistita, una legge che viola in diversi punti la libertà riproduttiva della coppia e la libertà personale della donna. Prima ancora che come medico, voglio parlare come cittadino di una democrazia, ricordando, con Jean Jacques Rousseau, che "dato che ogni uomo è nato libero e padrone di sé stesso, nessuno può, sotto qualunque pretesto, assoggettarlo senza il suo consenso"".
Qual è la principale critica scientifica da fare a questa legge?
"L'imposizione alla donna di farsi impiantare contro la propria volontà tutti gli ovuli fecondati, anche se portatori di una malattia genetica. Come medico non posso non far rilevare che questo divieto rende inutile uno dei grandi progressi della scienza, cioè la selezione degli embrioni, che permette a un uomo e a una donna, minacciati da una malattia genetica nella propria discendenza, di generare un figlio sano. Rinunciare ai benefici scientifici dell'indagine genetica pre-impianto è vanificare la speranza di ridurre il tragico peso umano e sociale di 30 mila bimbi che ogni anno nascono in Italia con gravi malformazioni".
E le violazioni della libertà personale?
"La legge mette dei limiti che ci fanno arretrare rispetto all'Europa e che di fatto costringeranno le coppie sterili a ricorrere a costose trasferte all'estero, creando una differenza tra cittadini abbienti e non abbienti. Ad esempio, il divieto della fecondazione eterologa, cioè con gameti donati. Significa che la più antica e semplice delle metodiche è fuori dalla portata di quelle coppie che non riescono ad avere figli perché uno dei due è sterile. In questi casi, quando si esprime la volontà di diventare genitore di un figlio che si alleverà con amore anche se non ne sarà il genitore biologico, io credo che sia profondamente ingiusto negare il diritto all'autodecisione. Inoltre il ricorso alla fecondazione eterologa non supera il 20 per cento dei casi. Sono coppie che non scelgono questa strada per capriccio, ma vi arrivano dopo una penosissima odissea di tentativi falliti".
Le legge può causare problemi di salute alle donne?
"La legge non consente la produzione di un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario ad un unico e contemporaneo impianto degli embrioni, e fissa a 3 il loro numero massimo. Considerando che la percentuale di gravidanze avviate con ovociti fecondati in vitro non supera il 15-20 per cento, ciò significa che in caso di fallimento la coppia non potrà più avvalersi di embrioni congelati, che dovrà sottoporsi da capo a tutta la non facile procedura, e che la donna dovrà subire ogni volta una nuova stimolazione ormonale, dannosa per la salute".
E sulle staminali?
"I limiti che la legge, di fatto, mette alla ricerca sulle staminali embrionali espropriano gli italiani anche dei frutti di questo settore di ricerca. Ribadisco: è una legge ingiusta, inumana e antiscientifica. Andrò a votare al referendum e voterò "si" a tutti i quesiti".
restano solo gli anziani a difendere la memoria storica europea?
Repubblica.it 24.3.05
Il presidente Aned: "Non doveva essere qui. Una offesa ai morti la legge che riconosce i repubblichini di Salò come belligeranti"
Commemorazione Fosse Ardeatine
alcuni ex deportati contro Storace
Ciampi: "Siamo tutti italiani e dobbiamo venire a rendere omaggio"
ROMA - Proteste contro la presenza del governatore Storace stamattina durante la cerimonia del 61esimo anno dall'eccidio delle Fosse Ardeatine. Il presidente della Regione faceva parte di una delegazione composta, tra gli altri, dal Presidente della Repubblica
Carlo Azeglio Ciampi, dal Ministro della Difesa Antonio Martino, dal Sindaco Walter Veltroni e il Presidente
Provincia Enrico Gasbarra.
Durante la celebrazione due esponenti dell'Associazione Nazionale Ex Deportati hanno abbandonato la delegazione: "Non doveva essere qui oggi - ha detto un membro dell'Associazione, Mario Limentani, riferendosi a Storace - offende la memoria dei poveri morti. Io sono stato 18 mesi in un campo di sterminio e sono stato torturato". Aldo Pavia, che è anche presidente dell' Aned, gli ha fatto eco: "Rispetto le istituzioni, in questo caso non chi le rappresenta. Sono contro la legge che mira a riconoscere i repubblichini di Salò come belligeranti, loro che hanno venduto per 12.000 lire tre persone della mia famiglia e me e mia nonna per 5.000 lire. Trovare qui Storace dopo 60 anni mi sembra semplicemente uno spot elettorale di cattivo gusto".
Dello stesso avviso anche il presidente dell' XI municipio, Massimiliano Smeriglio, che ha aggiunto: "Avrei dovuto essere nel palco delle autorità, ma per scelta mi sono messo fra la gente. Equiparare i repubblichini di Salò ai partigiani è un vero schiaffo a questa giornata".
Il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi è intervenuto successivamente in difesa del governatore. "Siamo tutti italiani - ha detto - e dobbiamo venire tutti qui a rendere omaggio". Gli ha fatto eco il Presidente della Provincia Enrico Gasbarra, smorzando i toni: "Capisco il dolore e i sentimenti dei figli dei familiari, ma le istituzioni vanno rispettate. Mi auguro anzi che ogni anno si allarghi sempre di più la partecipazione".
Il presidente Aned: "Non doveva essere qui. Una offesa ai morti la legge che riconosce i repubblichini di Salò come belligeranti"
Commemorazione Fosse Ardeatine
alcuni ex deportati contro Storace
Ciampi: "Siamo tutti italiani e dobbiamo venire a rendere omaggio"
ROMA - Proteste contro la presenza del governatore Storace stamattina durante la cerimonia del 61esimo anno dall'eccidio delle Fosse Ardeatine. Il presidente della Regione faceva parte di una delegazione composta, tra gli altri, dal Presidente della Repubblica
Carlo Azeglio Ciampi, dal Ministro della Difesa Antonio Martino, dal Sindaco Walter Veltroni e il Presidente
Provincia Enrico Gasbarra.
Durante la celebrazione due esponenti dell'Associazione Nazionale Ex Deportati hanno abbandonato la delegazione: "Non doveva essere qui oggi - ha detto un membro dell'Associazione, Mario Limentani, riferendosi a Storace - offende la memoria dei poveri morti. Io sono stato 18 mesi in un campo di sterminio e sono stato torturato". Aldo Pavia, che è anche presidente dell' Aned, gli ha fatto eco: "Rispetto le istituzioni, in questo caso non chi le rappresenta. Sono contro la legge che mira a riconoscere i repubblichini di Salò come belligeranti, loro che hanno venduto per 12.000 lire tre persone della mia famiglia e me e mia nonna per 5.000 lire. Trovare qui Storace dopo 60 anni mi sembra semplicemente uno spot elettorale di cattivo gusto".
Dello stesso avviso anche il presidente dell' XI municipio, Massimiliano Smeriglio, che ha aggiunto: "Avrei dovuto essere nel palco delle autorità, ma per scelta mi sono messo fra la gente. Equiparare i repubblichini di Salò ai partigiani è un vero schiaffo a questa giornata".
Il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi è intervenuto successivamente in difesa del governatore. "Siamo tutti italiani - ha detto - e dobbiamo venire tutti qui a rendere omaggio". Gli ha fatto eco il Presidente della Provincia Enrico Gasbarra, smorzando i toni: "Capisco il dolore e i sentimenti dei figli dei familiari, ma le istituzioni vanno rispettate. Mi auguro anzi che ogni anno si allarghi sempre di più la partecipazione".
induismo negli Usa
Corriere della Sera 24.3.05
Si moltiplicano negli Stati Uniti gli attacchi agli studiosi della religione da parte dei movimenti fondamentalisti
Niente sesso né Freud: vietato interpretare l’induismo
Livia Manera
Prima c’è stato il caso del professor Paul Courtright della Emory University, il quale si è visto recapitare da Internet cortesie come «Quel bastardo dovrebbe essere impiccato». Poi è toccato a Wendy Doniger, la celebre sanscritista e docente di storia delle religioni dell’università di Chicago, pubblicata in Italia da Adelphi. Mentre teneva una conferenza sul Ramayana a Londra, un indù furibondo le ha tirato un uovo (mancandola). Non fosse per il senso dell’umorismo della Doniger e per la sua intenzione di non soffiare sul fuoco tenendosi lontana da interviste e commenti, i crescenti attacchi agli studiosi americani di induismo da parte del movimento fondamentalista indiano Hindutva, avrebbero già fatto molto rumore. E se solo oggi acquistano rilievo le voci circa presunti affronti alle religioni indiane da parte di studiosi occidentali, è perché con il Web a fare da grancassa, la controversia è dilagata oltre l’India degli 828 milioni di indù e oltre l'America che ne ospita quasi un milione e mezzo, con minacce che arrivano da Singapore, dalla Germania, dall’Inghilterra. Il professor Laine, colpevole di avere scritto un libro poco ossequioso sul re indù Shivaji, è persino stato ammonito dal governo a «Non giocare col nostro orgoglio nazionale». E il libro è stato ritirato.
Tutto è cominciato nel 2002 con un lunghissimo intervento firmato dall’imprenditore indiano del New Jersey Rajiv Malhotra sul sito Sulekha.com («comunità indiana» online) che attaccava Wendy Doniger e i suoi colleghi accusandoli di diffamare l'induismo con la loro ossessione morbosa per i suoi risvolti sessuali, e di darne una visione eurocentrica di stampo colonialista. Wendy Doniger ha spiegato che questo tipo di fondamentalismo non è affatto nuovo, avendo attraversato l’induismo per secoli. La novità è che ora si è organizzato politicamente, in una corrente politica di estrema destra.
E non si tratta solo di revisionismo interpretativo: in una recensione sul Times Literary Supplement ha scritto che «gruppi indù di destra, in India e nella diaspora, reclamano sempre di più il loro diritto, oltre che desiderio, di controllare gli studi di induismo». Prendiamo il caso del libro del professor Courtright Ganesha: Lord of Obstacles, Lord of Beginnings. Uscito nel 1985 e accolto dal silenzio fuori della stretta cerchia accademica, oggi infiamma gli animi al punto che la comunità indiana di Atlanta ha chiesto alla Emory University il suo licenziamento, e 7 mila persone su Sulekha.com hanno firmato una petizione per il ritiro del libro, con aggiunta di minacce violentissime. E questo perché Courtright ha voluto dare una lettura freudiana del mito del dio con la testa di elefantino.
Secondo questo mito, un giorno la dea Parvati chiese a suo figlio Ganesha di restare a guardia della porta mentre lei faceva il bagno. Ma quando Shiva, marito di Parvati e padre del ragazzo, rientrò dopo un'assenza lunghissima, non riconobbe Ganesha e gli tagliò la testa. Poi, per farsi perdonare, lo resuscitò e al posto della testa mancante mise quella di un elefantino. Una storia edipica, secondo lo studioso di Emory, che nel tronco grassoccio e molle di Ganesha vede un fallo a riposo, mentre come è noto Shiva si specchia simbolicamente nel linga, ovvero il lungo sasso smussato che rappresenta il fallo eretto.
Nel frattempo, a Seattle, la Microsoft ha ritirato la voce «Induismo» commissionata dalla Microsoft a Wendy Doniger per l’enciclopedia Encarta. In India, il libro di Courtright è stato bandito. E in Occidente quello di Laine «è stato ritirato dalla Oxford University Press per paura di rappresaglie violente», ha dichiarato l'autore al Washington Post. Fortuna che senso dell'umorismo e versatilità intellettuale continuano a sostenere Wendy Doniger, la quale ha appena pubblicato negli Stati Uniti il saggio The woman who pretended to be who she was, ovvero «la donna che fingeva di essere chi era».
Analizzando alla sua maniera brillante miti e storie di personaggi che hanno finto di essere altri che interpretavano loro stessi - a partire da Shiva e Parvati fino a Kim Novak nella Donna che visse due volte di Hitchcock - questa signora sessantaquattrenne al centro di violente polemiche ha scelto per la quarta di copertina un suo ritratto del 1959. In cui appare bellissima, giovanissima e sofisticatissima, con questa didascalia: «L’autrice che finge di essere chi era quasi mezzo secolo fa».
Si moltiplicano negli Stati Uniti gli attacchi agli studiosi della religione da parte dei movimenti fondamentalisti
Niente sesso né Freud: vietato interpretare l’induismo
Livia Manera
Prima c’è stato il caso del professor Paul Courtright della Emory University, il quale si è visto recapitare da Internet cortesie come «Quel bastardo dovrebbe essere impiccato». Poi è toccato a Wendy Doniger, la celebre sanscritista e docente di storia delle religioni dell’università di Chicago, pubblicata in Italia da Adelphi. Mentre teneva una conferenza sul Ramayana a Londra, un indù furibondo le ha tirato un uovo (mancandola). Non fosse per il senso dell’umorismo della Doniger e per la sua intenzione di non soffiare sul fuoco tenendosi lontana da interviste e commenti, i crescenti attacchi agli studiosi americani di induismo da parte del movimento fondamentalista indiano Hindutva, avrebbero già fatto molto rumore. E se solo oggi acquistano rilievo le voci circa presunti affronti alle religioni indiane da parte di studiosi occidentali, è perché con il Web a fare da grancassa, la controversia è dilagata oltre l’India degli 828 milioni di indù e oltre l'America che ne ospita quasi un milione e mezzo, con minacce che arrivano da Singapore, dalla Germania, dall’Inghilterra. Il professor Laine, colpevole di avere scritto un libro poco ossequioso sul re indù Shivaji, è persino stato ammonito dal governo a «Non giocare col nostro orgoglio nazionale». E il libro è stato ritirato.
Tutto è cominciato nel 2002 con un lunghissimo intervento firmato dall’imprenditore indiano del New Jersey Rajiv Malhotra sul sito Sulekha.com («comunità indiana» online) che attaccava Wendy Doniger e i suoi colleghi accusandoli di diffamare l'induismo con la loro ossessione morbosa per i suoi risvolti sessuali, e di darne una visione eurocentrica di stampo colonialista. Wendy Doniger ha spiegato che questo tipo di fondamentalismo non è affatto nuovo, avendo attraversato l’induismo per secoli. La novità è che ora si è organizzato politicamente, in una corrente politica di estrema destra.
E non si tratta solo di revisionismo interpretativo: in una recensione sul Times Literary Supplement ha scritto che «gruppi indù di destra, in India e nella diaspora, reclamano sempre di più il loro diritto, oltre che desiderio, di controllare gli studi di induismo». Prendiamo il caso del libro del professor Courtright Ganesha: Lord of Obstacles, Lord of Beginnings. Uscito nel 1985 e accolto dal silenzio fuori della stretta cerchia accademica, oggi infiamma gli animi al punto che la comunità indiana di Atlanta ha chiesto alla Emory University il suo licenziamento, e 7 mila persone su Sulekha.com hanno firmato una petizione per il ritiro del libro, con aggiunta di minacce violentissime. E questo perché Courtright ha voluto dare una lettura freudiana del mito del dio con la testa di elefantino.
Secondo questo mito, un giorno la dea Parvati chiese a suo figlio Ganesha di restare a guardia della porta mentre lei faceva il bagno. Ma quando Shiva, marito di Parvati e padre del ragazzo, rientrò dopo un'assenza lunghissima, non riconobbe Ganesha e gli tagliò la testa. Poi, per farsi perdonare, lo resuscitò e al posto della testa mancante mise quella di un elefantino. Una storia edipica, secondo lo studioso di Emory, che nel tronco grassoccio e molle di Ganesha vede un fallo a riposo, mentre come è noto Shiva si specchia simbolicamente nel linga, ovvero il lungo sasso smussato che rappresenta il fallo eretto.
Nel frattempo, a Seattle, la Microsoft ha ritirato la voce «Induismo» commissionata dalla Microsoft a Wendy Doniger per l’enciclopedia Encarta. In India, il libro di Courtright è stato bandito. E in Occidente quello di Laine «è stato ritirato dalla Oxford University Press per paura di rappresaglie violente», ha dichiarato l'autore al Washington Post. Fortuna che senso dell'umorismo e versatilità intellettuale continuano a sostenere Wendy Doniger, la quale ha appena pubblicato negli Stati Uniti il saggio The woman who pretended to be who she was, ovvero «la donna che fingeva di essere chi era».
Analizzando alla sua maniera brillante miti e storie di personaggi che hanno finto di essere altri che interpretavano loro stessi - a partire da Shiva e Parvati fino a Kim Novak nella Donna che visse due volte di Hitchcock - questa signora sessantaquattrenne al centro di violente polemiche ha scelto per la quarta di copertina un suo ritratto del 1959. In cui appare bellissima, giovanissima e sofisticatissima, con questa didascalia: «L’autrice che finge di essere chi era quasi mezzo secolo fa».
i bambini
da Le Scienze
Le Scienze 23.03.2005
Gli adulti e il linguaggio infantile
Il linguaggio usato con i neonati li aiuta a imparare le parole più rapidamente
Gli adulti possono forse sentirsi ridicoli quando parlano ai bambini piccoli, ma i neonati impareranno a parlare più presto se gli adulti si rivolgono a loro come a degli infanti anziché come ad altri adulti. Lo sostiene uno studio dello psicologo Erik Thiessen della Carnegie Mellon University di Pittsburgh, pubblicato sul numero di marzo della rivista "Infancy".
La maggior parte degli adulti parla ai neonati usando il cosiddetto "baby talk", ovvero il linguaggio rivolto ai bambini piccoli: frasi brevi e semplici associate a un timbro più alto e a un'intonazione esagerata. Da tempo i ricercatori hanno scoperto che i bambini preferiscono che si parli con loro in questa maniera. Ma ora lo studio di Thiessen rivela anche che questo tipo di linguaggio aiuta i neonati ad imparare le parole più in fretta rispetto al normale linguaggio da adulti. In una serie di esperimenti, lo studioso e i suoi colleghi hanno esposto bambini di otto mesi a discorsi fluenti costituiti da parole senza senso. I ricercatori hanno cercato di capire se, dopo aver ascoltato questi discorsi per meno di due minuti, i piccoli fossero riusciti ad impararne le parole. I bambini che erano stati esposti a discorsi con le caratteristiche intonazioni esagerate del linguaggio rivolto agli infanti hanno imparato a identificare le parole più rapidamente di quelli che avevano ascoltato discorsi con un tono più normale e "monotono".
Questi risultati potrebbero spiegare anche perché molti adulti faticano a imparare una seconda lingua. Secondo la maggior parte degli esperti, i neonati sono più adatti degli adulti ad apprendere le lingue.
Le Scienze 16.02.2005
I bambini e le parole
Sono in grado di decontestualizzarle anche prima di aver compiuto un anno
Nonostante la maggior parte dei genitori, degli educatori e dei ricercatori ritenga che i bambini non siano in grado di apprendere parole specifiche prima del secondo anno di età, in effetti anche i bambini più giovani di un anno possono imparare alcune parole che non si riferiscono a cose che fanno parte regolarmente della loro routine quotidiana. Lo sostiene uno studio pubblicato sul numero di gennaio/febbraio 2005 della rivista "Child Development".
La scoperta, basata sulle ricerche di Graham Schafer dell'Università di Reading, in Gran Bretagna, suggerisce che quello che viene considerato un apprendimento "formale" di una parola potrebbe essere in atto già da molto tempo prima che il bambino cominci a parlare. "Sembrerebbe - spiega Schafer - che i bambini piccoli siano in grado di comprendere l'utilizzo delle parole in maniera più flessibile di quanto gli scienziati e i genitori pensavano". Lo studio mette in dubbio le teorie secondo cui, prima del secondo anno di vita, i bambini apprendono soltanto le parole che si riferiscono a cose cui sono interessati o associate in qualche modo alla routine della loro vita quotidiana.
Schafer ha chiesto ai genitori di 52 bambini di nove mesi di giocare con i propri figli per almeno dieci minuti, quattro volte alla settimana, usando 12 libri illustrati e un set di 48 immagini raffiguranti oggetti comuni (chiavi, mele, pesci, sedie). I giochi si basavano sugli stessi meccanismi che i genitori già usavano in casa: dare un nome a un oggetto, indicarlo, metterli in ordine, e così via. Dopo tre mesi i bambini, che nel frattempo avevano compiuto un anno, sono stati sottoposti a un test per la comprensione delle parole: venivano loro mostrate due immagini e dovevano guardarne una a seconda di quello che diceva il ricercatore. I bambini che avevano effettuato i giochi con i loro genitori osservavano l'immagine corretta, mentre un gruppo di controllo non ne era capace. "Questo risultato è degno di nota, - afferma Schafer - in quanto le immagini, le voci e il contesto del test erano del tutto nuovi per i bambini. Possiamo ipotizzare che i bambini che avevano preso parte ai giochi con i loro genitori abbiano appreso queste parole particolari in maniera non associata a un contesto speciale".
Secondo Schafer, i genitori devono essere consapevoli del fatto che non esiste un "limite inferiore" all'età alla quale i bambini sono capaci di imparare nuove parole. "I genitori dovrebbero parlare sempre con i bambini, - conclude Schafer - anche quando questi sembrano non capire".
G. Schafer, "Infants Can Learn Decontextualized Words Before Their First Birthday". Child Development, Vol. 6, No. 1, (2005).
Le Scienze 13.09.2004
Come i neonati elaborano i suoni
Le due orecchie amplificano i segnali in modo differente
Sfidando decenni di teorie scientifiche, secondo le quali la decodifica del suono ha origine in un lato preferito del cervello, alcuni scienziati hanno dimostrato che le differenze fra destra e sinistra nell'elaborazione auditiva del suono cominciano già nell'orecchio.
La ricerca, descritta in un articolo pubblicato sul numero del 10 settembre della rivista "Science", potrebbe avere profonde implicazioni per la riabilitazione delle persone con perdita dell'udito da una o da entrambe le orecchie, oltre ad aiutare i medici a facilitare lo sviluppo del linguaggio nei neonati con disturbi uditivi.
"Sin dalla nascita - spiega Yvonne Sininger dell'Università della California di Los Angeles - l'orecchio è strutturato per distinguere fra diversi tipi di suoni e inviarli al lato ottimale del cervello affinché vengano elaborati. Eppure nessuno aveva mai studiato così da vicino il ruolo svolto dall'orecchio nell'elaborazione dei segnali uditivi".
Gli scienziati sapevano già che le regioni uditive delle due metà del cervello gestiscono i suoni in modo differente. Il lato sinistro domina nella decifrazione del linguaggio e di altri segnali che cambiano rapidamente, mentre quello destro si occupa di elaborare le tonalità della musica.
Studiando le minuscole cellule dell'orecchio interno che agiscono da amplificatori delle vibrazioni, Sinninger e la collega Barbara Cone-Wesson dell'Università dell'Arizona hanno esaminato nell'arco di sei anni più di 3000 neonati, scoprendo che l'orecchio sinistro fornisce una maggior amplificazione ai suoni della musica, mentre quello destro amplifica maggiormente i suoni del linguaggio parlato.
Le Scienze 26.07.2004
Il pensiero dei neonati
Un'analisi dei precursori concettuali del linguaggio
I bambini di cinque mesi fanno distinzioni su categorie di eventi che i loro genitori non percepiscono, rivelando così nuove informazioni su come si sviluppa il linguaggio negli esseri umani. La ricerca, condotta dalle psicologhe Sue Hespos della Vanderbilt University di Nashville ed Elizabeth Spelke dell'Università di Harvard, è stata pubblicata sul numero del 22 luglio della rivista "Nature".
"Studi precedenti - spiega Hespos - hanno mostrato che gli adulti dividono le cose in categorie differenti a seconda della lingua che parlano. Ma se il linguaggio influenza il modo di pensare degli adulti, che cosa succede nei bambini che non sanno ancora parlare? Il linguaggio si fonda su un sistema pre-esistente di interazioni con il mondo tridimensionale e i suoi oggetti. Questa capacità suggerisce che i bambini sappiano pensare prima ancora di imparare a parlare".
Hespos e Spelke hanno studiato bambini di cinque mesi per vedere se erano in grado di prestare attenzione alle relazioni fra gli oggetti. I risultati indicano che i bambini sono in grado di individuare determinati concetti che gli adulti, invece, non distinguono spontaneamente. "Gli esseri umani - conclude Spelke - possiedono una ricca varietà di concetti anche prima di apprendere il linguaggio. A seconda della lingua che apprendiamo, siamo portati a favorire alcuni di questi concetti rispetto ad altri, ma esistevano tutti prima che li esprimessimo con le parole".
Gli adulti e il linguaggio infantile
Il linguaggio usato con i neonati li aiuta a imparare le parole più rapidamente
Gli adulti possono forse sentirsi ridicoli quando parlano ai bambini piccoli, ma i neonati impareranno a parlare più presto se gli adulti si rivolgono a loro come a degli infanti anziché come ad altri adulti. Lo sostiene uno studio dello psicologo Erik Thiessen della Carnegie Mellon University di Pittsburgh, pubblicato sul numero di marzo della rivista "Infancy".
La maggior parte degli adulti parla ai neonati usando il cosiddetto "baby talk", ovvero il linguaggio rivolto ai bambini piccoli: frasi brevi e semplici associate a un timbro più alto e a un'intonazione esagerata. Da tempo i ricercatori hanno scoperto che i bambini preferiscono che si parli con loro in questa maniera. Ma ora lo studio di Thiessen rivela anche che questo tipo di linguaggio aiuta i neonati ad imparare le parole più in fretta rispetto al normale linguaggio da adulti. In una serie di esperimenti, lo studioso e i suoi colleghi hanno esposto bambini di otto mesi a discorsi fluenti costituiti da parole senza senso. I ricercatori hanno cercato di capire se, dopo aver ascoltato questi discorsi per meno di due minuti, i piccoli fossero riusciti ad impararne le parole. I bambini che erano stati esposti a discorsi con le caratteristiche intonazioni esagerate del linguaggio rivolto agli infanti hanno imparato a identificare le parole più rapidamente di quelli che avevano ascoltato discorsi con un tono più normale e "monotono".
Questi risultati potrebbero spiegare anche perché molti adulti faticano a imparare una seconda lingua. Secondo la maggior parte degli esperti, i neonati sono più adatti degli adulti ad apprendere le lingue.
© 1999 - 2004 Le Scienze S.
ARRETRATI:Le Scienze 16.02.2005
I bambini e le parole
Sono in grado di decontestualizzarle anche prima di aver compiuto un anno
Nonostante la maggior parte dei genitori, degli educatori e dei ricercatori ritenga che i bambini non siano in grado di apprendere parole specifiche prima del secondo anno di età, in effetti anche i bambini più giovani di un anno possono imparare alcune parole che non si riferiscono a cose che fanno parte regolarmente della loro routine quotidiana. Lo sostiene uno studio pubblicato sul numero di gennaio/febbraio 2005 della rivista "Child Development".
La scoperta, basata sulle ricerche di Graham Schafer dell'Università di Reading, in Gran Bretagna, suggerisce che quello che viene considerato un apprendimento "formale" di una parola potrebbe essere in atto già da molto tempo prima che il bambino cominci a parlare. "Sembrerebbe - spiega Schafer - che i bambini piccoli siano in grado di comprendere l'utilizzo delle parole in maniera più flessibile di quanto gli scienziati e i genitori pensavano". Lo studio mette in dubbio le teorie secondo cui, prima del secondo anno di vita, i bambini apprendono soltanto le parole che si riferiscono a cose cui sono interessati o associate in qualche modo alla routine della loro vita quotidiana.
Schafer ha chiesto ai genitori di 52 bambini di nove mesi di giocare con i propri figli per almeno dieci minuti, quattro volte alla settimana, usando 12 libri illustrati e un set di 48 immagini raffiguranti oggetti comuni (chiavi, mele, pesci, sedie). I giochi si basavano sugli stessi meccanismi che i genitori già usavano in casa: dare un nome a un oggetto, indicarlo, metterli in ordine, e così via. Dopo tre mesi i bambini, che nel frattempo avevano compiuto un anno, sono stati sottoposti a un test per la comprensione delle parole: venivano loro mostrate due immagini e dovevano guardarne una a seconda di quello che diceva il ricercatore. I bambini che avevano effettuato i giochi con i loro genitori osservavano l'immagine corretta, mentre un gruppo di controllo non ne era capace. "Questo risultato è degno di nota, - afferma Schafer - in quanto le immagini, le voci e il contesto del test erano del tutto nuovi per i bambini. Possiamo ipotizzare che i bambini che avevano preso parte ai giochi con i loro genitori abbiano appreso queste parole particolari in maniera non associata a un contesto speciale".
Secondo Schafer, i genitori devono essere consapevoli del fatto che non esiste un "limite inferiore" all'età alla quale i bambini sono capaci di imparare nuove parole. "I genitori dovrebbero parlare sempre con i bambini, - conclude Schafer - anche quando questi sembrano non capire".
G. Schafer, "Infants Can Learn Decontextualized Words Before Their First Birthday". Child Development, Vol. 6, No. 1, (2005).
Le Scienze 13.09.2004
Come i neonati elaborano i suoni
Le due orecchie amplificano i segnali in modo differente
Sfidando decenni di teorie scientifiche, secondo le quali la decodifica del suono ha origine in un lato preferito del cervello, alcuni scienziati hanno dimostrato che le differenze fra destra e sinistra nell'elaborazione auditiva del suono cominciano già nell'orecchio.
La ricerca, descritta in un articolo pubblicato sul numero del 10 settembre della rivista "Science", potrebbe avere profonde implicazioni per la riabilitazione delle persone con perdita dell'udito da una o da entrambe le orecchie, oltre ad aiutare i medici a facilitare lo sviluppo del linguaggio nei neonati con disturbi uditivi.
"Sin dalla nascita - spiega Yvonne Sininger dell'Università della California di Los Angeles - l'orecchio è strutturato per distinguere fra diversi tipi di suoni e inviarli al lato ottimale del cervello affinché vengano elaborati. Eppure nessuno aveva mai studiato così da vicino il ruolo svolto dall'orecchio nell'elaborazione dei segnali uditivi".
Gli scienziati sapevano già che le regioni uditive delle due metà del cervello gestiscono i suoni in modo differente. Il lato sinistro domina nella decifrazione del linguaggio e di altri segnali che cambiano rapidamente, mentre quello destro si occupa di elaborare le tonalità della musica.
Studiando le minuscole cellule dell'orecchio interno che agiscono da amplificatori delle vibrazioni, Sinninger e la collega Barbara Cone-Wesson dell'Università dell'Arizona hanno esaminato nell'arco di sei anni più di 3000 neonati, scoprendo che l'orecchio sinistro fornisce una maggior amplificazione ai suoni della musica, mentre quello destro amplifica maggiormente i suoni del linguaggio parlato.
Le Scienze 26.07.2004
Il pensiero dei neonati
Un'analisi dei precursori concettuali del linguaggio
I bambini di cinque mesi fanno distinzioni su categorie di eventi che i loro genitori non percepiscono, rivelando così nuove informazioni su come si sviluppa il linguaggio negli esseri umani. La ricerca, condotta dalle psicologhe Sue Hespos della Vanderbilt University di Nashville ed Elizabeth Spelke dell'Università di Harvard, è stata pubblicata sul numero del 22 luglio della rivista "Nature".
"Studi precedenti - spiega Hespos - hanno mostrato che gli adulti dividono le cose in categorie differenti a seconda della lingua che parlano. Ma se il linguaggio influenza il modo di pensare degli adulti, che cosa succede nei bambini che non sanno ancora parlare? Il linguaggio si fonda su un sistema pre-esistente di interazioni con il mondo tridimensionale e i suoi oggetti. Questa capacità suggerisce che i bambini sappiano pensare prima ancora di imparare a parlare".
Hespos e Spelke hanno studiato bambini di cinque mesi per vedere se erano in grado di prestare attenzione alle relazioni fra gli oggetti. I risultati indicano che i bambini sono in grado di individuare determinati concetti che gli adulti, invece, non distinguono spontaneamente. "Gli esseri umani - conclude Spelke - possiedono una ricca varietà di concetti anche prima di apprendere il linguaggio. A seconda della lingua che apprendiamo, siamo portati a favorire alcuni di questi concetti rispetto ad altri, ma esistevano tutti prima che li esprimessimo con le parole".
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