Corriere della Sera 27.2.05
TRASFERTE GUGGENHEIM
Roma: arte
Franco Fanelli
Il Guggenheim Museum di New York possiede 1.800 opere, ma ne espone una minima parte, perché preferisce puntare sulle mostre temporanee, economicamente più redditizie. Un eccellente «ritorno» è garantito anche dalle trasferte delle opere: 75 di queste, da Monet a Warhol, saranno esposte dal 3 marzo al 5 giugno alle Scuderie del Quirinale a Roma. Il bilancio del Museo non è esaltante, quindi urge fare cassa anche attraverso il «noleggio» delle opere. Il «canone» per la mostra di Roma è top-secret. Si conoscono i costi complessivi, circa un milione e mezzo di euro; anche detratte le spese di spedizione, assicurazione, allestimento e catalogo a carico del Guggenheim, al «locatore» resta pur sempre una discreta cifra. Il successo, comunque, dovrebbe essere garantito anche ai «locatari»: lo scorso anno il Museum of Modern Art, durante la chiusura per ristrutturazione della sede newyorkese, ha spedito a Berlino 200 pezzi: risultato, un milione e 200 mila visitatori. Il direttore del Guggenheim, Thomas Krens, è criticato per la labilità culturale della linea intrapresa, comprensiva di mostre come quelle di Armani o sulle motociclette, utili soprattutto a rimpinguare gli incassi. Krens è sostenitore dell’espansionismo del Museo all’estero, culminato con la filiale di Bilbao, e secondo i detrattori tende a trascurare gli affari di casa: la sezione del Museo a Soho è stata chiusa ed è incerto anche l’ampliamento della casa-madre, capolavoro dell’architetto Frank Lloyd Wright. Ma questi sono i tempi dell’arte come intrattenimento, con buona pace della cultura «pura».
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
domenica 27 febbraio 2005
la clonazione terapeutica
Tempo Medico on line n. 789 - 27 febbraio 2005
Clonazione terapeutica: Gran Bretagna capofila
Autorizzazione alla ricerca concessa
di Donatella Poretti
Risale a un anno fa, esattamente al 12 febbraio 2004, la pubblicazione su Science dei risultati del primo esperimento di clonazione terapeutica. L'annuncio a Washington: l'Università nazionale di Seul e l'équipe guidata da Woo Suk Hwang, con la supervisione di Jose Cibelli e del suo gruppo dell'Università del Michigan, avevano dimostrato la possibilità di ottenere cellule staminali embrionali umane con il patrimonio genetico della persona a cui avrebbero potuto essere trapiantate per curare per esempio, le malattie neurodegenerative.
A distanza di 12 mesi la Corea del Sud celebra il suo primato con un francobollo: un uomo si alza da una carrozzella per tornare a camminare. Da gennaio nel paese asiatico è entrata in vigore una legge che vieta la clonazione umana riproduttiva e regolamenta le ricerche per quella a scopo terapeutico.
La Gran Bretagna, che per prima nel 2001 decise di seguire le indicazioni del "Rapporto Donaldson" - il documento tecnico del 2000 che raccomandava di dotarsi di un quadro legislativo per questo tipo di ricerche - nell'agosto 2004 ha concesso la prima autorizzazione all'Università di Newcastle. Per un anno i ricercatori potranno studiare il trasferimento nucleare e le staminali embrionali così ottenute per trovare una cura per il diabete, una patologia che colpisce 180-200 milioni di persone nel mondo. E proprio in questo mese l'HFEA (Human Fertilisation and Embryology Authority) ha rilasciato una seconda autorizzazione, questa volta per Ian Wilmut, il "papà" della pecora Dolly. Angela McNab, direttore esecutivo dell'HFEA ha spiegato il perché: "Noi riconosciamo che le malattie neuromotorie sono gravi e congenite. Dopo avere attentamente esaminato i risvolti medici, scientifici, giuridici ed etici della richiesta, abbiamo giudicato appropriato concedere al Roslin Institute una licenza di un anno per la ricerca su queste malattie". Attualmente sono incurabili e colpiscono circa 100 mila persone in Europa e negli Stati Uniti. "La nostra ambizione è che il Regno Unito diventi la capitale della scienza del mondo" aveva preannunciato il premier Tony Blair. "La ricerca sulle cellule staminali è solo un esempio di una nuova area della scienza che ha un potenziale incredibile per migliorare la qualità della vita".
Un investimento finanziario e politico importante quello del governo britannico, ma che potrebbe non bastare. E così nomi illustri della scienza si mobilitano per creare una fondazione che raddoppi l'impegno. Dal presidente del gruppo Virgin, Richard Branson, all'esperto di fertilità e personaggio televisivo Robert Winston, dal presidente della Royal Society ed ex scienziato capo britannico Robert May, fino al genetista e autore di best seller Steve Jones. "Il paese è stato pioniere in questo campo, ma adesso stiamo arretrando leggermente, mentre altri corrono avanti" ha dichiarato lo scienziato e imprenditore Chris Evans. "Assistiamo a grandi progressi in Cina, Corea, Giappone e Germania, mentre gli Stati Uniti profondono denaro a piene mani".
Nel 2000 l'Italia, sulle tracce della Gran Bretagna, istituì una commissione tecnica guidata dal premio Nobel Renato Dulbecco, che giunse a conclusioni simili riguardo all'opportunità di compiere ricerche sulle staminali. Ad avere preso strade diverse è stata la politica.
Clonazione terapeutica: Gran Bretagna capofila
Autorizzazione alla ricerca concessa
di Donatella Poretti
Risale a un anno fa, esattamente al 12 febbraio 2004, la pubblicazione su Science dei risultati del primo esperimento di clonazione terapeutica. L'annuncio a Washington: l'Università nazionale di Seul e l'équipe guidata da Woo Suk Hwang, con la supervisione di Jose Cibelli e del suo gruppo dell'Università del Michigan, avevano dimostrato la possibilità di ottenere cellule staminali embrionali umane con il patrimonio genetico della persona a cui avrebbero potuto essere trapiantate per curare per esempio, le malattie neurodegenerative.
A distanza di 12 mesi la Corea del Sud celebra il suo primato con un francobollo: un uomo si alza da una carrozzella per tornare a camminare. Da gennaio nel paese asiatico è entrata in vigore una legge che vieta la clonazione umana riproduttiva e regolamenta le ricerche per quella a scopo terapeutico.
La Gran Bretagna, che per prima nel 2001 decise di seguire le indicazioni del "Rapporto Donaldson" - il documento tecnico del 2000 che raccomandava di dotarsi di un quadro legislativo per questo tipo di ricerche - nell'agosto 2004 ha concesso la prima autorizzazione all'Università di Newcastle. Per un anno i ricercatori potranno studiare il trasferimento nucleare e le staminali embrionali così ottenute per trovare una cura per il diabete, una patologia che colpisce 180-200 milioni di persone nel mondo. E proprio in questo mese l'HFEA (Human Fertilisation and Embryology Authority) ha rilasciato una seconda autorizzazione, questa volta per Ian Wilmut, il "papà" della pecora Dolly. Angela McNab, direttore esecutivo dell'HFEA ha spiegato il perché: "Noi riconosciamo che le malattie neuromotorie sono gravi e congenite. Dopo avere attentamente esaminato i risvolti medici, scientifici, giuridici ed etici della richiesta, abbiamo giudicato appropriato concedere al Roslin Institute una licenza di un anno per la ricerca su queste malattie". Attualmente sono incurabili e colpiscono circa 100 mila persone in Europa e negli Stati Uniti. "La nostra ambizione è che il Regno Unito diventi la capitale della scienza del mondo" aveva preannunciato il premier Tony Blair. "La ricerca sulle cellule staminali è solo un esempio di una nuova area della scienza che ha un potenziale incredibile per migliorare la qualità della vita".
Un investimento finanziario e politico importante quello del governo britannico, ma che potrebbe non bastare. E così nomi illustri della scienza si mobilitano per creare una fondazione che raddoppi l'impegno. Dal presidente del gruppo Virgin, Richard Branson, all'esperto di fertilità e personaggio televisivo Robert Winston, dal presidente della Royal Society ed ex scienziato capo britannico Robert May, fino al genetista e autore di best seller Steve Jones. "Il paese è stato pioniere in questo campo, ma adesso stiamo arretrando leggermente, mentre altri corrono avanti" ha dichiarato lo scienziato e imprenditore Chris Evans. "Assistiamo a grandi progressi in Cina, Corea, Giappone e Germania, mentre gli Stati Uniti profondono denaro a piene mani".
Nel 2000 l'Italia, sulle tracce della Gran Bretagna, istituì una commissione tecnica guidata dal premio Nobel Renato Dulbecco, che giunse a conclusioni simili riguardo all'opportunità di compiere ricerche sulle staminali. Ad avere preso strade diverse è stata la politica.
angosce duemila
miti e genetica
La Repubblica 27.2.06
Alla ricerca della nuova chimera
Esperimenti di frontiera
le scienze
EMILIO PIERVINCENZI
Il Mito racconta che fu Bellerofonte, eroe dei Corinzi, a uccidere la Chimera, l´animale fantastico. Chi sarà a uccidere, oggi, la Chimera che la Scienza - non Echidna e Tifone, i genitori dell´animale con testa di leone, corpo di capra e coda di serpente - hanno iniziato a generare? Se Irving Weissman, biologo dell´università di Stanford, oltre a conoscere i mondi della genetica conoscesse i misteri del Mito, avrebbe qualche preoccupazione. Questi animali fantastici, minotauri, draghi o unicorni (per avere quest´ultimo, assicurano gli Dei, basta associare un dente di narvalo, un mammifero marino, al corpo del cavallo), non sono certo antenati, neppure lontani, del piccolo topo con cervello di uomo che Weissman è stato pochi giorni fa autorizzato a creare dal Comitato etico della prestigiosa università americana. Ne evocano il fascino dell´incertezza dei confini e delle contaminazioni, ma sono distanti per una questione centrale: quelli, gli unicorni e i draghi, erano il frutto della mente immaginifica dell´uomo e tutt´al più ne potevano occupare gli incubi e agitarne le ansie; questo, il piccolo "topumano", invece, ci fa tornare con i piedi per terra, alimenta le speranze mediche di cura per malattie neurologiche finora impossibili da aggredire, al massimo promette di gonfiare l´Ego di un ricercatore (forse anche il suo portafoglio) e il suo sogno di coronare con un Nobel una prestigiosa - e magari anche spregiudicata - carriera.
Weissman è in buona compagnia. Nel mondo scientifico, dove non esistono barriere etiche e giuridiche, la ricerca sulle chimere affascina molti altri centri universitari. Sarà perché gli xenotrapianti sono meno popolari di un tempo, per il pericolo virus che l´organo animale porta con se quando viene trapiantato sull´uomo (nemmeno le valvole con tessuto di maiale si usano più: davano problemi e sono state sostituite da materiali sintetici), sta di fatto che dagli Stati Uniti al Canada alla Cina la caccia alla chimera è aperta. Maiali che vivono - e bene - con sangue umano, pecore del Nevada che hanno il fegato per l´80 per cento umano, embrioni di uomo-coniglio che hanno resistito alcune settimane in un laboratorio di Shanghai, galline che fanno il verso e muovono la testa come le quaglie perché il professor Balaban, della McGill University di Montreal, ha fatto crescere neuroni di quaglia nel cervello delle galline.
L´ultima scoperta in ordine di tempo viene da Israele. Spiega il professor Giuseppe Novelli, ordinario di genetica all´università Tor Vergata di Roma: «È stato dimostrato che cellule staminali embrionali di maiale, se inserite al momento giusto del loro sviluppo, possono essere utilizzate per produrre organi come fegato, pancreas e polmoni da usare nell´uomo. Hanno scoperto il timing esatto, che finora non era noto».
Anche l´esperimento della Stanford University è molto promettente. Che cosa sta facendo il professor Weissman? Sta trapiantando neuroni umani nel cervello di topi da laboratorio. Il lavoro, condotto in team dalla università californiana e dall´azienda biotecnologia Stem Cells di Palo Alto, procede rapidamente. Le linee di ricerca sono essenzialmente due, una prevede l´inserimento di cellule umane malate dentro topi in salute, un´altra cellule umane sane in topi malati. L´ultimo stadio, solo teorico per la profonda diversità dei due cervelli, è la sostituzione totale delle cellule neuronali del topo con quelle umane. Ma difficilmente arriveremo alla situazione immaginata da H. G. Wells nell´Isola del dottor Moreau (1896): folli sperimentatori che si divertono a unire parti umane con parti animali.
Molto più realisticamente la ricerca punta a seguire l´evoluzione dei neuroni umani per tentare di capire come questi diventano difettosi. Weissman e il suo team hanno iniettato neuroni umani in feti di topi creando una classica chimera, topi con cervello per circa l´uno per cento umano, e questo ha loro consentito di osservare come le cellule umane si aggregano a quelle del topo, come si moltiplicano, quali connessioni fanno. «Ora aggiungeremo cellule di neuroni umani malate di Alzheimer, o della malattia di Lou Gehrig o di altri difetti cerebrali e osserveremo le conseguenze nel cervello del topo. Stiamo imparando una lezione che sarebbe stata impensabile con un bando etico nella ricerca sulle chimere», specifica Weissman.
Cogliere dunque l´attimo in cui una cellula modifica in peggio la sua esistenza e provoca nel cervello una sorta di tsunami biologico. Ecco l´obiettivo delle chimere create a Stanford. In futuro potrebbero essere sostituite regioni malate del cervello del topo con cellule umane sane ottenute dai feti. Ci sono malattie del sistema nervoso di cui non sappiamo ancora nulla. Non sappiamo, ad esempio, come la paralisi che ha colpito l´astrofisico Hawking sia emersa, né immaginiamo che cosa l´abbia scatenata. Non sappiamo ancora abbastanza del Parkinson e dell´Alzheimer, né della schizofrenia o dell´autismo o della sclerosi. In fondo, la ricerca della Stanford punta a creare una sorta di "provetta da test con i peli". Ian Wilmut, il creatore della pecora Dolly, è stato autorizzato quindici giorni fa a produrre neuroni umani a partire da malati gravi del sistema nervoso attraverso la clonazione, Weissman è andato oltre: Wilmut fa esperimenti in provetta, Weissman li fa su un animale e per questo la sua avventura scientifica si incammina verso il confine sottile che separa la conoscenza dall´oblio. Qui si tratta di cervello, dove dovrebbe trovare posto la coscienza, quel che - dicono - ci differenzia dalle altre specie animali.
Gli americani comunque ci credono. Per la prima volta, infatti, è stato posto il problema della creazione delle chimere e il Comitato etico universitario di Stanford ha autorizzato formalmente la ricerca di Weissman. Il via libera è stato motivato così da Henry T. Greely, direttore del Centro per la legge e le scienze biologiche nonché capo del Comitato etico: «Abbiamo deciso che se vedremo un qualche segnale che ci riconduce al cervello umano o se il topo mostra comportamenti simili a quelli dell´uomo, del genere di una accresciuta memoria o di una maggiore capacità di risolvere i problemi, ci fermeremo». L´università californiana affronta dunque, prima nel mondo non solo negli Stati Uniti, la seguente questione filosofica: quando una chimera smette di essere animale e comincia a diventare uomo?
La sindrome di Frankenstein è in agguato. «La biotecnologia sta arrivando al suo limite», accusa Wesley J. Smith, del Discovery Institute. Già lo scorso anno il Canada ha specificamente messo al bando la creazione di chimere a scopo scientifico e Cynthia Cohen, membro del Canada´s Stem Cell Oversight Committee, suggerisce: «Anche negli Stati Uniti le chimere dovrebbero essere impedite, mischiare uomo e animale diminuisce la dignità umana». La National Academy of Sciences, cui spetta il compito di consigliare il governo federale sulle decisioni da assumere nelle questioni scientifiche, sta studiando la materia. Il prossimo mese presenteranno un piano agli scienziati con le linee guida da seguire in caso di ricerche sulle chimere. Greely dunque, che ha messo nel conto di trasformarsi nel Bellerofonte del ventunesimo secolo, non è il solo a doversi preoccupare delle chimere scientifiche. Sostiene Thomas Starzl, uno dei massimi sostenitori della chimerizzazione umana: «Assumere lo straniero in corpo ha un obbiettivo preciso: migliorare la specie umana».
Roberto Marchesini, direttore dei Quaderni di Bioetica, che sulle chimere ha scritto un bel libro (La fabbrica delle chimere, Bollati Boringhieri), sposta l´angolo di osservazione, dal laboratorio di Stanford a quello che definisce «uno dei maggiori movimenti culturali che si affacciano sul XXI secolo, il post-umano». Dice: «Non si tratta solo di discutere sulla quallina o sulla caprapecora, ibridi animali realmente ottenuti dai ricercatori alla fine degli anni Novanta, o di dire se si sta dalla parte di Weissman o da quella di chi alza un muro davanti alla ricerca sugli embrioni umani - argomenta Marchesini - la chimerizzazione della società è sotto gli occhi di tutti, basta riflettere sulla modificazione culturale dell´immagine dell´uomo. È un´epoca, la nostra, in cui i tabù della purezza sono superati, in cui la contaminazione di specie diverse, di organico e inorganico, uomo e animale, è diventata un paradigma culturale affascinante e ormai abbastanza comune. Piacciono gli esseri umani con parti meccaniche, oppure capaci di ospitare cervelli e sensazioni soprannaturali, basti pensare al successo di film come Blade Runner e Matrix. Esiste inoltre la ricerca artistica sulla chimera, come quella che fa Daniel Lee con i suoi grandi quadri, che a New York hanno raggiunto quotazioni inarrivabili, dove i protagonisti sono un po´ uomini e un po´ animali. Ma c´è anche una tendenza estetica, forse più effimera e commerciale, ma molto in crescita. Sempre più donne, in particolare negli Stati Uniti, si rifanno a modelli animali: si felinizzano il viso, lavorando sul taglio degli occhi, gli zigomi, i padiglioni auricolari. Sì, piace la donna-gatto. Forse una legge può fermare la ricerca scientifica, come accade in Italia che in campi come questi è drammaticamente fuorigioco. Ma certamente nessuno può frenare una tendenza culturale».
Alla ricerca della nuova chimera
Esperimenti di frontiera
le scienze
EMILIO PIERVINCENZI
Il Mito racconta che fu Bellerofonte, eroe dei Corinzi, a uccidere la Chimera, l´animale fantastico. Chi sarà a uccidere, oggi, la Chimera che la Scienza - non Echidna e Tifone, i genitori dell´animale con testa di leone, corpo di capra e coda di serpente - hanno iniziato a generare? Se Irving Weissman, biologo dell´università di Stanford, oltre a conoscere i mondi della genetica conoscesse i misteri del Mito, avrebbe qualche preoccupazione. Questi animali fantastici, minotauri, draghi o unicorni (per avere quest´ultimo, assicurano gli Dei, basta associare un dente di narvalo, un mammifero marino, al corpo del cavallo), non sono certo antenati, neppure lontani, del piccolo topo con cervello di uomo che Weissman è stato pochi giorni fa autorizzato a creare dal Comitato etico della prestigiosa università americana. Ne evocano il fascino dell´incertezza dei confini e delle contaminazioni, ma sono distanti per una questione centrale: quelli, gli unicorni e i draghi, erano il frutto della mente immaginifica dell´uomo e tutt´al più ne potevano occupare gli incubi e agitarne le ansie; questo, il piccolo "topumano", invece, ci fa tornare con i piedi per terra, alimenta le speranze mediche di cura per malattie neurologiche finora impossibili da aggredire, al massimo promette di gonfiare l´Ego di un ricercatore (forse anche il suo portafoglio) e il suo sogno di coronare con un Nobel una prestigiosa - e magari anche spregiudicata - carriera.
Weissman è in buona compagnia. Nel mondo scientifico, dove non esistono barriere etiche e giuridiche, la ricerca sulle chimere affascina molti altri centri universitari. Sarà perché gli xenotrapianti sono meno popolari di un tempo, per il pericolo virus che l´organo animale porta con se quando viene trapiantato sull´uomo (nemmeno le valvole con tessuto di maiale si usano più: davano problemi e sono state sostituite da materiali sintetici), sta di fatto che dagli Stati Uniti al Canada alla Cina la caccia alla chimera è aperta. Maiali che vivono - e bene - con sangue umano, pecore del Nevada che hanno il fegato per l´80 per cento umano, embrioni di uomo-coniglio che hanno resistito alcune settimane in un laboratorio di Shanghai, galline che fanno il verso e muovono la testa come le quaglie perché il professor Balaban, della McGill University di Montreal, ha fatto crescere neuroni di quaglia nel cervello delle galline.
L´ultima scoperta in ordine di tempo viene da Israele. Spiega il professor Giuseppe Novelli, ordinario di genetica all´università Tor Vergata di Roma: «È stato dimostrato che cellule staminali embrionali di maiale, se inserite al momento giusto del loro sviluppo, possono essere utilizzate per produrre organi come fegato, pancreas e polmoni da usare nell´uomo. Hanno scoperto il timing esatto, che finora non era noto».
Anche l´esperimento della Stanford University è molto promettente. Che cosa sta facendo il professor Weissman? Sta trapiantando neuroni umani nel cervello di topi da laboratorio. Il lavoro, condotto in team dalla università californiana e dall´azienda biotecnologia Stem Cells di Palo Alto, procede rapidamente. Le linee di ricerca sono essenzialmente due, una prevede l´inserimento di cellule umane malate dentro topi in salute, un´altra cellule umane sane in topi malati. L´ultimo stadio, solo teorico per la profonda diversità dei due cervelli, è la sostituzione totale delle cellule neuronali del topo con quelle umane. Ma difficilmente arriveremo alla situazione immaginata da H. G. Wells nell´Isola del dottor Moreau (1896): folli sperimentatori che si divertono a unire parti umane con parti animali.
Molto più realisticamente la ricerca punta a seguire l´evoluzione dei neuroni umani per tentare di capire come questi diventano difettosi. Weissman e il suo team hanno iniettato neuroni umani in feti di topi creando una classica chimera, topi con cervello per circa l´uno per cento umano, e questo ha loro consentito di osservare come le cellule umane si aggregano a quelle del topo, come si moltiplicano, quali connessioni fanno. «Ora aggiungeremo cellule di neuroni umani malate di Alzheimer, o della malattia di Lou Gehrig o di altri difetti cerebrali e osserveremo le conseguenze nel cervello del topo. Stiamo imparando una lezione che sarebbe stata impensabile con un bando etico nella ricerca sulle chimere», specifica Weissman.
Cogliere dunque l´attimo in cui una cellula modifica in peggio la sua esistenza e provoca nel cervello una sorta di tsunami biologico. Ecco l´obiettivo delle chimere create a Stanford. In futuro potrebbero essere sostituite regioni malate del cervello del topo con cellule umane sane ottenute dai feti. Ci sono malattie del sistema nervoso di cui non sappiamo ancora nulla. Non sappiamo, ad esempio, come la paralisi che ha colpito l´astrofisico Hawking sia emersa, né immaginiamo che cosa l´abbia scatenata. Non sappiamo ancora abbastanza del Parkinson e dell´Alzheimer, né della schizofrenia o dell´autismo o della sclerosi. In fondo, la ricerca della Stanford punta a creare una sorta di "provetta da test con i peli". Ian Wilmut, il creatore della pecora Dolly, è stato autorizzato quindici giorni fa a produrre neuroni umani a partire da malati gravi del sistema nervoso attraverso la clonazione, Weissman è andato oltre: Wilmut fa esperimenti in provetta, Weissman li fa su un animale e per questo la sua avventura scientifica si incammina verso il confine sottile che separa la conoscenza dall´oblio. Qui si tratta di cervello, dove dovrebbe trovare posto la coscienza, quel che - dicono - ci differenzia dalle altre specie animali.
Gli americani comunque ci credono. Per la prima volta, infatti, è stato posto il problema della creazione delle chimere e il Comitato etico universitario di Stanford ha autorizzato formalmente la ricerca di Weissman. Il via libera è stato motivato così da Henry T. Greely, direttore del Centro per la legge e le scienze biologiche nonché capo del Comitato etico: «Abbiamo deciso che se vedremo un qualche segnale che ci riconduce al cervello umano o se il topo mostra comportamenti simili a quelli dell´uomo, del genere di una accresciuta memoria o di una maggiore capacità di risolvere i problemi, ci fermeremo». L´università californiana affronta dunque, prima nel mondo non solo negli Stati Uniti, la seguente questione filosofica: quando una chimera smette di essere animale e comincia a diventare uomo?
La sindrome di Frankenstein è in agguato. «La biotecnologia sta arrivando al suo limite», accusa Wesley J. Smith, del Discovery Institute. Già lo scorso anno il Canada ha specificamente messo al bando la creazione di chimere a scopo scientifico e Cynthia Cohen, membro del Canada´s Stem Cell Oversight Committee, suggerisce: «Anche negli Stati Uniti le chimere dovrebbero essere impedite, mischiare uomo e animale diminuisce la dignità umana». La National Academy of Sciences, cui spetta il compito di consigliare il governo federale sulle decisioni da assumere nelle questioni scientifiche, sta studiando la materia. Il prossimo mese presenteranno un piano agli scienziati con le linee guida da seguire in caso di ricerche sulle chimere. Greely dunque, che ha messo nel conto di trasformarsi nel Bellerofonte del ventunesimo secolo, non è il solo a doversi preoccupare delle chimere scientifiche. Sostiene Thomas Starzl, uno dei massimi sostenitori della chimerizzazione umana: «Assumere lo straniero in corpo ha un obbiettivo preciso: migliorare la specie umana».
Roberto Marchesini, direttore dei Quaderni di Bioetica, che sulle chimere ha scritto un bel libro (La fabbrica delle chimere, Bollati Boringhieri), sposta l´angolo di osservazione, dal laboratorio di Stanford a quello che definisce «uno dei maggiori movimenti culturali che si affacciano sul XXI secolo, il post-umano». Dice: «Non si tratta solo di discutere sulla quallina o sulla caprapecora, ibridi animali realmente ottenuti dai ricercatori alla fine degli anni Novanta, o di dire se si sta dalla parte di Weissman o da quella di chi alza un muro davanti alla ricerca sugli embrioni umani - argomenta Marchesini - la chimerizzazione della società è sotto gli occhi di tutti, basta riflettere sulla modificazione culturale dell´immagine dell´uomo. È un´epoca, la nostra, in cui i tabù della purezza sono superati, in cui la contaminazione di specie diverse, di organico e inorganico, uomo e animale, è diventata un paradigma culturale affascinante e ormai abbastanza comune. Piacciono gli esseri umani con parti meccaniche, oppure capaci di ospitare cervelli e sensazioni soprannaturali, basti pensare al successo di film come Blade Runner e Matrix. Esiste inoltre la ricerca artistica sulla chimera, come quella che fa Daniel Lee con i suoi grandi quadri, che a New York hanno raggiunto quotazioni inarrivabili, dove i protagonisti sono un po´ uomini e un po´ animali. Ma c´è anche una tendenza estetica, forse più effimera e commerciale, ma molto in crescita. Sempre più donne, in particolare negli Stati Uniti, si rifanno a modelli animali: si felinizzano il viso, lavorando sul taglio degli occhi, gli zigomi, i padiglioni auricolari. Sì, piace la donna-gatto. Forse una legge può fermare la ricerca scientifica, come accade in Italia che in campi come questi è drammaticamente fuorigioco. Ma certamente nessuno può frenare una tendenza culturale».
brevi dal web
gazzettadelsud.it 27 febbraio 2005
L'elefantiaca mostra torinese curata da Vittorio Sgarbi e dedicata al «Male»
Esercizi di pittura crudele
Da Antonello a Caravaggio, da Kantor a Munch
Vincenzo Bonaventura
In principio fu Antonello da Messina. Almeno secondo Vittorio Sgarbi, curatore dell'elefantiaca mostra Il male, esercizi di pittura crudele, inaugurata venerdì sera nella Palazzina di Caccia di Stupinigi (Torino), dove rimarrà aperta fino al 26 giugno. Perché con Antonello e i suoi inquietanti ritratti, dice Sgarbi, «ha inizio l'individualità del male, la sua identità storica, non simbolica, non esemplare, non metafisica. Il male e basta. Il male senza redenzione». Perché nell'enorme iconografia artistica che si può ricondurre al tema del male, Antonello è un innovatore, anzi un precursore, visto che i suoi ritratti, tra fisiognomica e finissima psicologia, sembrano quasi irrompere fra i dipinti del XX secolo, che già hanno conosciuto Freud e i suoi seguaci. In mostra c'è il Ritratto d'uomo, conservato in Palazzo Madama a Torino, già definito da Valdo Fusi «traumatizzante ritratto di mafioso». E Sgarbi ci ha dato dentro col concetto di mafioso, anche se qualunque storico potrebbe sorridere all'idea di una mafia esistente già nel Quattrocento. Semmai con quello sguardo trasversale e un sorriso appena accennato, ma sufficiente per segnargli il viso di propositi cattivissimi, il personaggio ritratto potrebbe essere un gentiluomo (ma non troppo) di campagna di qualsiasi parte del mondo, intelligente e malefico attore del suo microcosmo, sia esso siciliano, sia esso bergamasco o ferrarese (ammesso che anche qui ci siano gentiluomini di campagna intelligenti). Tant'è: vista che purtroppo la mafia oggi sicuramente c'è – e permane bene per giunta – che necessità c'è di riportarla indietro fino al Quattrocento e farne ambasciatore Antonello, un grande che ben altro ha esportato nel mondo dalla Sicilia? Forse nessuna, se non il gusto di stupire e far clamore. E infatti, ammettiamolo, quella di Sgarbi è stata soprattutto una battuta, utile a capire l'intensità di quel Ritratto. Rimane, invece, la circostanza che Antonello a Stupinigi è ospite di un altro grande messinese, Filippo Juvarra, l'architetto cui Torino deve la sua invidiata urbanistica, e che nel 1729 creò per i Savoia la celebre Palazzina di Caccia. La mostra di Sgarbi risente dello stile del suo curatore, o meglio di quella sorta di bulimia artistica, di compulsione ad addendum di ridondanza che diventa norma, per cui anche durante la conferenza stampa di ieri mattina, altri pezzi si aggiungevano alla mostra, partita con l'idea di un allestimento di 200-250 opere e arrivata a quasi 600. Tutto arte? Può essere discutibile per alcuni, ma sembra giusto avere aggiunto alla pittura e alla scultura anche la fotografia, i fumetti, i giornali satirici (poteva mancare Il male, non dimenticata testata iconoclasta?), il cinema, il teatro (si vede il video de La classe morta di Tadeusz Kantor), la televisione (con la riproduzione, tra l'altro, di un programma di Maria De Filippi). E si può discutere all'infinito anche su che cosa può rientrare nel concetto di male: dolore fisico, sacrificio, melanconia, morte, cattiveria, erotismo, sadismo, masochismo, crudeltà, menzogna... Un elenco infinito, talmente infinito che ha messo ko perfino Sgarbi che, pur aggiungendo opere fino all'ultimo secondo, si è soffermato su due punti. Un male, diciamo religioso, che lui ha definito «Cristo per tutti», e che ha come fine la redenzione o un aldilà, dove la gioia sostituirà il dolore. E un male che è dentro di noi, definito «ognuno per sé», idealmente introdotto da L'urlo di Munch (che naturalmente non è in mostra, essendo stato rubato qualche tempo fa). Il percorso cronologico ha quindi una sua logica ed entra nella coscienza del visitatore, lo aggredisce e in qualche maniera lo rende diverso perché non si può rimanere insensibili emotivamente a quello che si vede. Vedere il male genera il bene oppure altro male? Questa è una domanda forse ovvia e tuttavia destinata a non avere una risposta definitiva: ognuno di noi può procedere per imitazione o per contrasto. Per non sbagliare, comunque, la mostra è vietata ai minori. A colpire è anche il fatto che i capolavori sono pochi, ma sono tantissime le opere quasi sconosciute, perfette per illustrare il tema. Tra i capolavori spicca Cristo coronato di spine del Beato Angelico, conservato «fin troppo bene» nel museo di Livorno, nel senso che si trova in una stanza quasi sempre diffusa. «Sembra il Cristo del film The passion di Mel Gibson, pur nell'armonia del Beato Angelico», dice Sgarbi e ha ragione perché il ritratto è di insolita durezza per quell'artista. E ci sono ancora lo straordinario Seppellimento di Santa Lucia di Caravaggio, proveniente da Siracusa, il Fanciullo morso da una ramarro dello stesso Caravaggio, e il famosissimo bulino di Albrecht Durer Il cavaliere, la morte e il diavolo. Pure, tra tanti «memento mori», Caino e Abele, Giuditta e Oloferne, David e Golia, Salomè e San Giovanni Battista, martiri di ogni tipo, colpiscono opere davvero insolite, come i cinquecenteschi Ira di Dosso Dossi, con due donne che si accapigliano, e Mangiatore del braccio di Bartolomeo Passerotti, con un uomo cannibale di se stesso; i seicenteschi Alchimisti di Pietro della Vecchia, con personaggi-mostri, La strega, nuda e orrenda, di Salvator Rosa, e la cera colorata La Pestilenza del siracusano Gaetano Giulio Zumbo; il settecentesco Interrogatorio in carcere di Alessandro Magnasco, un vero campionario di crudeltà. Forse, però, la sorpresa vera viene dalle opere a noi più vicine nel tempo, quando la figurazione perde la sua morfologia per costruire i suoi personaggi come trasfigurati (in peggio) dall'inconscio. E come se l'uomo, all'improvviso, si sia accorto di essere diventato un mostro. Un esempio? L'urlo di Enrico Colombotto Rosso. Dove una figura femminile in nero sembra galleggiare tragicamente su una tela rosso sangue. E anche dove la figurazione riappare, come in Abramo e Isacco di Riccardo Tommaso Ferroni, versione in jeans della storia biblica, c'è sempre qualcosa di inquietante e sotteso. Addirittura le terrecotte policrome di Paul Schmidlin e l'installazione Sacrificio umano di Mathilde Ter Heijne, con una donna che si triplica per essere carnefice di se stessa, puntano a un realismo fotografico, che pure sembra essere espressione di un incubo. E perfino l'elegante video del grande artista italoamericano Bill Viola, Remembrance, con il suo costante cambio d'espressione sembra raccontare del nostro dolore più interiore, quello che non riusciamo a esprimere.
gazzettadelsud.it 27 febbraio 2005
la spedizione archeologica di Emmanuel Anati
I resti di questo luogo rituale di culto, risalenti a 40 mila anni fa, sono stati scoperti sull'altopiano Har Karkom
Il tempio più antico del mondo sul “vero” monte Sinai
Marco Passelli
I resti di un tempio, o meglio un luogo rituale di culto, risalenti a 40 mila anni fa, sono stati scoperti sull'altopiano Har Karkom, un plateau di 850 metri sul livello del mare che, secondo molti studiosi, sarebbe il vero monte Sinai della tradizione biblica e che si trova a nord dell'omonima penisola, tra le città Eilat e Mizperamon. Ai piedi sono inoltre stati trovati segni di accampamenti risalenti alle ipotetiche date dell'esodo degli ebrei dall'Egitto. La scoperta è stata fatta nel corso della spedizione archeologica italiana nel Sinai e nel deserto del Negev, diretta dal professor Emmanuel Anati, fondatore e direttore del Centro Camuno di Studi Preistorici, che ha sede in Valcamonica, in provincia di Brescia, e che è stato docente di preistoria all'università di Tel Aviv e di Paletnologia all'università di Lecce. Anati, che da 24 anni svolge ricerche nella zona a nord del Sinai e nel deserto del Negev, illustrerà le sue recenti scoperte mercoledì prossimo, 2 marzo, alla 10,30 a Livorno, nella Biblioteca Labronica, in occasione della Conferenza Enriques 2005. I resti individuati sul Har Karkom risultano ad oggi, secondo il professor Anati, quelli del tempio più antico del mondo. Si tratta di una serie di monoliti antropomorfi, una quarantina in tutto, sistemati in un avvallamento, invisibile dal basso, e sull'orlo di un precipizio. «Appare come un vero e proprio luogo di culto risalente al periodo di passaggio tra il paleolitico medio e quello superiore – spiega il professor Anati – che attesta l'antichissima sacralità del luogo posto lungo il percorso migratorio tra l'Africa e l'Asia». Lungo tutto l'altopiano ci sono tracce di templi anche di epoche successive ed ai piedi del rilievo la spedizione del professor Anati ha trovato tracce di accampamenti umani risalenti al periodo indicato dalla tradizione biblica come quello dell'uscita degli ebrei dall'Egitto sotto la guida della mitica figura di Mosè. Sono stati scoperti fondi di capanne in pietra e fondi scavati nel terreno. «Le tracce – spiega il professore – indicano almeno 120 accampamenti capaci di ospitare diverse migliaia di persone». Il fatto che questi siano stati trovati ai piedi del rilievo e che, invece, i templi si trovassero sulla sommità fa inoltre pensare ad una netta divisione dei ruoli in quelle antiche società che riservavano quello sacro solo ad una ristretta cerchia di iniziati ammessi a salire sulla montagna sacra. Tutto ciò confermerebbe la narrazione biblica che parla di un solo uomo, Mosè, autorizzato a salire sul monte. «Le nuove scoperte – spiega Anati, che si riserva di scoprire tutte le carte in occasione della conferenza di Livorno – rimettono inoltre in discussione le date ipotetiche dell'esodo degli ebrei dall'Egitto che potrebbe risalire ad un'epoca precedente». La convinzione che il vero Monte Sinai della tradizione biblica sia in realtà lo Har Karkom non è solo di Emmanuel Anati, ma è condivisa da molti altri studiosi. «L'indicazione di quello dove sorge il santuario di Santa Caterina come il Monte Sinai sul quale salì Mosè – spiega Anati – fu assunta in epoca bizantina, trecentocinquanta anni dopo Cristo e molto probabilmente questo accade solo perché era la montagna più alta della zona».
gazzettadiparma.it 27 febbraio 2005
Lotta al disagio psichico
«Il disagio psichico è un problema che riguarda tutti e da cui nessuno è immune » , ha affermato mercoledí scorso Maurizio Vescovi all'associazione culturale «Parma Lirica» , in occasione della conferenza-dibattito organizzata dal nucleo Avis «Nando Corazzi» intitolata appunto «Il disagio psichico in medicina generale: dimensione di un problema» . Nel corso del convegno sono state illustrate con tanto di grafico e statistiche le varie tematiche di un problema che coinvolge tutte le società e i paesi. «Attraverso dati ufficiali dell'organizzazione mondiale della sanità - ha sottolineato il relatore - abbiamo rilevato che il 10- 15% della popolazione soffre di depressione e che un numero elevato di pazienti, senza arrivare alla diagnosi psichiatrica, ne presenta disturbi sottosoglia. E tutto ciò rappresenta un ostacolo non soltanto per il malato stesso, ma anche per tutta la famiglia e per chi lo circonda e proprio per questo sono stati definiti «pazienti che soffrono e fanno soffrire». Di vario genere sono gli avvertimenti di quello che è considerato il male del secolo e i principali sono: un umore depresso, la perdita di interesse e piacere, diminuzione di energia o variazioni dell'appetito e del peso e disturbi del sonno» . E' stata affrontata anche la questione degli psicofarmaci, considerati da Vescovi «un aiuto all'interno del dedalo delle azioni terapeutiche e da prescrivere sempre con grande attenzione solo se in corrispondenza di una terapia e di una relazione che si stabilisce tra medico e paziente, e solo in casi di rallentamento psicomotorio o agitazione, bassa autostima, sensi di colpa, difficoltà di concentrazione e idee di morte». Tanti e interessanti i casi specifici che il medico ha raccontato all'attento pubblico in sala, attraversando le cause del «male oscuro» tra i più giovani, sottolineando l'importanza del ruolo degli insegnanti, e tra gli anziani, con il conseguente disagio da correlare all'isolamento e alla perdita di un ruolo sociale. Vescovi ha anche evidenziato l'importanza di ridurre il primo ricovero del paziente «perchè comunque lo stigma esiste, e talvolta questa consapevolezza anzichè portare dei benefici, rischia di peggiorare la situazione». «E' nostro dovere - ha infine concluso - registrare i nostri errori per evitare che accadano nuovamente. E soprattutto formare una nuova coscienza, per meritarci una maggiore fiducia» . Al termine dell'incontro sono state consegnate dal rappresentante dell'Avis dell'associazione Giovanni Baccaro targhe di riconoscimento allo stesso Vescovi, che «da anni svolge con grande professionalità e sensibilità l'attività di medico di base», a Franco Somacher e ad Amleto Cagna. Mariacristina Maggi
ilmessaggero.it 26 febbraio 2005
Proviamo a reagire da soli alla depressione
di MARIA RITA CHIACCHIERA
Perugia. LA PREDISPOSIZIONE al benessere fisico e psicologico, è innata o si costruisce?
Molte persone sono attente a riconoscere i segnali di allarme inviati dall'organismo e sono conseguentemente abituate a credere di poter affrontare qualunque avvenimento ”caricandosi” ancora di più. In realtà non fanno altro che dare maggior forza alle cause di stress. Alcuni studiosi della materia sono giunti alla conclusione che ogni disturbo che tende ad intaccare l'organismo è una minaccia alla stabilità psicofisica dell'individuo ed è quindi portatore di stress.
Che cosa significa il benessere psico-fisico?
«La persona - afferma il dottor Tiziano Grosso, psicologo e psicoterapeuta - è fatta di psiche e corpo, che sono indissolubili; l'uno influisce sull'altro. Quindi per avere un corpo sano, che è la base del benessere, bisogna avere anche una psicologia ordinata, che significa un modo di vivere in cui le scelte, i comportamenti, le relazioni, siano corrispondenti e funzionali alla persona».
Ogni scelta sbagliata ha un effetto e produce una micro-tensione; quando le micro-tensioni superano la soglia di tolleranza che è diversa da persona a persona, si determina uno stato di anomalia fisica (psicosomatica). Un organo subisce una ”pressione” che lo ”danneggia” prima sulla funzione e poi sulla struttura. Questo è il processo della malattia psico-somatica con cui viene colpito il corpo.
Come avviene invece il processo della depressione?
«La depressione invece, molto diffusa nella nostra società, colpisce lo stato emotivo e psicologico della persona e in questo senso è forse ancora più pericolosa dei disturbi somatici, perché colpisce a livello primario la mente, anche se, dopo, il corpo ovviamente ne subisce le conseguenze».
Perché questi disturbi oggi sono così diffusi anche tra i giovani?
«Intanto oggi le comunicazioni sono più veloci e precise che nel passato e quindi abbiamo una percezione dei fenomeni più immediata. Molto probabilmente la depressione, anche nei decenni passati, colpiva ampi strati della popolazione, solo che se ne parlava poco. Oggi abbiamo più tecnologie, più scoperte farmacologiche e maggiore esperienza sia psicologica che medica e quindi possiamo aiutare di più queste persone che soffrono».
Sicuramente, un punto di aiuto è il nostro stesso corpo che va salvaguardato e sostenuto. Il corpo possiede per natura una struttura elementare che è il nostro equilibrio, il cui effetto è il nostro stato di salute.
Quando una persona si trova in una situazione di disagio, che cosa deve fare?
«Quando il corpo subisce molte micro-tensioni - spiega il dottor Tiziano grosso - risponde segnalando una anomalia. Se la persona è attenta a se stessa, può cogliere questi segnali e attivare una reazione. Questa presa di coscienza è gia sufficiente per far comprendere all'individuo che sta accadendo qualcosa di anomalo in se stesso e quindi deve reagire secondo la propria tipologia di persona. L'importante è non sottovalutare questi primi sintomi di tristezza, malinconia e insoddisfazione, e se i disturbi persistono, consultare specialisti del settore».
Quali consigli per prevenire questi disturbi?
«”Mente sana in un corpo sano", lo sapevano bene gli antichi romani, cultori del benessere fisico e non solo: le terme, una buona musica, buone relazioni interpersonali, movimento fisico, alimentarsi in modo semplice e soprattutto non cedere mai alla pigrizia sia mentale che fisica».
Insomma, prima di ricorrere al medico, a volte basta sapersi guardare dentro con coscienza e lucidità, senza bleffare con se stessi, per trovare un antidoto capace di riportare la nostra situazione alla normalità e quindi tirandoci fuori dai pasticci.
Il tutto se la nostra situazione è ancora ”controllabile”: è evidente però che4 se abbiamo suoerato certi limiti, l’aiuto di uno specialista diventa indispensabile.
L'elefantiaca mostra torinese curata da Vittorio Sgarbi e dedicata al «Male»
Esercizi di pittura crudele
Da Antonello a Caravaggio, da Kantor a Munch
Vincenzo Bonaventura
In principio fu Antonello da Messina. Almeno secondo Vittorio Sgarbi, curatore dell'elefantiaca mostra Il male, esercizi di pittura crudele, inaugurata venerdì sera nella Palazzina di Caccia di Stupinigi (Torino), dove rimarrà aperta fino al 26 giugno. Perché con Antonello e i suoi inquietanti ritratti, dice Sgarbi, «ha inizio l'individualità del male, la sua identità storica, non simbolica, non esemplare, non metafisica. Il male e basta. Il male senza redenzione». Perché nell'enorme iconografia artistica che si può ricondurre al tema del male, Antonello è un innovatore, anzi un precursore, visto che i suoi ritratti, tra fisiognomica e finissima psicologia, sembrano quasi irrompere fra i dipinti del XX secolo, che già hanno conosciuto Freud e i suoi seguaci. In mostra c'è il Ritratto d'uomo, conservato in Palazzo Madama a Torino, già definito da Valdo Fusi «traumatizzante ritratto di mafioso». E Sgarbi ci ha dato dentro col concetto di mafioso, anche se qualunque storico potrebbe sorridere all'idea di una mafia esistente già nel Quattrocento. Semmai con quello sguardo trasversale e un sorriso appena accennato, ma sufficiente per segnargli il viso di propositi cattivissimi, il personaggio ritratto potrebbe essere un gentiluomo (ma non troppo) di campagna di qualsiasi parte del mondo, intelligente e malefico attore del suo microcosmo, sia esso siciliano, sia esso bergamasco o ferrarese (ammesso che anche qui ci siano gentiluomini di campagna intelligenti). Tant'è: vista che purtroppo la mafia oggi sicuramente c'è – e permane bene per giunta – che necessità c'è di riportarla indietro fino al Quattrocento e farne ambasciatore Antonello, un grande che ben altro ha esportato nel mondo dalla Sicilia? Forse nessuna, se non il gusto di stupire e far clamore. E infatti, ammettiamolo, quella di Sgarbi è stata soprattutto una battuta, utile a capire l'intensità di quel Ritratto. Rimane, invece, la circostanza che Antonello a Stupinigi è ospite di un altro grande messinese, Filippo Juvarra, l'architetto cui Torino deve la sua invidiata urbanistica, e che nel 1729 creò per i Savoia la celebre Palazzina di Caccia. La mostra di Sgarbi risente dello stile del suo curatore, o meglio di quella sorta di bulimia artistica, di compulsione ad addendum di ridondanza che diventa norma, per cui anche durante la conferenza stampa di ieri mattina, altri pezzi si aggiungevano alla mostra, partita con l'idea di un allestimento di 200-250 opere e arrivata a quasi 600. Tutto arte? Può essere discutibile per alcuni, ma sembra giusto avere aggiunto alla pittura e alla scultura anche la fotografia, i fumetti, i giornali satirici (poteva mancare Il male, non dimenticata testata iconoclasta?), il cinema, il teatro (si vede il video de La classe morta di Tadeusz Kantor), la televisione (con la riproduzione, tra l'altro, di un programma di Maria De Filippi). E si può discutere all'infinito anche su che cosa può rientrare nel concetto di male: dolore fisico, sacrificio, melanconia, morte, cattiveria, erotismo, sadismo, masochismo, crudeltà, menzogna... Un elenco infinito, talmente infinito che ha messo ko perfino Sgarbi che, pur aggiungendo opere fino all'ultimo secondo, si è soffermato su due punti. Un male, diciamo religioso, che lui ha definito «Cristo per tutti», e che ha come fine la redenzione o un aldilà, dove la gioia sostituirà il dolore. E un male che è dentro di noi, definito «ognuno per sé», idealmente introdotto da L'urlo di Munch (che naturalmente non è in mostra, essendo stato rubato qualche tempo fa). Il percorso cronologico ha quindi una sua logica ed entra nella coscienza del visitatore, lo aggredisce e in qualche maniera lo rende diverso perché non si può rimanere insensibili emotivamente a quello che si vede. Vedere il male genera il bene oppure altro male? Questa è una domanda forse ovvia e tuttavia destinata a non avere una risposta definitiva: ognuno di noi può procedere per imitazione o per contrasto. Per non sbagliare, comunque, la mostra è vietata ai minori. A colpire è anche il fatto che i capolavori sono pochi, ma sono tantissime le opere quasi sconosciute, perfette per illustrare il tema. Tra i capolavori spicca Cristo coronato di spine del Beato Angelico, conservato «fin troppo bene» nel museo di Livorno, nel senso che si trova in una stanza quasi sempre diffusa. «Sembra il Cristo del film The passion di Mel Gibson, pur nell'armonia del Beato Angelico», dice Sgarbi e ha ragione perché il ritratto è di insolita durezza per quell'artista. E ci sono ancora lo straordinario Seppellimento di Santa Lucia di Caravaggio, proveniente da Siracusa, il Fanciullo morso da una ramarro dello stesso Caravaggio, e il famosissimo bulino di Albrecht Durer Il cavaliere, la morte e il diavolo. Pure, tra tanti «memento mori», Caino e Abele, Giuditta e Oloferne, David e Golia, Salomè e San Giovanni Battista, martiri di ogni tipo, colpiscono opere davvero insolite, come i cinquecenteschi Ira di Dosso Dossi, con due donne che si accapigliano, e Mangiatore del braccio di Bartolomeo Passerotti, con un uomo cannibale di se stesso; i seicenteschi Alchimisti di Pietro della Vecchia, con personaggi-mostri, La strega, nuda e orrenda, di Salvator Rosa, e la cera colorata La Pestilenza del siracusano Gaetano Giulio Zumbo; il settecentesco Interrogatorio in carcere di Alessandro Magnasco, un vero campionario di crudeltà. Forse, però, la sorpresa vera viene dalle opere a noi più vicine nel tempo, quando la figurazione perde la sua morfologia per costruire i suoi personaggi come trasfigurati (in peggio) dall'inconscio. E come se l'uomo, all'improvviso, si sia accorto di essere diventato un mostro. Un esempio? L'urlo di Enrico Colombotto Rosso. Dove una figura femminile in nero sembra galleggiare tragicamente su una tela rosso sangue. E anche dove la figurazione riappare, come in Abramo e Isacco di Riccardo Tommaso Ferroni, versione in jeans della storia biblica, c'è sempre qualcosa di inquietante e sotteso. Addirittura le terrecotte policrome di Paul Schmidlin e l'installazione Sacrificio umano di Mathilde Ter Heijne, con una donna che si triplica per essere carnefice di se stessa, puntano a un realismo fotografico, che pure sembra essere espressione di un incubo. E perfino l'elegante video del grande artista italoamericano Bill Viola, Remembrance, con il suo costante cambio d'espressione sembra raccontare del nostro dolore più interiore, quello che non riusciamo a esprimere.
gazzettadelsud.it 27 febbraio 2005
la spedizione archeologica di Emmanuel Anati
I resti di questo luogo rituale di culto, risalenti a 40 mila anni fa, sono stati scoperti sull'altopiano Har Karkom
Il tempio più antico del mondo sul “vero” monte Sinai
Marco Passelli
I resti di un tempio, o meglio un luogo rituale di culto, risalenti a 40 mila anni fa, sono stati scoperti sull'altopiano Har Karkom, un plateau di 850 metri sul livello del mare che, secondo molti studiosi, sarebbe il vero monte Sinai della tradizione biblica e che si trova a nord dell'omonima penisola, tra le città Eilat e Mizperamon. Ai piedi sono inoltre stati trovati segni di accampamenti risalenti alle ipotetiche date dell'esodo degli ebrei dall'Egitto. La scoperta è stata fatta nel corso della spedizione archeologica italiana nel Sinai e nel deserto del Negev, diretta dal professor Emmanuel Anati, fondatore e direttore del Centro Camuno di Studi Preistorici, che ha sede in Valcamonica, in provincia di Brescia, e che è stato docente di preistoria all'università di Tel Aviv e di Paletnologia all'università di Lecce. Anati, che da 24 anni svolge ricerche nella zona a nord del Sinai e nel deserto del Negev, illustrerà le sue recenti scoperte mercoledì prossimo, 2 marzo, alla 10,30 a Livorno, nella Biblioteca Labronica, in occasione della Conferenza Enriques 2005. I resti individuati sul Har Karkom risultano ad oggi, secondo il professor Anati, quelli del tempio più antico del mondo. Si tratta di una serie di monoliti antropomorfi, una quarantina in tutto, sistemati in un avvallamento, invisibile dal basso, e sull'orlo di un precipizio. «Appare come un vero e proprio luogo di culto risalente al periodo di passaggio tra il paleolitico medio e quello superiore – spiega il professor Anati – che attesta l'antichissima sacralità del luogo posto lungo il percorso migratorio tra l'Africa e l'Asia». Lungo tutto l'altopiano ci sono tracce di templi anche di epoche successive ed ai piedi del rilievo la spedizione del professor Anati ha trovato tracce di accampamenti umani risalenti al periodo indicato dalla tradizione biblica come quello dell'uscita degli ebrei dall'Egitto sotto la guida della mitica figura di Mosè. Sono stati scoperti fondi di capanne in pietra e fondi scavati nel terreno. «Le tracce – spiega il professore – indicano almeno 120 accampamenti capaci di ospitare diverse migliaia di persone». Il fatto che questi siano stati trovati ai piedi del rilievo e che, invece, i templi si trovassero sulla sommità fa inoltre pensare ad una netta divisione dei ruoli in quelle antiche società che riservavano quello sacro solo ad una ristretta cerchia di iniziati ammessi a salire sulla montagna sacra. Tutto ciò confermerebbe la narrazione biblica che parla di un solo uomo, Mosè, autorizzato a salire sul monte. «Le nuove scoperte – spiega Anati, che si riserva di scoprire tutte le carte in occasione della conferenza di Livorno – rimettono inoltre in discussione le date ipotetiche dell'esodo degli ebrei dall'Egitto che potrebbe risalire ad un'epoca precedente». La convinzione che il vero Monte Sinai della tradizione biblica sia in realtà lo Har Karkom non è solo di Emmanuel Anati, ma è condivisa da molti altri studiosi. «L'indicazione di quello dove sorge il santuario di Santa Caterina come il Monte Sinai sul quale salì Mosè – spiega Anati – fu assunta in epoca bizantina, trecentocinquanta anni dopo Cristo e molto probabilmente questo accade solo perché era la montagna più alta della zona».
gazzettadiparma.it 27 febbraio 2005
Lotta al disagio psichico
«Il disagio psichico è un problema che riguarda tutti e da cui nessuno è immune » , ha affermato mercoledí scorso Maurizio Vescovi all'associazione culturale «Parma Lirica» , in occasione della conferenza-dibattito organizzata dal nucleo Avis «Nando Corazzi» intitolata appunto «Il disagio psichico in medicina generale: dimensione di un problema» . Nel corso del convegno sono state illustrate con tanto di grafico e statistiche le varie tematiche di un problema che coinvolge tutte le società e i paesi. «Attraverso dati ufficiali dell'organizzazione mondiale della sanità - ha sottolineato il relatore - abbiamo rilevato che il 10- 15% della popolazione soffre di depressione e che un numero elevato di pazienti, senza arrivare alla diagnosi psichiatrica, ne presenta disturbi sottosoglia. E tutto ciò rappresenta un ostacolo non soltanto per il malato stesso, ma anche per tutta la famiglia e per chi lo circonda e proprio per questo sono stati definiti «pazienti che soffrono e fanno soffrire». Di vario genere sono gli avvertimenti di quello che è considerato il male del secolo e i principali sono: un umore depresso, la perdita di interesse e piacere, diminuzione di energia o variazioni dell'appetito e del peso e disturbi del sonno» . E' stata affrontata anche la questione degli psicofarmaci, considerati da Vescovi «un aiuto all'interno del dedalo delle azioni terapeutiche e da prescrivere sempre con grande attenzione solo se in corrispondenza di una terapia e di una relazione che si stabilisce tra medico e paziente, e solo in casi di rallentamento psicomotorio o agitazione, bassa autostima, sensi di colpa, difficoltà di concentrazione e idee di morte». Tanti e interessanti i casi specifici che il medico ha raccontato all'attento pubblico in sala, attraversando le cause del «male oscuro» tra i più giovani, sottolineando l'importanza del ruolo degli insegnanti, e tra gli anziani, con il conseguente disagio da correlare all'isolamento e alla perdita di un ruolo sociale. Vescovi ha anche evidenziato l'importanza di ridurre il primo ricovero del paziente «perchè comunque lo stigma esiste, e talvolta questa consapevolezza anzichè portare dei benefici, rischia di peggiorare la situazione». «E' nostro dovere - ha infine concluso - registrare i nostri errori per evitare che accadano nuovamente. E soprattutto formare una nuova coscienza, per meritarci una maggiore fiducia» . Al termine dell'incontro sono state consegnate dal rappresentante dell'Avis dell'associazione Giovanni Baccaro targhe di riconoscimento allo stesso Vescovi, che «da anni svolge con grande professionalità e sensibilità l'attività di medico di base», a Franco Somacher e ad Amleto Cagna. Mariacristina Maggi
ilmessaggero.it 26 febbraio 2005
Proviamo a reagire da soli alla depressione
di MARIA RITA CHIACCHIERA
Perugia. LA PREDISPOSIZIONE al benessere fisico e psicologico, è innata o si costruisce?
Molte persone sono attente a riconoscere i segnali di allarme inviati dall'organismo e sono conseguentemente abituate a credere di poter affrontare qualunque avvenimento ”caricandosi” ancora di più. In realtà non fanno altro che dare maggior forza alle cause di stress. Alcuni studiosi della materia sono giunti alla conclusione che ogni disturbo che tende ad intaccare l'organismo è una minaccia alla stabilità psicofisica dell'individuo ed è quindi portatore di stress.
Che cosa significa il benessere psico-fisico?
«La persona - afferma il dottor Tiziano Grosso, psicologo e psicoterapeuta - è fatta di psiche e corpo, che sono indissolubili; l'uno influisce sull'altro. Quindi per avere un corpo sano, che è la base del benessere, bisogna avere anche una psicologia ordinata, che significa un modo di vivere in cui le scelte, i comportamenti, le relazioni, siano corrispondenti e funzionali alla persona».
Ogni scelta sbagliata ha un effetto e produce una micro-tensione; quando le micro-tensioni superano la soglia di tolleranza che è diversa da persona a persona, si determina uno stato di anomalia fisica (psicosomatica). Un organo subisce una ”pressione” che lo ”danneggia” prima sulla funzione e poi sulla struttura. Questo è il processo della malattia psico-somatica con cui viene colpito il corpo.
Come avviene invece il processo della depressione?
«La depressione invece, molto diffusa nella nostra società, colpisce lo stato emotivo e psicologico della persona e in questo senso è forse ancora più pericolosa dei disturbi somatici, perché colpisce a livello primario la mente, anche se, dopo, il corpo ovviamente ne subisce le conseguenze».
Perché questi disturbi oggi sono così diffusi anche tra i giovani?
«Intanto oggi le comunicazioni sono più veloci e precise che nel passato e quindi abbiamo una percezione dei fenomeni più immediata. Molto probabilmente la depressione, anche nei decenni passati, colpiva ampi strati della popolazione, solo che se ne parlava poco. Oggi abbiamo più tecnologie, più scoperte farmacologiche e maggiore esperienza sia psicologica che medica e quindi possiamo aiutare di più queste persone che soffrono».
Sicuramente, un punto di aiuto è il nostro stesso corpo che va salvaguardato e sostenuto. Il corpo possiede per natura una struttura elementare che è il nostro equilibrio, il cui effetto è il nostro stato di salute.
Quando una persona si trova in una situazione di disagio, che cosa deve fare?
«Quando il corpo subisce molte micro-tensioni - spiega il dottor Tiziano grosso - risponde segnalando una anomalia. Se la persona è attenta a se stessa, può cogliere questi segnali e attivare una reazione. Questa presa di coscienza è gia sufficiente per far comprendere all'individuo che sta accadendo qualcosa di anomalo in se stesso e quindi deve reagire secondo la propria tipologia di persona. L'importante è non sottovalutare questi primi sintomi di tristezza, malinconia e insoddisfazione, e se i disturbi persistono, consultare specialisti del settore».
Quali consigli per prevenire questi disturbi?
«”Mente sana in un corpo sano", lo sapevano bene gli antichi romani, cultori del benessere fisico e non solo: le terme, una buona musica, buone relazioni interpersonali, movimento fisico, alimentarsi in modo semplice e soprattutto non cedere mai alla pigrizia sia mentale che fisica».
Insomma, prima di ricorrere al medico, a volte basta sapersi guardare dentro con coscienza e lucidità, senza bleffare con se stessi, per trovare un antidoto capace di riportare la nostra situazione alla normalità e quindi tirandoci fuori dai pasticci.
Il tutto se la nostra situazione è ancora ”controllabile”: è evidente però che4 se abbiamo suoerato certi limiti, l’aiuto di uno specialista diventa indispensabile.
storia
un archivio su Karl Marx
Corriere della Sera 27.2.05
A Mosca, nel reliquiario del comunismo: manoscritti, poltrone, bombe vietcong
L’ultima tazza di tè con Carlo Marx
di ARMANDO TORNO
Oggetti, carte e documenti si accumularono comunque in altre sedi. Così, già negli anni ’20 era operante un archivio per conservare le carte originali di Marx e di Engels; si diede vita ad altri musei dedicati alla Rivoluzione d’ottobre o a Lenin e nel maggio 1962 si aprì anche il «Museo Marx-Engels» per dar spazio ai moltissimi materiali raccolti. In esso c’era la poltrona dove Marx morì o quella su cui scrisse Il Capitale (entrambe comode, perché soffriva di foruncoli ai glutei a causa della cattiva dieta, come si evince dalle lamentele conservate in alcune lettere); c’era il ricordato servizio da tè, porcellane decorate dalla figlia, lo studio ricostruito, fotografie, ritratti, altro. Nel 1988, per consentire dei lavori all’edificio che era parte del Pcus, tutti questi oggetti-reliquia furono trasportati nell’allora «Archivio Marx-Engels-Lenin». Impacchettati, catalogati e ammassati, lì furono colti dal crollo dell’Urss nell’estate 1991. E lì sono ancora.
Chi scrive è riuscito a visitare il bunker dove sono custoditi i manoscritti di Marx e Engels; quindi, grazie all’antico direttore del Museo che porta il nome dei padri del comunismo, Lev Nicolaievic Vladimirov, ha visto e fatto fotografare alcuni degli oggetti intimi della famiglia Marx; infine è entrato nell’inaccessibile deposito dei cimeli accumulati dalla gioventù comunista sovietica, finiti anch’essi qui. Ma vediamo le cose con ordine.
Tutte le raccolte citate si trovano in un unico edificio, ora chiamato «Archivio di Stato Russo per la Storia politica e sociale». Siamo ricevuti dal direttore Kirill Anderson. Ci presenta il dottor Valerij Fomiciov, che parla un eccellente tedesco e che da oltre 36 anni è il custode dei manoscritti di Marx e di Engels, ma anche di centinaia di migliaia di documenti riguardanti la storia sociale e le rivoluzioni. Gli chiediamo chi è stato l’ultimo italiano che è entrato nel bunker sotterraneo (doppia porta blindata tipo sommergibile; pareti, soffitto e pavimento con l’anima in acciaio; armadi in ferro) e la risposta non si fa attendere: «Ero appena arrivato, quando alla fine del ’68 o all’inizio del ’69, qui venne Giangiacomo Feltrinelli. Fece un rapido giro, non si soffermò sui manoscritti». Poi nessun altro del nostro Paese; dei restanti pochissimi: quasi nessuno in periodo sovietico, soltanto i pronipoti di Marx e rari studiosi, tanto che si potrebbero contare sulle dita delle mani.
Chiediamo di vedere qualche esempio della scrittura di Marx, soprattutto quella rapida. In essa saltava le vocali e scriveva in più lingue, russo e parsi comprese. Fomiciov estrae un quaderno del 1857 e ci accorgiamo che qualche passo è in antico tedesco; poi un libro russo sulla classe operaia con fitte note in margine. Quindi opuscoli, pagine sparse, rapporti della polizia prussiana con ritagli di giornale, notazioni ebraiche. C’è da perdersi, sino a quando ci viene mostrato un album di famiglia ancora inedito: in fondo gli autografi dei visitatori dei Marx (c’è Heine e una firma indecifrabile potrebbe forse essere quella di Mazzini) e cose di famiglia: i desiderata, le letture, i dagherrotipi. Una pagina spetta al cane Whiskey (così è stato trascritto filologicamente). L’album verrà pubblicato tra qualche mese e presentato a Berlino il prossimo maggio. Ma non ci accontentiamo e chiediamo se c’è il documento sul figlio che Marx ebbe dalla domestica Helene e che mai riconobbe, tale Friedrich Demuth, divenuto poi attivista e leader dei laburisti inglesi. Fomiciov sorride e risponde: «Le farò vedere qualcosa di unico». Estrae un foglietto anch’esso inedito che reca la scrittura a matita blu di Stalin. Sopra una comunicazione del 1° gennaio 1934, dell’allora direttore dell’Archivio Adoratskij che informava il dittatore dei documenti relativi a quell’amore ancillare, il piccolo padre scrisse: «Compagno Adoratskij è una cazzata. Lascia questo materiale d’archivio sepolto ben bene». La firma e la data: 2 gennaio 1934 (la traduzione si deve a Viktor Gajduk, professore all’Università di Mosca e già accademico dell’Urss, che era con noi).
Dal bunker saliamo nella soffitta blindata per vedere, tra l’altro, lettere di Voltaire, di Feuerbach, di Fichte e di Hegel, opuscoli di Babeuf, manoscritti di Rousseau, processi della rivoluzione francese e una copia originale della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America. Vi sono numerosi documenti della Repubblica napoletana del 1799, nonché carte di Mazzini e Garibaldi, né mancano chicche sulle Cinque Giornate di Milano o missive per la «Giovine Italia». Molte cose nostre sono sepolte qui e Fomiciov ci ricorda che Giorgio Candeloro (autore della Storia dell’Italia moderna in 11 volumi, uscita da Feltrinelli tra il 1956 e il 1986, tradotta in russo) non ebbe il permesso di entrare. Come sono arrivati nell’Archivio documenti preziosi in quantità così abnorme? Stalin, per dirla in breve, diede ordine di comperare tutto quanto avesse anche un vago sapore rivoluzionario.
Abbandoniamo a malincuore queste carte e scendiamo nelle stanze dove sono accatastati gli oggetti appartenuti ai padri del comunismo. La curatrice Svetlana Kotova (buono il suo inglese) ci mostra il binocolo da teatro della famiglia, il tagliacarte, i medaglioni con i ritratti, poi il portafogli personale di Marx (con ricamata la parola «Unite»), il suo bocchino per sigari, quindi il fiocco che indossava e che fu ricavato dalla ricordata stoffa di quell’ultima bandiera dell’ultima barricata della Comune. Il direttore del vecchio museo Lev Nicolaievic, lì presente accanto alla signora, ci ricorda che «questo fiocco fu portato nello spazio a bordo del Soyuz», ma gli astronauti Komarov, Egorov e Feoktistov partirono salutati da Kruscev e al loro ritorno trovarono Breznev. Non manca la coppia di pistole di Ferdinand Lassalle, il teorico della «legge bronzea dei salari»: malauguratamente una delle due l’ha ucciso perché finì i suoi giorni in un duello (se ben ricordiamo, lasciò il primo colpo all’avversario...). Un ritratto del giovane Marx, eseguito all’Università di Bonn da un compagno di studi, ce lo mostra imberbe; chiediamo anche dell’ultima sua foto, scattata senza barba, ma non riceviamo risposta. Troppe cose e tutte accumulate. Su un armadio c’è il modellino della casa di Treviri, sparsi qua e là busti e ritratti. Visite italiane? Risponde Lev Nicolaievic: «Dopo il 1988, ovviamente, nessuna. Prima mi ricordo di una delegazione del Pci guidata da Luigi Longo».
Scendiamo infine - è di nuovo con noi Fomiciov - nel deposito dove sono accatastati gli oggetti dei giovani comunisti sovietici, i Komsomol. Scudi, busti, armi, simboli, di tutto un po’. In un armadio sono ammonticchiati fucili di varie guerriglie (anche quello dei cecchini che difesero l’Urss), qualche machete cubano (uno è dei rivoluzionari messicani); sparse qua e là lance africane, maschere orientali, falci e martelli in ogni materiale, modellini di trattori dei piani quinquennali e di carri armati o di autocarri che portarono i viveri al popolo in lotta, fusoliere di bombe americane inviate dai Vietcong, stiletti con cui si è soppresso un traditore, scuri, accette, sciabole, persino dischi della scomparsa Repubblica Democratica Tedesca. Certo, non è una raccolta pacifista, ma chi scrive ricorda quanto veniva scandito in qualche manifestazione non molti anni or sono: «La lotta di classe non è violenza».
Si esce storditi. Accanto all’Archivio, percorrendo la via Tverskaja che va verso il Cremlino, c’è un’altra reliquia ma di diverso valore: il granito rosso di Carelia che fa da zoccolo a molte case del periodo staliniano, anche di quella dove abitavano i fisici che collaborarono ai progetti per l’atomica sovietica, tra cui il nostro Bruno Pontecorvo. Fu un dono del popolo finlandese a Hitler per costruirsi un monumento sulla Piazza Rossa. Ma i tedeschi non riuscirono a entrare a Mosca e i blocchi furono abbandonati alle porte della città. Oggi sono una decorazione.
A Mosca, nel reliquiario del comunismo: manoscritti, poltrone, bombe vietcong
L’ultima tazza di tè con Carlo Marx
di ARMANDO TORNO
In questo foglio inedito sino ad ora (foto a sinistra) c’è la comunicazione del 1° gennaio 1934 di Adoratskij, allora direttore dell’«Archivio Marx-Engels-Lenin», a Stalin con notizie relative al figlio illegittimo che Marx ebbe dalla propria donna di servizio, Helene Demuth. Inizia così: «Compagno Stalin, ti mando quanto abbiamo trovato nell’Archivio Imel (Istituto Marx-Engels-Lenin)...». La questione fu sollevata da una lettera di Clara Zetkin - leader del movimento femminista dell’Internazionale Comunista - al precedente direttore del medesimo Archivio, David Riazanov, poi fatto fucilare. Il giorno seguente, 2 gennaio, arrivò la risposta di Stalin che abbiamo trascritto e che invitava a tener «sepolta» la notizia.MOSCA - Intorno al Cremlino ci sono veri e propri reliquiari del mondo comunista. Oggetti, carte, armi, busti. Persino le tazze da tè di Marx. Certo, il corpo imbalsamato di Lenin, che riposa nella Piazza Rossa a Mosca, è la più nota delle reliquie. Ma non la sola. Anzi, in questi giorni, essa è - scusate l’espressione indelicata - sottoposta a un tagliando. Il mausoleo che la ospita è chiuso sino al 18 aprile e quindi c’è tutto il tempo per verificare lo stato di conservazione del cadavere e per confezionare alla salma un vestito nuovo (impegno cui si dedicano periodicamente i migliori sarti di Mosca). Del resto, le sostanze utilizzate per la mummificazione distruggono la stoffa. Lenin ha ancora le guardie del corpo, giacché l’illustre defunto è stato posto sotto controllo dal Vilar, il «Centro studi e laboratorio di ricerca delle nuove tecnologie biomediche», il cui vicedirettore, Yurij Denisov-Nikolskij, ha dichiarato: «È in perfetto stato di conservazione e, con tutte le norme prescritte e osservate, potrà stare nel mausoleo per altri 100 anni, se non più». Nel 1932 Stalin voleva trasformare questa tomba sulla Piazza Rossa in un grande reliquiario comunista, aggiungendo alla mummia di Lenin oggetti significativi della storia rivoluzionaria, che già dagli anni ’20 si stavano raccogliendo in tutto il mondo grazie al volontariato ma anche con acquisti alle aste o presso antiquari. Si voleva porre, ad esempio, accanto alla cara salma la bandiera dell’ultimo battaglione che combattè sull’ultima barricata della Comune di Parigi del 1870, ma i tecnici convinsero Stalin a desistere: temevano che molte spore, trasportate dai nuovi cimeli, potessero entrare nel mausoleo recando danni irreparabili alla reliquia maggiore.
Oggetti, carte e documenti si accumularono comunque in altre sedi. Così, già negli anni ’20 era operante un archivio per conservare le carte originali di Marx e di Engels; si diede vita ad altri musei dedicati alla Rivoluzione d’ottobre o a Lenin e nel maggio 1962 si aprì anche il «Museo Marx-Engels» per dar spazio ai moltissimi materiali raccolti. In esso c’era la poltrona dove Marx morì o quella su cui scrisse Il Capitale (entrambe comode, perché soffriva di foruncoli ai glutei a causa della cattiva dieta, come si evince dalle lamentele conservate in alcune lettere); c’era il ricordato servizio da tè, porcellane decorate dalla figlia, lo studio ricostruito, fotografie, ritratti, altro. Nel 1988, per consentire dei lavori all’edificio che era parte del Pcus, tutti questi oggetti-reliquia furono trasportati nell’allora «Archivio Marx-Engels-Lenin». Impacchettati, catalogati e ammassati, lì furono colti dal crollo dell’Urss nell’estate 1991. E lì sono ancora.
Chi scrive è riuscito a visitare il bunker dove sono custoditi i manoscritti di Marx e Engels; quindi, grazie all’antico direttore del Museo che porta il nome dei padri del comunismo, Lev Nicolaievic Vladimirov, ha visto e fatto fotografare alcuni degli oggetti intimi della famiglia Marx; infine è entrato nell’inaccessibile deposito dei cimeli accumulati dalla gioventù comunista sovietica, finiti anch’essi qui. Ma vediamo le cose con ordine.
Tutte le raccolte citate si trovano in un unico edificio, ora chiamato «Archivio di Stato Russo per la Storia politica e sociale». Siamo ricevuti dal direttore Kirill Anderson. Ci presenta il dottor Valerij Fomiciov, che parla un eccellente tedesco e che da oltre 36 anni è il custode dei manoscritti di Marx e di Engels, ma anche di centinaia di migliaia di documenti riguardanti la storia sociale e le rivoluzioni. Gli chiediamo chi è stato l’ultimo italiano che è entrato nel bunker sotterraneo (doppia porta blindata tipo sommergibile; pareti, soffitto e pavimento con l’anima in acciaio; armadi in ferro) e la risposta non si fa attendere: «Ero appena arrivato, quando alla fine del ’68 o all’inizio del ’69, qui venne Giangiacomo Feltrinelli. Fece un rapido giro, non si soffermò sui manoscritti». Poi nessun altro del nostro Paese; dei restanti pochissimi: quasi nessuno in periodo sovietico, soltanto i pronipoti di Marx e rari studiosi, tanto che si potrebbero contare sulle dita delle mani.
Chiediamo di vedere qualche esempio della scrittura di Marx, soprattutto quella rapida. In essa saltava le vocali e scriveva in più lingue, russo e parsi comprese. Fomiciov estrae un quaderno del 1857 e ci accorgiamo che qualche passo è in antico tedesco; poi un libro russo sulla classe operaia con fitte note in margine. Quindi opuscoli, pagine sparse, rapporti della polizia prussiana con ritagli di giornale, notazioni ebraiche. C’è da perdersi, sino a quando ci viene mostrato un album di famiglia ancora inedito: in fondo gli autografi dei visitatori dei Marx (c’è Heine e una firma indecifrabile potrebbe forse essere quella di Mazzini) e cose di famiglia: i desiderata, le letture, i dagherrotipi. Una pagina spetta al cane Whiskey (così è stato trascritto filologicamente). L’album verrà pubblicato tra qualche mese e presentato a Berlino il prossimo maggio. Ma non ci accontentiamo e chiediamo se c’è il documento sul figlio che Marx ebbe dalla domestica Helene e che mai riconobbe, tale Friedrich Demuth, divenuto poi attivista e leader dei laburisti inglesi. Fomiciov sorride e risponde: «Le farò vedere qualcosa di unico». Estrae un foglietto anch’esso inedito che reca la scrittura a matita blu di Stalin. Sopra una comunicazione del 1° gennaio 1934, dell’allora direttore dell’Archivio Adoratskij che informava il dittatore dei documenti relativi a quell’amore ancillare, il piccolo padre scrisse: «Compagno Adoratskij è una cazzata. Lascia questo materiale d’archivio sepolto ben bene». La firma e la data: 2 gennaio 1934 (la traduzione si deve a Viktor Gajduk, professore all’Università di Mosca e già accademico dell’Urss, che era con noi).
Dal bunker saliamo nella soffitta blindata per vedere, tra l’altro, lettere di Voltaire, di Feuerbach, di Fichte e di Hegel, opuscoli di Babeuf, manoscritti di Rousseau, processi della rivoluzione francese e una copia originale della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America. Vi sono numerosi documenti della Repubblica napoletana del 1799, nonché carte di Mazzini e Garibaldi, né mancano chicche sulle Cinque Giornate di Milano o missive per la «Giovine Italia». Molte cose nostre sono sepolte qui e Fomiciov ci ricorda che Giorgio Candeloro (autore della Storia dell’Italia moderna in 11 volumi, uscita da Feltrinelli tra il 1956 e il 1986, tradotta in russo) non ebbe il permesso di entrare. Come sono arrivati nell’Archivio documenti preziosi in quantità così abnorme? Stalin, per dirla in breve, diede ordine di comperare tutto quanto avesse anche un vago sapore rivoluzionario.
Abbandoniamo a malincuore queste carte e scendiamo nelle stanze dove sono accatastati gli oggetti appartenuti ai padri del comunismo. La curatrice Svetlana Kotova (buono il suo inglese) ci mostra il binocolo da teatro della famiglia, il tagliacarte, i medaglioni con i ritratti, poi il portafogli personale di Marx (con ricamata la parola «Unite»), il suo bocchino per sigari, quindi il fiocco che indossava e che fu ricavato dalla ricordata stoffa di quell’ultima bandiera dell’ultima barricata della Comune. Il direttore del vecchio museo Lev Nicolaievic, lì presente accanto alla signora, ci ricorda che «questo fiocco fu portato nello spazio a bordo del Soyuz», ma gli astronauti Komarov, Egorov e Feoktistov partirono salutati da Kruscev e al loro ritorno trovarono Breznev. Non manca la coppia di pistole di Ferdinand Lassalle, il teorico della «legge bronzea dei salari»: malauguratamente una delle due l’ha ucciso perché finì i suoi giorni in un duello (se ben ricordiamo, lasciò il primo colpo all’avversario...). Un ritratto del giovane Marx, eseguito all’Università di Bonn da un compagno di studi, ce lo mostra imberbe; chiediamo anche dell’ultima sua foto, scattata senza barba, ma non riceviamo risposta. Troppe cose e tutte accumulate. Su un armadio c’è il modellino della casa di Treviri, sparsi qua e là busti e ritratti. Visite italiane? Risponde Lev Nicolaievic: «Dopo il 1988, ovviamente, nessuna. Prima mi ricordo di una delegazione del Pci guidata da Luigi Longo».
Scendiamo infine - è di nuovo con noi Fomiciov - nel deposito dove sono accatastati gli oggetti dei giovani comunisti sovietici, i Komsomol. Scudi, busti, armi, simboli, di tutto un po’. In un armadio sono ammonticchiati fucili di varie guerriglie (anche quello dei cecchini che difesero l’Urss), qualche machete cubano (uno è dei rivoluzionari messicani); sparse qua e là lance africane, maschere orientali, falci e martelli in ogni materiale, modellini di trattori dei piani quinquennali e di carri armati o di autocarri che portarono i viveri al popolo in lotta, fusoliere di bombe americane inviate dai Vietcong, stiletti con cui si è soppresso un traditore, scuri, accette, sciabole, persino dischi della scomparsa Repubblica Democratica Tedesca. Certo, non è una raccolta pacifista, ma chi scrive ricorda quanto veniva scandito in qualche manifestazione non molti anni or sono: «La lotta di classe non è violenza».
Si esce storditi. Accanto all’Archivio, percorrendo la via Tverskaja che va verso il Cremlino, c’è un’altra reliquia ma di diverso valore: il granito rosso di Carelia che fa da zoccolo a molte case del periodo staliniano, anche di quella dove abitavano i fisici che collaborarono ai progetti per l’atomica sovietica, tra cui il nostro Bruno Pontecorvo. Fu un dono del popolo finlandese a Hitler per costruirsi un monumento sulla Piazza Rossa. Ma i tedeschi non riuscirono a entrare a Mosca e i blocchi furono abbandonati alle porte della città. Oggi sono una decorazione.
una mostra dell'Unione donne italiane a Roma
le donne sui manifesti
dal dopoguerra ad oggi
Corriere della Sera 27.2.05
Un’originale e interessante mostra per il sessantesimo anniversario dell’associazione
Udi, storia di donne per manifesti
Dal dopoguerra a oggi: così è cambiata la condizione femminile
Per il sessantesimo anniversario l’Udi (Unione donne italiane) si è regalata questa mostra che ripercorre la storia delle donne nell’Italia democratica e repubblicana dall’immediato dopoguerra ad oggi attraverso un centinaio di manifesti selezionati tra i 1374 prodotti dall’associazione. Ma sono esposti anche documenti originali, foto, copie di «Noi donne», il popolare settimanale che nei decenni passati ha raggiunto tirature notevoli e una diffusione nazionale. L’Udi mosse i suoi primi passi proprio nella Roma liberata e contribuì in modo decisivo al riscatto e al progresso delle donne italiane, che fino al dopoguerra non avevano nemmeno diritto al voto. Ora la storia di questa emancipazione è narrata nelle quattro sezioni della mostra, che partono dal 1944, anno in cui si gettarono le basi per la costituzione dell’Udi da parte dei comitati di iniziativa, nati nell’Italia già liberata, e dei gruppi di difesa della donna, attivi nelle zone ancora occupate.
Attraverso i materiali esposti è possibile immaginare e ricostruire il contesto sociale, culturale e politico degli ultimi sessant’anni. Si parte dalle «campagne tematiche», che illustrano le battaglie femminili nell’ambito di temi come la pace, il lavoro, i diritti civili, i servizi sociali. Si prosegue con le forme della politica, descritte dai congressi dell’Udi. Si continua con «l’8 marzo», che ricorda come la giornata internazionale della donna derivi da un’esperienza nata in America e recuperata dai movimenti femminili europei a ridosso della prima guerra mondiale e di come rinasca in Italia per iniziativa del’Udi nel 1945. Si conclude con «Noi donne», la rivista fondata nel 1944 a Napoli subito dopo la liberazione, che accompagna, sostiene e a volte anticipa tutte le lotte dell’Udi, diventando specchio della realtà femminile.Per tutto il periodo in cui la mostra resta aperta è possibile visionare un filmato, realizzato con il contributo della Commissione delle Elette del Comune, che illustra i momenti più importanti delle battaglie e delle iniziative dell’Udi. Un laboratorio didattico promuove infine interventi nelle scuole e visite guidate. L’8 marzo, tra festeggiamenti e mimose, si svolgerà un incontro-confronto fra generazioni, sulla politica delle donne.
Un’originale e interessante mostra per il sessantesimo anniversario dell’associazione
Udi, storia di donne per manifesti
Dal dopoguerra a oggi: così è cambiata la condizione femminile
Per il sessantesimo anniversario l’Udi (Unione donne italiane) si è regalata questa mostra che ripercorre la storia delle donne nell’Italia democratica e repubblicana dall’immediato dopoguerra ad oggi attraverso un centinaio di manifesti selezionati tra i 1374 prodotti dall’associazione. Ma sono esposti anche documenti originali, foto, copie di «Noi donne», il popolare settimanale che nei decenni passati ha raggiunto tirature notevoli e una diffusione nazionale. L’Udi mosse i suoi primi passi proprio nella Roma liberata e contribuì in modo decisivo al riscatto e al progresso delle donne italiane, che fino al dopoguerra non avevano nemmeno diritto al voto. Ora la storia di questa emancipazione è narrata nelle quattro sezioni della mostra, che partono dal 1944, anno in cui si gettarono le basi per la costituzione dell’Udi da parte dei comitati di iniziativa, nati nell’Italia già liberata, e dei gruppi di difesa della donna, attivi nelle zone ancora occupate.
Attraverso i materiali esposti è possibile immaginare e ricostruire il contesto sociale, culturale e politico degli ultimi sessant’anni. Si parte dalle «campagne tematiche», che illustrano le battaglie femminili nell’ambito di temi come la pace, il lavoro, i diritti civili, i servizi sociali. Si prosegue con le forme della politica, descritte dai congressi dell’Udi. Si continua con «l’8 marzo», che ricorda come la giornata internazionale della donna derivi da un’esperienza nata in America e recuperata dai movimenti femminili europei a ridosso della prima guerra mondiale e di come rinasca in Italia per iniziativa del’Udi nel 1945. Si conclude con «Noi donne», la rivista fondata nel 1944 a Napoli subito dopo la liberazione, che accompagna, sostiene e a volte anticipa tutte le lotte dell’Udi, diventando specchio della realtà femminile.Per tutto il periodo in cui la mostra resta aperta è possibile visionare un filmato, realizzato con il contributo della Commissione delle Elette del Comune, che illustra i momenti più importanti delle battaglie e delle iniziative dell’Udi. Un laboratorio didattico promuove infine interventi nelle scuole e visite guidate. L’8 marzo, tra festeggiamenti e mimose, si svolgerà un incontro-confronto fra generazioni, sulla politica delle donne.
DONNE MANIFESTE. Museo di Roma in Trastevere, piazza S.Egidio, tel.06.5816563. Fino al 27 marzo, tutti i giorni dalle 10 alle 19, chiuso il lunedì.
sinistra
l'Unione e i Radicali
L'Unità 27 Febbraio 2005
Bertinotti: sì all’ospitalità elettorale ai Radicali
Ieri fuori dal Brancaccio c’erano Emma Bonino e Capezzone. «Siamo tutti Luca Coscioni»
g.v.
ROMA Romano Prodi arriva mentre sul marciapiede davanti il teatro Brancaccio c'è Emma Bonino e Daniele Capezzone che esibiscono manifesti «Siamo tutti Luca Coscioni»; ma il leader dell'Unione fa come se non ci fossero e si infila rapido in sala. D'altronde, come si sa da venerdì, gli accordi erano questi: i Radicali avrebbero manifestato compostamente fuori dal Brancaccio, senza rovinare la festa all'Ulivo. Avrebbero dunque evitato di entrare in sala, così come di distribuire volantini all'interno per non disturbare la cerimonia.
Ma il dialogo, se pur a distanza, non si può dire non vi sia stato: dietro le quinte della manifestazione, prima dell'inizio dei discorsi dal palco, non sono certo mancati commenti e battute di leader e dirigenti dell'Ulivo, sul tema del giorno dopo, cioè i Radicali, incrociati poco prima di entrare con i loro volantini e i loro capannelli. E c'è perfino chi racconta di aver ascoltato Walter Veltroni chiedere a Massimo D'Alema, in un breve colloquio sotto il palco gomito a gomito in mezzo alla ressa di dirigenti ulivisti: «Con i radicali è finita qua?». D'Alema gli avrebbe risposto di no, anche perché loro, i radicali, come si vede continuano a premere. I radicali comunque sia, sono stati tenuti rigorosamente fuori dalla scena del Brancaccio, anche nelle dichiarazioni pubbliche e ufficiali, tanto che Francesco Rutelli, interpellato dai cronisti, ha risposto: «Oggi è la nascita dell'Ulivo».
«Noi siamo d'accordo nell'offrire ai Radicali quella ospitalità elettorale nel nostro schieramento che è ovviamente e dichiaratamente cosa ben diversa da un accordo programmatico e dalla condivisione comune di tesi politiche», ha detto il segretario di Rifondazione comunista Fausto Bertinotti, rispondendo ai lettori di Liberazione nel numero in edicola oggi. «Non lo facciamo -dice ancora il leader del Prc- per un pugno di voti in più. In ogni caso ribadisco che accostarsi a questo problema con un'ottica puramente utilitaristica sarebbe una operazione miope e probabilmente inefficace. Che noi non siamo d'accordo con i Radicali è cosa davvero fin troppo evidente. Lo dimostrano inequivocabilmente le battaglie che abbiamo combattuto spesso per obiettivi e su versanti non solo diversi, ma addirittura opposti. Non è tuttavia un caso se questo sia sempre avvenuto entro un rapporto di sostanziale e reciproco rispetto. Né si può chiedere a loro né tantomeno pretendere abiure delle loro posizioni che suonerebbero inevitabilmente false e quindi rappresenterebbero un'offesa alla intelligenza degli elettori». «Naturalmente -dice ancora il segretario di Rifondazione- questa diversità non è assoluta, non è estesa a tutti i campi, non diventa totale incomunicabilità. Non lo è stato nel passato, non lo è neanche oggi. È infatti evidente che attorno alla questione della presenza dei Radicali nelle liste dell'Unione, si annoda il tema del referendum sulla procreazione assistita. La stessa data della sua convocazione è oggetto di un acceso scontro politico».
L'Unità 27 Febbraio 2005
Bondi: con Bertinotti mi sono sentito “fratello”
ROMA «Con Bertinotti mi sono sentito fratello leggendo la sua intervista» sulla ricerca di religiosità «e trovandomi seduto vicino a lui nella Basilica d'Assisi e scambiandoci alcune parole sul significato dell'esistenza e sulla fede».
Lo scrive il coordinatore di Fi, Sandro Bondi, in un articolo che apparirà oggi sul Giornale, dove sottolinea: «La domanda di Bertinotti aveva conquistato anche il grande cuore di Pasolini, dominò in lungo e in largo l'anima gigantesca di Testori, vinse le resistenze dell'economista di scuola rodaniana Claudio Napoleoni, che divenne, alla fine dei suoi giorni, un entusiasta amante dell'Eucarestia.
A questo livello, non contano più gli steccati politici e ideologici, conta solo la persona, la sua libertà che si mette drammaticamente in gioco di fronte al Mistero».
Bondi, dunque, si ritrova e fa l’elogio della pecorella smarrita Fausto, avviato, miracolosamente, sulla strada della conversione religiosa. Finalmente, fratelli.
Bertinotti: sì all’ospitalità elettorale ai Radicali
Ieri fuori dal Brancaccio c’erano Emma Bonino e Capezzone. «Siamo tutti Luca Coscioni»
g.v.
ROMA Romano Prodi arriva mentre sul marciapiede davanti il teatro Brancaccio c'è Emma Bonino e Daniele Capezzone che esibiscono manifesti «Siamo tutti Luca Coscioni»; ma il leader dell'Unione fa come se non ci fossero e si infila rapido in sala. D'altronde, come si sa da venerdì, gli accordi erano questi: i Radicali avrebbero manifestato compostamente fuori dal Brancaccio, senza rovinare la festa all'Ulivo. Avrebbero dunque evitato di entrare in sala, così come di distribuire volantini all'interno per non disturbare la cerimonia.
Ma il dialogo, se pur a distanza, non si può dire non vi sia stato: dietro le quinte della manifestazione, prima dell'inizio dei discorsi dal palco, non sono certo mancati commenti e battute di leader e dirigenti dell'Ulivo, sul tema del giorno dopo, cioè i Radicali, incrociati poco prima di entrare con i loro volantini e i loro capannelli. E c'è perfino chi racconta di aver ascoltato Walter Veltroni chiedere a Massimo D'Alema, in un breve colloquio sotto il palco gomito a gomito in mezzo alla ressa di dirigenti ulivisti: «Con i radicali è finita qua?». D'Alema gli avrebbe risposto di no, anche perché loro, i radicali, come si vede continuano a premere. I radicali comunque sia, sono stati tenuti rigorosamente fuori dalla scena del Brancaccio, anche nelle dichiarazioni pubbliche e ufficiali, tanto che Francesco Rutelli, interpellato dai cronisti, ha risposto: «Oggi è la nascita dell'Ulivo».
«Noi siamo d'accordo nell'offrire ai Radicali quella ospitalità elettorale nel nostro schieramento che è ovviamente e dichiaratamente cosa ben diversa da un accordo programmatico e dalla condivisione comune di tesi politiche», ha detto il segretario di Rifondazione comunista Fausto Bertinotti, rispondendo ai lettori di Liberazione nel numero in edicola oggi. «Non lo facciamo -dice ancora il leader del Prc- per un pugno di voti in più. In ogni caso ribadisco che accostarsi a questo problema con un'ottica puramente utilitaristica sarebbe una operazione miope e probabilmente inefficace. Che noi non siamo d'accordo con i Radicali è cosa davvero fin troppo evidente. Lo dimostrano inequivocabilmente le battaglie che abbiamo combattuto spesso per obiettivi e su versanti non solo diversi, ma addirittura opposti. Non è tuttavia un caso se questo sia sempre avvenuto entro un rapporto di sostanziale e reciproco rispetto. Né si può chiedere a loro né tantomeno pretendere abiure delle loro posizioni che suonerebbero inevitabilmente false e quindi rappresenterebbero un'offesa alla intelligenza degli elettori». «Naturalmente -dice ancora il segretario di Rifondazione- questa diversità non è assoluta, non è estesa a tutti i campi, non diventa totale incomunicabilità. Non lo è stato nel passato, non lo è neanche oggi. È infatti evidente che attorno alla questione della presenza dei Radicali nelle liste dell'Unione, si annoda il tema del referendum sulla procreazione assistita. La stessa data della sua convocazione è oggetto di un acceso scontro politico».
L'Unità 27 Febbraio 2005
Bondi: con Bertinotti mi sono sentito “fratello”
ROMA «Con Bertinotti mi sono sentito fratello leggendo la sua intervista» sulla ricerca di religiosità «e trovandomi seduto vicino a lui nella Basilica d'Assisi e scambiandoci alcune parole sul significato dell'esistenza e sulla fede».
Lo scrive il coordinatore di Fi, Sandro Bondi, in un articolo che apparirà oggi sul Giornale, dove sottolinea: «La domanda di Bertinotti aveva conquistato anche il grande cuore di Pasolini, dominò in lungo e in largo l'anima gigantesca di Testori, vinse le resistenze dell'economista di scuola rodaniana Claudio Napoleoni, che divenne, alla fine dei suoi giorni, un entusiasta amante dell'Eucarestia.
A questo livello, non contano più gli steccati politici e ideologici, conta solo la persona, la sua libertà che si mette drammaticamente in gioco di fronte al Mistero».
Bondi, dunque, si ritrova e fa l’elogio della pecorella smarrita Fausto, avviato, miracolosamente, sulla strada della conversione religiosa. Finalmente, fratelli.
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