lunedì 15 novembre 2004

Marcello Cini intervistato da Rina Gagliardi

una segnalazione di Gianluca Cangemi

Liberazione 15.11.04

«Non capisci il mondo se non vai al supermercato»
Intervista al grande intellettuale Marcello Cini
di Rina Gagliardi

Marcello Cini è uno dei pochi grandi intellettuali italiani di formazione scientifica. Per molti anni docente di fisica teorica alla Sapienza di Roma (oggi ha il titolo di professore emerito), è stato uno dei fondatori dell'ambientalismo e ne è a tutt'oggi uno degli esponenti pensanti. Molti lustri fa, quando la gara spaziale tra Urss e Usa era in pieno corso (e ci divideva sul "tifo" per l'una o per l'altra), si permise, quasi da solo, di mettere radicalmente in dubbio l'utilità di destinare tante risorse ai viaggi sulla Luna: una delle massime eresie ideologiche proposte dall'allora rivista eretica Il Manifesto. Negli anni '70, insieme a due suoi allievi, Cini scrisse un libro, "L'ape e l'architetto" che affrontava il tabu della scienza e sosteneva che no, essa non era e non poteva essere considerata "neutrale": era, del resto, la fase ascendente delle lotte sociali, del sindacato dei consigli, delle 150 ore che tentarono di rompere la separatezza tra scuola e operai. Vennero poi le battaglie contro il nucleare, vinte, quantomeno nell'essenziale. E vennero gli anni '80, nei quali Cini ha offerto alla cultura - ma anche alla sinistra italiana - la straordinaria riflessione epistemologica del "Il Paradiso perduto" e dei "Dialoghi di un cattivo maestro". Un percorso lungo e ricco, quello di questo particolare "militante della conoscenza", sempre rigoroso e sempre controcorrente, mai presenzialista, che continua a lavorare per la sinistra e per il movimento. Lo incontriamo a casa sua, nel cuore del quartiere Monti, per parlare di scuola e conoscenza, alla vigilia di uno sciopero importante come quello di domani: non è certo un caso che Cini stia oggi lavorando ad un libro che dovrebbe intitolarsi "Il supermercato della conoscenza". Cominciamo proprio da qui: dal fatto che le politiche attuali dell'istruzione e della formazione stanno distruggendo non solo la scuola pubblica, ma il patrimonio della conoscenza.
Il mondo della scuola, dalle elementari all'Università, non ne può di Letizia Moratti. Non si tratta certo solo di una questione sindacale e sociale, che pure hanno un peso rilevante: si tratta, mi pare, del destino del sistema dell'istruzione e, quindi, delle generazioni future. Le destre, forse non solo in Italia, stanno appunto, sferrando un attacco frontale alla scuola e alla ricerca pubblica. Perché?
La politica di Moratti è mossa da un'ideologia "semplice e chiara", tipica del capitalismo di questa fase storica: la privatizzazione di tutti i beni e di tutti i servizi. Una scelta globale, non solo italiana, che oggi viene applicata anche e soprattutto alla "nuova frontiera" dello sviluppo, che è data dalla produzione, come ormai si usa dire, "immateriale": per esempio la produzione di servizi essenziali come scuola e salute. Tutto deve assumere la forma di merce, tutto è pensato in funzione del mercato: non capisci il mondo se non vai al supermercato. Naturalmente, quella italiana è solo una variante "arretrata".
Quali sono le conseguenze prevedibili di questa impostazione, anzi di questa politica?
Sono conseguenze molto gravi. Restiamo alla scuola. Intanto, si mette in moto un meccanismo di mostruosa disuguaglianza: il sapere diventa appannaggio soltanto di chi può permettersi di "comperarlo": di chi ha i soldi, insomma, per accedere ai livelli più alti e qualificati del sapere, un po' come avveniva un secolo fa. Secondo: si cancellano alcuni diritti fondamentali, che sono stati il risultato della lunga strada verso la modernità - e l'eguaglianza sostanziale dei cittadini - avviata dalla Rivoluzione francese.
L'ideologia e la pratica privatistiche, insomma, producono una gigantesca regressione sociale e, perfino di civiltà.
Sì, ma producono anche - ecco un'altra grave conseguenza - una regressione della stessa ricerca e della produzione di nuova conoscenza con drammatiche ricadute concrete nel rapporto con l'ambiente. I privati non sono in grado né di porsi né di affrontare i problemi di lungo periodo: operano, o ragionano, come cicale e seguono il motto keynesiano ("Nel lungo periodo siamo tutti morti"). Il risultato di questo degrado è la progressiva distruzione dell'ambiente, dalla crisi dell'ecosistema all'utilizzo sfrenato di energie non rinnovabili, dalla crescita della C02 nell'atmosfera al collasso del clima. Fino alle guerre, le guerre del petrolio.
Non c'è, in tutto questo, una cecità del capitalismo perfino rispetto a se stesso?
Beh, per i paesi più sviluppati, come gli Usa e parte dell'Europa, questa è una scelta che corrisponde all'esistenza effettiva di mercati in permanente e tumultuoso movimento, e che si colloca sui beni immateriali perché lì è la frontiera dell'innovazione. La Cina di oggi è già lanciata su questo modello, e tra vent'anni lo applicherà su larga scala. In Italia, scontiamo naturalmente la particolare miopia degli imprenditori (che fino a pochi mesi fa, del resto, erano guidati da un produttore di scatole di cartone). Moratti, poi, porta avanti una politica ritagliata sugli interessi di un gruppo di suoi amici - più o meno quel che fa Lunardi. Alla fine succede che gli scienziati italiani firmano appelli assurdi come quello per gli Ogm: perché l'unica fonte di finanziamento possibile delle loro ricerche è la Monsanto, sono le multinazionali.
A questo quadro catastrofico, che cosa si può opporre? Non ti chiedo, naturalmente, una proposta dettagliata di riforma della scuola e del sistema dell'istruzione. Ma, se riusciremo a battere Berlusconi e a cancellare, tra le altre, le leggi Moratti, saremo chiamati a definire un'idea alternativa di scuola. Su quali assi generali?
Torniamo al tema della conoscenza: che è una merce immateriale, dove il profitto è sganciato dal "tempo di lavoro" e può crescere illimitatamente al crescere del consumo. Solo che, a differenza dei beni materiali, la fruizione da parte di un "consumatore" non ne impedisce la fruizione da parte di altri: le merci immateriali, al contrario, non si "consumano". In un disco non è la plastica che conta, è la canzone che c'è incisa. Ma la canzone non si consuma se io l'ascolto: la possono ascoltare altre milioni di persone. Il trucco del capitale sta nel far credere che la merce venduta è indissociabile dal suo supporto materiale. Dunque, la riduzione di questi beni immateriali a merce, destinata ad essere acquistata e fruita individualmente in esclusiva, è una reificazione violenta e abusiva: è come se Gesù avesse venduto i pani e i pesci agli ascoltatori del Discorso sulla montagna dopo averli moltiplicati. Non solo. Così viene favorita solo l'innovazione che promette di dare maggiori profitti a scapito di quella che potrebbe risolvere i problemi sociali più urgenti, non ha mercato immediato. Tutta la problematica che deriva dalla brevettazione della materia vivente - dal singolo gene all'organismo più complesso - e della mente umana - dal singolo bit all'opera più monumentale - ha la sua radice in questo meccanismo perverso.
Ecco, il primo asse portante potrebbe essere l'educazione ai limiti della logica di mercato, che un miliardario come Soros del resto ha ben denunciato, ovvero a questa necessità di riappropriazione collettiva del bene-conoscenza.
E poi?
Un secondo asse è l'idea di eguaglianza, nel senso di eguali diritti ed eguali opportunità per tutti che, oggi, per essere realmente garantiti, devono passare anche per la diffusione - e il controllo critico di massa - dei saperi prodotti dallo sviluppo scientifico e tecnologico. Non è soltanto una ripresa della antica parola d'ordine dell'egalitè. L'eguaglianza, per essere tale, deve oggi accompagnarsi all'educazione alla diversità: diversità delle persone, delle specie, della vita. Naturalmente, la diversità così intesa non può esser confusa con la diseguaglianza, che produce soltanto miseria. Il terzo asse è quello dello sviluppo ecocompatibile, della salvezza dell'ambiente.
Proprio a proposito di eguaglianza, mi viene in mente che oggi una parte importante dell'intellettualità di destra porta avanti una critica spietata non solo di questo tipo di valori, ma più in generale del paradigma della razionalità illuministica - quello su cui sono cresciute generazioni intere della sinistra. A riprova, è vero che Bush ha vinto sui valori tradizionali, su un'ideologia in fondo precapitalistica, prima che sulle bellezze della globalizzazione e del neoliberismo. Ecco, la vedi o no questa crisi, o questa insufficienza, nella nostra cultura? E come eventualmente superarle?
Sono d'accordo sull'insufficienza - o forse sull'invecchiamento - dei parametri classici della ragione. I lumi non bastano - né per vincere né, forse, per capire fino in fondo. Penso a Gregory Bateson, un pensatore che torna oggi di grande attualità anche a proposito di quel "bisogno di sacro" - che per lui è tutto e solo immanente e si identifica alla fine con l'inconscio - su cui ha tanto a lungo insistito. Batesonianamente parlando, il simbolo e la sostanza, che sono così diversi da un punto di vista logico e razionale, per il nostro inconscio sono la stessa cosa: e qui risiede tutto ciò che è emotività, passione, bellezza, dolore, e che motiva parte così grande delle scelte umane.
Che cosa potrebbe voler dire assumere nel nostro discorso uno schema come quello di Bateson?
Che non si può vincere soltanto sulla base della nostra capacità di persuasione razionale.
Che, alla fin fine, l'ideologia del mercato, che dobbiamo assolutamente sconfiggere, è "razionalissima": che cosa c'è di più razionale dei numeri dell'economia e dell'"eguaglianza" di tutti i consumatori di fronte alla merce? Che dobbiamo ancora costruire una "traduzione" delle idee della sinistra (quelle che ho letto recentemente di Bertinotti mi sono parse molto condivisibili, al contrario della scelta che ho considerato sciagurata, nel '98, di abbattere il governo Prodi) che non suoni né astratta né utopistica, ma sia capace di parlare anche alle budella, oltre che alla testa.
Un esempio?
Un esempio. La nostra specie, la specie umana, è a rischio di sopravvivenza: nel senso che la prevalenza dell'homo sapiens su tutte le altre specie sta diventando tale da far paventare - come si dice - una nuova crisi globale dell'ecosistema, la possibile "VI estinzione". Ora, questo pericolo di vero e proprio annientamento ci pone o no il tema della responsabilità che abbiamo rispetto alle generazioni future? Ci pone o no la questione dell'identità di specie? Ecco un altro asse di ricerca che potrebbe svilupparsi in un sistema dell'istruzione, in una scuola non soggetta al mercato. Esiste una minaccia per il mondo: ma non sono i terroristi islamici, non è bin Laden. Siamo noi.

super staminali

una segnalazione di Franco Pantalei

Repubblica 15.11.04
Devono tutto all'assenza della proteina che provoca il "suicidio" Gli scienziati: scoperta utile per la lotta al tumore cerebrale
Le super staminali del cervello Ecco perché sono così resistenti

ROMA - Sono le più resistenti tra tutte le cellule staminali. Praticamente immortali. E adesso si è capito - grazie a uno studio italiano - perché le cellule staminali del cervello sono così resistenti alla morte. In pratica, a differenze dalle altre, si difendono in modo eccezionale grazie a un doppio meccanismo. Da una parte l'assenza della proteina chiamata caspasi 8, che spinge verso la morte programmata tutti gli altri tipi di cellule presenti nell'organismo. Dall'altra nella presenza di una proteina, chiamata Ped, che viene prodotta in grandi quantità ogni volta che si verifica una situazione di emergenza, come ad esempio un'infiammazione.
Con questa scoperta, diventa adesso possibile comprendere l'origine di tumori cerebrali estremamente aggressivi e oggi impossibili da curare, come il glioblastoma. Altre prospettive interessanti, anche se a lungo termine, riguardano la possibilità di utilizzare lo stesso meccanismo per proteggere i neuroni adulti dai danni provocati dalle malattie neurodegenerative, come il Parkinson o l'Alzheimer.
Il meccanismo delle staminali del cervello è stato ricostruito per la prima volta dal gruppo di Ruggero De Maria, del Dipartimento di Ematologia, oncologia e medicina molecolare dell'Istituto superiore di sanità. La ricerca, pubblicata sul Journal of Experimental Medicine, è stata condotta in collaborazione con istituto neurologico Besta di Milano, università Thomas Jefferson di Filadelfia, università Federico II di Napoli e Istituto Mediterraneo di Oncologia di Catania.
Proprio per la loro forte resistenza alla morte, fino ad una decina di anni fa le cellule staminali del cervello sono state considerate perenni, praticamente immortali. "Si pensava che i neuroni fossero perenni, ma poi si è visto che non è così e che c'è una continua produzione di cellule neurali" dicono i ricercatori.
''Si tratta di indicazioni molto importanti anche dal punto di vista clinico. Questi dati aprono nuovi scenari nella terapia delle malattie oncologiche - spiega De Maria - Abbiamo infatti osservato che questi meccanismi sono attivi nelle cellule staminali neoplastiche che danno origine ai tumori cerebrali ed è anche per questo che pensiamo esse sono particolarmente difficili da aggredire terapeuticamente''.

su L'Unità del 15. 11

a pagina 1 e 27:

ANCHE SE DIO NON ESISTESSE
Il fondamentalismo religioso sembra aver contagiato in modo grave la grande tradizione laica dell'Occidente
Da più parti sta nascendo una spinta verso l'identificazione della morale pubblica con la morale religiosa
di OMAR CALABRESE

Un amico mi ha fatto avere via Internet un'immagine che pare riscuotere un gran successo in questo momento negli Stati Uniti (ovviamente in ambienti liberal). Si tratta della Nuova Carta Geografica del Nord America. Vi si notano solo due stati, gli United States of Canada, composti dal Canada medesimo e dalle due coste degli Usa, e Jesusland, che comprende le regioni che hanno votato per Bush. Si tratta di una vignetta satirica, è vero, ma questa vignetta interpreta meglio di molti dotti articoli lo spirito del tempo nella nostra cultura. Il fondamentalismo religioso - che credevamo confinato ai Paesi con forte giurisdizione teocratica - sembra infatti aver contagiato in modo serio (e, dico io, grave) la grande tradizione laica dell'Occidente. Le elezioni americane (ma, in piccolo, anche la precedente bocciatura dell'on. Rocco Buttiglione come commissario alla giustizia da parte del Parlamento Europeo per via di dichiarazioni integraliste) hanno provocato un dibattito sulla questione del rapporto fra laicismo e confessionalismo in politica che non conoscevamo da molti anni. Si tratta, però, di una discussione davvero paradossale. Chi cerca nella religione cristiana un paravento o un appoggio ideologico per una presunta battaglia sul ripristino dei "valori" perduti pare aver dimenticato proprio il meglio della civiltà cristiana delle origini, bizzarro che un laico come me provi a rammentarla, e tuttavia umilmente voglio provarci.
Cominciamo dalle fondamenta, e domandiamoci quale sia il significato della parola "laico", da dove provenga, e perché sia così rilevante per la concezione stessa dello Stato. Etimologicamente, l'origine è semplice. Il termine deriva dal greco (làos) e vuol dire «appartenente al popolo». L'autore che, forse, lo ha utilizzato per primo è Quinto Settimio Fiorente Tertulliano, il grande apologeta cristiano vissuto all'incirca fra il 160 e il 240 dopo Cristo, e considerato come un maestro nientemeno che da S. Agostino un paio di secoli dopo. Tuttavia, molto presto la Chiesa impiegò la parola per indicare i fedeli generici, in contrapposizione ai chierici, cioè coloro che prendevano la strada del sacerdozio. Solo a partire dall'umanesimo la differenza si fa più marcata, e laico è colui che non necessariamente appartiene alla Chiesa. Nell'Ottocento, poi, l'aggettivo assume un carattere quasi polemico, opposto a clericale, e qualifica chiunque abbia una concezione liberale del diritto: i valori della legge e della cosa pubblica devono essere separati da quelli della fede, per garantire la convivenza, la tolleranza, la coesione sociale. Le vicende della formazione degli stati nazionali europei moderni acuirono quella separazione, e la trasformarono in aperto conflitto, tanto è vero che per molto tempo la Chiesa negò ai cattolici la possibilità medesima di occuparsi di politica.
Il punto, insomma, sta tutto qui: le democrazie occidentali sono fondate sul principio della laicità dello Stato in quanto garanzia di uguaglianza fra tutti i cittadini; l'equità e la giustizia devono essere accolte come valide per tutti "etsi Deus non existet" (anche se Dio non esistesse). Si tratta di un concetto che le religioni, non solo quelle cristiane, accettano più o meno malvolentieri. In ambiente islamico, ad esempio, il rifiuto è pressoché totale. In Israele il modello è quello liberale, ma le spinte confessionali sono fortissime, tanto è vero che si contano numerosi partiti religiosi in Parlamento. In Europa, l'atteggiamento è stato sempre un po' più pragmatico, e i molti partiti cristiani esistenti accettano la formula della «libera Chiesa in libero Stato», limitandosi a contrastare l'approvazione di leggi in aperto dissidio con la morale ecclesiastica, ma non oltrepassando di solito i limiti della dissuasione. Il che è persino ovvio: un diritto riconosciuto (come può essere il divorzio o l'aborto) non obbliga affatto il credente a praticarne l'esecuzione.
Veniamo, così, ad una riflessione sui fatti di oggi, che costituiscono a mio avviso un segnale di mutamento più grave di quanto sembri. Il fatto è che da più parti sta nascendo una spinta verso l'identificazione della morale con la morale religiosa. Una traccia la si può cogliere, ad esempio, nella pressante richiesta di inserire nella Costituzione Europea il riferimento alle radici cristiane. Un'altra può essere il testo della legge sulla fecondazione assistita approvato dal Parlamento italiano. Non voglio entrare nel merito della correttezza di simili posizioni. I credenti hanno il pieno diritto di esprimere quelli che giudicano i principi irrinunciabili della lorofede. C'è tuttavia un problema. Siamo proprio sicuri che l'identificazione toutcourt della morale pubblica con quella confessionale sia una garanzia per quest'ultima? Credo francamente di no. Se, ad esempio, un giorno la maggioranza dei cittadini diventasse islamica, scintoista, animista che cosa succederebbe del diritto e di quei medesimi cittadini appartenenti ad altre fedi? Ho l'impressione che si moltiplicherebbero le guerre di religione.
E' questa, forse, una posizione strettamente "laicista"? Ebbene, tutto l'opposto. Le sue basi sono state scritte proprio da quel Tertulliano che ho citatoprima, e nel suo testo più famoso, l'Apologetico. Il libro è un'appassionata difesa del cristianesimo dalle false accuse dei Romani (idolatria, rituali sconvenienti, persino cannibalismo), e si conclude con osservazioni sui rapporti fra lo Stato e la Chiesa. Quel che preoccupava davvero la corte imperiale, infatti, era la disobbedienza dei cristiani alla legge comune. Tertulliano rivendica invece il diritto di disobbedire solo a quelle norme che contrastano con i comandamenti, separando insomma lui per primo fede e Stato.
In un'opera successiva, il De corona, anticipa il mondo moderno in maniera impressionante: inventa addirittura l'obiezione di coscienza, rifiutando pe ril cristiano l'obbligo della leva militare in virtù dell'imperativo di non uccidere. Siamo nell'anno 211 dopo Cristo! E' vero che Tertulliano morì poi eretico e dogmatico, ma resta il fatto che ha elaborato idee fondamentali sulla libera convivenza di credenti e non credenti. Possibile che milleottocento anni dopo si debbano compiere dei passi all'indietro così marcati? Molto meglio sarebbe ridefinire insieme, laici e religiosi, i nuovi fondamenti di un'etica condivisa: una sorta di massimo comun denominatore. Il prezzo, altrimenti, è troppo alto da pagare, è la democrazia medesima, e con la ipocrita scusa di ripristinare un "sistema di valori" che è invece ideologia pura.


stessa pagina (e del tutto off topic):

Affidamento congiunto o legge del più forte?

di Luigi Cancrini

da Salute di Repubblica di giovedì 11 novembre

Repubblica Salute giovedi 11 novembre 2004

Psicoterapia efficace come i farmaci
La "cura della parola" riesce a stimolare bene i meccanismi di autoguarigione

È dimostrata da numerosi studi controllati l'efficacia della psicoterapia, di tipo cognitivo in particolare, nel trattamento della depressione. Il suo grado di efficacia risulta più o meno lo stesso di quello ottenuto con farmaci. Di grande interesse sono studi recenti che cercano di catturare le modificazioni cerebrali indotte dalla psicoterapia. Il gruppo di Helen Mayberg, dell'Università di Toronto, ha pubblicato su Archives of general psychiatry del gennaio scorso immagini cerebrali di persone depresse positivamente trattate con psicoterapia comportamentale. I cambiamenti cerebrali documentati riguardano un aumento di attività di aree profonde del sistema limbico, come l'ippocampo e il cingolo dorsale, e una diminuzione di attività delle aree corticali pre-frontali e frontali. L'opposto di quello che si vede nelle persone trattate positivamente con i farmaci. Si potrebbe speculare che la psicoterapia, puntando sui meccanismi di autoguarigione, è efficace nella misura in cui è in grado di riorganizzare il cuore emozionale del cervello (sistema limbico) e di tranquillizzare la mente esecutiva (cortecce prefrontali), mentre il farmaco sembrerebbe avere come target proprio la parte esecutiva del cervello. Questo potrebbe spiegare l'utilità dei farmaci nelle depressioni cosiddette "catatoniche" (quando la persona si chiude in casa e non si alza dal letto) e l'utilità della psicoterapia nelle depressioni con rimuginazione e ansia. (f. b.)

Psichiatri a confronto

Venerdì 12 novembre dalle 14,30 alle 19,30 all'Un. La Sapienza a Roma, V clinica medica, aula di genetica, workshop su "Depressione: strategie integrate per contrastare l'epidemia". È organizzato dalla Società italiana di psico-neuro-endocrino-immunologia (Sipnei) Interverranno: Francesco Bottaccioli presidente Sipnei, Gabriella Polidori, Istituto superiore di sanità, Adalgisa Palma e Giuseppe Genovesi, La Sapienza di Roma, Iginia Mancinelli, Osp. S. Andrea di Roma, Aldo Stella, Un. di Urbino, Francesco Capasso dell'Università di Napoli, Maria Corgna, Un. di Cosenza, Antonia Carosella, Scuola medicina integrata di Perugia, Lucio Sotte, Riv. medicina cinese. Info: Marina Risi tel. 3285685050 paolamari.risi@tiscali.it

Iperico, utile nelle forme lievi
Buoni risultati si hanno anche con l'agopuntura

La pianta più studiata per i suoi effetti antidepressivi è l'Iperico, Hypericum perforatum nel suo nome latino della classificazione botanica generale, che è da tempo approvato dalle autorità sanitarie della Germania per il trattamento della depressione maggiore di grado lieve e moderato.
L'efficacia curativa della pianta, come ricorda Francesco Capasso, farmacologo dell'Università di Napoli che ha recentemente pubblicato un testo internazionale di fitoterapia, (Phytotherapy, Springer, Berlin e New York, 2003), è stata dimostrata da 27 studi clinici controllati che hanno coinvolto circa 2.300 pazienti.
L'Iperico ha un'efficacia paragonabile a quella degli antidepressivi di sintesi con il vantaggio di avere minori effetti collaterali.
L'estratto della pianta però è molto attivo chimicamente, nel senso che ha numerose interazioni con altri farmaci, riducendone la disponibilità e quindi l'efficacia, come nel caso dei farmaci inibitori delle proteasi che si usano contro il virus dell'Aids. Particolarmente pericolosa è poi l'assunzione combinata di Iperico e di alcuni antidepressivi serotonergici come la sertralina e la paroxetina. La pianta quindi è uno strumento ottimo ed efficace e proprio per questo, al pari di un farmaco potente, però va usato con sapienza ed accortezza.
Anche l'agopuntura sta cumulando una crescente documentazione positiva. Nel lontano 1986 venne per la prima volta dimostrato che gli "aghi celesti" sono in grado di stimolare, nell'animale, il rilascio di serotonina e noradrenalina, agendo quindi come un farmaco antidepressivo di ultima generazione.
Gli studi clinici realizzati in occidente non sono molti, ma quelli che ci sono mostrano che l'agopuntura è efficace come gli antidepressivi della cosiddetta categoria dei "triciclici", la cui efficacia è paragonabile a quella dei più moderni serotonergici.
(f. b.)

Donne e single i più a rischio
I paesi latini i meno colpiti
L'Oms: "La depressione diventerà la seconda causa d'invalidità"
di Gabriella Polidori *

Il disturbo depressivo costituisce una patologia ampiamente diffusa e, sebbene negli ultimi vent'anni siano stati compiuti grandi progressi verso una migliore comprensione, una più accurata diagnosi ed un più efficace trattamento, esso continua a rappresentare, per coloro che ne sono colpiti e per la società, un pesante carico.
Studi internazionali hanno evidenziato che la diffusione della depressione è preoccupante: da 11 a 16 persone su 100, nel corso della vita, fanno esperienza del disturbo (cosiddetta prevalenza lifetime). L'Organizzazione Mondiale della Sanità prevede che entro il 2020 la depressione maggiore costituirà la seconda causa di disabilità nel mondo. Inoltre, il livello di disabilità delle persone colpite da depressione maggiore è più elevato rispetto a quello causato dalle più comuni patologie croniche, quali l'artrite o l'ipertensione. Nell'arco di 6 mesi, i pazienti depressi perdono di solito, a causa dei sintomi della malattia, 30 giorni di normale attività e 20 giorni lavorativi. Cifre che possono anche aumentare se la depressione è associata ad altri disturbi psichiatrici quali il disturbo da attacchi di panico o il disturbo d'ansia generalizzata.
Un problema di notevole rilievo è rappresentato dal rischio di suicidio: tra le persone depresse il 15 per cento commette un gesto autolesivo.
La depressione ha anche pesanti costi economici. Negli Stati Uniti il costo annuo della depressione è di 44 miliardi di dollari, comprensivi di spese per visite, ricoveri, farmaci e i costi per accresciuta mortalità, assenze dal lavoro e perdita di produttività.
Da uno studio condotto recentemente in sei Paesi europei compreso il nostro, emerge che in Italia l'11 per cento ha sofferto nel corso della vita di depressione. Da noi, la prevalenza è più bassa che nel Centro e Nord Europa e nel Nord America (rispettivamente 14% e 16%). La Spagna ha prevalenza simile all'Italia.
Bisognerà capire se la specificità socio culturale, lo stile di vita e di rapporti interpersonali in questi due paesi svolgano un effetto protettivo.
Le donne hanno una probabilità doppia di soffrire di depressione. Sono più a rischio le persone giovani e non sposate, i disoccupati, le casalinghe e chi vive in città. L'età di insorgenza, nella maggior parte dei casi, è fra i 18 e i 24 anni. Inoltre in Italia (ma dati simili ci sono negli altri paesi europei) solo il 37 per cento di coloro che avevano sofferto nell'anno precedente di depressione ha contattato un servizio sanitario: una percentuale ancor più ridotta ha ricevuto un trattamento. Il riconoscimento e un conseguente intervento precoce potrebbe prevenire la successiva evoluzione del disturbo, che spesso conduce all'abuso di sostanze stupefacenti o di alcol come tentativo di automedicazione.
* Istituto Superiore di Sanità

un libro sul movimento pacifista

il manifesto 10 novembre 2004
La mite potenza della pace
«I giorni dell'arcobaleno» di Francesco Pugliese. Un'accurata cronologia del movimento contro la guerra dall'inizio della seconda guerra nel Golfo. Ma anche una puntuale radiografia delle culture politiche e delle componenti sociali che hanno animato e organizzato per un anno le mobiltazioni pacifiste in Italia
ENRICO MARIA MASSUCCI

Quale che sia il giudizio sulla stabilità e «permanenza», o sui «carsismi» e la debolezza, del movimento contro la guerra, riemerso in forme tanto massicce quanto pervasive ai tempi dello scoppio del secondo conflitto del Golfo, pochi dubbi rimangono sul fatto che esso ha rappresentato una novità assoluta e significativa, in termini di estensione e profondità, nel panorama politico mondiale degli ultimi anni. Tanto, da rendere pienamente credibile l'affermazione secondo la quale «mai nella storia una guerra aveva incontrato tanta manifesta ostilità». La definizione, coniata dal New York Times, di «seconda potenza mondiale» la dice lunga sulla capillarità e imponenza di un'istanza antimilitarista che, dismessi i toni queruli e vagamente irenistici di un pacifismo generico e fatta propria un'idea più matura e politica del fenomeno bellico contemporaneo, si è posta e si pone almeno tendenzialmente come vero e proprio soggetto collettivo, in grado di inserirsi nell'agenda degli «stati-guerra» per incepparne il «funzionamento». Non solo, ma essa è quasi miracolosamente riuscita a spezzare l'incantesimo «naturalistico» che negli ultimi venti anni è parso accreditare una fissità metastorica dei dispositivi di produzione e riproduzione della guerra e della violenza, eternizzate quali figure intemporali della vicenda umana, e ha posto, anche se non sempre in modo esplicito e consapevole, di nuovo all'ordine del giorno il tema della trasformazione.
Ancora una volta, e non a caso, è stato il «segmento» italiano del movimento a rappresentarne, insieme a quello europeo, lo scheletro organizzativo e politico e a dare un segno determinato ad un «sentimento», con il quale la politica ufficiale ha dovuto confrontarsi, in un arco di posizioni che oscilla dall'adesione piena e convinta, al malcelato imbarazzo, all'obliquità, all'ovvio fastidio per un fenomeno di massa che frantumava il conformismo e l'immobilismo degli ultimi decenni, conquistando anche la coscienza dei nessi tra conflitto «caldo» e retropensiero economico e geo-strategico, tra la guerra come strumento «normale» di gestione della realtà e conservazione del dominio e del privilegio.
Quel denso e non episodico sussulto storico di lotta e mobilitazione, di passione e ragione, è fotografato, nel senso più pregnante, dal bel volume di Francesco Pugliese (I giorni dell'arcobaleno. Diario-cronologia del movimento per la pace. Settembre2002-maggio 2003, Edizioni Grafiche Futura, Mattarello (Tn), pp. 284, € 13) che fa precedere il suo lavoro dall'appassionata prefazione di Alex Zanotelli e regala anche un prodotto di vero pregio editoriale ed elegante fattura, i cui proventi, ci avverte l'autore, andranno per metà alla costruzione di un centro chirurgico a Kerbala, in Iraq, da parte di Emergency.
Giornalista impegnato sul versante della pace, Pugliese ha seguito e attentamente monitorato su numerose fonti giornalistiche l'intero svolgimento dei fatti a partire da l5 settembre 2002 fino a domenica 1 giugno 2003, che trasforma in un racconto avvincente e «realistico», quasi una presa diretta, ove la restituzione degli eventi sembra vivere di una sua propria autonomia narrativa, e di essi possiede e conserva la mobilità e la drammaticità. Cosicché, quella che vorrebbe apparire una rassegna stampa, una cronaca ben costruita, un agile promemoria «evenemenziale», lievita fino a rivelarsi un insostituibile documento d'epoca, generoso precipitato storico e temporale, con attori e comparse ben delineati, sullo sfondo di un evento cruciale della contemporaneità, al quale aderiscono diventandone agenti consapevoli, fautori di storia.
Il libro non si limita, dunque, a rincorrere tappe e appuntamenti che scandirono la duplice e parallela traiettoria della determinazione guerrafondaia e della corrispondente opposizione popolare, ma disegna la fisionomia stessa del movimento, al tempo stesso unitario e plurale, e il suo valore aggiunto di cosciente, quasi incredula opzione di civiltà. E ne descrive le «anime», i modi, le creative caratterizzazioni culturali dentro il denominatore comune dello shifting politico, la nuova resistenza, che nell'arcobaleno trova l'iconizzazione forte e mite al medesimo tempo. Quel simbolo, del quale Pugliese ci racconta anche la storia, a partiredall'invenzione ad opera dei laburisti inglesi del secondo dopoguerra, e che fu introdotta nel nostro paese dal filosofo pacifista Aldo Capitini, fondatore del «Movimento Nonviolento» e ideatore della storica Marcia della Pace Perugina-Assisi «dove nel 1961 per la prima volta compare in corteo la bandiera arcobaleno».
Dunque, un testo che riproduce sismograficamente il clima di quei mesi febbrili, nei quali crebbero, occupando prepotentemente gli spazi mediatici, a loro modo di concerto, escalation militare e contrarietà di massa alla guerra neo-coloniale dell'amministrazione americana e dei suoi vassalli. Un utile vademecum, dunque, di quei giorni memorabili, ma anche uno strumento interpretativo, che della sua parzialità fa proprio la leva di una comprensione degli eventi, nell'era che indulge alle mollezze bipartisan, agli obliqui relativismi e alle rinnovate suggestioni della «guerra giusta». E che rilancia, nella semplicità dell'assunto, la sproporzione, terribile esconfortante, tra ampiezza e altezza dei valori che quel movimento ha espresso e nobilmente mobilitato, la domanda radicale di liberazione che ha reso visibile, e quel trontiano «miserabilismo delle classi dirigenti», che è insieme causa ed effetto del nuovo secolo di ferro.