L'Unità 6 Luglio 2005
Pera Pensiero e Zoologia
Bruno Gravagnuolo
Zoosofia di Pera. Nessuno se n’è accorto. Ma il vero cavallo di battaglia di Marcello Pera è la zoologia. Sta qui il vero mutamento di pensiero periano, il vero progresso epistemologico che ha condotto il Presidente del Senato dal popperismo al clericalismo. Dal liberalismo all’integralismo. Più precisamente: la zoologia come trait d’union tra il prima e il dopo della sua biografia intellettuale. Infatti, non afferma Pera che da un lato stanno «i capricci dei singoli spacciati per diritti», e dall’altro c’è la natura con le sue leggi? Ora, giacchè per Pera è la natura a dettar legge, ne consegue che per lui il matrimonio è un fatto biologico. Uno specimen biologico dell’animale uomo, inchiodato alla fissità delle specie, alla maniera di Linneo. Talché anche l’omicidio rituale o la schiavitù dei più deboli, tipici delle comunità primitive e naturali, andavano preservati! In una con la gerarchia della forza, la sottomissione delle donne e le punizioni corporali. Tutte cose naturali, per alcuni millenni. Naturali come le religioni zoomorfe e totemiche dei primordi. Passi pure per la Chiesa, che quantomeno si appella a un contenuto rivelato. Alla coeternità dell’Uomo in Dio, e a una Natura naturata dogmatica. Ma per un laico (si fa per dire nella fattispecie) che senso ha il richiamo alla natura? Nessuno, se non appunto in un senso biologico e zoologico. Ma allora della natura occorrerebbe accettar tutto: cataclismi, epidemie, eliminazioni dei meni adatto alla sopravvivenza, et similia. Senonché, come diceva Hobbes, exeundum e statu naturae, «occorre uscire dallo stato di natura». Per accedere, e qui citiamo Hegel, alla seconda natura che è lo spirito. Alla natura che si spiritualizza e si fa storia, in accordo con il progresso delle genti. E quel progresso implica che la famiglia divenga un genere molteplice. Non più lo stampo ossessivo ricavato dai primordi naturali, e sigillato dalle leggi di una Chiesa che pretenda di avere essa sola la custodia della Legge di Natura. Ecco spiegato perché il filosofo Marcellino - l’altro filosofo di casa è Marcello Dell’Utri - alla fine risulta sballottato tra Scilla e Cariddi. Tra dogma e zoologia. E se rifiuta il dogma, come lui stesso si perita di dire (ma non è vero) allora non gli rimane che l’altro corno del dilemma. Ossia la zoologia. Pensiero animalista? No, pensiero animale.
Minzione speciale. «Sinistra, riscopri il piacere anale!». Alla sfida di Aldo Nove su Liberazione si vorrebbe replicare così: abbiam già dato e invero controvoglia. Troppo goliardico? E allora rilanciamo la sfida, con provocazione ancor più radicale: e il piacere orale? La suzione? E la minzione...?
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
mercoledì 6 luglio 2005
preti cattolici
se li conosci li eviti...
Corriere della Sera 6.5.07
Gli inquirenti: giovani tra i 15 e i 18 anni adescati da un'associazione
Prete arresatato per sfruttamento di minori
Don Renato Giaccardi, 40 anni, è accusato di induzione, favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione
MONDOVI' (CUNEO) - Una grave accusa che apre uno scandalo nella chiesa cattolica del cuneese. Un sacerdote di Mondovì, don Renato Giaccardi, 40 anni, è stato arrestato dagli uomini della squadra mobile di Cuneo. L'accusamossa dai magistrati è di induzione, favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione, anche minorile. Secondo l'accusa il sacerdote, che era addetto alle congregazioni religiose femminili della diocesi di Imperia-Albenga, avrebbe creato a Mondovì un'associazione e proprio attraverso di essa sarebbero stati adescati giovani tra i 15 e i 18 anni per prestazioni omosessuali. Insieme al sacerdote sono state arrestate altre due persone, delle quali non sono stati resi noti i nomi, che avrebbero tenuto contatti tra Cuneo e Mondovì. La loro posizione sarebbe però marginale.
L'ADESCAMENTO - Questo il meccanismo dell'adescamento dei giovani secondo l'accusa: in un primo tempo venivano acquisiti dietro pagamento i numeri di telefono di quelli individuati, poi con alcuni di loro avveniva un primo approccio telefonico e, quindi, un invito a cena. Quelli giudicati «più disponibili» venivano portati nell'abitazione del sacerdote dove sarebbero avvenuti gli incontri con lui. Sono circa 50 i ragazzi di Mondovì e di Cuneo coinvolti a vario titolo nella vicenda. L'indagine avrebbe avuto inizio proprio grazie alla segnalazione della famiglia di un giovane, che vedeva i suoi amici disporre di notevoli somme di denaro.
Gli inquirenti: giovani tra i 15 e i 18 anni adescati da un'associazione
Prete arresatato per sfruttamento di minori
Don Renato Giaccardi, 40 anni, è accusato di induzione, favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione
MONDOVI' (CUNEO) - Una grave accusa che apre uno scandalo nella chiesa cattolica del cuneese. Un sacerdote di Mondovì, don Renato Giaccardi, 40 anni, è stato arrestato dagli uomini della squadra mobile di Cuneo. L'accusamossa dai magistrati è di induzione, favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione, anche minorile. Secondo l'accusa il sacerdote, che era addetto alle congregazioni religiose femminili della diocesi di Imperia-Albenga, avrebbe creato a Mondovì un'associazione e proprio attraverso di essa sarebbero stati adescati giovani tra i 15 e i 18 anni per prestazioni omosessuali. Insieme al sacerdote sono state arrestate altre due persone, delle quali non sono stati resi noti i nomi, che avrebbero tenuto contatti tra Cuneo e Mondovì. La loro posizione sarebbe però marginale.
L'ADESCAMENTO - Questo il meccanismo dell'adescamento dei giovani secondo l'accusa: in un primo tempo venivano acquisiti dietro pagamento i numeri di telefono di quelli individuati, poi con alcuni di loro avveniva un primo approccio telefonico e, quindi, un invito a cena. Quelli giudicati «più disponibili» venivano portati nell'abitazione del sacerdote dove sarebbero avvenuti gli incontri con lui. Sono circa 50 i ragazzi di Mondovì e di Cuneo coinvolti a vario titolo nella vicenda. L'indagine avrebbe avuto inizio proprio grazie alla segnalazione della famiglia di un giovane, che vedeva i suoi amici disporre di notevoli somme di denaro.
invece Freud, omosessuale come ormai tutti sanno, sosteneva l'esistenza della «bisessualità»...
Repubblica 6.7.05
Uno studio Usa-Canada
"I bisessuali non esistono. Mentono"
e.d.
ROMA - Ma i bisessuali esistono veramente? Gli scettici psicologi di Chicago e Toronto non ci credevano, e per verificare sono andati a controllare direttamente l'eccitazione di chi si dichiara attratto dagli individui di entrambi i sessi. Mostrando ai loro volontari film erotici che coinvolgevano o soli uomini o solo donne, hanno visto che ad essere efficaci erano le immagini di uno solo dei due sessi. Spesso la presunta bisessualità, hanno concluso gli psicologi, rappresenta una strategia adottata da gay e lesbiche per risolvere un conflitto interiore. Insomma, una bugia. Le statistiche elaborate negli Stati Uniti parlavano finora di un 1,7 per cento di uomini bisessuali. «Ma gli studi condotti finora - ha spiegato la dottoressa Lisa Diamond dell'Università dello Utah al New York Times - si basavano sulle dichiarazioni spontanee dei volontari. Questa è una delle poche ricerche fondate direttamente su osservazioni fisiologiche». Il fenomeno della bisessualità aveva incuriosito Sigmund Freud, portandolo alla conclusione che tutti gli esseri umani sono naturalmente bisessuali. E negli anni '40 il dottor Alfred Kinsley aveva notato il gran numero di uomini sposati che riferivano di avere rapporti sessuali con altri uomini. «Il mondo degli uomini non può essere diviso in due gruppi distinti» scriveva nel suo libro. E i detrattori degli psicologi di Chicago e Toronto sostengono oggi che non basta osservare i genitali per definire una sensazione amorosa.
Apcom
USA/ RICERCATORI METTONO IN DUBBIO ESISTENZA DELLA BISESSUALITA'
05/07/2005 - 23:53
Studio mostra preferenze nette tra omosessuali e eterosessuali
New York, 5 lug. (Apcom) - Con buona pace di Sigmund Freud e Alfred Kinsey, la bisessualità potrebbe non essere un distinto orientamento sessuale. E chi si dice attratto sia dagli uomini che dalle donne, di solito mente. Queste, in sintesi, le conclusioni di un gruppo di ricercatori americani e canadesi, che, dopo aver studiato le reazioni sessuali di un campione di uomini, sono giunti a mettere in dubbio l'esistenza della bisessualità.
La ricerca, i cui risultati verranno pubblicati su "Psychological Science", verte in particolare sull'orientamento sessuale maschile. "E' il primo studio che misura fisiologicamente le reazioni sessuali a stimoli precisi", dichiara al New York Times Lisa Diamond, docente di psicologia all'Università dello Utah. "Finora - spiega - le ricerche fatte in proposito si basavano quasi unicamente su dichiarazioni spontanee e non verificabili".
Il sistema utilizzato dai ricercatori della Northwestern University di Chicago e del Center of Addiction and Menthal Health di Toronto è relativamente semplice: agli uomini che si sono sottoposti allo studio sono stati mostrati video pornografici a carattere sia eterosessuale che omosessuale. Le loro reazioni sessuali ai filmati sono state misurate con appositi sensori. Chi si era dichiarato bisessuale non ha manifestato eccitazione indifferentemente alle immagini raffiguranti donne e uomini, ma a una tipologia soltanto, generalmente a quella omosessuale.
Per Lisa Diamond, si tratterebbe della prova di "una discrepanza tra quello che viene espresso a parole e quello che viene espresso a livello fisiologico". Ma lo studio ha già diviso la comunità scientifica. Alcuni ricercatori ritengono infatti che il campione utilizzato per la ricerca sia troppo limitato per essere realmente rappresentativo. Il team di Chicago e di Toronto si è infatti limitato a reclutare 101 uomini, trovati attraverso annunci pubblicati prevalentemente su riviste omosessuali. Di questi, 33 si sono detti bisessuali, 30 eterosessuali e 38 omosessuali. "L'ultima cosa che vogliamo è che qualche psicologo entusiasta, dopo aver esaminato la ricerca, si metta a dire ai suoi pazienti bisessuali che si sbagliano e che sono in realtà degli omosessuali senza saperlo", sostiene Randall Sell, docente della Columbia University. "Non ne sappiamo ancora abbastanza per trarre conclusioni definitive", aggiunge Sell.
Tuttavia, se i risultati ottenuti venissero confermati da successive ricerche, metterebbero in crisi uno degli assunti principali di Sigmund Freud. Il padre della psicanalisi riteneva infatti che che tutte le persone fossero bisessuali. E ne farebbe le spese anche Alfred Kinsey, padre della sessuologia moderna, secondo il quale tra omosessuali e eterosessuali non ci sarebbe un confine netto.
Uno studio Usa-Canada
"I bisessuali non esistono. Mentono"
e.d.
ROMA - Ma i bisessuali esistono veramente? Gli scettici psicologi di Chicago e Toronto non ci credevano, e per verificare sono andati a controllare direttamente l'eccitazione di chi si dichiara attratto dagli individui di entrambi i sessi. Mostrando ai loro volontari film erotici che coinvolgevano o soli uomini o solo donne, hanno visto che ad essere efficaci erano le immagini di uno solo dei due sessi. Spesso la presunta bisessualità, hanno concluso gli psicologi, rappresenta una strategia adottata da gay e lesbiche per risolvere un conflitto interiore. Insomma, una bugia. Le statistiche elaborate negli Stati Uniti parlavano finora di un 1,7 per cento di uomini bisessuali. «Ma gli studi condotti finora - ha spiegato la dottoressa Lisa Diamond dell'Università dello Utah al New York Times - si basavano sulle dichiarazioni spontanee dei volontari. Questa è una delle poche ricerche fondate direttamente su osservazioni fisiologiche». Il fenomeno della bisessualità aveva incuriosito Sigmund Freud, portandolo alla conclusione che tutti gli esseri umani sono naturalmente bisessuali. E negli anni '40 il dottor Alfred Kinsley aveva notato il gran numero di uomini sposati che riferivano di avere rapporti sessuali con altri uomini. «Il mondo degli uomini non può essere diviso in due gruppi distinti» scriveva nel suo libro. E i detrattori degli psicologi di Chicago e Toronto sostengono oggi che non basta osservare i genitali per definire una sensazione amorosa.
Apcom
USA/ RICERCATORI METTONO IN DUBBIO ESISTENZA DELLA BISESSUALITA'
05/07/2005 - 23:53
Studio mostra preferenze nette tra omosessuali e eterosessuali
New York, 5 lug. (Apcom) - Con buona pace di Sigmund Freud e Alfred Kinsey, la bisessualità potrebbe non essere un distinto orientamento sessuale. E chi si dice attratto sia dagli uomini che dalle donne, di solito mente. Queste, in sintesi, le conclusioni di un gruppo di ricercatori americani e canadesi, che, dopo aver studiato le reazioni sessuali di un campione di uomini, sono giunti a mettere in dubbio l'esistenza della bisessualità.
La ricerca, i cui risultati verranno pubblicati su "Psychological Science", verte in particolare sull'orientamento sessuale maschile. "E' il primo studio che misura fisiologicamente le reazioni sessuali a stimoli precisi", dichiara al New York Times Lisa Diamond, docente di psicologia all'Università dello Utah. "Finora - spiega - le ricerche fatte in proposito si basavano quasi unicamente su dichiarazioni spontanee e non verificabili".
Il sistema utilizzato dai ricercatori della Northwestern University di Chicago e del Center of Addiction and Menthal Health di Toronto è relativamente semplice: agli uomini che si sono sottoposti allo studio sono stati mostrati video pornografici a carattere sia eterosessuale che omosessuale. Le loro reazioni sessuali ai filmati sono state misurate con appositi sensori. Chi si era dichiarato bisessuale non ha manifestato eccitazione indifferentemente alle immagini raffiguranti donne e uomini, ma a una tipologia soltanto, generalmente a quella omosessuale.
Per Lisa Diamond, si tratterebbe della prova di "una discrepanza tra quello che viene espresso a parole e quello che viene espresso a livello fisiologico". Ma lo studio ha già diviso la comunità scientifica. Alcuni ricercatori ritengono infatti che il campione utilizzato per la ricerca sia troppo limitato per essere realmente rappresentativo. Il team di Chicago e di Toronto si è infatti limitato a reclutare 101 uomini, trovati attraverso annunci pubblicati prevalentemente su riviste omosessuali. Di questi, 33 si sono detti bisessuali, 30 eterosessuali e 38 omosessuali. "L'ultima cosa che vogliamo è che qualche psicologo entusiasta, dopo aver esaminato la ricerca, si metta a dire ai suoi pazienti bisessuali che si sbagliano e che sono in realtà degli omosessuali senza saperlo", sostiene Randall Sell, docente della Columbia University. "Non ne sappiamo ancora abbastanza per trarre conclusioni definitive", aggiunge Sell.
Tuttavia, se i risultati ottenuti venissero confermati da successive ricerche, metterebbero in crisi uno degli assunti principali di Sigmund Freud. Il padre della psicanalisi riteneva infatti che che tutte le persone fossero bisessuali. E ne farebbe le spese anche Alfred Kinsey, padre della sessuologia moderna, secondo il quale tra omosessuali e eterosessuali non ci sarebbe un confine netto.
copyright @ 2005 APCOM
diffusione in aumento delle malattie mentali
c'è chi ci si ingrassa
Repubblica Imprese e mercati 6.7.05
BREAKINGVIEWS
Abn a sorpresa punta sulle cliniche psichiatriche
HUGO DIXON
Benché impegnata nella logorante guerra per l'italiana Antonveneta, Abn Amro sorprende tutti e si aggiudica The Priory Group, la catena inglese di cliniche di salute mentale per vip, per 1,3 miliardi di euro. Abn ha staccato un assegno corposo. Il prezzo d'acquisto è di un terzo circa più alto delle stime che circolavano a marzo, quando la società fu messa in vendita. Il fondo proprietario delle cliniche, Doughty Hanson, incassa così un rendimento di quasi sei volte l'investimento azionario iniziale, in appena tre anni. Come possono motivare, gli olandesi di Abn, questo investimento bizzarro? La valutazione può essere giustificabile se si considerano le ulteriori capacità di espansione di The Priory, che ha visto l'ebitda salire ad un tasso composto del 33% nell'ultimo biennio. Ma soprattutto Abn dovrebbe essere in grado di applicare un leverage interessante: a conti fatti, potrebbe giustificare almeno 500 milioni di indebitamento, forse addirittura 800. La vera caratteristica distintiva dell'operazione è però racchiusa nei programmi di Abn. Dalla società acquisita infatti gli olandesi prevedono di estrarre opportunità di business per la propria divisione di investment banking. The Priory ha una riserva liquida a breve termine di tutto rispetto. I guru dei derivati di Abn potrebbero far realizzare rendimenti più alti sulla liquidità e fornire strumenti finanziari di copertura del rischio tassi. C'è persino chi ipotizza la possibilità di qualche operazione di M&A per il futuro. Abn ha in programma di vendere parte delle azioni, mantenendo un pacchetto di controllo. Gli altri investitori faranno bene a pensarci due volte: vogliono davvero essere i soci minori di questa partnership?
BREAKINGVIEWS
Abn a sorpresa punta sulle cliniche psichiatriche
HUGO DIXON
Benché impegnata nella logorante guerra per l'italiana Antonveneta, Abn Amro sorprende tutti e si aggiudica The Priory Group, la catena inglese di cliniche di salute mentale per vip, per 1,3 miliardi di euro. Abn ha staccato un assegno corposo. Il prezzo d'acquisto è di un terzo circa più alto delle stime che circolavano a marzo, quando la società fu messa in vendita. Il fondo proprietario delle cliniche, Doughty Hanson, incassa così un rendimento di quasi sei volte l'investimento azionario iniziale, in appena tre anni. Come possono motivare, gli olandesi di Abn, questo investimento bizzarro? La valutazione può essere giustificabile se si considerano le ulteriori capacità di espansione di The Priory, che ha visto l'ebitda salire ad un tasso composto del 33% nell'ultimo biennio. Ma soprattutto Abn dovrebbe essere in grado di applicare un leverage interessante: a conti fatti, potrebbe giustificare almeno 500 milioni di indebitamento, forse addirittura 800. La vera caratteristica distintiva dell'operazione è però racchiusa nei programmi di Abn. Dalla società acquisita infatti gli olandesi prevedono di estrarre opportunità di business per la propria divisione di investment banking. The Priory ha una riserva liquida a breve termine di tutto rispetto. I guru dei derivati di Abn potrebbero far realizzare rendimenti più alti sulla liquidità e fornire strumenti finanziari di copertura del rischio tassi. C'è persino chi ipotizza la possibilità di qualche operazione di M&A per il futuro. Abn ha in programma di vendere parte delle azioni, mantenendo un pacchetto di controllo. Gli altri investitori faranno bene a pensarci due volte: vogliono davvero essere i soci minori di questa partnership?
sinistra
Bertinotti verso le primarie
Repubblica 6.7.05
IL PERSONAGGIO - I TESTIMONIAL
Il voto agli immigrati è una delle prime regole che il segretario di Rifondazione tenta di imporre per le primarie. Il clou della campagna il 24 settembre
Bertinotti alla battaglia della leadership
Obiettivo 20 per cento. "Voglio la par condicio tv con Romano"
Una campagna dal basso, slegata dalle discussioni sul programma di governo
Ma l'8 e il 9 ottobre, quando si voterà, sarà a Atene per il congresso della Sinistra europea
GOFFREDO DE MARCHIS
ROMA - Quindicimila persone al Palalottomatica di Roma. L'appuntamento è per sabato 24 settembre. Sarà il momento-clou della campagna di Fausto Bertinotti per le primarie del centrosinistra. Il segretario di Rifondazione ha preso sul serio la sfida per la leadership. Obiettivo ufficiale: battere Romano Prodi. Obiettivo reale: quota 20 per cento. Si sta già lavorando al secondo traguardo. Bertinotti fu il primo a rispondere all´appello del Professore, molti mesi fa, oggi è il primo a partire per una consultazione ancora una volta messa in discussione. Al Palalottomatica verranno riuniti i comitati Bertinotti, che si stanno costituendo in questi giorni. Da lì partirà la volata finale verso la data dell'8 e 9 ottobre, quando il popolo dell´Unione andrà alle urne per scegliere il suo premier.
C'è solo una pecca nella macchina organizzativa di Bertinotti. Il leader se n'è accorto troppo tardi, quando il vertice del 20 giugno era appena finito e tutti i leader stavano già tornando a casa. L'8 e il 9 ottobre lui non ci sarà, è chiamato a presiedere i lavori del primo congresso della Sinistra europea che si celebra ad Atene. Quando Prodi ha proposto la data, Bertinotti ha dimenticato la coincidenza e non se l´è sentita di rimettere tutto in ballo per colpa di una distrazione.
Poco male, i giochi si faranno prima di quel week-end di ottobre. E si comincia subito. Il 15 luglio a Roma si riuniscono gli aderenti italiani, a titolo individuale, al partito della Sinistra europea. All'ordine del giorno la Costituzione della Ue, ma i dirigenti di Rifondazione chiederanno anche un impegno per la candidatura di Bertinotti a giuristi, scienziati (il fisico Marcello Cini), attori come Paolo Rossi e Ricky Tognazzi, registi come Wilma Labate e Citto Maselli. Rifondazione vuole che la corsa di Bertinotti sia sganciata dai simboli e dai luoghi del partito. I comitati dovranno essere aperti a quel mondo già vicino alle battaglie di Prc: pacifista, no global, ambientalista, anti-liberista ed europeista di sinistra. Ci sarà una campagna di affissioni in cui verrà valorizzato il logo dell'Unione accanto alla scritta «Bertinotti premier» e al richiamo a una serie di punti programmatici. «Allusione programmatiche» le chiamano alla sede di Rifondazione. Perché Bertinotti vuole dividere la fase delle primarie da quelle della costruzione del programma. Per non arrivare indebolito al tavolo del progetto. Dicono anche che Fausto rifiuti la logica delle «primarie all'americana, quindi eviterà la personalizzazione». In realtà, la competizione dovrà avere per forza una carattere personale e Bertinotti si prepara a porre delle condizioni anche in questa chiave nel vertice di lunedì con il Professore, dove si stabiliranno le regole. Prima condizione: par condicio televisiva. Se Ballarò o Porta a porta invitano il candidato Prodi dovranno invitare anche il leader di Prc e gli altri candidati. Seconda condizione: il voto agli immigrati. Prc chiede un gesto simbolico che prepari uno dei punti programmatici dell'Unione: il diritto di cittadinanza per gli extracomunitari.
L'esecutivo di Rifondazione si è riunito la scorsa settimana per discutere della campagna per le primarie. Una nuova riunione è prevista entro luglio, quando ci sarà il regolamento definitivo. Sul modello pugliese, che ha dato un insperato successo a Vendola, Bertinotti pensa a un battage a tutto campo: spot sulle radio locali, pagine pubblicitarie sui giornali regionali. Per il momento viene escluso l'acquisto di spazi sui giornali nazionali. L'obiettivo è sensibilizzare il territorio, per «una candidatura dal basso», per «attivare la partecipazione». In parole povere, Bertinotti punta a fare il pieno lì dove il voto dei partiti della Federazione e dei Ds in particolare è meno blindato (Emilia, Toscana, Umbria...).
Oggi la candidatura di Bertinotti appare meno dirompente di qualche mese fa (e non a caso i Ds non sono più spaventati come prima). Ci sono tempi più stretti, la data delle elezioni è più vicina e sarà inevitabile una polarizzazione del voto su Prodi. Ma partire in anticipo può dare qualche vantaggio. Già oggi su Liberazione viene pubblicato un editoriale del capogruppo alla Camera Franco Giordano che lancia «comitati unitari per la candidatura dell'alternativa» (in opposizione alla lista Arcobaleno voluta da Pdci e Verdi) e un appello ai Ds (al correntone in primis) perché votino Bertinotti in nome dell'identità di sinistra.
IL PERSONAGGIO - I TESTIMONIAL
Il voto agli immigrati è una delle prime regole che il segretario di Rifondazione tenta di imporre per le primarie. Il clou della campagna il 24 settembre
Bertinotti alla battaglia della leadership
Obiettivo 20 per cento. "Voglio la par condicio tv con Romano"
Una campagna dal basso, slegata dalle discussioni sul programma di governo
Ma l'8 e il 9 ottobre, quando si voterà, sarà a Atene per il congresso della Sinistra europea
GOFFREDO DE MARCHIS
ROMA - Quindicimila persone al Palalottomatica di Roma. L'appuntamento è per sabato 24 settembre. Sarà il momento-clou della campagna di Fausto Bertinotti per le primarie del centrosinistra. Il segretario di Rifondazione ha preso sul serio la sfida per la leadership. Obiettivo ufficiale: battere Romano Prodi. Obiettivo reale: quota 20 per cento. Si sta già lavorando al secondo traguardo. Bertinotti fu il primo a rispondere all´appello del Professore, molti mesi fa, oggi è il primo a partire per una consultazione ancora una volta messa in discussione. Al Palalottomatica verranno riuniti i comitati Bertinotti, che si stanno costituendo in questi giorni. Da lì partirà la volata finale verso la data dell'8 e 9 ottobre, quando il popolo dell´Unione andrà alle urne per scegliere il suo premier.
C'è solo una pecca nella macchina organizzativa di Bertinotti. Il leader se n'è accorto troppo tardi, quando il vertice del 20 giugno era appena finito e tutti i leader stavano già tornando a casa. L'8 e il 9 ottobre lui non ci sarà, è chiamato a presiedere i lavori del primo congresso della Sinistra europea che si celebra ad Atene. Quando Prodi ha proposto la data, Bertinotti ha dimenticato la coincidenza e non se l´è sentita di rimettere tutto in ballo per colpa di una distrazione.
Poco male, i giochi si faranno prima di quel week-end di ottobre. E si comincia subito. Il 15 luglio a Roma si riuniscono gli aderenti italiani, a titolo individuale, al partito della Sinistra europea. All'ordine del giorno la Costituzione della Ue, ma i dirigenti di Rifondazione chiederanno anche un impegno per la candidatura di Bertinotti a giuristi, scienziati (il fisico Marcello Cini), attori come Paolo Rossi e Ricky Tognazzi, registi come Wilma Labate e Citto Maselli. Rifondazione vuole che la corsa di Bertinotti sia sganciata dai simboli e dai luoghi del partito. I comitati dovranno essere aperti a quel mondo già vicino alle battaglie di Prc: pacifista, no global, ambientalista, anti-liberista ed europeista di sinistra. Ci sarà una campagna di affissioni in cui verrà valorizzato il logo dell'Unione accanto alla scritta «Bertinotti premier» e al richiamo a una serie di punti programmatici. «Allusione programmatiche» le chiamano alla sede di Rifondazione. Perché Bertinotti vuole dividere la fase delle primarie da quelle della costruzione del programma. Per non arrivare indebolito al tavolo del progetto. Dicono anche che Fausto rifiuti la logica delle «primarie all'americana, quindi eviterà la personalizzazione». In realtà, la competizione dovrà avere per forza una carattere personale e Bertinotti si prepara a porre delle condizioni anche in questa chiave nel vertice di lunedì con il Professore, dove si stabiliranno le regole. Prima condizione: par condicio televisiva. Se Ballarò o Porta a porta invitano il candidato Prodi dovranno invitare anche il leader di Prc e gli altri candidati. Seconda condizione: il voto agli immigrati. Prc chiede un gesto simbolico che prepari uno dei punti programmatici dell'Unione: il diritto di cittadinanza per gli extracomunitari.
L'esecutivo di Rifondazione si è riunito la scorsa settimana per discutere della campagna per le primarie. Una nuova riunione è prevista entro luglio, quando ci sarà il regolamento definitivo. Sul modello pugliese, che ha dato un insperato successo a Vendola, Bertinotti pensa a un battage a tutto campo: spot sulle radio locali, pagine pubblicitarie sui giornali regionali. Per il momento viene escluso l'acquisto di spazi sui giornali nazionali. L'obiettivo è sensibilizzare il territorio, per «una candidatura dal basso», per «attivare la partecipazione». In parole povere, Bertinotti punta a fare il pieno lì dove il voto dei partiti della Federazione e dei Ds in particolare è meno blindato (Emilia, Toscana, Umbria...).
Oggi la candidatura di Bertinotti appare meno dirompente di qualche mese fa (e non a caso i Ds non sono più spaventati come prima). Ci sono tempi più stretti, la data delle elezioni è più vicina e sarà inevitabile una polarizzazione del voto su Prodi. Ma partire in anticipo può dare qualche vantaggio. Già oggi su Liberazione viene pubblicato un editoriale del capogruppo alla Camera Franco Giordano che lancia «comitati unitari per la candidatura dell'alternativa» (in opposizione alla lista Arcobaleno voluta da Pdci e Verdi) e un appello ai Ds (al correntone in primis) perché votino Bertinotti in nome dell'identità di sinistra.
crudeltà dei cattolici contro i bambini
contro le incredibili tesi del papista Messori
Repubblica 6.7.05 (prima pagina e poi in Cultura)
LE IDEE
SE L'ANIMA È MERCE PREGIATA
la Controriforma fa ancora scuola
Se ritorna la battaglia per le anime
GAD LERNER
Nell'Italia del dopo referendum il clima è cambiato rovesciandosi improvvisamente. Una raffinata modernizzazione dell'eterna perfidia ebraica
La difesa della legislazione pontificia che vietava agli ebrei di assumere cattolici
La storia del bambino ebreo rapito da Pio IX è rivisitata nella chiave dell'attualizzazione
«TRA TUTTE le leggi non ve n'è più favorevole a Principi, che la Cristiana; perché questa sottomette loro, non solamente i corpi, e le facoltà de' sudditi, dove conviene, ma gli animi ancora, e le conscienze; e lega non solamente le mani, ma gli affetti ancora, e i pensieri». Così Giovanni Botero, protetto e incoraggiato da quel gigante della Controriforma italiana che risponde al nome di San Carlo Borromeo, contrapponeva nel 1589 al Principe di Machiavelli le convenienze del potere clericale.
L'arcivescovo di Milano, che aveva ospitato Botero nella diocesi ambrosiana, era morto quarantenne solo cinque anni prima, stremato dal possente tentativo di restaurazione della società cristiana che lo aveva portato a scontrarsi con l'autorità temporale spagnola. Certo il cardinale Borromeo, capace di andare in processione scalzo e con una grossa corda al collo per guidare le pubbliche espiazioni durante la pestilenza del 1576, di suo avrebbe adoperato un'espressione più ambiziosa e meno strumentale, rispetto a Botero: non tanto «sottomettere gli animi al potere dei Principi»; ma piuttosto «conquistare le anime» a un progetto di santificazione della vita quotidiana. Come? Innanzitutto disponendo per tutti i fedeli l'obbligo del sacramento della confessione annuale dei peccati, fino a ridurre i pochissimi inconfessi a minoranza reietta. Istituendo quindi le parrocchie come sedi ramificate non solo di presenza religiosa ma anche di controllo sociale, tanto più che il battesimo era l'unico atto di nascita in grado di conferire cittadinanza: il registro parrocchiale dei battezzati per secoli avrebbe coinciso con l'anagrafe; e i non battezzati, ovviamente, restavano privi di diritti civili.
Di questa eredità culturale è un esempio lampante l'ultimo libro di Messori
Come nel Seicento la centralità del battesimo è alla base del dibattito teologico e insieme politico
Se proviamo a rileggere quattro secoli dopo, nell'Italia contemporanea, quell´affermazione di Botero - circa la convenienza per lo Stato di una legge cristiana capac.e di legare le anime, lo coscienze, gli affetti - non c'è da stupirsi che il pensiero corra a certi teorici nostrani del cristianesimo come religione civile, risorsa identitaria da contrapporre alla disgregazione relativistica. Quelli, per intenderci, del «dobbiamo dirci cristiani» (citazione testuale di Marcello Pera).
Mi spiego solo così, cioè in una prospettiva altisonante che infine si rivelerà mero disegno di potere mondano, l'inaspettato rilancio di quello stesso impianto controriformistico nella pubblicistica cattolica oggi prevalente. L'anima oggetto di conquista (come nel titolo del libro di Wietse de Boer dedicato alla Milano di Carlo Borromeo, La conquista dell'anima, Einaudi); l'anima trasfusa per il tramite del battesimo a chi altrimenti resterebbe una non persona (come nel recente volume di Adriano Prosperi, Dare l'anima, Einaudi) dedicato alla sorte di un neonato soppresso dalla madre prima che gli fosse stata impartita l'acqua benedetta, nella Bologna pontificia del 1709. Né il piccolo rimasto senza nome, né la madre Lucia Cremonini impiccata dopo pubblico pentimento saranno considerati degni di cristiana sepoltura, e dunque i loro corpi saranno dati in uso agli studenti di anatomia.
L'anima, dunque, al centro di due libri preziosi per la loro capacità di corrispondere attraverso la storia, e le dinamiche della microfisica del potere apprese da Michel Foucault, ai nostri interrogativi più attuali. L'anima medievale e post-tridentina che smettendo di presentarsi come il misterioso soffio vitale della Genesi, abbisogna di meticolosa ma sdrucciolevole codificazione.
Non a caso si chiamava liber animarum, libro delle anime, il registro anagrafico dei battezzati. Ma chi era doveroso includervi, e chi escluderne? Avranno forse l'anima i neonati vittima di infanticidio? E gli schiavi africani non ancora battezzati? E gli ebrei che alla conversione si sottraggono? E che fine farà mai l'anima dei suicidi?
Se l'anima dunque contraddistingue il passaggio, nei bambini come negli adulti, da mero essere umano a vera e propria persona, ciò basta a spiegare l'importanza crescente assegnata alla regolazione dei battesimi. Quasi che fosse proprio il battesimo, da un punto di vista cattolico, il tramite dell'immissione dell'anima. Fu proprio l'ansia di conversione, cioè di salvezza delle anime, che nel Seicento portò molti medici a introdurre la pratica del parto cesareo per giungere in tempo a bagnare d'acqua santa il feto morente; accettando come male minore il sacrificio della vita della madre.
Il binomio anima-persona sarebbe divenuto così il fulcro di una riflessione medico-teologica che ancora oggi motiva la scelta di far sopravvivere il Comitato Scienza e Vita, strumento efficace di battaglia civile, anche dopo il referendum sulla procreazione assistita. Oggi come allora la ricerca teologicamente orientata si richiama al diritto naturale. Ciò vale per la fecondazione assistita, l'aborto, il matrimonio. Ma è significativo che l'eredità culturale controriformistica, in cerca dell'anima, giunga a riproporre la stessa visione di centralità del battesimo.
Quel battesimo che, negato al figlio di Lucia Cremonini, assegnava quel piccolo indesiderato al Limbo, cioè al primo dei non-luoghi simbolici con cui il consorzio umano si è abituato a fare i conti (nel frattempo il nostro pianeta si è riempito di non-luoghi: dai lager ai campi profughi, fino alle baraccopoli di periferia).
Di tale eredità culturale è un esempio lampante l'ultimo libro di Vittorio Messori, non un autore tra i tanti, si badi bene, ma forse il più popolare e venduto scrittore cattolico italiano, colui che sulla prima pagine del Corriere della Sera si è compiaciuto di autorappresentarsi come l'intervistatore di fiducia di due papi. E che ha sentito il bisogno nel 2005 di rilanciare la polemica sul bambino ebreo Edgardo Mortara sottratto ai genitori nel 1858 per decisione di Pio IX, in quanto cinque anni prima una domestica cristiana l'aveva segretamente battezzato.
Un secolo e mezzo dopo, ci ritroviamo di nuovo nella Bologna pontificia sede dell'infanticidio narrato da Adriano Prosperi. E, nel salto temporale, ci impressiona una continuità di approccio al binomio anima-persona che, come vedremo, con identico balzo di un altro secolo e mezzo, Messori mostra di convalidare fin dentro alla nostra contemporaneità. Né faremo all'intervistatore di due papi e a una firma cattolica così bene insediata nel nostro sistema editoriale il torto di relegarlo a portavoce di una corrente tradizionalista marginale: quando invece egli oggi rappresenta - certo a modo suo - il punto di vista dei Ratzinger e dei Ruini, dei Bertone e dei Fisichella, cioè delle personalità egemoni in Vaticano e nella Conferenza episcopale italiana.
Dunque Messori ritrova e pubblica il memoriale apologetico scritto dallo stesso Mortara, divenuto nel frattempo sacerdote (Io, il bambino ebreo rapito da Pio IX, Mondadori). Ma più che la scelta di riproporre l'antica controversia, nelle settanta pagine della sua introduzione impressiona il sistematico sforzo di attualizzare gli argomenti controriformistici; l'idea fissa della conquista dell'anima, dominante anche sul precetto morale della difesa della vita.
Valga anzitutto la difesa della legislazione pontificia che vietava alle famiglie ebree di assumere personale cattolico.
Messori si guarda bene dal considerarla una misura razzista o discriminatoria. Al contrario, ne esalta la saggezza, e cita a riprova la disobbedienza dei Mortara: avessero ottemperato alla lungimirante precauzione, non si sarebbero ritrovati con un figlio battezzato e quindi doverosamente sottratto ai genitori e ai fratelli. Talmente convinta appare la perorazione di Messori, che viene da chiedersi se con le stesse motivazioni non estenderebbe ai tempi nostri analoghe misure discriminatorie: sarà proprio il caso che nelle aziende e nelle abitazioni degli ebrei (o dei musulmani) operino collaboratori battezzati? Di qui all'esaltazione delle virtù del ghetto, il passo è breve: Messori ricorda che «l'abolizione del ghetto era stata accolta con sollievo ma pure con qualche preoccupazione negli ambienti israelitici più tradizionali. In effetti, proprio quell'obbligo di convivere tutti insieme. aveva salvaguardato l'identità e promosso la solidarietà». Simpatizzando con le sparute componenti integraliste dell'ebraismo, timorose che emancipazione significhi assimilazione, Messori ci conferma come i reazionari difensori delle identità su fronti opposti, finiscano poi quasi sempre per incontrarsi.
Anche l'indignazione e l'inutile mobilitazione del mondo ebraico del Diciannovesimo secolo per ottenere la restituzione del piccolo Edgardo alla sua famiglia, sollecita Messori a considerazioni molto attuali. Non solo afferma che la campagna anticattolica sul caso Mortara avrebbe generato la potente lobby ebraica europea e americana. Ma citando i ventimila franchi promessi dall'Alliance Israélite Universelle a chi avesse organizzato un'incursione a Roma per liberare il bambino, sostiene che si sarebbe trattato di «una prefigurazione degli "omicidi mirati" dell'attuale esercito israeliano per eliminare chi sia sgradito». Nonché di un'operazione illecita paragonabile alla cattura del criminale nazista Adolf Eichmann nell'Argentina del 1961. Insomma, ci troviamo al cospetto di una neanche troppo raffinata modernizzazione dell´eterno riferimento alla «perfidia» ebraica.
Il rovesciamento delle parti fra vittime e persecutori prevede dunque la difesa di papa Pio IX, impegnato nella difesa di un'anima battezzata dall'aggressione dei nemici della fede, estranei al contesto naturale di una società cristiana. Ma c'è di più. L'espulsione dalla scuola pubblica italiana di ogni riferimento religioso, per sostituirlo con l'educazione civica, a detta di Messori corrisponderebbe niente meno che a un'educazione «strappata ai genitori». Altro che gli ebrei vittime di discriminazioni, lamenta Messori: «Quanti "casi Mortara", dunque, in migliaia di famiglie di credenti» (sic). Mutilata nella sua doverosa missione civile di conquista delle anime, è la Chiesa a dichiararsi perseguitata. Qui la logica fa difetto all'esaltazione sdegnata di Messori, dato che in Italia nessuno si è mai sognato di sottrarre i bambini alle loro famiglie cattoliche. Ma, tant'è, non risuona forse familiare l'eco della recentissima polemica sul caso Buttiglione, quando più fonti cattoliche autorevoli sono giunte a parlare di vera e propria persecuzione anticristiana in Europa?
Sono passati solo pochi mesi dal caso Buttiglione, e nell'Italia del dopo referendum il clima è talmente cambiato da rovesciare il vittimismo in trionfalismo. Ma si tratta pur sempre di due facce della stessa medaglia.
Se dunque è colpa grave perdere un'anima, resta doveroso conquistarne. E se nell'Italia del tardo Cinquecento era il sacramento della confessione a dispiegare le sue finalità di ordine pubblico, oggi che tale sacramento precipita in disuso si correrà ai ripari con la scorciatoia della religione civile, cioè di una ri-cristianizzazione ideologica. La stessa per cui monsignor Rino Fisichella può compiacersi della consonanza di vedute fra papa Ratzinger e Oriana Fallaci, bellicosa teorica di un'Europa ormai destinata alla sconfitta. Esanime.
LE IDEE
SE L'ANIMA È MERCE PREGIATA
la Controriforma fa ancora scuola
Se ritorna la battaglia per le anime
GAD LERNER
Nell'Italia del dopo referendum il clima è cambiato rovesciandosi improvvisamente. Una raffinata modernizzazione dell'eterna perfidia ebraica
La difesa della legislazione pontificia che vietava agli ebrei di assumere cattolici
La storia del bambino ebreo rapito da Pio IX è rivisitata nella chiave dell'attualizzazione
«TRA TUTTE le leggi non ve n'è più favorevole a Principi, che la Cristiana; perché questa sottomette loro, non solamente i corpi, e le facoltà de' sudditi, dove conviene, ma gli animi ancora, e le conscienze; e lega non solamente le mani, ma gli affetti ancora, e i pensieri». Così Giovanni Botero, protetto e incoraggiato da quel gigante della Controriforma italiana che risponde al nome di San Carlo Borromeo, contrapponeva nel 1589 al Principe di Machiavelli le convenienze del potere clericale.
L'arcivescovo di Milano, che aveva ospitato Botero nella diocesi ambrosiana, era morto quarantenne solo cinque anni prima, stremato dal possente tentativo di restaurazione della società cristiana che lo aveva portato a scontrarsi con l'autorità temporale spagnola. Certo il cardinale Borromeo, capace di andare in processione scalzo e con una grossa corda al collo per guidare le pubbliche espiazioni durante la pestilenza del 1576, di suo avrebbe adoperato un'espressione più ambiziosa e meno strumentale, rispetto a Botero: non tanto «sottomettere gli animi al potere dei Principi»; ma piuttosto «conquistare le anime» a un progetto di santificazione della vita quotidiana. Come? Innanzitutto disponendo per tutti i fedeli l'obbligo del sacramento della confessione annuale dei peccati, fino a ridurre i pochissimi inconfessi a minoranza reietta. Istituendo quindi le parrocchie come sedi ramificate non solo di presenza religiosa ma anche di controllo sociale, tanto più che il battesimo era l'unico atto di nascita in grado di conferire cittadinanza: il registro parrocchiale dei battezzati per secoli avrebbe coinciso con l'anagrafe; e i non battezzati, ovviamente, restavano privi di diritti civili.
Di questa eredità culturale è un esempio lampante l'ultimo libro di Messori
Come nel Seicento la centralità del battesimo è alla base del dibattito teologico e insieme politico
Se proviamo a rileggere quattro secoli dopo, nell'Italia contemporanea, quell´affermazione di Botero - circa la convenienza per lo Stato di una legge cristiana capac.e di legare le anime, lo coscienze, gli affetti - non c'è da stupirsi che il pensiero corra a certi teorici nostrani del cristianesimo come religione civile, risorsa identitaria da contrapporre alla disgregazione relativistica. Quelli, per intenderci, del «dobbiamo dirci cristiani» (citazione testuale di Marcello Pera).
Mi spiego solo così, cioè in una prospettiva altisonante che infine si rivelerà mero disegno di potere mondano, l'inaspettato rilancio di quello stesso impianto controriformistico nella pubblicistica cattolica oggi prevalente. L'anima oggetto di conquista (come nel titolo del libro di Wietse de Boer dedicato alla Milano di Carlo Borromeo, La conquista dell'anima, Einaudi); l'anima trasfusa per il tramite del battesimo a chi altrimenti resterebbe una non persona (come nel recente volume di Adriano Prosperi, Dare l'anima, Einaudi) dedicato alla sorte di un neonato soppresso dalla madre prima che gli fosse stata impartita l'acqua benedetta, nella Bologna pontificia del 1709. Né il piccolo rimasto senza nome, né la madre Lucia Cremonini impiccata dopo pubblico pentimento saranno considerati degni di cristiana sepoltura, e dunque i loro corpi saranno dati in uso agli studenti di anatomia.
L'anima, dunque, al centro di due libri preziosi per la loro capacità di corrispondere attraverso la storia, e le dinamiche della microfisica del potere apprese da Michel Foucault, ai nostri interrogativi più attuali. L'anima medievale e post-tridentina che smettendo di presentarsi come il misterioso soffio vitale della Genesi, abbisogna di meticolosa ma sdrucciolevole codificazione.
Non a caso si chiamava liber animarum, libro delle anime, il registro anagrafico dei battezzati. Ma chi era doveroso includervi, e chi escluderne? Avranno forse l'anima i neonati vittima di infanticidio? E gli schiavi africani non ancora battezzati? E gli ebrei che alla conversione si sottraggono? E che fine farà mai l'anima dei suicidi?
Se l'anima dunque contraddistingue il passaggio, nei bambini come negli adulti, da mero essere umano a vera e propria persona, ciò basta a spiegare l'importanza crescente assegnata alla regolazione dei battesimi. Quasi che fosse proprio il battesimo, da un punto di vista cattolico, il tramite dell'immissione dell'anima. Fu proprio l'ansia di conversione, cioè di salvezza delle anime, che nel Seicento portò molti medici a introdurre la pratica del parto cesareo per giungere in tempo a bagnare d'acqua santa il feto morente; accettando come male minore il sacrificio della vita della madre.
Il binomio anima-persona sarebbe divenuto così il fulcro di una riflessione medico-teologica che ancora oggi motiva la scelta di far sopravvivere il Comitato Scienza e Vita, strumento efficace di battaglia civile, anche dopo il referendum sulla procreazione assistita. Oggi come allora la ricerca teologicamente orientata si richiama al diritto naturale. Ciò vale per la fecondazione assistita, l'aborto, il matrimonio. Ma è significativo che l'eredità culturale controriformistica, in cerca dell'anima, giunga a riproporre la stessa visione di centralità del battesimo.
Quel battesimo che, negato al figlio di Lucia Cremonini, assegnava quel piccolo indesiderato al Limbo, cioè al primo dei non-luoghi simbolici con cui il consorzio umano si è abituato a fare i conti (nel frattempo il nostro pianeta si è riempito di non-luoghi: dai lager ai campi profughi, fino alle baraccopoli di periferia).
Di tale eredità culturale è un esempio lampante l'ultimo libro di Vittorio Messori, non un autore tra i tanti, si badi bene, ma forse il più popolare e venduto scrittore cattolico italiano, colui che sulla prima pagine del Corriere della Sera si è compiaciuto di autorappresentarsi come l'intervistatore di fiducia di due papi. E che ha sentito il bisogno nel 2005 di rilanciare la polemica sul bambino ebreo Edgardo Mortara sottratto ai genitori nel 1858 per decisione di Pio IX, in quanto cinque anni prima una domestica cristiana l'aveva segretamente battezzato.
Un secolo e mezzo dopo, ci ritroviamo di nuovo nella Bologna pontificia sede dell'infanticidio narrato da Adriano Prosperi. E, nel salto temporale, ci impressiona una continuità di approccio al binomio anima-persona che, come vedremo, con identico balzo di un altro secolo e mezzo, Messori mostra di convalidare fin dentro alla nostra contemporaneità. Né faremo all'intervistatore di due papi e a una firma cattolica così bene insediata nel nostro sistema editoriale il torto di relegarlo a portavoce di una corrente tradizionalista marginale: quando invece egli oggi rappresenta - certo a modo suo - il punto di vista dei Ratzinger e dei Ruini, dei Bertone e dei Fisichella, cioè delle personalità egemoni in Vaticano e nella Conferenza episcopale italiana.
Dunque Messori ritrova e pubblica il memoriale apologetico scritto dallo stesso Mortara, divenuto nel frattempo sacerdote (Io, il bambino ebreo rapito da Pio IX, Mondadori). Ma più che la scelta di riproporre l'antica controversia, nelle settanta pagine della sua introduzione impressiona il sistematico sforzo di attualizzare gli argomenti controriformistici; l'idea fissa della conquista dell'anima, dominante anche sul precetto morale della difesa della vita.
Valga anzitutto la difesa della legislazione pontificia che vietava alle famiglie ebree di assumere personale cattolico.
Messori si guarda bene dal considerarla una misura razzista o discriminatoria. Al contrario, ne esalta la saggezza, e cita a riprova la disobbedienza dei Mortara: avessero ottemperato alla lungimirante precauzione, non si sarebbero ritrovati con un figlio battezzato e quindi doverosamente sottratto ai genitori e ai fratelli. Talmente convinta appare la perorazione di Messori, che viene da chiedersi se con le stesse motivazioni non estenderebbe ai tempi nostri analoghe misure discriminatorie: sarà proprio il caso che nelle aziende e nelle abitazioni degli ebrei (o dei musulmani) operino collaboratori battezzati? Di qui all'esaltazione delle virtù del ghetto, il passo è breve: Messori ricorda che «l'abolizione del ghetto era stata accolta con sollievo ma pure con qualche preoccupazione negli ambienti israelitici più tradizionali. In effetti, proprio quell'obbligo di convivere tutti insieme. aveva salvaguardato l'identità e promosso la solidarietà». Simpatizzando con le sparute componenti integraliste dell'ebraismo, timorose che emancipazione significhi assimilazione, Messori ci conferma come i reazionari difensori delle identità su fronti opposti, finiscano poi quasi sempre per incontrarsi.
Anche l'indignazione e l'inutile mobilitazione del mondo ebraico del Diciannovesimo secolo per ottenere la restituzione del piccolo Edgardo alla sua famiglia, sollecita Messori a considerazioni molto attuali. Non solo afferma che la campagna anticattolica sul caso Mortara avrebbe generato la potente lobby ebraica europea e americana. Ma citando i ventimila franchi promessi dall'Alliance Israélite Universelle a chi avesse organizzato un'incursione a Roma per liberare il bambino, sostiene che si sarebbe trattato di «una prefigurazione degli "omicidi mirati" dell'attuale esercito israeliano per eliminare chi sia sgradito». Nonché di un'operazione illecita paragonabile alla cattura del criminale nazista Adolf Eichmann nell'Argentina del 1961. Insomma, ci troviamo al cospetto di una neanche troppo raffinata modernizzazione dell´eterno riferimento alla «perfidia» ebraica.
Il rovesciamento delle parti fra vittime e persecutori prevede dunque la difesa di papa Pio IX, impegnato nella difesa di un'anima battezzata dall'aggressione dei nemici della fede, estranei al contesto naturale di una società cristiana. Ma c'è di più. L'espulsione dalla scuola pubblica italiana di ogni riferimento religioso, per sostituirlo con l'educazione civica, a detta di Messori corrisponderebbe niente meno che a un'educazione «strappata ai genitori». Altro che gli ebrei vittime di discriminazioni, lamenta Messori: «Quanti "casi Mortara", dunque, in migliaia di famiglie di credenti» (sic). Mutilata nella sua doverosa missione civile di conquista delle anime, è la Chiesa a dichiararsi perseguitata. Qui la logica fa difetto all'esaltazione sdegnata di Messori, dato che in Italia nessuno si è mai sognato di sottrarre i bambini alle loro famiglie cattoliche. Ma, tant'è, non risuona forse familiare l'eco della recentissima polemica sul caso Buttiglione, quando più fonti cattoliche autorevoli sono giunte a parlare di vera e propria persecuzione anticristiana in Europa?
Sono passati solo pochi mesi dal caso Buttiglione, e nell'Italia del dopo referendum il clima è talmente cambiato da rovesciare il vittimismo in trionfalismo. Ma si tratta pur sempre di due facce della stessa medaglia.
Se dunque è colpa grave perdere un'anima, resta doveroso conquistarne. E se nell'Italia del tardo Cinquecento era il sacramento della confessione a dispiegare le sue finalità di ordine pubblico, oggi che tale sacramento precipita in disuso si correrà ai ripari con la scorciatoia della religione civile, cioè di una ri-cristianizzazione ideologica. La stessa per cui monsignor Rino Fisichella può compiacersi della consonanza di vedute fra papa Ratzinger e Oriana Fallaci, bellicosa teorica di un'Europa ormai destinata alla sconfitta. Esanime.
violenza contro i bambini, i dati di Roma
Repubblica cronaca di Roma 6.7.05
L´INFANZIA NEGATA
Primi dati dal rapporto del Centro d'aiuto al bambino. Studiati i casi dal 1998 al 2004. Il 62 % vive con i genitori biologici
Abusi, si abbassa l'età delle vittime
Il 47% dei minori che ha subito violenza aveva meno di 5 anni
CARLO ALBERTO BUCCI
Il 47 per cento dei 292 bambini presi in cura dal Centro aiuto al bambino maltrattato e alla famiglia di Roma, ha subìto violenza prima dei cinque anni. E lo spazio entro il quale avviene l'abuso sessuale, la violenza fisica e psicologica, o la trascuratezza, è per il 62 per cento dei casi la famiglia costituita dai "genitori biologici". Sono solo due dei dati che emergono dal primo rapporto realizzato dalla struttura creata nel ‘98 dall'assessorato alle Politiche sociali del Comune.
La ricerca in corso - condotta da Salvatore D'Amore, Francesca De Gregorio, Paola Maione e Francesca Tamburini - analizza i 292 casi seguiti dal febbraio 1998 al giugno 2004. «L'andamento dimostra - spiega D'Amore - che nel corso degli anni si è abbassata la soglia di rischio e sono aumentati i minori che hanno subìto il primo maltrattamento tra zero e cinque anni». Dal 2004, sono stati un centinaio i minori che sono entrati a far parte del programma terapeutico del Centro per il quale lavorano 13 psicologi e psicoterapeuti, guidati da Luigi Cancrini. «L'aumento è una notizia terribile ma ha un risvolto positivo, perché - spiega l´assessore Raffaela Milano - sottrae questi bambini al silenzio».
Il rapporto dimostra che il tipo più frequente di violenza subita dai 292 minori (il 62 per cento dei quali sono femmine) è la trascuratezza (26%). Il 24 % ha subìto violenza psicologica mentre l'abuso sessuale riguarda il 18% dei casi. È la stessa percentuale della "violenza assistita": «Assistere alla violenza produce danni psicologici analoghi a quelli presenti in chi l'ha subita» aggiunge D'Amore. Alta è la percentuale di genitori che lavorano come insegnanti, impiegati o liberi professionisti (il 21% delle madri e il 29 dei padri) laddove la maggior parte è costituita da disoccupati e operai.
Oltre a seguire nel tempo i minori con la psicoterapia - un servizio esclusivo a Roma, garantito grazie ai 90mila euro biennali forniti dalla Fondazione Peretti - il Centro di aiuto svolge la funzione di coordinamento con i servizi di primo livello: la procura presso il Tribunale dei minori (dalla quale arrivano il 12 % delle segnalazioni) e i servizi sociali distribuiti sul territorio (77%). «L'impegno del Centro, finanziato dal Comune con 230mila euro all´anno, è di continuare a formare le persone che lavorano e vivono a contatto con l'infanzia» spiega l'assessore Milano. «Lo scopo è rendere riconoscibile questa violenza invisibile».
L´INFANZIA NEGATA
Primi dati dal rapporto del Centro d'aiuto al bambino. Studiati i casi dal 1998 al 2004. Il 62 % vive con i genitori biologici
Abusi, si abbassa l'età delle vittime
Il 47% dei minori che ha subito violenza aveva meno di 5 anni
CARLO ALBERTO BUCCI
Il 47 per cento dei 292 bambini presi in cura dal Centro aiuto al bambino maltrattato e alla famiglia di Roma, ha subìto violenza prima dei cinque anni. E lo spazio entro il quale avviene l'abuso sessuale, la violenza fisica e psicologica, o la trascuratezza, è per il 62 per cento dei casi la famiglia costituita dai "genitori biologici". Sono solo due dei dati che emergono dal primo rapporto realizzato dalla struttura creata nel ‘98 dall'assessorato alle Politiche sociali del Comune.
La ricerca in corso - condotta da Salvatore D'Amore, Francesca De Gregorio, Paola Maione e Francesca Tamburini - analizza i 292 casi seguiti dal febbraio 1998 al giugno 2004. «L'andamento dimostra - spiega D'Amore - che nel corso degli anni si è abbassata la soglia di rischio e sono aumentati i minori che hanno subìto il primo maltrattamento tra zero e cinque anni». Dal 2004, sono stati un centinaio i minori che sono entrati a far parte del programma terapeutico del Centro per il quale lavorano 13 psicologi e psicoterapeuti, guidati da Luigi Cancrini. «L'aumento è una notizia terribile ma ha un risvolto positivo, perché - spiega l´assessore Raffaela Milano - sottrae questi bambini al silenzio».
Il rapporto dimostra che il tipo più frequente di violenza subita dai 292 minori (il 62 per cento dei quali sono femmine) è la trascuratezza (26%). Il 24 % ha subìto violenza psicologica mentre l'abuso sessuale riguarda il 18% dei casi. È la stessa percentuale della "violenza assistita": «Assistere alla violenza produce danni psicologici analoghi a quelli presenti in chi l'ha subita» aggiunge D'Amore. Alta è la percentuale di genitori che lavorano come insegnanti, impiegati o liberi professionisti (il 21% delle madri e il 29 dei padri) laddove la maggior parte è costituita da disoccupati e operai.
Oltre a seguire nel tempo i minori con la psicoterapia - un servizio esclusivo a Roma, garantito grazie ai 90mila euro biennali forniti dalla Fondazione Peretti - il Centro di aiuto svolge la funzione di coordinamento con i servizi di primo livello: la procura presso il Tribunale dei minori (dalla quale arrivano il 12 % delle segnalazioni) e i servizi sociali distribuiti sul territorio (77%). «L'impegno del Centro, finanziato dal Comune con 230mila euro all´anno, è di continuare a formare le persone che lavorano e vivono a contatto con l'infanzia» spiega l'assessore Milano. «Lo scopo è rendere riconoscibile questa violenza invisibile».
storia dell'uomo
la questione dell'antichità dell'uomo americano
Corriere della Sera 6.7.05
I nuovi reperti fanno anticipare la migrazione. Ma gli esperti si dividono
Ecco l’orma del primo americano È vecchia di quarantamila anni
Trovate in Messico 269 impronte. «Ridisegnano la storia»
Viviano Domenici
Un gruppo di orme fossili scoperte in Messico sembra indicare che gli uomini raggiunsero per la prima volta il Nuovo Mondo 40 mila anni fa, cioè almeno 15 mila anni prima di quanto venisse finora ipotizzato. Le impronte identificate sono 269 e in certi casi mostrano vere e proprie camminate di uomini che si muovevano sulle rive del lago Valsequillo, a Puebla, 125 chilometri a sud-est di Città del Messico. Quando lasciarono le loro impronte, una decina di adulti e bambini stavano probabilmente fuggendo davanti all’eruzione del vulcano Cerro Toluquilla. Dal cielo cadeva una pioggia di acqua e cenere che depositò sul terreno un soffice tappeto, dove rimasero impresse anche le orme di diversi animali. Poi la cenere solidificò, trasformandosi in tufo vulcanico, e col tempo le acque del lago coprirono tutto con uno spesso strato di sedimenti che ha protetto le orme fino ai giorni nostri. Nel corso dei millenni, però, gli agenti atmosferici hanno lentamente dissolto i sedimenti lacustri e in epoca recente sono venuti allo scoperto gli strati di tufo vulcanico su cui sono impresse le orme. La scoperta è stata fatta nell’estate del 2003 da un’ équipe di studiosi inglesi e messicani diretta da Sylvia Gonzales dell’università di Liverpool che, con i colleghi Dave Huddar e Matthew Bennet, ha dato ora l’annuncio del ritrovamento alla Royal Society di Londra pubblicando su Science la relazione scientifica. Le datazioni sono state fatte incrociando due diverse tecniche che prendono in esame sia il carbonio presente nelle conchiglie inglobate nei sedimenti lacustri a contatto con lo strato delle orme, sia la luminescenza emessa dai cristalli contenuti nelle antiche ceneri vulcaniche. Entrambe le tecniche hanno indicato una data oscillante tra i 38 e i 39 mila anni fa. Tenendo conto della distanza esistente tra il Messico e lo Stretto di Bering - punto di ingresso dei primi asiatici nel continente americano - si può affermare che l’arrivo dell’uomo sul continente americano dovette avvenire almeno 40 mila anni fa.
Il momento della prima colonizzazione del continente americano divide da sempre gli studiosi. Quasi tutti però concordano sul fatto che gli uomini (Sapiens sapiens) passarono dalla Siberia all’Alaska in un periodo glaciale in cui l’immenso accumulo di acqua nei ghiacci delle calotte polari aveva fatto abbassare il livello degli oceani di circa 100 metri. Questo fenomeno aveva messo allo scoperto i fondali dello Stretto di Bering e creato un «ponte» naturale di terre emerse che i cacciatori del paleolitico attraversarono inseguendo le mandrie di animali diretti verso i nuovi territori. Un gruppetto di uomini che molti specialisti valutano in poche decine di individui e che, in qualche millennio, popolarono l’intero continente, dall’Alaska alla Terra del Fuoco.
In linea di massima questo è lo scenario condiviso dalla maggioranza degli studiosi. Ma si trattò di una sola migrazione e di ondate successive? Quando arrivò il primo gruppo? In passato veniva indicata una data attorno ai 12 mila anni fa, ma negli ultimi anni diverse scoperte archeologiche hanno spostato decisamente la data di arrivo dei primi uomini verso i 30 mila anni fa, mentre alcune indagini genetiche suggeriscono di spostare l’evento verso i 40 mila anni fa.
La data di 40 mila anni indicata dalle orme chiarisce definitivamente la questione? Niente affatto. L’annuncio della scoperta è stato infatti accolto da un coro di dichiarazioni di specialisti che invitano alla prudenza, ritenendo avventata l’attribuzione all’uomo delle impronte ritrovate. Tanta incertezza è data soprattutto dalla cattiva conservazione delle impronte stesse. Lo strato di tufo su cui sono impresse è stato infatti esposto agli agenti atmosferici per troppo tempo e questo ha inciso gravemente sul livello di definizione delle orme che solo in alcuni casi ricordano le orme umane.
Tutto lo strato è ricco di orme di animali diversi tra cui si riconoscono uccelli, felini, lupi, cervi e cammelli e - sostengono alcuni studiosi - quelle che oggi sembrano umane potrebbero essere in realtà di qualche altro animale. Gli stessi autori della scoperta ritengono che in effetti qualche problema di identificazione c’è, ma si dichiarano convinti di aver trovato i primi passi dell’uomo in America. Una coincidenza singolare. Quarantamila anni fa è la data d’arrivo nell’Europa meridionale (Italia compresa) dei Sapiens sapiens, che annientarono i «cugini» Neanderthal; sempre 40 mila anni fa l’uomo raggiunse l’Australia, l’ultimo continente ancora disabitato. Evidentemente fu quella un’epoca di spostamenti planetari, ma il perché non lo sappiamo.
I nuovi reperti fanno anticipare la migrazione. Ma gli esperti si dividono
Ecco l’orma del primo americano È vecchia di quarantamila anni
Trovate in Messico 269 impronte. «Ridisegnano la storia»
Viviano Domenici
Un gruppo di orme fossili scoperte in Messico sembra indicare che gli uomini raggiunsero per la prima volta il Nuovo Mondo 40 mila anni fa, cioè almeno 15 mila anni prima di quanto venisse finora ipotizzato. Le impronte identificate sono 269 e in certi casi mostrano vere e proprie camminate di uomini che si muovevano sulle rive del lago Valsequillo, a Puebla, 125 chilometri a sud-est di Città del Messico. Quando lasciarono le loro impronte, una decina di adulti e bambini stavano probabilmente fuggendo davanti all’eruzione del vulcano Cerro Toluquilla. Dal cielo cadeva una pioggia di acqua e cenere che depositò sul terreno un soffice tappeto, dove rimasero impresse anche le orme di diversi animali. Poi la cenere solidificò, trasformandosi in tufo vulcanico, e col tempo le acque del lago coprirono tutto con uno spesso strato di sedimenti che ha protetto le orme fino ai giorni nostri. Nel corso dei millenni, però, gli agenti atmosferici hanno lentamente dissolto i sedimenti lacustri e in epoca recente sono venuti allo scoperto gli strati di tufo vulcanico su cui sono impresse le orme. La scoperta è stata fatta nell’estate del 2003 da un’ équipe di studiosi inglesi e messicani diretta da Sylvia Gonzales dell’università di Liverpool che, con i colleghi Dave Huddar e Matthew Bennet, ha dato ora l’annuncio del ritrovamento alla Royal Society di Londra pubblicando su Science la relazione scientifica. Le datazioni sono state fatte incrociando due diverse tecniche che prendono in esame sia il carbonio presente nelle conchiglie inglobate nei sedimenti lacustri a contatto con lo strato delle orme, sia la luminescenza emessa dai cristalli contenuti nelle antiche ceneri vulcaniche. Entrambe le tecniche hanno indicato una data oscillante tra i 38 e i 39 mila anni fa. Tenendo conto della distanza esistente tra il Messico e lo Stretto di Bering - punto di ingresso dei primi asiatici nel continente americano - si può affermare che l’arrivo dell’uomo sul continente americano dovette avvenire almeno 40 mila anni fa.
Il momento della prima colonizzazione del continente americano divide da sempre gli studiosi. Quasi tutti però concordano sul fatto che gli uomini (Sapiens sapiens) passarono dalla Siberia all’Alaska in un periodo glaciale in cui l’immenso accumulo di acqua nei ghiacci delle calotte polari aveva fatto abbassare il livello degli oceani di circa 100 metri. Questo fenomeno aveva messo allo scoperto i fondali dello Stretto di Bering e creato un «ponte» naturale di terre emerse che i cacciatori del paleolitico attraversarono inseguendo le mandrie di animali diretti verso i nuovi territori. Un gruppetto di uomini che molti specialisti valutano in poche decine di individui e che, in qualche millennio, popolarono l’intero continente, dall’Alaska alla Terra del Fuoco.
In linea di massima questo è lo scenario condiviso dalla maggioranza degli studiosi. Ma si trattò di una sola migrazione e di ondate successive? Quando arrivò il primo gruppo? In passato veniva indicata una data attorno ai 12 mila anni fa, ma negli ultimi anni diverse scoperte archeologiche hanno spostato decisamente la data di arrivo dei primi uomini verso i 30 mila anni fa, mentre alcune indagini genetiche suggeriscono di spostare l’evento verso i 40 mila anni fa.
La data di 40 mila anni indicata dalle orme chiarisce definitivamente la questione? Niente affatto. L’annuncio della scoperta è stato infatti accolto da un coro di dichiarazioni di specialisti che invitano alla prudenza, ritenendo avventata l’attribuzione all’uomo delle impronte ritrovate. Tanta incertezza è data soprattutto dalla cattiva conservazione delle impronte stesse. Lo strato di tufo su cui sono impresse è stato infatti esposto agli agenti atmosferici per troppo tempo e questo ha inciso gravemente sul livello di definizione delle orme che solo in alcuni casi ricordano le orme umane.
Tutto lo strato è ricco di orme di animali diversi tra cui si riconoscono uccelli, felini, lupi, cervi e cammelli e - sostengono alcuni studiosi - quelle che oggi sembrano umane potrebbero essere in realtà di qualche altro animale. Gli stessi autori della scoperta ritengono che in effetti qualche problema di identificazione c’è, ma si dichiarano convinti di aver trovato i primi passi dell’uomo in America. Una coincidenza singolare. Quarantamila anni fa è la data d’arrivo nell’Europa meridionale (Italia compresa) dei Sapiens sapiens, che annientarono i «cugini» Neanderthal; sempre 40 mila anni fa l’uomo raggiunse l’Australia, l’ultimo continente ancora disabitato. Evidentemente fu quella un’epoca di spostamenti planetari, ma il perché non lo sappiamo.
tendenze
Corriere della Sera 6.7.05
Il 46 per cento dei bambini d’Oltralpe è concepito da coppie di fatto, nel 2004 sono stati 350 mila. La madre protagonista della legge
Francia, un figlio su due nasce senza matrimonio. Nuove regole
Nel codice sarà cancellata la norma del 1804 che distingue i naturali dai legittimi. In Italia la differenza esiste ancora
ROMA - Sotto la Tour Eiffel, maman e papa non sono sposati per quasi un bambino su due. In Francia, il 46 per cento delle nascite nel 2004, 350 mila bambini, sono figli naturali. Ancora per poco, però. I due termini, figlio naturale e figlio legittimo, retaggio del codice napoleonico del 1804, saranno cancellati dal codice civile dopo che lo scorso lunedì il ministro della Giustizia francese, Pascal Clement, ha presentato un decreto apposito. Sarà la madre ad indicare la nascita sia se è sposata sia se convive. Ma i padri non sposati dovranno ancora riconoscere il bambino. E in Italia? Una volta si chiamavano figli illegittimi. E l’aggettivo diceva tutto. Dalla riforma del 1974 sono figli naturali ma pur sempre distinti da quelli legittimi. Le leggi sono cambiate, con gli anni le discriminazioni si sono attenuate e in alcuni casi quasi annullate. Eppure la differenza resta, se mamma e papà non sono sposati, rispetto ai fratellastri legittimi sei figlio al 90 per cento. La cosa non riguarda un bambino su due, siamo lontani dalle percentuali francesi. Nel 2003, ultimo dato disponibile, l’Istat ha registrato 542.629 nuovi nati, dei quali 74.592 «naturali». Un 13,74 per cento che non è molto ma non è neppure tanto poco. Anche perché la tendenza è in crescita: nel ’99 i figli naturali erano 48.118, nel 2002 65.753.
«Sarebbe davvero ora di seguire l’esempio francese», s’infervora una esperta della questione, la presidente dell’Associazione avvocati per la famiglia, Marina Marino che nella sua quotidiana attività, gli ostacoli alla vera uguaglianza tra i figli li tocca con mano. Lo scorso 22 giugno è stata sentita in commissione Giustizia alla Camera su un argomento che in questi giorni domina il dibattito politico, i cosiddetti Pacs, i patti di solidarietà. In quella occasione la Marino tornò sull’«assoluta necessità di far cadere gli aggettivi, perché già lì esiste la discriminazione». E non è vero, sottolinea adesso, nonostante l’opinione comune, che la riforma del ’74 ha cancellato ogni differenza. Qualche esempio concreto? «Un figlio naturale pur avendo diritto all’eredità come i fratelli legittimi, può essere da questi liquidato in denaro, nel caso esista una proprietà immobiliare, perché la vecchia idea è che il bene della famiglia deve restare nella famiglia. Ma è solo un esempio. Ci sono differenze in tema di riconoscimento di paternità, in tema di separazione».
«Ha ragione l’avvocato - sottoscrive Livia Turco, Ds -. La proposta di legge a firma mia e della Mussolini, che faceva cadere le discriminazioni sulle convivenze di fatto, anche riguardo ai figli, si è arenata e invece era un’ottima legge. Bisognerà fare qualcosa per cancellare anche gli aggettivi». «Niente affatto. - replica a distanza Maria Burani Procaccini, Forza Italia -. Mi sembra che da più parti si voglia aggredire la famiglia. Io voglio mantenere la distinzione per preservare il principio. Ma poi nei fatti farei il possibile per tutelare tutti i figli, loro sono incolpevoli».
Il 46 per cento dei bambini d’Oltralpe è concepito da coppie di fatto, nel 2004 sono stati 350 mila. La madre protagonista della legge
Francia, un figlio su due nasce senza matrimonio. Nuove regole
Nel codice sarà cancellata la norma del 1804 che distingue i naturali dai legittimi. In Italia la differenza esiste ancora
ROMA - Sotto la Tour Eiffel, maman e papa non sono sposati per quasi un bambino su due. In Francia, il 46 per cento delle nascite nel 2004, 350 mila bambini, sono figli naturali. Ancora per poco, però. I due termini, figlio naturale e figlio legittimo, retaggio del codice napoleonico del 1804, saranno cancellati dal codice civile dopo che lo scorso lunedì il ministro della Giustizia francese, Pascal Clement, ha presentato un decreto apposito. Sarà la madre ad indicare la nascita sia se è sposata sia se convive. Ma i padri non sposati dovranno ancora riconoscere il bambino. E in Italia? Una volta si chiamavano figli illegittimi. E l’aggettivo diceva tutto. Dalla riforma del 1974 sono figli naturali ma pur sempre distinti da quelli legittimi. Le leggi sono cambiate, con gli anni le discriminazioni si sono attenuate e in alcuni casi quasi annullate. Eppure la differenza resta, se mamma e papà non sono sposati, rispetto ai fratellastri legittimi sei figlio al 90 per cento. La cosa non riguarda un bambino su due, siamo lontani dalle percentuali francesi. Nel 2003, ultimo dato disponibile, l’Istat ha registrato 542.629 nuovi nati, dei quali 74.592 «naturali». Un 13,74 per cento che non è molto ma non è neppure tanto poco. Anche perché la tendenza è in crescita: nel ’99 i figli naturali erano 48.118, nel 2002 65.753.
«Sarebbe davvero ora di seguire l’esempio francese», s’infervora una esperta della questione, la presidente dell’Associazione avvocati per la famiglia, Marina Marino che nella sua quotidiana attività, gli ostacoli alla vera uguaglianza tra i figli li tocca con mano. Lo scorso 22 giugno è stata sentita in commissione Giustizia alla Camera su un argomento che in questi giorni domina il dibattito politico, i cosiddetti Pacs, i patti di solidarietà. In quella occasione la Marino tornò sull’«assoluta necessità di far cadere gli aggettivi, perché già lì esiste la discriminazione». E non è vero, sottolinea adesso, nonostante l’opinione comune, che la riforma del ’74 ha cancellato ogni differenza. Qualche esempio concreto? «Un figlio naturale pur avendo diritto all’eredità come i fratelli legittimi, può essere da questi liquidato in denaro, nel caso esista una proprietà immobiliare, perché la vecchia idea è che il bene della famiglia deve restare nella famiglia. Ma è solo un esempio. Ci sono differenze in tema di riconoscimento di paternità, in tema di separazione».
«Ha ragione l’avvocato - sottoscrive Livia Turco, Ds -. La proposta di legge a firma mia e della Mussolini, che faceva cadere le discriminazioni sulle convivenze di fatto, anche riguardo ai figli, si è arenata e invece era un’ottima legge. Bisognerà fare qualcosa per cancellare anche gli aggettivi». «Niente affatto. - replica a distanza Maria Burani Procaccini, Forza Italia -. Mi sembra che da più parti si voglia aggredire la famiglia. Io voglio mantenere la distinzione per preservare il principio. Ma poi nei fatti farei il possibile per tutelare tutti i figli, loro sono incolpevoli».
il premio Nobel sir Harold Kroto sulla scienza
Corriere della Sera 6.7.05
Il Nobel per la Chimica ’96 a dibattito con il filosofo: «La ragione è lo strumento che non ci fa diventare vittime dell’assurdità»
Kroto: solo la scienza è maestra di libertà
colloquio con Giulio Giorello
«Perché non chiamarsi Higginbottom o più banalmente Smith o Brown? Il mio nome di famiglia era Krotoschiner e mio padre nel 1955 lo abbreviò in Kroto, sicché c’è chi immagina un’origine giapponese»! Così si esprimeva sir Harold Kroto nel profilo consegnato per il ricevimento del Nobel per la Chimica nel 1996. Kroto è nato a Wisbech in Inghilterra, nel 1939. «Due anni prima i miei genitori - padre ebreo, madre no - erano scappati da Berlino, rifugiandosi nel Regno Unito. Papà era stato internato nell’Isola Man come "alieno", cioè straniero potenzialmente pericoloso. La mamma era invece finita in quella piccola cittadina del Cambridgeshire». Lei e Harold dovevano poco dopo trasferirsi a Bolton, nel nord dell’Inghilterra. Il padre, cessato l’internamento, doveva raggiungerli, finendo con l’aprire, nel 1955, una fabbrica di palloni e palloncini.
Kroto racconta: «Mi piaceva l’officina: una buona palestra per sviluppare le doti anche manuali che giovano a risolvere i problemi». Si scopre allora che Harold ha una passione per il meccano (da ragazzo ci giocavo anch’io, anche se ricorrevo a un surrogato italico del gioco inventato da Frank Hornby all’inizio del secolo scorso!): il gioco permette al piccolo di esercitare capacità progettuali che si rivelano preziose nel lavoro in grande della scienza. «Non bisogna dimenticare - mi dice Kroto - che le tecnologie della vita di tutti i giorni possono essere di grande aiuto in contesti nuovi. La scienza si basa sul dubbio e sugli esperimenti. Sviluppiamo le nostre teorie per spiegare quel che facciamo e progettiamo nuovi esperimenti per confermare i risultati già ottenuti. Per di più, teorie e strumenti sono indipendenti da chi li ha prodotti». Purché ci siano i fondi necessari affinché gli altri li possano utilizzare.
Sir Harold non ama le attuali politiche della ricerca che premiano le ricadute immediate. Meglio consentire che ciascun ricercatore prosegua nel proprio lavoro anche se non sa bene dove questo lo stia portando. Non c’è limite al piacere della scoperta, ma questa è una conquista anche per chi non l’ha compiuta. È il caso di dire: niente di personale. «Sì - ribatte Kroto -. La scienza è la sola autentica filosofia internazionale».
Non fosse che per la sua storia di famiglia, sir Harold diffida del sacrificio delle libertà individuali sull’altare di qualsiasi ragion di Stato. «Quelli che non sono in grado di vivere affidandosi a un pensiero razionale soccombono alla tentazione di sottomettersi a organizzazioni che traggono il loro potere facendo leva sulla fragilità della nostra specie». Kroto si definisce un «umanista» attento alla salvaguardia dei diritti fondamentali di ogni donna e uomo «a pensare, parlare e scrivere in piena autonomia e sicurezza». E aggiunge che di tutto ciò «il nazionalismo è ancora uno dei nemici peggiori. Non meno gravi sono i guasti prodotti dal fondamentalismo. La religione può dividere non meno della politica».
È dunque solo la scienza a metterci tutti d’accordo? Come lamentava il grande Eulero, «litigano persino i sobri matematici»! L’epopea della scienza ci appare costellata da dispute tra gli stessi addetti ai lavori, dallo scontro tra Newton e Leibniz circa la priorità della scoperta del calcolo infinitesimale alla «amara polemica» tra Montagnier e Gallo circa l’agente patogeno dell’Aids. Per Kroto l’eccesso di spirito competitivo è male: «Non apprezzo il dedicarsi alla ricerca solo per il riconoscimento pubblico, Nobel incluso. Un giovane scienziato dovrebbe impegnarsi in quello che più gli piace, sfruttando al meglio le proprie capacità. L’appassionata esplorazione del problema cui si è dedicato pagherà, magari nel momento in cui meno se lo aspetta». Di questa «arte» della scoperta Kroto se ne intende! Affascinato sia dalla grafica sia dalla chimica almeno fin dal tempo degli studi all’Università di Sheffield, era poi diventato alla metà degli anni Ottanta del Novecento professore all’Università del Sussex; intanto, i radioastronomi avevano riscontrato la sorprendente presenza di complesse molecole di carbonio nello spazio interstellare. Analisi spettroscopica e sintesi di laboratorio consentivano l’indagine di queste catene di carbonio «disperse nello spazio»; Kroto congetturò che esse si formassero nelle parti più fredde delle stelle e, nel «riprodurre» tali condizioni, riuscì a immaginare la struttura del cosiddetto «Carbonio sessanta», ritrovando le forme di un solido semiregolare (1985). Anche la natura gioca al meccano: quella congettura un po’ «geometrica» e un po’ «suggerita dall’esperienza» doveva trovare realizzazione in laboratorio (1991) a opera di Robert Curl e Richard Smalley. La struttura è stata battezzata «buckminsterfullerene», in onore di Buckminster Fuller, visionario e geniale architetto che amava costruire le sue cupole sfruttando i solidi regolari che già per Platone costituivano gli elementi del cosmo. Il filosofo di Atene non doveva avere tutti i torti, lui che teneva fuori dalla sua accademia chi non sapeva di geometria! Commenta Kroto: «Per capire la cultura dell’Italia - la sua poesia, la sua letteratura - non bisogna forse impadronirsi dell’italiano, anche negli aspetti più tecnici della lingua come il suono, il ritmo e la cadenza? Così, per comprendere la scienza è d’obbligo imparare il linguaggio in cui essa è scritta ovvero la matematica. Non è un gergo elitario con cui la comunità scientifica intende isolarsi dal mondo, ma si rivela (anche se in modi differenti nelle diverse discipline) lo strumento adatto a spiegare la natura e i suoi misteri». La scoperta per cui Kroto - insieme con Curl e Smalley - ha ricevuto il massimo riconoscimento ha innescato una serie di ricerche che, a distanza di un decennio, rivelano inattese connessioni tra i grandi oggetti dell’astronomia e le piccole strutture delle nanotecnologie. Sir Harold, promotore del Progetto Vega mirante a realizzare film scientifici per la televisione, ritiene che «una buona educazione alla scienza consenta di fare esperienza dell’intrinseca bellezza del mondo».
Però, evocando Nobel, a qualcuno possono venire in mente gli esplosivi. Dalla mitica casalinga di Voghera (o di Bolton) al pensatore apocalittico alla Jürgen Habermas, si tende oggi a vedere negli strumenti degli scienziati non più un benefico meccano, ma l’armamentario di apprendisti stregoni ben più perniciosi che nella favola. Per Kroto «il problema è come la società debba servirsi del sapere scientifico. È dovere di ogni scienziato attingere alle proprie capacità e alla propria esperienza per far sì che le acquisizioni scientifiche vengano utilizzate in modo saggio. Ma non si conquista la saggezza denigrando scienza e tecnologia. Sono d’accordo con chi - come il biologo Richard Dawkins - ritiene che, di fronte al disprezzo che troppi mostrano nei confronti dell’impresa scientifica, sia giunto il momento di "alzarsi in piedi" per rivendicare quella che è la migliore eredità dell'Illuminismo». La luce della scienza può sembrare a molti fioca e incerta, ma per non lasciarsi impressionare dal buio è bene tenere accesa quella candela.
Il Nobel per la Chimica ’96 a dibattito con il filosofo: «La ragione è lo strumento che non ci fa diventare vittime dell’assurdità»
Kroto: solo la scienza è maestra di libertà
colloquio con Giulio Giorello
«Perché non chiamarsi Higginbottom o più banalmente Smith o Brown? Il mio nome di famiglia era Krotoschiner e mio padre nel 1955 lo abbreviò in Kroto, sicché c’è chi immagina un’origine giapponese»! Così si esprimeva sir Harold Kroto nel profilo consegnato per il ricevimento del Nobel per la Chimica nel 1996. Kroto è nato a Wisbech in Inghilterra, nel 1939. «Due anni prima i miei genitori - padre ebreo, madre no - erano scappati da Berlino, rifugiandosi nel Regno Unito. Papà era stato internato nell’Isola Man come "alieno", cioè straniero potenzialmente pericoloso. La mamma era invece finita in quella piccola cittadina del Cambridgeshire». Lei e Harold dovevano poco dopo trasferirsi a Bolton, nel nord dell’Inghilterra. Il padre, cessato l’internamento, doveva raggiungerli, finendo con l’aprire, nel 1955, una fabbrica di palloni e palloncini.
Kroto racconta: «Mi piaceva l’officina: una buona palestra per sviluppare le doti anche manuali che giovano a risolvere i problemi». Si scopre allora che Harold ha una passione per il meccano (da ragazzo ci giocavo anch’io, anche se ricorrevo a un surrogato italico del gioco inventato da Frank Hornby all’inizio del secolo scorso!): il gioco permette al piccolo di esercitare capacità progettuali che si rivelano preziose nel lavoro in grande della scienza. «Non bisogna dimenticare - mi dice Kroto - che le tecnologie della vita di tutti i giorni possono essere di grande aiuto in contesti nuovi. La scienza si basa sul dubbio e sugli esperimenti. Sviluppiamo le nostre teorie per spiegare quel che facciamo e progettiamo nuovi esperimenti per confermare i risultati già ottenuti. Per di più, teorie e strumenti sono indipendenti da chi li ha prodotti». Purché ci siano i fondi necessari affinché gli altri li possano utilizzare.
Sir Harold non ama le attuali politiche della ricerca che premiano le ricadute immediate. Meglio consentire che ciascun ricercatore prosegua nel proprio lavoro anche se non sa bene dove questo lo stia portando. Non c’è limite al piacere della scoperta, ma questa è una conquista anche per chi non l’ha compiuta. È il caso di dire: niente di personale. «Sì - ribatte Kroto -. La scienza è la sola autentica filosofia internazionale».
Non fosse che per la sua storia di famiglia, sir Harold diffida del sacrificio delle libertà individuali sull’altare di qualsiasi ragion di Stato. «Quelli che non sono in grado di vivere affidandosi a un pensiero razionale soccombono alla tentazione di sottomettersi a organizzazioni che traggono il loro potere facendo leva sulla fragilità della nostra specie». Kroto si definisce un «umanista» attento alla salvaguardia dei diritti fondamentali di ogni donna e uomo «a pensare, parlare e scrivere in piena autonomia e sicurezza». E aggiunge che di tutto ciò «il nazionalismo è ancora uno dei nemici peggiori. Non meno gravi sono i guasti prodotti dal fondamentalismo. La religione può dividere non meno della politica».
È dunque solo la scienza a metterci tutti d’accordo? Come lamentava il grande Eulero, «litigano persino i sobri matematici»! L’epopea della scienza ci appare costellata da dispute tra gli stessi addetti ai lavori, dallo scontro tra Newton e Leibniz circa la priorità della scoperta del calcolo infinitesimale alla «amara polemica» tra Montagnier e Gallo circa l’agente patogeno dell’Aids. Per Kroto l’eccesso di spirito competitivo è male: «Non apprezzo il dedicarsi alla ricerca solo per il riconoscimento pubblico, Nobel incluso. Un giovane scienziato dovrebbe impegnarsi in quello che più gli piace, sfruttando al meglio le proprie capacità. L’appassionata esplorazione del problema cui si è dedicato pagherà, magari nel momento in cui meno se lo aspetta». Di questa «arte» della scoperta Kroto se ne intende! Affascinato sia dalla grafica sia dalla chimica almeno fin dal tempo degli studi all’Università di Sheffield, era poi diventato alla metà degli anni Ottanta del Novecento professore all’Università del Sussex; intanto, i radioastronomi avevano riscontrato la sorprendente presenza di complesse molecole di carbonio nello spazio interstellare. Analisi spettroscopica e sintesi di laboratorio consentivano l’indagine di queste catene di carbonio «disperse nello spazio»; Kroto congetturò che esse si formassero nelle parti più fredde delle stelle e, nel «riprodurre» tali condizioni, riuscì a immaginare la struttura del cosiddetto «Carbonio sessanta», ritrovando le forme di un solido semiregolare (1985). Anche la natura gioca al meccano: quella congettura un po’ «geometrica» e un po’ «suggerita dall’esperienza» doveva trovare realizzazione in laboratorio (1991) a opera di Robert Curl e Richard Smalley. La struttura è stata battezzata «buckminsterfullerene», in onore di Buckminster Fuller, visionario e geniale architetto che amava costruire le sue cupole sfruttando i solidi regolari che già per Platone costituivano gli elementi del cosmo. Il filosofo di Atene non doveva avere tutti i torti, lui che teneva fuori dalla sua accademia chi non sapeva di geometria! Commenta Kroto: «Per capire la cultura dell’Italia - la sua poesia, la sua letteratura - non bisogna forse impadronirsi dell’italiano, anche negli aspetti più tecnici della lingua come il suono, il ritmo e la cadenza? Così, per comprendere la scienza è d’obbligo imparare il linguaggio in cui essa è scritta ovvero la matematica. Non è un gergo elitario con cui la comunità scientifica intende isolarsi dal mondo, ma si rivela (anche se in modi differenti nelle diverse discipline) lo strumento adatto a spiegare la natura e i suoi misteri». La scoperta per cui Kroto - insieme con Curl e Smalley - ha ricevuto il massimo riconoscimento ha innescato una serie di ricerche che, a distanza di un decennio, rivelano inattese connessioni tra i grandi oggetti dell’astronomia e le piccole strutture delle nanotecnologie. Sir Harold, promotore del Progetto Vega mirante a realizzare film scientifici per la televisione, ritiene che «una buona educazione alla scienza consenta di fare esperienza dell’intrinseca bellezza del mondo».
Però, evocando Nobel, a qualcuno possono venire in mente gli esplosivi. Dalla mitica casalinga di Voghera (o di Bolton) al pensatore apocalittico alla Jürgen Habermas, si tende oggi a vedere negli strumenti degli scienziati non più un benefico meccano, ma l’armamentario di apprendisti stregoni ben più perniciosi che nella favola. Per Kroto «il problema è come la società debba servirsi del sapere scientifico. È dovere di ogni scienziato attingere alle proprie capacità e alla propria esperienza per far sì che le acquisizioni scientifiche vengano utilizzate in modo saggio. Ma non si conquista la saggezza denigrando scienza e tecnologia. Sono d’accordo con chi - come il biologo Richard Dawkins - ritiene che, di fronte al disprezzo che troppi mostrano nei confronti dell’impresa scientifica, sia giunto il momento di "alzarsi in piedi" per rivendicare quella che è la migliore eredità dell'Illuminismo». La luce della scienza può sembrare a molti fioca e incerta, ma per non lasciarsi impressionare dal buio è bene tenere accesa quella candela.
Gli appuntamenti della rassegna
L’intervista-dialogo di Giulio Giorello con Harold Kroto anticipa i temi che saranno trattati oggi nel penultimo appuntamento della «Milanesiana», la rassegna culturale diretta da Elisabetta Sgarbi. Oltre al chimico inglese, protagonisti della serata «Numeri primi... parole seconde» (al Teatro dal Verme alle ore 21) sono il matematico Marcus du Sautoy e il cantante Elio. Kroto, nato nel 1939 a Wisbech, è baronetto di Sua Maestà britannica, fiancheggiatore di Amnesty International e animatore del Progetto Vega per la divulgazione scientifica attraverso i media (www.vega.org.uk). Nel 1996 ha vinto il premio Nobel (insieme a Robert Curl e Richard Smalley) per la scoperta del «buckminsterfullerene». «La Milanesiana», giunta alla sesta edizione, si chiude domani con l’incontro «Architetture tra esili e libertà»: interverranno il poeta siriano Adonis, Diamanda Galás e Mario Bellini.
L’intervista-dialogo di Giulio Giorello con Harold Kroto anticipa i temi che saranno trattati oggi nel penultimo appuntamento della «Milanesiana», la rassegna culturale diretta da Elisabetta Sgarbi. Oltre al chimico inglese, protagonisti della serata «Numeri primi... parole seconde» (al Teatro dal Verme alle ore 21) sono il matematico Marcus du Sautoy e il cantante Elio. Kroto, nato nel 1939 a Wisbech, è baronetto di Sua Maestà britannica, fiancheggiatore di Amnesty International e animatore del Progetto Vega per la divulgazione scientifica attraverso i media (www.vega.org.uk). Nel 1996 ha vinto il premio Nobel (insieme a Robert Curl e Richard Smalley) per la scoperta del «buckminsterfullerene». «La Milanesiana», giunta alla sesta edizione, si chiude domani con l’incontro «Architetture tra esili e libertà»: interverranno il poeta siriano Adonis, Diamanda Galás e Mario Bellini.
basaglismo
il manifesto non si muove mai d'un solo passo...
il manifesto 6.7.05
L'eredità di Basaglia
«Diritti e rovesci» a Bologna
L'utopia della realtà, a cura di Franca Ongaro Basaglia con una introduzione di Maria Grazia Giannichedda (Einaudi) raccoglie gli scritti dello psichiatra al quale dobbiamo la 180
OTA DE LEONARDIS
(...)
Intanto, di qua dalle Alpi si preparava l'uscita di una nuova raccolta di scritti di Franco Basaglia (L'utopia della realtà. A cura di Franca Ongaro Basaglia. Introduzione di Maria Grazia Giannichedda Einaudi, 2005, 327 pagg., 22 euro). Non credo alle coincidenze, credo alle insistenze. La critica dell'istituito - per dirla alla francese - ha in questa storia imboccato la strada della pratica, dello smontaggio pratico dell'istituzione, e si è fatta per questa via processo istituente. Un processo sorvegliato con grandissima cura perché conservasse della critica la memoria, le ragioni sempre attuali, e la sua intrinseca inconciliabilità con «le soluzioni», con l'istituito appunto. Basaglia è tutto qui, e non è poco.
Gli operatori e i malati di questa strana storia non sono mai contenti, se si accontentassero per loro sarebbe finita, risucchiati entrambi nella disumanizzazione. Basaglia lo ha detto e ripetuto fino alla nausea, a tutti coloro che si sarebbero accontentati volentieri di ragionevoli compromessi (a cominciare dai compagni francesi che non ci pensavano proprio a «distruggere» il manicomio. Semmai si trattava, e si trattò, di introdurvi la psicoanalisi. Non si è salvato neanche Lacan. Peccato, perché forse nel suo cifrario c'è qualcosa di pertinente, per ragionare sull'«uomo senza gravità» di oggi). Tornare a scavare in questa storia, riflettere ancora su questo passaggio, sulle «istituzioni inventate» dalla critica, come le ha chiamate Franco Rotelli; e su questo non accontentarsi: è ciò che gli amici francesi mi sollecitavano a fare, e che questo nuovo libro di Basaglia ripropone con forza. Per misurarsi tra l'altro col fatto preciso che Basaglia ha fortemente voluto la legge 180, ha voluto «istituire» appunto. Contro i radicali che non volevano leggi (il neo liberalismo dello stato minimo era già lì, reaganismo montante) e contro i riformisti che volevano un ammodernamento tecnico del paternalismo autoritario. Era la via del diritto, e dei diritti soggettivi conquistati e praticati su una materia incongrua, la follia, «l'esperienza abnorme» come la chiamava Basaglia; era la scelta di istituire il teatro di una contraddizione insanabile, che la rendesse sopportabile senza nasconderla («senza chiudere gli occhi», direbbe Boltanski). L'inconciliabile, appunto, istituito anche con una legge, istituito come un campo di tensioni legittimo e regolato, come un campo di riflessività della convivenza civile: riuscire «a non rinchiudere in una ulteriore oggettivazione l'esperienza abnorme, conservandola legata e strettamente connessa alla storia individuale e sociale» (così si chiude il libro). La consistenza di questa contraddizione, le ragioni e i modi per portarla allo scoperto, per renderla sopportabile ma non rimuovibile, costituiscono un filo rosso di tutto il libro. E costituiscono un patrimonio collettivo, che ha retto fino ad oggi e ancora regge, malgrado tutto, malgrado la forza e pervasività della normalizzazione di cui molti, anche protagonisti di questa storia, sono tentati di accontentarsi. Pensate ai famigliari: ricordo allora la crisi del rapporto con le famiglie, e con le associazioni di famigliari - investiti com'erano dalla contraddizione portata allo scoperto. E li ritrovo oggi, famigliari e associazioni, che non si accontentano, che vogliono tutto fuorché l'abolizione della 180. Pensate al lavoro: c'è ancora chi pretende pratica e costruisce opportunità perché i matti abbiano uno statuto lavorativo, con i tempi che corrono. Questo vuole dire, collettivamente, reggere una contraddizione tenuta scoperta, e tenuta regolata. Cercavo di spiegare agli amici francesi perché questa storia che regge nel tempo è a mio parere un patrimonio per tutti estremamente attuale. Un patrimonio politico. Ragionando con loro anche su analogie e differenze con la storia dell'aborto. Anche in questo caso ci sono la critica, i movimenti sociali, e una legge, dello stesso segno e degli stessi mesi (1978: il referendum, e in contemporanea l'uccisione di Aldo Moro, come ricorda Giannichedda nell'introduzione al volume).
(...)
Basaglia preferiva, allora, le analogie con la legge Merlin che aveva abolito le «case chiuse» per l'esercizio della prostituzione. C'è un'aria di famiglia, in questo confronto con le dimensioni tragiche del vivere sociale, con questa pretesa di portarle e sopportarle allo scoperto, non vi pare?
(...)
questo patrimonio politico - l'esperienza di nominare contraddizioni - è propriamente della sinistra (anzi, del centro-sinistra, in quanto vi sia in gioco la democrazia): salvaguardarlo è un dovere primario; investire su di esso è forse l'ultima possibilità che abbiamo per non essere travolti dalle contraddizioni ridotte ad antinomie, e dalle guerre che suscitano. L'abbraccio mortale della sinistra francese con lepenismo e affini sul referendum europeo sta lì a testimoniarlo.
L'eredità di Basaglia
«Diritti e rovesci» a Bologna
L'utopia della realtà, a cura di Franca Ongaro Basaglia con una introduzione di Maria Grazia Giannichedda (Einaudi) raccoglie gli scritti dello psichiatra al quale dobbiamo la 180
OTA DE LEONARDIS
(...)
Intanto, di qua dalle Alpi si preparava l'uscita di una nuova raccolta di scritti di Franco Basaglia (L'utopia della realtà. A cura di Franca Ongaro Basaglia. Introduzione di Maria Grazia Giannichedda Einaudi, 2005, 327 pagg., 22 euro). Non credo alle coincidenze, credo alle insistenze. La critica dell'istituito - per dirla alla francese - ha in questa storia imboccato la strada della pratica, dello smontaggio pratico dell'istituzione, e si è fatta per questa via processo istituente. Un processo sorvegliato con grandissima cura perché conservasse della critica la memoria, le ragioni sempre attuali, e la sua intrinseca inconciliabilità con «le soluzioni», con l'istituito appunto. Basaglia è tutto qui, e non è poco.
Gli operatori e i malati di questa strana storia non sono mai contenti, se si accontentassero per loro sarebbe finita, risucchiati entrambi nella disumanizzazione. Basaglia lo ha detto e ripetuto fino alla nausea, a tutti coloro che si sarebbero accontentati volentieri di ragionevoli compromessi (a cominciare dai compagni francesi che non ci pensavano proprio a «distruggere» il manicomio. Semmai si trattava, e si trattò, di introdurvi la psicoanalisi. Non si è salvato neanche Lacan. Peccato, perché forse nel suo cifrario c'è qualcosa di pertinente, per ragionare sull'«uomo senza gravità» di oggi). Tornare a scavare in questa storia, riflettere ancora su questo passaggio, sulle «istituzioni inventate» dalla critica, come le ha chiamate Franco Rotelli; e su questo non accontentarsi: è ciò che gli amici francesi mi sollecitavano a fare, e che questo nuovo libro di Basaglia ripropone con forza. Per misurarsi tra l'altro col fatto preciso che Basaglia ha fortemente voluto la legge 180, ha voluto «istituire» appunto. Contro i radicali che non volevano leggi (il neo liberalismo dello stato minimo era già lì, reaganismo montante) e contro i riformisti che volevano un ammodernamento tecnico del paternalismo autoritario. Era la via del diritto, e dei diritti soggettivi conquistati e praticati su una materia incongrua, la follia, «l'esperienza abnorme» come la chiamava Basaglia; era la scelta di istituire il teatro di una contraddizione insanabile, che la rendesse sopportabile senza nasconderla («senza chiudere gli occhi», direbbe Boltanski). L'inconciliabile, appunto, istituito anche con una legge, istituito come un campo di tensioni legittimo e regolato, come un campo di riflessività della convivenza civile: riuscire «a non rinchiudere in una ulteriore oggettivazione l'esperienza abnorme, conservandola legata e strettamente connessa alla storia individuale e sociale» (così si chiude il libro). La consistenza di questa contraddizione, le ragioni e i modi per portarla allo scoperto, per renderla sopportabile ma non rimuovibile, costituiscono un filo rosso di tutto il libro. E costituiscono un patrimonio collettivo, che ha retto fino ad oggi e ancora regge, malgrado tutto, malgrado la forza e pervasività della normalizzazione di cui molti, anche protagonisti di questa storia, sono tentati di accontentarsi. Pensate ai famigliari: ricordo allora la crisi del rapporto con le famiglie, e con le associazioni di famigliari - investiti com'erano dalla contraddizione portata allo scoperto. E li ritrovo oggi, famigliari e associazioni, che non si accontentano, che vogliono tutto fuorché l'abolizione della 180. Pensate al lavoro: c'è ancora chi pretende pratica e costruisce opportunità perché i matti abbiano uno statuto lavorativo, con i tempi che corrono. Questo vuole dire, collettivamente, reggere una contraddizione tenuta scoperta, e tenuta regolata. Cercavo di spiegare agli amici francesi perché questa storia che regge nel tempo è a mio parere un patrimonio per tutti estremamente attuale. Un patrimonio politico. Ragionando con loro anche su analogie e differenze con la storia dell'aborto. Anche in questo caso ci sono la critica, i movimenti sociali, e una legge, dello stesso segno e degli stessi mesi (1978: il referendum, e in contemporanea l'uccisione di Aldo Moro, come ricorda Giannichedda nell'introduzione al volume).
(...)
Basaglia preferiva, allora, le analogie con la legge Merlin che aveva abolito le «case chiuse» per l'esercizio della prostituzione. C'è un'aria di famiglia, in questo confronto con le dimensioni tragiche del vivere sociale, con questa pretesa di portarle e sopportarle allo scoperto, non vi pare?
(...)
questo patrimonio politico - l'esperienza di nominare contraddizioni - è propriamente della sinistra (anzi, del centro-sinistra, in quanto vi sia in gioco la democrazia): salvaguardarlo è un dovere primario; investire su di esso è forse l'ultima possibilità che abbiamo per non essere travolti dalle contraddizioni ridotte ad antinomie, e dalle guerre che suscitano. L'abbraccio mortale della sinistra francese con lepenismo e affini sul referendum europeo sta lì a testimoniarlo.
«Borges e le donne, un rapporto disastroso...
tutta colpa della madre?»
La Stampa 6 Luglio 2005
Borges
IL GRANDE SCRITTORE E LE DONNE, UN RAPPORTO DISASTROSO. TUTTA COLPA DELLA MADRE?
DUE BIOGRAFIE A CONFRONTO
Mario Baudino
LA terribile Doña Leonor, madre di Jorge Luis Borges, incappò una volta in una gaffe strepitosa che, come scrive Alberto Manguel nel suo Con Borges (Adelphi), avrebbe incantanto il dottor Freud. Disse alla tv francese, a proposito del figlio cui faceva da perfetta segretaria, scrivendo sotto dettatura le sue pagine e regolando ogni aspetto della vita, che ne rappresentava la «mano», proprio come lo era stata del defunto marito, anche lui colpito da cecità intorno ai cinquant’anni. E pronunciò così larga l’espressione «la main», col suo accento argentino, che venne fuori un indubitale «l’amant», sostantivo in questo caso maschile, per la delizia di tutti coloro che non ignoravano la sua possessività. Doña Leonor Fanny Borges è morta quasi centenaria nel ‘75, il grande scrittore è scomparso nell’86, ma quelli che sono stati a lungo i fantasmi di una complicata vita famigliare continuano ad aggirarsi tra i libri, a volte quasi petulanti.
Che l’autore della Biblioteca di Babele risultasse oppresso dalla madre, e che facesse mostra di dipenderne totalmente, si sapeva; per lei era l’eterno ragazzo cui badare, notte e giorno, tanto da poter tranquillamente fare in pubblico affermazioni come quella udita da un professore di Yale, durante una cena. Una signora aveva chiesto a Borges, sessantenne, se desiderava del vino, e Leonor l’aveva stoppata con un netto: «No, il ragazzo non ne vuole». Questa, e molte altre testimonianze sono state rese pubbliche in una monumentale biografia di Edwin Williamson (Borges, a Life, Viking Press) uscita in America, che ha suscitato discussioni. Perché l’autore non si limita a ripercorrere il rapporto con la madre e di conseguenza quello - sfortunato - con le donne in generale, ma ne evidenzia le conseguenze, a suo dire, sull’opera di Borges. Tesi senza dubbio discutibili: sul piano della vita privata, però, la mole delle testimonianze inedite - connesse abilmente con le altre già note - è impressionante. Quella madre dominante e divoratrice decise della sfera sentimentale del figlio. Inevitabilmente lui era attratto da donne che le dovevano per forza dispiacere, e altrettanto inevitabilmente andava incontro a disastri.
Williamson si spinge anche a ipotizzare un trauma giovanile durante l’adolescenza a Ginevra. Quella volta fu il padre che, seguendo un’usanza tipica all’epoca dei maschi argentini, lo mandò da una prostituta per iniziarlo all’età adulta. Ma il futuro scrittore, per strada, cominciò a riflettere sul fatto che forse il genitore era già stato a letto con la donna cui adesso lo indirizzava. E da allora non riuscì più a separare il sesso dalla vergogna. Il biografo porta a sostegno di questa teoria - che sembra un po’ meccanica - molti esempi: come gli amori impossibili con Norah Lange, bellissima donna, poetessa di origini scandinave, che ben presto si liberò di Borges e scrisse anche un romanzo assai scandaloso dal titolo 45 giorni e 30 marinai molto sponsorizzato da Pablo Neruda. Quando lo lasciò, andandosene semplicemente assieme a un altro, il poeta surrealista Oliveiro Girondo, da un party dove erano arrivati insieme, lo scrittore ne soffrì talmente che per trent’anni non scrisse più un verso. Ma sarà questa la ragione, visto che nel frattempo compose invece, in prosa, i suoi capolavori?
Con un’altra donna della sua giovinezza, Estela Campo, con cui si riteneva fidanzato, avrebbe rifiutato sempre per panico esplicite richieste di rapporti sessuali; anche lei lo lasciò, ma perché si era accorta che nella serate insieme si defilava spessissimo per chiamare la madre. A farla breve, questo infelice «Borges in love» sarebbe riuscito a trovare una certa felicità coniugale solo quando, morta Doña Leonor, iniziò il suo ménage con l’ex allieva Maria Kodama, sposata poi due mesi prima di morire. La ricostruzione rischia di sembrare farsesca, anche se gli episodi sono veri. Sembra una commedia, un romanzo di buffe disgrazie, questo guardare alla vita dello scrittore che più ha influenzato la letteratura contemporanea prendendo come punto di vista i rapporti madre figlio. Ma un Borges in love, sebbene non sia un romanzo, è stato scritto davvero, e proprio da Alberto Manguel. Fa parte dei saggi raccolti in Into the Looking-Glass Wood (Nel bosco degli specchi, uscito in Inghilterra per Bloomsbury) e da noi verrà pubblicato separatamente in autunno da Rosellina Archinto.
In esso l’autore argentino, di nazionalità canadese, che scrive in inglese e vive in Francia, noto per una bella Storia della lettura pubblicata anni fa da Mondadori, ci racconta fra l’altro il primo matrimonio di Borges, nel ‘67, l’unica occasione in cui la madre fu d’accordo sulla scelta del figlio. Un disastro. Elsa Astete de Millán non era minimamnete coinvolta dalla letteratura e dalle opere del marito, era gelosa, avida, interessata solo alla fama dello scrittore e a metterla a frutto economicamente. Lui al mattino amava raccontare i sogni, lei non sognava e non ne voleva sentir parlare. Gli proibì ogni rapporto con la madre, avendo evidentemente capito la situazione. Una volta a Harvard, dove Borges era stato invitato per una serie di conferenze, un docente lo trovò nottetempo all’esterno, e in pigiama. «Mia moglie mi ha chiuso fuori» disse con tutta naturalezza il grande scrittore. Nel ‘70, infine, se la dette a gambe in modo rocambolesco, grazie agli amici, facendosi imbarcare su un aereo per Cordoba mentre un ufficiale giudiziario con tre facchini bussava all’appartamento coniugale con l’ordine di portare via tutti i libri.
L’occhiuta Doña Leonor, quella volta, era stata finalmente smentita, ma non fu certo una liberazione. Semplicemente l’eterno ménage madre-figlio riprese come prima. Una vittima, questo Borges in love? Andiamoci piano, ci dice Manguel dalla sua casa vicino a Poitiers. In realtà c’era una sorta di scambio, una simbiosi. «Doña Leonor aveva un carattere molto forte, e Borges faceva tutto quel che lei voleva. Quando, giovanissimo, lo frequentavo per leggergli ad a volte voce i libri che ormai cieco non poteva più vedere, se per caso si decideva di uscire lei voleva saper tutto: dove saremmo andati, a che ora saremmo tornati e così via. Però Borges, in qualche modo, la utilizzava. Se una donna gli metteva paura, lui anziché dirle “ti lascio” faceva capire che sua madre lo costringeva ad abbandonarla». Un gioco un po’ perverso, non le pare? «Un gioco. Quando ha sposato Maria Kodama e si sono trasferiti a Ginevra, molti amici suoi erano convinti che lei l’avesse forzato. Anche in questo caso non era vero: non si è mai lasciato forzare da nessuno».
Quindi non era affatto un carattere debole? «No, era fortissimo. E non rinunciava alle sue idee». Semmai, la sua vita sentimentale è stata divorata da un padrone ben più inflessibile: la letteratura. «Per lui Dante scrisse la Commedia solo per essere, almeno per un momento, con Beatrice. Così si può dire che Borges abbia creato la sua opera allo stesso modo, per abbracciare davvero una donna. Ma è stata proprio la letteratura a impedirglielo, perché si è sempre rivelata la cosa più importante». Secondo Manguel il biografo Williamson sbaglia, mettendo in relazione i libri con il rapporto materno e la vita sentimentale. «Borges amava il genere epico, gli piacevano la violenza, il sangue, la battaglia. Sua madre al contrario prediligeva Balzac o Stendhal, scrittori che a lui non dicevano nulla». E, aggiunge, la sua vita amorosa non ci serve comunque a capire la sua opera. «È un po’ come se ci chiedessimo che cosa mangiava Kant». Come autore non si è mai lasciato condizionare. Anzi: «Quando ha scritto L’intrusa, uno dei suoi racconti più terribili, le ultime frasi, che non gli venivano, furono suggerita proprio dalla madre. Ed erano totalmente borghesiane».
Infatti. Il breve racconto, che fa parte del Manoscritto di Brodie, e peraltro venne ritirato per un certo tempo dall’autore e dalla vedova, mette in scena due fratelli piuttosto rudi e feroci, innamorati della stessa donna. Per non ritrovarsi in contrasto, prima decidono di dividerla, poi di venderla a un bordello. Ma anche così tracima una rivalità strisciante. E allora uno dei due la uccide. È a questo punto che Borges si sarebbe fermato, non riuscendo a trovare una conclusione abbastanza folgorante; dopo qualche indugio il suggerimento decisivo gli sarebbe venuto dalla madre, intenta a scrivere sotto dettatura quelle pagine. Due brevissimi capoversi, dove parla l’assassino: «Al lavoro, fratello. Poi ci aiuteranno gli avvoltoi. Oggi l’ho uccisa. Che rimanga qui con la sua roba. Non farà più danno». Con la voce dell’autore che aggiunge: «Si abbracciarono, quasi piangendo. Adesso li univa un altro legame: la donna tristemente sacrificata e l’obbligo di dimenticarla». Senza dubbio una conclusione d’autore. Doña Leonor, proponendola, aderì alla poetica del figlio, si fece inglobare nel suo stile; ma è difficile scacciare l’idea che nello stesso tempo abbia dato voce letteraria anche ai propri sentimenti. Nemmeno troppo segreti.
Borges
IL GRANDE SCRITTORE E LE DONNE, UN RAPPORTO DISASTROSO. TUTTA COLPA DELLA MADRE?
DUE BIOGRAFIE A CONFRONTO
Mario Baudino
LA terribile Doña Leonor, madre di Jorge Luis Borges, incappò una volta in una gaffe strepitosa che, come scrive Alberto Manguel nel suo Con Borges (Adelphi), avrebbe incantanto il dottor Freud. Disse alla tv francese, a proposito del figlio cui faceva da perfetta segretaria, scrivendo sotto dettatura le sue pagine e regolando ogni aspetto della vita, che ne rappresentava la «mano», proprio come lo era stata del defunto marito, anche lui colpito da cecità intorno ai cinquant’anni. E pronunciò così larga l’espressione «la main», col suo accento argentino, che venne fuori un indubitale «l’amant», sostantivo in questo caso maschile, per la delizia di tutti coloro che non ignoravano la sua possessività. Doña Leonor Fanny Borges è morta quasi centenaria nel ‘75, il grande scrittore è scomparso nell’86, ma quelli che sono stati a lungo i fantasmi di una complicata vita famigliare continuano ad aggirarsi tra i libri, a volte quasi petulanti.
Che l’autore della Biblioteca di Babele risultasse oppresso dalla madre, e che facesse mostra di dipenderne totalmente, si sapeva; per lei era l’eterno ragazzo cui badare, notte e giorno, tanto da poter tranquillamente fare in pubblico affermazioni come quella udita da un professore di Yale, durante una cena. Una signora aveva chiesto a Borges, sessantenne, se desiderava del vino, e Leonor l’aveva stoppata con un netto: «No, il ragazzo non ne vuole». Questa, e molte altre testimonianze sono state rese pubbliche in una monumentale biografia di Edwin Williamson (Borges, a Life, Viking Press) uscita in America, che ha suscitato discussioni. Perché l’autore non si limita a ripercorrere il rapporto con la madre e di conseguenza quello - sfortunato - con le donne in generale, ma ne evidenzia le conseguenze, a suo dire, sull’opera di Borges. Tesi senza dubbio discutibili: sul piano della vita privata, però, la mole delle testimonianze inedite - connesse abilmente con le altre già note - è impressionante. Quella madre dominante e divoratrice decise della sfera sentimentale del figlio. Inevitabilmente lui era attratto da donne che le dovevano per forza dispiacere, e altrettanto inevitabilmente andava incontro a disastri.
Williamson si spinge anche a ipotizzare un trauma giovanile durante l’adolescenza a Ginevra. Quella volta fu il padre che, seguendo un’usanza tipica all’epoca dei maschi argentini, lo mandò da una prostituta per iniziarlo all’età adulta. Ma il futuro scrittore, per strada, cominciò a riflettere sul fatto che forse il genitore era già stato a letto con la donna cui adesso lo indirizzava. E da allora non riuscì più a separare il sesso dalla vergogna. Il biografo porta a sostegno di questa teoria - che sembra un po’ meccanica - molti esempi: come gli amori impossibili con Norah Lange, bellissima donna, poetessa di origini scandinave, che ben presto si liberò di Borges e scrisse anche un romanzo assai scandaloso dal titolo 45 giorni e 30 marinai molto sponsorizzato da Pablo Neruda. Quando lo lasciò, andandosene semplicemente assieme a un altro, il poeta surrealista Oliveiro Girondo, da un party dove erano arrivati insieme, lo scrittore ne soffrì talmente che per trent’anni non scrisse più un verso. Ma sarà questa la ragione, visto che nel frattempo compose invece, in prosa, i suoi capolavori?
Con un’altra donna della sua giovinezza, Estela Campo, con cui si riteneva fidanzato, avrebbe rifiutato sempre per panico esplicite richieste di rapporti sessuali; anche lei lo lasciò, ma perché si era accorta che nella serate insieme si defilava spessissimo per chiamare la madre. A farla breve, questo infelice «Borges in love» sarebbe riuscito a trovare una certa felicità coniugale solo quando, morta Doña Leonor, iniziò il suo ménage con l’ex allieva Maria Kodama, sposata poi due mesi prima di morire. La ricostruzione rischia di sembrare farsesca, anche se gli episodi sono veri. Sembra una commedia, un romanzo di buffe disgrazie, questo guardare alla vita dello scrittore che più ha influenzato la letteratura contemporanea prendendo come punto di vista i rapporti madre figlio. Ma un Borges in love, sebbene non sia un romanzo, è stato scritto davvero, e proprio da Alberto Manguel. Fa parte dei saggi raccolti in Into the Looking-Glass Wood (Nel bosco degli specchi, uscito in Inghilterra per Bloomsbury) e da noi verrà pubblicato separatamente in autunno da Rosellina Archinto.
In esso l’autore argentino, di nazionalità canadese, che scrive in inglese e vive in Francia, noto per una bella Storia della lettura pubblicata anni fa da Mondadori, ci racconta fra l’altro il primo matrimonio di Borges, nel ‘67, l’unica occasione in cui la madre fu d’accordo sulla scelta del figlio. Un disastro. Elsa Astete de Millán non era minimamnete coinvolta dalla letteratura e dalle opere del marito, era gelosa, avida, interessata solo alla fama dello scrittore e a metterla a frutto economicamente. Lui al mattino amava raccontare i sogni, lei non sognava e non ne voleva sentir parlare. Gli proibì ogni rapporto con la madre, avendo evidentemente capito la situazione. Una volta a Harvard, dove Borges era stato invitato per una serie di conferenze, un docente lo trovò nottetempo all’esterno, e in pigiama. «Mia moglie mi ha chiuso fuori» disse con tutta naturalezza il grande scrittore. Nel ‘70, infine, se la dette a gambe in modo rocambolesco, grazie agli amici, facendosi imbarcare su un aereo per Cordoba mentre un ufficiale giudiziario con tre facchini bussava all’appartamento coniugale con l’ordine di portare via tutti i libri.
L’occhiuta Doña Leonor, quella volta, era stata finalmente smentita, ma non fu certo una liberazione. Semplicemente l’eterno ménage madre-figlio riprese come prima. Una vittima, questo Borges in love? Andiamoci piano, ci dice Manguel dalla sua casa vicino a Poitiers. In realtà c’era una sorta di scambio, una simbiosi. «Doña Leonor aveva un carattere molto forte, e Borges faceva tutto quel che lei voleva. Quando, giovanissimo, lo frequentavo per leggergli ad a volte voce i libri che ormai cieco non poteva più vedere, se per caso si decideva di uscire lei voleva saper tutto: dove saremmo andati, a che ora saremmo tornati e così via. Però Borges, in qualche modo, la utilizzava. Se una donna gli metteva paura, lui anziché dirle “ti lascio” faceva capire che sua madre lo costringeva ad abbandonarla». Un gioco un po’ perverso, non le pare? «Un gioco. Quando ha sposato Maria Kodama e si sono trasferiti a Ginevra, molti amici suoi erano convinti che lei l’avesse forzato. Anche in questo caso non era vero: non si è mai lasciato forzare da nessuno».
Quindi non era affatto un carattere debole? «No, era fortissimo. E non rinunciava alle sue idee». Semmai, la sua vita sentimentale è stata divorata da un padrone ben più inflessibile: la letteratura. «Per lui Dante scrisse la Commedia solo per essere, almeno per un momento, con Beatrice. Così si può dire che Borges abbia creato la sua opera allo stesso modo, per abbracciare davvero una donna. Ma è stata proprio la letteratura a impedirglielo, perché si è sempre rivelata la cosa più importante». Secondo Manguel il biografo Williamson sbaglia, mettendo in relazione i libri con il rapporto materno e la vita sentimentale. «Borges amava il genere epico, gli piacevano la violenza, il sangue, la battaglia. Sua madre al contrario prediligeva Balzac o Stendhal, scrittori che a lui non dicevano nulla». E, aggiunge, la sua vita amorosa non ci serve comunque a capire la sua opera. «È un po’ come se ci chiedessimo che cosa mangiava Kant». Come autore non si è mai lasciato condizionare. Anzi: «Quando ha scritto L’intrusa, uno dei suoi racconti più terribili, le ultime frasi, che non gli venivano, furono suggerita proprio dalla madre. Ed erano totalmente borghesiane».
Infatti. Il breve racconto, che fa parte del Manoscritto di Brodie, e peraltro venne ritirato per un certo tempo dall’autore e dalla vedova, mette in scena due fratelli piuttosto rudi e feroci, innamorati della stessa donna. Per non ritrovarsi in contrasto, prima decidono di dividerla, poi di venderla a un bordello. Ma anche così tracima una rivalità strisciante. E allora uno dei due la uccide. È a questo punto che Borges si sarebbe fermato, non riuscendo a trovare una conclusione abbastanza folgorante; dopo qualche indugio il suggerimento decisivo gli sarebbe venuto dalla madre, intenta a scrivere sotto dettatura quelle pagine. Due brevissimi capoversi, dove parla l’assassino: «Al lavoro, fratello. Poi ci aiuteranno gli avvoltoi. Oggi l’ho uccisa. Che rimanga qui con la sua roba. Non farà più danno». Con la voce dell’autore che aggiunge: «Si abbracciarono, quasi piangendo. Adesso li univa un altro legame: la donna tristemente sacrificata e l’obbligo di dimenticarla». Senza dubbio una conclusione d’autore. Doña Leonor, proponendola, aderì alla poetica del figlio, si fece inglobare nel suo stile; ma è difficile scacciare l’idea che nello stesso tempo abbia dato voce letteraria anche ai propri sentimenti. Nemmeno troppo segreti.
un vaccino per l'Aids?
Corriere della Sera 5.7.05
Test positivi del vaccino anti-Aids
Il lavoro del gruppo di Barbara Ensoli: riscontrata una risposta immune nei soggetti vaccinati, sia sani sia sieropositivi
ROMA - Il vaccino italiano preventivo e terapeutico contro l'Hiv supera i primi test clinici sull'uomo. Ma mancano i fondi per avviare la fase successiva di sperimentazione nel nostro Paese. Lo afferma la ricercatrice Barbara Ensoli, durante la presentazione, all'Istituto superiore di sanità, dei primi risultati sul vaccino. I test nella prima fase di sperimentazione clinica del vaccino anti-Aidsdel gruppo di Barbara Ensoli presso l'Istituto Superiore di Sanità (ISS) hanno dato risultati confortanti: è stata riscontrata una risposta immune nei soggetti vaccinati, sia sani sia sieropositivi, cioè con l' organismo dei soggetti vaccinati che viene stimolato dal vaccino. È quanto si evince dall'analisi preliminare dei dati relativi all'immunogenicità, dichiara la Ensoli ricordando però con estrema cautela che l'obiettivo di questa prima fase di sperimentazione era solo di dimostrare la sicurezza e la tollerabilità del preparato vaccinale, basato sulla proteina TAT del virus Hiv, mentre la sua efficacia si testerà nelle fasi successive.
«Nel 100% dei volontari immunizzati - ha spiegato la scienziata - si è avuta una risposta umorale positiva, ossia la produzione di anticorpi specifici, sia nel protocollo preventivo che in quello terapeutico. La risposta cellulare - ha aggiunto la Ensoli - ossia la risposta di cellule specifiche capaci di riconoscere la proteina TAT, è stata indotta nel 93% dei volontari sani (protocollo preventivo) e nell'83% dei volontari positivi.
Critiche da Fernando Aiuti, docente di Medicina Interna e Immunologia Clinica alla La Sapienza di Roma e presidente dell'Anlaids. «Confermo le mie dichiarazioni negative sui risultati del vaccino anti-TAT» ha fatto sapeer Aiuti, tramite una nota del suo ufficio stampa. «La dottoressa Ensoli - prosegue Aiuti - è diffidata dal pubblicare e dal diffondere nei congressi dati riguardanti soggetti a me affidati per la sperimentazione fino al mio consenso». Secondo l'immunologo le procedure adottate nel corso della sperimentazione sarebbero state irregolari, con interruzione prematura dei test, riduzione dei volontari da 88 previsti a 47 arruolati, modifiche al protocollo aggiunte alla fine e ancora non approvate dal comitato etico. «La Ensoli quindi si assumerà la responsabilità delle dichiarazioni dalle quali mi dissocio», continua la nota.
LA POLEMICA
Vaccino anti Aids. «Funziona». «No, procedure irregolari»
Barbara Ensoli dell’Iss presenta i dati sulla prima fase della sperimentazione: «Sarà pronto nel 2010». Critico l’immunologo Aiuti
Margherita De Bac
ROMA - Innocuo, ben tollerato e «immunogenico», cioè capace di dare una risposta immunitaria sollecitando le difese dell’organismo. Barbara Ensoli, dell’Istituto superiore di sanità, promuove «con orgoglio» il suo vaccino contro l’Aids, giudicandolo maturo per la seconda fase della sperimentazione, che dovrà dimostrarne l’efficacia: «Ci sono tutte le premesse, i dati sono molto convincenti e ci impongono di andare avanti - annuncia la virologa -. Con la prima fase dei test abbiamo raggiunto gli obiettivi stabiliti. Dovremo riuscire a completare il tutto per il 2010-2011». I risultati sono stati anticipati ieri alla stampa dopo una riunione con gli sperimentatori dei 4 centri coinvolti nello studio (Policlinico Umberto I, Spallanzani, San Raffaele, San Gallicano). Sotto esame il vaccino anti Tat, dal nome della proteina che si vuole inibire. E’ interna alla cellula, ha un ruolo chiave nella replicazione del virus e, a differenza delle «sorelle» dell’involucro, è sempre uguale a se stessa. Ecco perché la Ensoli parla di un «vaccino universale» potenzialmente efficace contro ogni ceppo dell’Hiv, africano, asiatico o europeo. E’ stato provato su individui sani e sieropositivi col sistema del «doppio cieco» (non si sapeva chi riceveva il farmaco e chi placebo) per testarlo come profilassi e come terapia: «E’ innocuo, nessun effetto avverso serio. La risposta immunitaria c’è stata - spiega -. Abbiamo ridotto i volontari a 47 perché i risultati erano già ottimi e non era etico prolungare la prima fase visto l’attesa». La fase due è prevista in Italia e Africa su 2.000 volontari, 3 anni di verifica. Ammesso di trovare i fondi: 50 milioni. La metà sono stati deliberati dalla Farnesina (a settembre forse il via libera,) per l’altra metà l’Iss batte cassa.
L’immunologo Fernando Aiuti conferma i giudizi negativi, criticando le procedure adottate: «Interruzione prematura dei test, riduzione dei volontari da 88 a 47, modifiche del protocollo respinte dai comitati etici. La presentazione dei dati, ai quali non credo, non è stata preceduta da una approfondita discussione tecnica né da pubblicazioni. Ciò non ha precedenti nella storia della ricerca».
Test positivi del vaccino anti-Aids
Il lavoro del gruppo di Barbara Ensoli: riscontrata una risposta immune nei soggetti vaccinati, sia sani sia sieropositivi
ROMA - Il vaccino italiano preventivo e terapeutico contro l'Hiv supera i primi test clinici sull'uomo. Ma mancano i fondi per avviare la fase successiva di sperimentazione nel nostro Paese. Lo afferma la ricercatrice Barbara Ensoli, durante la presentazione, all'Istituto superiore di sanità, dei primi risultati sul vaccino. I test nella prima fase di sperimentazione clinica del vaccino anti-Aidsdel gruppo di Barbara Ensoli presso l'Istituto Superiore di Sanità (ISS) hanno dato risultati confortanti: è stata riscontrata una risposta immune nei soggetti vaccinati, sia sani sia sieropositivi, cioè con l' organismo dei soggetti vaccinati che viene stimolato dal vaccino. È quanto si evince dall'analisi preliminare dei dati relativi all'immunogenicità, dichiara la Ensoli ricordando però con estrema cautela che l'obiettivo di questa prima fase di sperimentazione era solo di dimostrare la sicurezza e la tollerabilità del preparato vaccinale, basato sulla proteina TAT del virus Hiv, mentre la sua efficacia si testerà nelle fasi successive.
«Nel 100% dei volontari immunizzati - ha spiegato la scienziata - si è avuta una risposta umorale positiva, ossia la produzione di anticorpi specifici, sia nel protocollo preventivo che in quello terapeutico. La risposta cellulare - ha aggiunto la Ensoli - ossia la risposta di cellule specifiche capaci di riconoscere la proteina TAT, è stata indotta nel 93% dei volontari sani (protocollo preventivo) e nell'83% dei volontari positivi.
Critiche da Fernando Aiuti, docente di Medicina Interna e Immunologia Clinica alla La Sapienza di Roma e presidente dell'Anlaids. «Confermo le mie dichiarazioni negative sui risultati del vaccino anti-TAT» ha fatto sapeer Aiuti, tramite una nota del suo ufficio stampa. «La dottoressa Ensoli - prosegue Aiuti - è diffidata dal pubblicare e dal diffondere nei congressi dati riguardanti soggetti a me affidati per la sperimentazione fino al mio consenso». Secondo l'immunologo le procedure adottate nel corso della sperimentazione sarebbero state irregolari, con interruzione prematura dei test, riduzione dei volontari da 88 previsti a 47 arruolati, modifiche al protocollo aggiunte alla fine e ancora non approvate dal comitato etico. «La Ensoli quindi si assumerà la responsabilità delle dichiarazioni dalle quali mi dissocio», continua la nota.
LA POLEMICA
Vaccino anti Aids. «Funziona». «No, procedure irregolari»
Barbara Ensoli dell’Iss presenta i dati sulla prima fase della sperimentazione: «Sarà pronto nel 2010». Critico l’immunologo Aiuti
Margherita De Bac
ROMA - Innocuo, ben tollerato e «immunogenico», cioè capace di dare una risposta immunitaria sollecitando le difese dell’organismo. Barbara Ensoli, dell’Istituto superiore di sanità, promuove «con orgoglio» il suo vaccino contro l’Aids, giudicandolo maturo per la seconda fase della sperimentazione, che dovrà dimostrarne l’efficacia: «Ci sono tutte le premesse, i dati sono molto convincenti e ci impongono di andare avanti - annuncia la virologa -. Con la prima fase dei test abbiamo raggiunto gli obiettivi stabiliti. Dovremo riuscire a completare il tutto per il 2010-2011». I risultati sono stati anticipati ieri alla stampa dopo una riunione con gli sperimentatori dei 4 centri coinvolti nello studio (Policlinico Umberto I, Spallanzani, San Raffaele, San Gallicano). Sotto esame il vaccino anti Tat, dal nome della proteina che si vuole inibire. E’ interna alla cellula, ha un ruolo chiave nella replicazione del virus e, a differenza delle «sorelle» dell’involucro, è sempre uguale a se stessa. Ecco perché la Ensoli parla di un «vaccino universale» potenzialmente efficace contro ogni ceppo dell’Hiv, africano, asiatico o europeo. E’ stato provato su individui sani e sieropositivi col sistema del «doppio cieco» (non si sapeva chi riceveva il farmaco e chi placebo) per testarlo come profilassi e come terapia: «E’ innocuo, nessun effetto avverso serio. La risposta immunitaria c’è stata - spiega -. Abbiamo ridotto i volontari a 47 perché i risultati erano già ottimi e non era etico prolungare la prima fase visto l’attesa». La fase due è prevista in Italia e Africa su 2.000 volontari, 3 anni di verifica. Ammesso di trovare i fondi: 50 milioni. La metà sono stati deliberati dalla Farnesina (a settembre forse il via libera,) per l’altra metà l’Iss batte cassa.
L’immunologo Fernando Aiuti conferma i giudizi negativi, criticando le procedure adottate: «Interruzione prematura dei test, riduzione dei volontari da 88 a 47, modifiche del protocollo respinte dai comitati etici. La presentazione dei dati, ai quali non credo, non è stata preceduta da una approfondita discussione tecnica né da pubblicazioni. Ciò non ha precedenti nella storia della ricerca».
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