Repubblica 9.5.04
IL CASO
Rete 180, una radio di matti "Qui ci sentiamo più normali"
Terapia al microfono per vincere il disturbo mentale
Ma ora i redattori ambiscono ad avere una frequenza per trasmettere le proprie interviste, le ricette, i servizi o i propri strani pensieri
L'emittente, nata in una stanza del centro psico-sociale "Poma" di Mantova, ha aiutato i pazienti a entrare in contatto con la realtà
di FABRIZIO RAVELLI
«LA TV fa male perché la guardi, la radio fa bene perché la fai». Parola di Luciano, che oggi dirige i dibattiti, fa interviste, vorrebbe avere una diretta notturna tutta per sé. Passa ancora molte ore davanti alla tv, convinto che l´elettrodomestico gli parli, proprio a lui. «Delirio di influenzamento», la diagnosi. Ma la sua vita è un po´ migliore, da quando è passato dall´altra parte, da quando usa un microfono e lavora a Rete 180, «la voce di chi sente le voci», la radio dei pazienti qui al Centro psicosociale dell´azienda ospedaliera Carlo Poma di Mantova. L´hanno chiamata «radio-terapia», con quell´umorismo lucido e stralunato che è uno dei marchi di fabbrica. La redazione è nella stanza più grande del centro di salute mentale: l´antenna è un attaccapanni.
E´ tutto cominciato quella volta che Luciano si trovò a parlare in tv. «Quella sera - racconta Giovanni Rossi, primario ed "editore" di Rete 180 - lui che era sempre convinto di essere perseguitato da gente ostile riuscì a parlare di sé, della sua patologia, in modo tranquillo e adeguato». Ci hanno pensato su, Rossi e il suo collega Baraldi, e hanno provato a usare la radio («La radio perché è semplice, abbiamo cominciato con un microfono e un impianto stereo») come trattamento terapeutico. «Ai pazienti serviva uno spazio di comunicazione. E la radio era perfetta: crea distanza, mediazione, protezione, filtro. Ma dà la possibilità di entrare in contatto con la realtà esterna, con le persone. Abbiamo scoperto che, con un microfono in mano, parlavano anche quelli che non parlavano mai».
Siccome non hanno ancora una frequenza, tengono bassissimo il livello del trasmettitore: il segnale si capta solo dentro l´ospedale, e pochi metri fuori. Sperano che qualcuno gli affitti una frequenza: «Per comprarne una girano prezzi pazzeschi, centinaia di migliaia di euro». Qualche spazio l´hanno avuto da Radio Base, qualche intervista l´hanno data a Radio Popolare, anche Caterpillar su Radio 2 ha trasmesso cose loro. Ma insomma, Rete 180 è quasi una vera radio. L´apparecchiatura è stata messa insieme da Stefano, infermiere. C´è una redazione, che si riunisce ogni venerdì per discutere i programmi, per registrare dibattiti interni. Intorno a un tavolo, passandosi il microfono. Marco detto "Notizia" ogni mattina fa una sorta di rassegna stampa: lui si sente povero, e ogni notizia è letta in quella chiave. L´Alitalia va male? «Perché l´Alitalia è povera». Marco tiene sempre 20 chili di pasta in casa, non si sa mai.
Luciano, pioniere e fondatore, dirige e tiene rapporti con gli ospiti: ha un talento naturale per la radio. Luisa, l´esperta di cucina, diffonde ricette. Alcune tradizionali, come quella dei tortelli di zucca: «Ma con le dosi per 150 persone, l´ho data quando c´era il controfestival, visto che c´erano 150 cantanti. Le decido a seconda del tema del giorno». Altre fantastiche: «Come il tiramisù per l´amore di coppia: 1 cucchiaino di lacrime, 1 palpito di cuore, 1 etto di nostalgia, 1 pizzico di gelosia, 1/2 dozzina di ceffoni...». Una volta Luisa diede la ricetta della torta sbrisolona, ma per 50 mila persone, indicando che per l´impasto servivano le ruspe.
Il Dipartimento di salute mentale ha un reparto con 14 posti, a rotazione quando qualcuno dei pazienti passa un brutto momento. Ma quasi tutti vivono fuori, nel mondo della gente "normale". Rete 180 serve a entrare in rapporto coi "normali", ascoltandoli e intervistandoli. Ma la radio è comunque il centro della vita di chi ci lavora: «L´effetto - dice Rossi - si trasmette a tutta l´attività del dipartimento, influenza tutto. Perché nei loro dibattiti affrontano questioni fondamentali. Per esempio: serve a qualcosa prendere farmaci?». Gli psichiatri a volte sobbalzano, ascoltando certe trasmissioni.
Come quando, dieci giorni fa, hanno fatto una trasmissione sul tema: «Siamo tutti un po´ ostaggi?». Dall´Iraq a Mantova, senza mediazioni. L´Iraq era «La guerra di Piero», De André in sottofondo. Il resto erano le vite in diretta: «Quando siamo stati ricoverati, ci siamo sentiti ostaggi?». Libere associazioni mentali: «Paura, disagio, nemico, libertà, viaggio, terrore, salame, cattura, rabbia, dolore, infermità, incertezza, tradimento, prigione, angoscia, prigioniero, zio». Racconto: «Io sono stata veramente prigioniera un anno e nove mesi a Pisa: mi facevano l´elettroshock, mi legavano, mi imbottivano di farmaci. Non è servito a niente, ha solo aggravato la mia situazione».
Questa è Cinzia. Durante il «controfestival», quando Rete 180 intervistava cantanti e personalità nell´atrio del teatro Ariston, Cinzia intervistò il cabarettista Dario Vergassola. Per scoprire che anche lui, Vergassola, era stato imbottito di farmaci a Pisa. Che aveva avuto uno zio "matto", tornato all´improvviso a casa dal manicomio quando la legge 180 aprì le porte: «Arrivò con la valigia e con la barba. Fu un trauma per lui e per noi». Cinzia, con la radio, ha acquistato un po´ di sicurezza. Ha preso un diploma di restauratrice, lavora a Palazzo Te e censisce i restauri necessari. Dice: «L´arte mi scalda dentro». Con altre due ragazze, pazienti del centro, hanno preso casa: «Era un periodo difficile, abbiamo avuto questa idea. L´agenzia immobiliare ce ne ha trovata una, e la padrona ce l´ha affittata senza problemi». Il primario dice che l´idea stessa di restauro ha a che vedere con il lavoro del dipartimento: «In fondo restauriamo persone, o ci proviamo.
Trasformiamo cose considerate inutili in cose utili: come quando qui hanno fatto dei portavasi con le vecchie cinghie di contenzione».
Divina, una delle tre ragazze dell´appartamento, è nella radio la voce della poesia: «Di solito le scrivo seduta stante, ispirandomi al tema della trasmissione». Ne ha una borsa intera, di poesie battute a macchina, e poi un grande quaderno nero ordinatissimo. Dice che anche la radio è venuta fuori così: «Una parola tira l´altra, e avevamo fatto la radio». Microfono in mano, continuano a tenersi attaccati al mondo. Girano la città, vengono accreditati agli eventi sportivi e culturali.
Discutono e intervistano su tutto: lo sciopero generale, «raccogliendo materiali su cose, persone o cose che non possono scioperare, per esempio il prete o l´ambulanza», o la ricerca del Politecnico di Milano sull´identità mantovana, subito centrata sulla definizione di «vissuto». O ancora, «i kamikaze». Luciano aveva una sua idea televisiva: «Lì in Medio Oriente per me succede che gli israeliani hanno un tipo moderno di televisione, la guardano e non succede niente, sono abituati. Gli orientali invece, quando gli vengono quelle robe lì della televisione si vanno a suicidare in Israele, piuttosto di soccombere a quella cultura televisiva».
Non c´è niente di idilliaco, in questa Rete 180. I redattori-pazienti sono tutti consapevoli della loro sofferenza mentale: «Ci sono malati psicotici gravi - dice il primario - Ma questo progetto li fa sentire protagonisti, li valorizza, e stimola l´auto-aiuto. Si è formato un gruppo solidale, dove ciascuno trova l´appoggio dell´altro. Stiamo tutti lavorando sulla nostra crescita». I pazienti frequentano tutti un corso di professionale di spettacolo, con la cooperativa Teatro Magro di Brescia. Adesso vorrebbero diventare grandi, e avere una frequenza per farsi sentire. Luciano vorrebbe la diretta notturna. Lui di notte quasi non dorme, e telefona in ospedale per parlare con qualcuno. La tv gli fa male, «ma la radio fa bene perché la fai».
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
domenica 9 maggio 2004
Emanuele Severino, la tortura, il Logos occidentale
Corriere della Sera 9.5.04
IL FILOSOFO SEVERINO
«In quegli atti torna il peccato originale»
«Quando avremo finalmente il coraggio di guardare verso il fondo dell’abisso?»
Il filosofo Emanuele Severino commenta le foto delle torture: «Quello che ci indigna è l’immagine dell’uomo ridotto a un animale sofferente o fatto cosa, un pezzo di carne... Ma non basta l’orrore per rifiutarlo. È una violenza puramente occidentale che vediamo all’opera, una sorta di "peccato originale".
In queste foto abbiamo una volontà di annientamento del prigioniero: si vuol fare diventare niente la sua dignità. La violenza raggiunge il colmo della sua oscenità quando si unisce al più radicale degli errori: il pensare che una cosa sia altro da sé. E che possa infine diventare niente».
intervista di Gian Guido Vecchi
«Quando avremo finalmente il coraggio di guardare verso il fondo dell’abisso?». Emanuele Severino parla quasi tra sé e fissa qualcosa che se non è il fondo in qualche modo ci si avvicina, Lynndie England che tira il guinzaglio legato al collo di un iracheno, il sorriso della soldatessa mentre sta in posa dietro a un groviglio di braccia, gambe, corpi nudi. «Quando l’ho vista per la prima volta ho sperato che fosse soltanto un sorriso ebete, il ghigno di chi non capisce la portata di ciò che accade. Quello che ci indigna, in queste foto, è l’immagine dell’uomo ridotto a un animale sofferente o fatto cosa, un pezzo di carne, un mucchio d’ossa, sangue, urina. Però dissento da chi dice: basta l’orrore per rifiutarlo. No, l’orrore non basta». L’esercizio del pensiero, il lógos . Il più celebrato tra i filosofi italiani fa una pausa e sillaba: «È una violenza puramente occidentale che vediamo all’opera. E sarebbe un’ingenuità altrettanto colpevole addossare tutta la colpa a questi soldati. Tarati e sadici, va bene, è chiaro che vadano puniti. Ma ci facilita il compito pensare che con l’ergastolo o la condanna a morte il problema sia risolto. Non per nulla le grandi religioni lo avvertono, seppure in forma mitica: c’è un peccato originale che si fa sentire dovunque».
E qual è il peccato originale, professore?
«Vede, in queste foto abbiamo una volontà di annientamento del prigioniero: si vuol fare diventare niente la sua dignità. Pensi alla distruzione che si esercitava sull’uomo nei campi di sterminio nazisti: identità, igiene personale, fame, l’annichilimento progressivo dell’altro fino alla morte, finché l’uomo diventa niente . Ecco, la violenza raggiunge il colmo della sua oscenità quando si unisce al più radicale degli errori: il pensare che una cosa sia altro da sé. E che possa infine diventare niente».
Tutto questo è occidentale?
«Sta alle origini della storia ma anche della preistoria dell’Occidente. La radice della volontà che le cose diventino altro, si mostra nel fatto che gli uomini credono di poter sopravvivere mangiando gli dei, facendo diventare identici a se stessi quegli altri che sono gli dei. La manducazione del dio è una costante in tutte le religioni. Ma lo si vede anche nell’omicidio, la storia dell’uomo inizia da Caino e Abele, no? Chi uccide vuole impadronirsi di quel vuoto lasciato dall’altro, assumerne la potenza. Non per nulla le popolazioni primitive si cibano del nemico».
Ma questo non riguarda solo l’Occidente...
«Questa era la preistoria. Con il pensiero greco si aggrava la volontà di far diventare le cose altro da sé: addirittura le si vuol fare diventare niente. Nel Teeteto di Platone si dice: nemmeno chi è pazzo, e nemmeno in sogno, ha il coraggio di dire sul serio a se stesso che il due è uno, che il bove è cavallo... E invece si comincia a pensare che le cose siano l’assolutamente altro da sé. È questa la follia radicale. Noi ci meravigliamo dei comportamenti abnormi, ma questo atteggiamento distruttivo e radicalmente errante non è una deviazione dall’essenza più profonda dal nostro modo di pensare, non è una patologia rispetto alla normalità dell’uomo occidentale: è la radice violenta di ciò che diciamo razionalità, bene, sapienza, bontà... Tutte le categorie positive che elogiamo crescono come rose terribili da un letame ancora più terribile».
Samuel Huntington diceva: non possiamo esportare i nostri valori se vi abdichiamo...
«Nell’indignazione generale c’è una sorta di malafede. Anche il comandamento "non uccidere" ha nella propria anima l’omicidio perché concepisce l’uomo come qualcosa di per sé annientabile».
Ma perché «malafede»?
«La malafede cui mi riferisco io è una inconsapevolezza che dimora nell’inconscio dell’Occidente e agisce con la stessa potenza degli istinti. Non è la malafede consapevole, l’ipocrisia da sepolcro imbiancato. È inconsapevole. Ci sono movimenti nobili che intendono salvare l’uomo come la Chiesa cattolica, ma le grandi forme di nobiltà sono minacciate e destinate al fallimento perché nel sottosuolo hanno quella malafede inconscia che consiste nel pensare l’uomo come un nulla».
Ne I fratelli Karamazov , Ivan parla ad Alësa della sofferenza innocente, le «lacrime irriscattabili». Per le vittime non c’è redenzione?
«Come eterni siamo destinati alla gioia. Anche i bambini di Dostoevskij lo sono».
E intanto che si fa?
«È chiaro che preferisco vivere in America piuttosto che nell’Iraq di Saddam, in democrazia e non nel totalitarismo, con Gesù invece che con Hitler. Ma finché non riusciremo a capire che le grandi opposizioni sono sottese da questo errore-orrore di fondo - il nichilismo -, il nostro tentativo di salvare l’uomo è destinato a fallire. Avremo più o meno potato le fronde, ma non il tronco né le radici dell’albero della malvagità».
IL FILOSOFO SEVERINO
«In quegli atti torna il peccato originale»
«Quando avremo finalmente il coraggio di guardare verso il fondo dell’abisso?»
Il filosofo Emanuele Severino commenta le foto delle torture: «Quello che ci indigna è l’immagine dell’uomo ridotto a un animale sofferente o fatto cosa, un pezzo di carne... Ma non basta l’orrore per rifiutarlo. È una violenza puramente occidentale che vediamo all’opera, una sorta di "peccato originale".
In queste foto abbiamo una volontà di annientamento del prigioniero: si vuol fare diventare niente la sua dignità. La violenza raggiunge il colmo della sua oscenità quando si unisce al più radicale degli errori: il pensare che una cosa sia altro da sé. E che possa infine diventare niente».
intervista di Gian Guido Vecchi
«Quando avremo finalmente il coraggio di guardare verso il fondo dell’abisso?». Emanuele Severino parla quasi tra sé e fissa qualcosa che se non è il fondo in qualche modo ci si avvicina, Lynndie England che tira il guinzaglio legato al collo di un iracheno, il sorriso della soldatessa mentre sta in posa dietro a un groviglio di braccia, gambe, corpi nudi. «Quando l’ho vista per la prima volta ho sperato che fosse soltanto un sorriso ebete, il ghigno di chi non capisce la portata di ciò che accade. Quello che ci indigna, in queste foto, è l’immagine dell’uomo ridotto a un animale sofferente o fatto cosa, un pezzo di carne, un mucchio d’ossa, sangue, urina. Però dissento da chi dice: basta l’orrore per rifiutarlo. No, l’orrore non basta». L’esercizio del pensiero, il lógos . Il più celebrato tra i filosofi italiani fa una pausa e sillaba: «È una violenza puramente occidentale che vediamo all’opera. E sarebbe un’ingenuità altrettanto colpevole addossare tutta la colpa a questi soldati. Tarati e sadici, va bene, è chiaro che vadano puniti. Ma ci facilita il compito pensare che con l’ergastolo o la condanna a morte il problema sia risolto. Non per nulla le grandi religioni lo avvertono, seppure in forma mitica: c’è un peccato originale che si fa sentire dovunque».
E qual è il peccato originale, professore?
«Vede, in queste foto abbiamo una volontà di annientamento del prigioniero: si vuol fare diventare niente la sua dignità. Pensi alla distruzione che si esercitava sull’uomo nei campi di sterminio nazisti: identità, igiene personale, fame, l’annichilimento progressivo dell’altro fino alla morte, finché l’uomo diventa niente . Ecco, la violenza raggiunge il colmo della sua oscenità quando si unisce al più radicale degli errori: il pensare che una cosa sia altro da sé. E che possa infine diventare niente».
Tutto questo è occidentale?
«Sta alle origini della storia ma anche della preistoria dell’Occidente. La radice della volontà che le cose diventino altro, si mostra nel fatto che gli uomini credono di poter sopravvivere mangiando gli dei, facendo diventare identici a se stessi quegli altri che sono gli dei. La manducazione del dio è una costante in tutte le religioni. Ma lo si vede anche nell’omicidio, la storia dell’uomo inizia da Caino e Abele, no? Chi uccide vuole impadronirsi di quel vuoto lasciato dall’altro, assumerne la potenza. Non per nulla le popolazioni primitive si cibano del nemico».
Ma questo non riguarda solo l’Occidente...
«Questa era la preistoria. Con il pensiero greco si aggrava la volontà di far diventare le cose altro da sé: addirittura le si vuol fare diventare niente. Nel Teeteto di Platone si dice: nemmeno chi è pazzo, e nemmeno in sogno, ha il coraggio di dire sul serio a se stesso che il due è uno, che il bove è cavallo... E invece si comincia a pensare che le cose siano l’assolutamente altro da sé. È questa la follia radicale. Noi ci meravigliamo dei comportamenti abnormi, ma questo atteggiamento distruttivo e radicalmente errante non è una deviazione dall’essenza più profonda dal nostro modo di pensare, non è una patologia rispetto alla normalità dell’uomo occidentale: è la radice violenta di ciò che diciamo razionalità, bene, sapienza, bontà... Tutte le categorie positive che elogiamo crescono come rose terribili da un letame ancora più terribile».
Samuel Huntington diceva: non possiamo esportare i nostri valori se vi abdichiamo...
«Nell’indignazione generale c’è una sorta di malafede. Anche il comandamento "non uccidere" ha nella propria anima l’omicidio perché concepisce l’uomo come qualcosa di per sé annientabile».
Ma perché «malafede»?
«La malafede cui mi riferisco io è una inconsapevolezza che dimora nell’inconscio dell’Occidente e agisce con la stessa potenza degli istinti. Non è la malafede consapevole, l’ipocrisia da sepolcro imbiancato. È inconsapevole. Ci sono movimenti nobili che intendono salvare l’uomo come la Chiesa cattolica, ma le grandi forme di nobiltà sono minacciate e destinate al fallimento perché nel sottosuolo hanno quella malafede inconscia che consiste nel pensare l’uomo come un nulla».
Ne I fratelli Karamazov , Ivan parla ad Alësa della sofferenza innocente, le «lacrime irriscattabili». Per le vittime non c’è redenzione?
«Come eterni siamo destinati alla gioia. Anche i bambini di Dostoevskij lo sono».
E intanto che si fa?
«È chiaro che preferisco vivere in America piuttosto che nell’Iraq di Saddam, in democrazia e non nel totalitarismo, con Gesù invece che con Hitler. Ma finché non riusciremo a capire che le grandi opposizioni sono sottese da questo errore-orrore di fondo - il nichilismo -, il nostro tentativo di salvare l’uomo è destinato a fallire. Avremo più o meno potato le fronde, ma non il tronco né le radici dell’albero della malvagità».
Pietro Ingrao
Corriere della Sera 9.5.04
ROMA - Sul palco il leader degli «ultrasinistri», come Pietro Ingrao chiama con affetto i compagni di strada di Fausto Bertinotti, il segretario di Rifondazione sale da presidente in pectore.
(...)
PUGNO ALZATO -Ingrao, classe 1915, entra col pugno alzato, schiena dritta e piccoli passi scanditi da una lunga standing ovation . «Che un uomo con la sua storia decida di essere coinvolto in questa impresa è un fatto enorme» dirà emozionato Bertinotti. Della Quercia di Fassino il grande vecchio del comunismo italiano dice di non condividere nulla, mentre tutto (tranne la tentazione di andare al governo con Prodi) apprezza del Bertinotti di oggi. A cominciare dalla «necessaria» rottura con lo stalinismo.
«Veniamo da una storia grande e terribile, non possiamo andare verso il futuro senza una rottura chiara e irrevocabile con ciò che ha impedito alla nostra storia di essere, per tanta parte dell’umanità, una storia di liberazione» scandisce Bertinotti nel passaggio più applaudito.
(...)
Corriere della Sera 9.5.04
E Ingrao: il comunismo? Non è solo storia, riguarda il futuro
«Mao diceva che la nostra vittoria avrebbe causato milioni di morti»
«Castro? Mai piaciuto. All’Avana, pure gli stabilimenti balneari erano dello Stato. Mi appariva così assurdo, il comunismo dei bagnini. E delle condanne a morte».
Incontro con Pietro Ingrao, 89 anni, al congresso di fondazione della «Sinistra europea»
intervista di Aldo Cazzullo
Il delegato slovacco è in maglietta, il boemo in camicia rossa. Pietro Ingrao ha spessi calzettoni grigi, devono avergli detto di coprirsi bene vista la giornata incerta. Comunisti nuovi e antichi di 16 Paesi fondano alla Domus pacis il partito della Sinistra europea e ne fanno presidente Bertinotti, insieme con pacifisti, cattolici, no global: un partito «né marginale né residuale», che non sia ex di nulla, ancorato a una visione romantica del comunismo che non è stato ma forse sarà. Ingrao è venuto per questo. «Per me comunismo è una parola politica sino a un certo punto. Non riguarda solo la storia ma l’avvenire. È la speranza di un mondo migliore, che non mi ha mai abbandonato e come vede muove ancora molta gente». Ingrao è qui perché rivendica l’interpretazione movimentista del comunismo, e un poco anche quella confusionaria (a guardarla dall’esterno ovviamente). Si riparte da lontano, molto da lontano. Bertinotti condanna lo stalinismo, applaudono tutti anche i perplessi come i delegati boemi, applaude pure Ingrao. Ma non avevate già risolto con il XX Congresso del Pcus, 48 anni fa? «Lo stalinismo è stato un errore così grande che è bene ribadirne il rigetto. Io stesso ho riconosciuto lo sbaglio dopo qualche tempo, ma le cose non erano così semplici. La figura di Stalin non ha un solo volto. Io ho partecipato dell’emozione per la sua morte, perché Stalin era il vincitore del nazismo, l’uomo che aveva preso Berlino. Non ho saputo rompere in tempo, e ora l’età mi restituisce il peso del più grande errore della mia vita. Ma fu un errore diffuso, Togliatti ad esempio era un grande ammiratore di Stalin, e Krusciov ci rimproverò per questo con violenza».
L’alleanza europea della sinistra antagonista appare a Bertinotti l’anticipo di quanto potrà accadere in Italia: Rifondazione, verdi, cossuttiani (assenti) e sinistra Ds (rappresentata dal portavoce Mussi) uniti per contare di più nell’alleanza con Prodi. «Ma sarà una trattativa molto, molto difficile - profetizza Ingrao -. Mi sembrano posizioni così distanti. Io mi trovo bene qui tra gli ultrasinistri; Fassino non so. E anche D’Alema mi pare molto cambiato. L’ho conosciuto a Pisa quando organizzava le lotte del '68, era un buon comunista, figlio di un compagno, ma ora mi sembra piuttosto un centrista. Eppure quando Occhetto annunciò che avrebbe cambiato nome al partito, mentre io ero in Spagna a seppellire la Ibarruri, ricordo che D’Alema espresse le sue giuste perplessità». Chi le piace allora? Castro? «Di Castro ho un’opinione niente affatto buona, e non da ora. Quando andò al potere passai un mese a Cuba, e non mi piacque. Mancava, come dire...». La libertà? «Libertà è una parola grossa. Diciamo che mancava l’articolazione, la differenza. Una voce che non fosse la sua. I comizi li faceva solo lui: ore e ore da solo sul palco. Per riprenderci andavamo a fare il bagno, nelle conche sulla spiaggia dell’Avana. Chiedevo: di chi sono questi stabilimenti? Dello Stato, mi rispondevano. Mi appariva così assurdo. Il comunismo non poteva essere lo Stato che fa il bagnino. Tantomeno lo Stato che condanna a morte».
Tutto quanto appare forse un po’ tardivo, l’autocritica, il rimpianto, l’altra possibilità. Si dicono comunisti anche i cinesi, il primo ministro è qui a Roma. «Ma il loro è un centralismo soffocante» dice Ingrao. Mao invece... «Lo incontrai per la prima volta nel novembre del 1957, dopo il XX congresso e prima della rottura tra sovietici e cinesi: fu l’ultima grande riunione dell’Internazionale comunista. Mao venne a trovare Togliatti e me nella dacia dove alloggiavamo. Era un uomo di grande suggestione, però disse cose terribili: il comunismo vincerà, al prezzo di centinaia di milioni di morti. Mi parve eccessivo. Per fortuna non è andata così». I morti sono stati meno, e il comunismo non ha vinto. «Ma non mi pare che il mondo abbia sconfitto la barbarie. Mi hanno impressionato le immagini della tortura in Iraq. Mi sono ricordato che quando cospiravamo contro il fascismo la nostra paura più grande erano gli interrogatori violenti. Poi arrivarono i nazisti. Via Tasso. La pensione Iaccarino. Anche loro puntavano non solo a far male ai corpi, ma a umiliare il prigioniero, a negarne l’umanità. Ricordo un compagno di 19 anni che si impiccò in carcere per timore della tortura». Furono gli americani a mettere fine a quell’orrore, però. Come si possono accostare ai nazisti? Bush sarà a Roma il 4 giugno a commemorarne la liberazione, Bertinotti annuncia che il partito si unirà alla protesta. «E farà bene. La memoria non è mai separata dal presente. Bush è il capo dell’impero e io non sono nulla, ma se potessi gli chiederei solo: come è stato possibile?».
I delegati dell’Est sono giovanissimi. I palestinesi non sono potuti venire tranne uno, che piange sul palco. Ingrao compirà novant’anni il prossimo 30 marzo. Ha imparato da poco ad andare in motorino, però stavolta il partito gli ha mandato un’auto. «Che vuole, è la vanità umana. Finire sui giornali. Io ho cominciato da giornalista, il 26 luglio del ’43. Quand’ero direttore dell’Unità inventai la diffusione volontaria: anziché al mare, i militanti andavano con le copie sotto il braccio a farsi insultare nei condomini borghesi. L’Unità di oggi non mi dispiace, è sciolta, vivace, però i confronti mi deprimono. Sono diventato deputato nel ’48, ho presieduto la Camera negli anni di piombo, ma non c’è mai stato tra gli schieramenti un clima cupo e chiuso come ora. Gli anni dello scelbismo sono stati durissimi, la polizia sparava sugli operai, però in Parlamento si parlava. Se il mattino accadeva un fatto importante, la sera De Gasperi o il ministro venivano a riferire. Da quanto tempo si attende che Berlusconi spieghi in aula cosa farà in Iraq? Delle torture avete discusso?». Giordano, capogruppo di Rifondazione, fa segno di no.
In platea c'è un altro grande vecchio, Mario Monicelli. Curzi, Manisco, Ritanna Armeni. Israeliani e iracheni i più applauditi. Freccero. Aderiscono la Pds partito erede della Sed di Honecker e la rete Lilliput, il Pcf con la leader Marie-Georges Buffet e la teologa Adriana Zarri. Finlandesi, ciprioti e due delegazioni venezuelane. Agnoletto in giacca e cravatta. Lo slogan è sessantottino, «ce n’est qu’un debut» , ma è un inizio velato di malinconia, a giudicare dai libri sulla bancarella: Euro kaputt ; Game over . La sfida al G-8 ; La fucilazione dell’alpino Ortis ; Il pensionato furioso ; Rifondare è difficile ; La strage infinita . L’Indonesia dal pogrom anticomunista al genocidio di Timor Est ; Lamento in morte di Carlo Giuliani . Marco Ferrando leader dell’opposizione trotzkista distribuisce in proprio la sua opera, L’altra Rifondazione. Anche Ingrao ha la cravatta, un gilet azzurro, una rasatura affrettata che gli ha lasciato qualche ciuffo di peli bianchi. «Buon viaggio compagne e compagni» chiude il neopresidente europeo Bertinotti.
«Ecco, il movimento è importante - chiosa Ingrao -. Questa operazione è necessaria, per rispetto del passato e per preparare l’Europa a modo nostro. Il comunismo per me è speranza, è futuro, perché io sono comunista. Spero anche Bertinotti». Giordano fa segno di sì, va a sapere se è vero.
ROMA - Sul palco il leader degli «ultrasinistri», come Pietro Ingrao chiama con affetto i compagni di strada di Fausto Bertinotti, il segretario di Rifondazione sale da presidente in pectore.
(...)
PUGNO ALZATO -Ingrao, classe 1915, entra col pugno alzato, schiena dritta e piccoli passi scanditi da una lunga standing ovation . «Che un uomo con la sua storia decida di essere coinvolto in questa impresa è un fatto enorme» dirà emozionato Bertinotti. Della Quercia di Fassino il grande vecchio del comunismo italiano dice di non condividere nulla, mentre tutto (tranne la tentazione di andare al governo con Prodi) apprezza del Bertinotti di oggi. A cominciare dalla «necessaria» rottura con lo stalinismo.
«Veniamo da una storia grande e terribile, non possiamo andare verso il futuro senza una rottura chiara e irrevocabile con ciò che ha impedito alla nostra storia di essere, per tanta parte dell’umanità, una storia di liberazione» scandisce Bertinotti nel passaggio più applaudito.
(...)
Corriere della Sera 9.5.04
E Ingrao: il comunismo? Non è solo storia, riguarda il futuro
«Mao diceva che la nostra vittoria avrebbe causato milioni di morti»
«Castro? Mai piaciuto. All’Avana, pure gli stabilimenti balneari erano dello Stato. Mi appariva così assurdo, il comunismo dei bagnini. E delle condanne a morte».
Incontro con Pietro Ingrao, 89 anni, al congresso di fondazione della «Sinistra europea»
intervista di Aldo Cazzullo
Il delegato slovacco è in maglietta, il boemo in camicia rossa. Pietro Ingrao ha spessi calzettoni grigi, devono avergli detto di coprirsi bene vista la giornata incerta. Comunisti nuovi e antichi di 16 Paesi fondano alla Domus pacis il partito della Sinistra europea e ne fanno presidente Bertinotti, insieme con pacifisti, cattolici, no global: un partito «né marginale né residuale», che non sia ex di nulla, ancorato a una visione romantica del comunismo che non è stato ma forse sarà. Ingrao è venuto per questo. «Per me comunismo è una parola politica sino a un certo punto. Non riguarda solo la storia ma l’avvenire. È la speranza di un mondo migliore, che non mi ha mai abbandonato e come vede muove ancora molta gente». Ingrao è qui perché rivendica l’interpretazione movimentista del comunismo, e un poco anche quella confusionaria (a guardarla dall’esterno ovviamente). Si riparte da lontano, molto da lontano. Bertinotti condanna lo stalinismo, applaudono tutti anche i perplessi come i delegati boemi, applaude pure Ingrao. Ma non avevate già risolto con il XX Congresso del Pcus, 48 anni fa? «Lo stalinismo è stato un errore così grande che è bene ribadirne il rigetto. Io stesso ho riconosciuto lo sbaglio dopo qualche tempo, ma le cose non erano così semplici. La figura di Stalin non ha un solo volto. Io ho partecipato dell’emozione per la sua morte, perché Stalin era il vincitore del nazismo, l’uomo che aveva preso Berlino. Non ho saputo rompere in tempo, e ora l’età mi restituisce il peso del più grande errore della mia vita. Ma fu un errore diffuso, Togliatti ad esempio era un grande ammiratore di Stalin, e Krusciov ci rimproverò per questo con violenza».
L’alleanza europea della sinistra antagonista appare a Bertinotti l’anticipo di quanto potrà accadere in Italia: Rifondazione, verdi, cossuttiani (assenti) e sinistra Ds (rappresentata dal portavoce Mussi) uniti per contare di più nell’alleanza con Prodi. «Ma sarà una trattativa molto, molto difficile - profetizza Ingrao -. Mi sembrano posizioni così distanti. Io mi trovo bene qui tra gli ultrasinistri; Fassino non so. E anche D’Alema mi pare molto cambiato. L’ho conosciuto a Pisa quando organizzava le lotte del '68, era un buon comunista, figlio di un compagno, ma ora mi sembra piuttosto un centrista. Eppure quando Occhetto annunciò che avrebbe cambiato nome al partito, mentre io ero in Spagna a seppellire la Ibarruri, ricordo che D’Alema espresse le sue giuste perplessità». Chi le piace allora? Castro? «Di Castro ho un’opinione niente affatto buona, e non da ora. Quando andò al potere passai un mese a Cuba, e non mi piacque. Mancava, come dire...». La libertà? «Libertà è una parola grossa. Diciamo che mancava l’articolazione, la differenza. Una voce che non fosse la sua. I comizi li faceva solo lui: ore e ore da solo sul palco. Per riprenderci andavamo a fare il bagno, nelle conche sulla spiaggia dell’Avana. Chiedevo: di chi sono questi stabilimenti? Dello Stato, mi rispondevano. Mi appariva così assurdo. Il comunismo non poteva essere lo Stato che fa il bagnino. Tantomeno lo Stato che condanna a morte».
Tutto quanto appare forse un po’ tardivo, l’autocritica, il rimpianto, l’altra possibilità. Si dicono comunisti anche i cinesi, il primo ministro è qui a Roma. «Ma il loro è un centralismo soffocante» dice Ingrao. Mao invece... «Lo incontrai per la prima volta nel novembre del 1957, dopo il XX congresso e prima della rottura tra sovietici e cinesi: fu l’ultima grande riunione dell’Internazionale comunista. Mao venne a trovare Togliatti e me nella dacia dove alloggiavamo. Era un uomo di grande suggestione, però disse cose terribili: il comunismo vincerà, al prezzo di centinaia di milioni di morti. Mi parve eccessivo. Per fortuna non è andata così». I morti sono stati meno, e il comunismo non ha vinto. «Ma non mi pare che il mondo abbia sconfitto la barbarie. Mi hanno impressionato le immagini della tortura in Iraq. Mi sono ricordato che quando cospiravamo contro il fascismo la nostra paura più grande erano gli interrogatori violenti. Poi arrivarono i nazisti. Via Tasso. La pensione Iaccarino. Anche loro puntavano non solo a far male ai corpi, ma a umiliare il prigioniero, a negarne l’umanità. Ricordo un compagno di 19 anni che si impiccò in carcere per timore della tortura». Furono gli americani a mettere fine a quell’orrore, però. Come si possono accostare ai nazisti? Bush sarà a Roma il 4 giugno a commemorarne la liberazione, Bertinotti annuncia che il partito si unirà alla protesta. «E farà bene. La memoria non è mai separata dal presente. Bush è il capo dell’impero e io non sono nulla, ma se potessi gli chiederei solo: come è stato possibile?».
I delegati dell’Est sono giovanissimi. I palestinesi non sono potuti venire tranne uno, che piange sul palco. Ingrao compirà novant’anni il prossimo 30 marzo. Ha imparato da poco ad andare in motorino, però stavolta il partito gli ha mandato un’auto. «Che vuole, è la vanità umana. Finire sui giornali. Io ho cominciato da giornalista, il 26 luglio del ’43. Quand’ero direttore dell’Unità inventai la diffusione volontaria: anziché al mare, i militanti andavano con le copie sotto il braccio a farsi insultare nei condomini borghesi. L’Unità di oggi non mi dispiace, è sciolta, vivace, però i confronti mi deprimono. Sono diventato deputato nel ’48, ho presieduto la Camera negli anni di piombo, ma non c’è mai stato tra gli schieramenti un clima cupo e chiuso come ora. Gli anni dello scelbismo sono stati durissimi, la polizia sparava sugli operai, però in Parlamento si parlava. Se il mattino accadeva un fatto importante, la sera De Gasperi o il ministro venivano a riferire. Da quanto tempo si attende che Berlusconi spieghi in aula cosa farà in Iraq? Delle torture avete discusso?». Giordano, capogruppo di Rifondazione, fa segno di no.
In platea c'è un altro grande vecchio, Mario Monicelli. Curzi, Manisco, Ritanna Armeni. Israeliani e iracheni i più applauditi. Freccero. Aderiscono la Pds partito erede della Sed di Honecker e la rete Lilliput, il Pcf con la leader Marie-Georges Buffet e la teologa Adriana Zarri. Finlandesi, ciprioti e due delegazioni venezuelane. Agnoletto in giacca e cravatta. Lo slogan è sessantottino, «ce n’est qu’un debut» , ma è un inizio velato di malinconia, a giudicare dai libri sulla bancarella: Euro kaputt ; Game over . La sfida al G-8 ; La fucilazione dell’alpino Ortis ; Il pensionato furioso ; Rifondare è difficile ; La strage infinita . L’Indonesia dal pogrom anticomunista al genocidio di Timor Est ; Lamento in morte di Carlo Giuliani . Marco Ferrando leader dell’opposizione trotzkista distribuisce in proprio la sua opera, L’altra Rifondazione. Anche Ingrao ha la cravatta, un gilet azzurro, una rasatura affrettata che gli ha lasciato qualche ciuffo di peli bianchi. «Buon viaggio compagne e compagni» chiude il neopresidente europeo Bertinotti.
«Ecco, il movimento è importante - chiosa Ingrao -. Questa operazione è necessaria, per rispetto del passato e per preparare l’Europa a modo nostro. Il comunismo per me è speranza, è futuro, perché io sono comunista. Spero anche Bertinotti». Giordano fa segno di sì, va a sapere se è vero.
Pietro Barcellona
Repubblica, ed. di Palermo 9.5.04
Pietro Barcellona. Il professore comunista che indaga sull'attualità
Docente di diritto all'Ateneo di Catania è stato segretario cittadino e deputato del Pci. Dal 1997 non ha più alcuna tessera
Ateo e autodidatta i suoi grandi amori sono sempre stati la filosofia la psicanalisi la politica e la pittura
dilettante: Sono un dilettante di professione: mi interesso di tante cose, ma sempre a mezzo servizio
marxismo: Capisco rivedere il marxismo, ma i Ds stanno troncando ogni rapporto con la giustizia sociale
di AUGUSTO CAVADI
DA 40 anni partecipa al dibattito culturale e politico europeo, insistendo soprattutto sul paradosso dello Stato che si proclama difensore del cittadino ma, in realtà, lo impoverisce dei legami sociali e lo trita nei propri meccanismi. I titoli di alcuni libri, come L´individualismo proprietario del 1987, sono diventati formule di uso comune. Conosciutolo in qualche convegno, avevo ricavato l´impressione di una persona autorevole («Più che parlare, pensa a voce alta» commentava una studentessa alla fine di una sua conferenza), ma un po´ scostante.
Adesso, per la prima volta, incontro Pietro Barcellona senza l´apparato ufficiale di tavoli e pedane che lo innalzano - e un po´ lo isolano: e mi sembra più piccolo, più accessibile. Direi - con quel sorriso da bambino furbo ma mite - un po´ indifeso.
Gli chiedo se la sua vocazione originaria siano stati i libri o le battaglie politiche. «Tutto è cominciato con una lite. Mio padre mi aveva iscritto dai Salesiani e, in effetti, ho trovato un bravo religioso che insegnava filosofia. Ma, quando gli ho detto che il peccato originale era solo un´invenzione per mantenere la gente in stato di soggezione, abbiamo rotto. Diventai ateo, ma anche autodidatta. Un conoscente mi concesse di spulciare fra gli scaffali dove i libri dell´Einaudi aspettavano di essere distribuiti per la Sicilia orientale: e fu per me la scoperta del mondo. Procedevo nel disordine più totale: folgorato da Kierkegaard, saltavo da Freud alla teologia protestante del XX secolo, senza conoscere Hegel. Avvertii la vera passione della mia vita: indagare con curiosità il mio tempo, fare - per dirla con Foucault - la diagnosi dell´attualità. Mi confrontavo anche con il padre di un mio amico, il professor Giacobbe, indimenticabile figura di ebreo comunista. Dopo la laurea mio padre impose un ultimatum: o diventi insegnante entro pochi anni o vieni a lavorare nel mio studio di avvocato. Mi gettai allora a capofitto nel diritto, vinsi la cattedra universitaria e mi resi autonomo: potevo spaziare intellettualmente, senza rendere conto a nessuno, inseguendo i miei interrogativi più disparati. Da allora sono rimasto un dilettante di professione: mi interesso di tante cose, ma sempre a mezzo servizio. Con serietà, ma solo per diletto». Uno dei suoi primi scritti tocca l´economia e il grande Federico Caffè lo chiama per dirgli: «Il saggio d´interesse, che è l´argomento del tuo saggio, non l´hai capito bene: ma per il resto hai intuizioni davvero interessanti». La filosofia, la psicanalisi (soprattutto mediata da Castoriadis, l´esule greco che fonda a Parigi - con Lefort e Morin - la celebre rivista "Socialismo o barbarie"), la politica: questi tre amori ne fanno un meticcio della ricerca.
Ma nel 1973 la svolta della sua vita: l´intreccio intellettuale si complica, e si arricchisce, diventando anche impasto con la pratica. Barcellona organizza a Catania un convegno europeo sull´uso alternativo del diritto. Secondo il suo stile - guardare i saperi andando oltre i saperi - vuole soppesare il diritto per svelarne presupposti impliciti e conseguenze sociali. La risonanza dell´avvenimento (Laterza pubblica gli interventi più significativi) gli attira le ire dei fascisti: dunque anche minacce, anche aggressioni. Il Pci, vedendolo isolato all´interno di una facoltà «che è stata sempre conformista e tradizionalista», gli propone la tessera: un modo per proteggerlo, ma anche per fruirne la vivacità propositiva. Accetta ed è subito cooptato nel comitato regionale. «Conobbi Ingrao, ne divenni amico, seguii le sue richieste: segretario cittadino del partito, poi membro laico al Csm, poi parlamentare. L´esperienza della prassi mi ha arricchito come uomo e come pensatore. Venivo da una famiglia borghese, non parlavamo neppure il dialetto, avevo una visione astratta della società. Come militante fui costretto a immergermi nella concretezza del "popolo" effettivo. Ingrao mi aveva raccomandato che, da segretario cittadino, avrei dovuto almeno incendiare il municipio: mi limitai a occuparlo con i senza-casa delle periferie. In giro per le sezioni mi facevano mangiare il "sangele", una sorta di budello pieno di sangue bovino: poi, a casa, stavo davvero male. Però questa contaminazione vitale mi liberava dal radicalismo dei teorici. Gradualmente, ma irreversibilmente, capivo che la politica è mediazione nel senso alto della parola: meglio amministrare decentemente una città che morire da eroi all´opposizione. Tutto ciò ha modificato anche il mio modo di vedere il mondo: non da una sola angolazione, ma da molte e differenti».
Gli chiedo come visse la svolta del Partito comunista alla Bolognina. «È stata una scelta devastante - risponde - Che il marxismo dovesse essere ripensato non c´era dubbio. Ma Occhetto ha inanellato un errore dopo l´altro. Intanto, all´interno, ha travisato la posizione di quanti da anni lavoravamo con Ingrao, al Centro per la riforma dello Stato, per una revisione delle dottrine classiche in chiave critica: ha accusato di "conservatorismo" proprio noi che avevano ideato e realizzato le aperture più coraggiose, coinvolgendo ad esempio gli indipendenti di sinistra come Rodotà. Poi, all´esterno, ha cominciato a chiedere perdono per crimini che il Partito comunista italiano non ha mai perpetrato. Si è vergognato di una tradizione gloriosa. Ero e sono convinto, al contrario, che il Pci - come del resto la Dc - non sono stati bande di delinquenti, ma i pilastri della democrazia italiana. Il Pci non è stato mai leninista: se mai, ma senza dogmatismi, gramsciano».
Eppure, «più ingraiano di Ingrao», Barcellona resta nel partito per altri cinque anni. Non va con Rifondazione («Credevo nella necessità di non frantumare l´unità. E poi non mi ha mai convinto l´estremismo di Bertinotti: la politica non si fa sperando di non arrivare mai al potere, se no è testimonianza»). Accetta, uscito Ingrao, di presiedere il Centro per la riforma dello Stato: ma - «a riprova del fatto di essere uno sciamano, non un capo» - «combino un po´ di guai e mi sfiduciano. Tra l´altro, in quegli anni, sono stato molto critico verso l´inedito matrimonio fra sinistra e giustizialismo. Il Pds ha dimenticato la differenza fra diritto e politica, affidando ai magistrati il compito di abbattere gli avversari. Ha dimenticato che il giudice deve reprimere i reati individuali, non riformare i sistemi. Cancellare il confine fra la giustizia e la politica significa aprire la strada al berlusconismo: farsi le leggi a propria misura, in nome del consenso elettorale, è la perversione opposta, ma simmetrica, di chi ha delegato al protagonismo dei giudici la lotta politica. Urge ristabilire la differenza fra la regola e la forza: altrimenti ci condanniamo definitivamente all´imbarbarimento della vita civile consumato da Bush a livello mondiale e dai suoi mediocri imitatori a livello nazionale».
Dal 1997 non prende più nessuna tessera: «Capisco rivedere il marxismo, io stesso adesso mi definirei comunista solo in quanto ho una visione umanistica del cosmo. In quanto penso che l´uomo in carne e ossa debba avere la priorità rispetto alle leggi dell´economia capitalistica. Ma non si può abbandonare anche questa priorità per inseguire le mode americane. Su questo punto aveva ragione Augusto Del Noce quando avvertiva, da cattolico molto tradizionalista, che se il comunismo storico avesse perduto ogni fondazione etica si sarebbe ridotto all´alienazione del consumismo. Che hanno fatto i Ds? Stanno troncando ogni rapporto con la giustizia sociale?». Senza più tessere in tasca, da «comunista privato», si dedica a due progetti che gli stanno molto a cuore.
Il primo lo riguarda come docente dell´Università di Catania dove, con altri colleghi, si attiva per la fondazione del Centro Braudel perché «il Mediterraneo è un meraviglioso laboratorio di coesistenza degli opposti. È il luogo dove il conflitto non è negato, ma - come nella tragedia - rappresentato. E, per ciò stesso, in qualche misura, controllato». Mi consegna un dossier con la programmazione del Centro: gruppi di ricerca in varie università europee, colloqui internazionali, corsi di dottorato, master. Vedo che ricorre insistentemente la questione del rapporto fra globalizzazione e processi locali. «In effetti - aggiunge - il mondo si cambia a partire dalla propria relazione col vicino di casa: troppe persone sono generose con gli abitanti del Chiapas e fetenti col venditore ambulante dell´angolo».
Del secondo ambito di attività, che lo riguarda nella sfera più privata, parla con un pizzico di pudore ma con la malcelata soddisfazione di chi si appresta a stupire ancora una volta. «Sì, lo confesso con piacere: sono anche un pittore. Ho esposto in varie città, di recente anche a Roma e a Firenze. Sarei contento di far conoscere i miei quadri pure a Palermo. Ma, secondo i luoghi, bisognerebbe operare una selezione. Forse certi nudi risulterebbero troppo audaci?».
L´accenno alla pittura non è una nota, per così dire, di colore. Forse è l´esplicazione migliore di quello che, nel corso della conversazione, Barcellona mi aveva sottolineato come il filo rosso della sua caleidoscopica riflessione: «La minaccia epocale è oggi lo scientismo che comprime tutto alle sole dimensioni della scienza e della tecnica. Il mito americano ha successo presso i superficiali perché esalta lo strapotere dell´uomo sulla natura. Ma questo è gravemente riduttivo dell´uomo stesso. Non siamo riducibili solo al razionale e al funzionale: siamo anche magma immaginativo, macchina di simboli, eredità mitica».
Pietro Barcellona. Il professore comunista che indaga sull'attualità
Docente di diritto all'Ateneo di Catania è stato segretario cittadino e deputato del Pci. Dal 1997 non ha più alcuna tessera
Ateo e autodidatta i suoi grandi amori sono sempre stati la filosofia la psicanalisi la politica e la pittura
dilettante: Sono un dilettante di professione: mi interesso di tante cose, ma sempre a mezzo servizio
marxismo: Capisco rivedere il marxismo, ma i Ds stanno troncando ogni rapporto con la giustizia sociale
di AUGUSTO CAVADI
DA 40 anni partecipa al dibattito culturale e politico europeo, insistendo soprattutto sul paradosso dello Stato che si proclama difensore del cittadino ma, in realtà, lo impoverisce dei legami sociali e lo trita nei propri meccanismi. I titoli di alcuni libri, come L´individualismo proprietario del 1987, sono diventati formule di uso comune. Conosciutolo in qualche convegno, avevo ricavato l´impressione di una persona autorevole («Più che parlare, pensa a voce alta» commentava una studentessa alla fine di una sua conferenza), ma un po´ scostante.
Adesso, per la prima volta, incontro Pietro Barcellona senza l´apparato ufficiale di tavoli e pedane che lo innalzano - e un po´ lo isolano: e mi sembra più piccolo, più accessibile. Direi - con quel sorriso da bambino furbo ma mite - un po´ indifeso.
Gli chiedo se la sua vocazione originaria siano stati i libri o le battaglie politiche. «Tutto è cominciato con una lite. Mio padre mi aveva iscritto dai Salesiani e, in effetti, ho trovato un bravo religioso che insegnava filosofia. Ma, quando gli ho detto che il peccato originale era solo un´invenzione per mantenere la gente in stato di soggezione, abbiamo rotto. Diventai ateo, ma anche autodidatta. Un conoscente mi concesse di spulciare fra gli scaffali dove i libri dell´Einaudi aspettavano di essere distribuiti per la Sicilia orientale: e fu per me la scoperta del mondo. Procedevo nel disordine più totale: folgorato da Kierkegaard, saltavo da Freud alla teologia protestante del XX secolo, senza conoscere Hegel. Avvertii la vera passione della mia vita: indagare con curiosità il mio tempo, fare - per dirla con Foucault - la diagnosi dell´attualità. Mi confrontavo anche con il padre di un mio amico, il professor Giacobbe, indimenticabile figura di ebreo comunista. Dopo la laurea mio padre impose un ultimatum: o diventi insegnante entro pochi anni o vieni a lavorare nel mio studio di avvocato. Mi gettai allora a capofitto nel diritto, vinsi la cattedra universitaria e mi resi autonomo: potevo spaziare intellettualmente, senza rendere conto a nessuno, inseguendo i miei interrogativi più disparati. Da allora sono rimasto un dilettante di professione: mi interesso di tante cose, ma sempre a mezzo servizio. Con serietà, ma solo per diletto». Uno dei suoi primi scritti tocca l´economia e il grande Federico Caffè lo chiama per dirgli: «Il saggio d´interesse, che è l´argomento del tuo saggio, non l´hai capito bene: ma per il resto hai intuizioni davvero interessanti». La filosofia, la psicanalisi (soprattutto mediata da Castoriadis, l´esule greco che fonda a Parigi - con Lefort e Morin - la celebre rivista "Socialismo o barbarie"), la politica: questi tre amori ne fanno un meticcio della ricerca.
Ma nel 1973 la svolta della sua vita: l´intreccio intellettuale si complica, e si arricchisce, diventando anche impasto con la pratica. Barcellona organizza a Catania un convegno europeo sull´uso alternativo del diritto. Secondo il suo stile - guardare i saperi andando oltre i saperi - vuole soppesare il diritto per svelarne presupposti impliciti e conseguenze sociali. La risonanza dell´avvenimento (Laterza pubblica gli interventi più significativi) gli attira le ire dei fascisti: dunque anche minacce, anche aggressioni. Il Pci, vedendolo isolato all´interno di una facoltà «che è stata sempre conformista e tradizionalista», gli propone la tessera: un modo per proteggerlo, ma anche per fruirne la vivacità propositiva. Accetta ed è subito cooptato nel comitato regionale. «Conobbi Ingrao, ne divenni amico, seguii le sue richieste: segretario cittadino del partito, poi membro laico al Csm, poi parlamentare. L´esperienza della prassi mi ha arricchito come uomo e come pensatore. Venivo da una famiglia borghese, non parlavamo neppure il dialetto, avevo una visione astratta della società. Come militante fui costretto a immergermi nella concretezza del "popolo" effettivo. Ingrao mi aveva raccomandato che, da segretario cittadino, avrei dovuto almeno incendiare il municipio: mi limitai a occuparlo con i senza-casa delle periferie. In giro per le sezioni mi facevano mangiare il "sangele", una sorta di budello pieno di sangue bovino: poi, a casa, stavo davvero male. Però questa contaminazione vitale mi liberava dal radicalismo dei teorici. Gradualmente, ma irreversibilmente, capivo che la politica è mediazione nel senso alto della parola: meglio amministrare decentemente una città che morire da eroi all´opposizione. Tutto ciò ha modificato anche il mio modo di vedere il mondo: non da una sola angolazione, ma da molte e differenti».
Gli chiedo come visse la svolta del Partito comunista alla Bolognina. «È stata una scelta devastante - risponde - Che il marxismo dovesse essere ripensato non c´era dubbio. Ma Occhetto ha inanellato un errore dopo l´altro. Intanto, all´interno, ha travisato la posizione di quanti da anni lavoravamo con Ingrao, al Centro per la riforma dello Stato, per una revisione delle dottrine classiche in chiave critica: ha accusato di "conservatorismo" proprio noi che avevano ideato e realizzato le aperture più coraggiose, coinvolgendo ad esempio gli indipendenti di sinistra come Rodotà. Poi, all´esterno, ha cominciato a chiedere perdono per crimini che il Partito comunista italiano non ha mai perpetrato. Si è vergognato di una tradizione gloriosa. Ero e sono convinto, al contrario, che il Pci - come del resto la Dc - non sono stati bande di delinquenti, ma i pilastri della democrazia italiana. Il Pci non è stato mai leninista: se mai, ma senza dogmatismi, gramsciano».
Eppure, «più ingraiano di Ingrao», Barcellona resta nel partito per altri cinque anni. Non va con Rifondazione («Credevo nella necessità di non frantumare l´unità. E poi non mi ha mai convinto l´estremismo di Bertinotti: la politica non si fa sperando di non arrivare mai al potere, se no è testimonianza»). Accetta, uscito Ingrao, di presiedere il Centro per la riforma dello Stato: ma - «a riprova del fatto di essere uno sciamano, non un capo» - «combino un po´ di guai e mi sfiduciano. Tra l´altro, in quegli anni, sono stato molto critico verso l´inedito matrimonio fra sinistra e giustizialismo. Il Pds ha dimenticato la differenza fra diritto e politica, affidando ai magistrati il compito di abbattere gli avversari. Ha dimenticato che il giudice deve reprimere i reati individuali, non riformare i sistemi. Cancellare il confine fra la giustizia e la politica significa aprire la strada al berlusconismo: farsi le leggi a propria misura, in nome del consenso elettorale, è la perversione opposta, ma simmetrica, di chi ha delegato al protagonismo dei giudici la lotta politica. Urge ristabilire la differenza fra la regola e la forza: altrimenti ci condanniamo definitivamente all´imbarbarimento della vita civile consumato da Bush a livello mondiale e dai suoi mediocri imitatori a livello nazionale».
Dal 1997 non prende più nessuna tessera: «Capisco rivedere il marxismo, io stesso adesso mi definirei comunista solo in quanto ho una visione umanistica del cosmo. In quanto penso che l´uomo in carne e ossa debba avere la priorità rispetto alle leggi dell´economia capitalistica. Ma non si può abbandonare anche questa priorità per inseguire le mode americane. Su questo punto aveva ragione Augusto Del Noce quando avvertiva, da cattolico molto tradizionalista, che se il comunismo storico avesse perduto ogni fondazione etica si sarebbe ridotto all´alienazione del consumismo. Che hanno fatto i Ds? Stanno troncando ogni rapporto con la giustizia sociale?». Senza più tessere in tasca, da «comunista privato», si dedica a due progetti che gli stanno molto a cuore.
Il primo lo riguarda come docente dell´Università di Catania dove, con altri colleghi, si attiva per la fondazione del Centro Braudel perché «il Mediterraneo è un meraviglioso laboratorio di coesistenza degli opposti. È il luogo dove il conflitto non è negato, ma - come nella tragedia - rappresentato. E, per ciò stesso, in qualche misura, controllato». Mi consegna un dossier con la programmazione del Centro: gruppi di ricerca in varie università europee, colloqui internazionali, corsi di dottorato, master. Vedo che ricorre insistentemente la questione del rapporto fra globalizzazione e processi locali. «In effetti - aggiunge - il mondo si cambia a partire dalla propria relazione col vicino di casa: troppe persone sono generose con gli abitanti del Chiapas e fetenti col venditore ambulante dell´angolo».
Del secondo ambito di attività, che lo riguarda nella sfera più privata, parla con un pizzico di pudore ma con la malcelata soddisfazione di chi si appresta a stupire ancora una volta. «Sì, lo confesso con piacere: sono anche un pittore. Ho esposto in varie città, di recente anche a Roma e a Firenze. Sarei contento di far conoscere i miei quadri pure a Palermo. Ma, secondo i luoghi, bisognerebbe operare una selezione. Forse certi nudi risulterebbero troppo audaci?».
L´accenno alla pittura non è una nota, per così dire, di colore. Forse è l´esplicazione migliore di quello che, nel corso della conversazione, Barcellona mi aveva sottolineato come il filo rosso della sua caleidoscopica riflessione: «La minaccia epocale è oggi lo scientismo che comprime tutto alle sole dimensioni della scienza e della tecnica. Il mito americano ha successo presso i superficiali perché esalta lo strapotere dell´uomo sulla natura. Ma questo è gravemente riduttivo dell´uomo stesso. Non siamo riducibili solo al razionale e al funzionale: siamo anche magma immaginativo, macchina di simboli, eredità mitica».
«l'indifferenza di Caino»
Corriere della Sera 9.5.04
L’indifferenza di Caino
di ENZO BIAGI
Tema di questi giorni: la tortura. Protagonisti: gli Usa. Vittime della crudeltà: i prigionieri iracheni. Certe storie si ripetono. Trent’anni fa, a Parigi, andai a trovare Henri Alleg, alla redazione dell’ Humanité . Lo avevano arrestato ad Algeri durante l’estate 1957. Fu preso dai paracadutisti di Massu, lo portarono a El Biar, che era un posto di raccolta per quelli del Fronte di liberazione.
Alleg, piccolo, un po’ rotondo, sorridente, mi raccontò: «I fatti? Venivamo denudati, legati a un’asse marcia per i vomiti di quelli che c’erano passati prima, e poi lasciati così per ore, con certi tipi attorno che ci incitavano a parlare. Speravano bastasse la paura. Niente? E allora si passava agli esercizi, all’elettricità. Appendevano il prigioniero per i piedi, lo bruciavano con torce di carta: lo hanno fatto anche con me. Quando si sono contemplate delle cose orribili, quando le hai guardate, vissute su di te, si spera soprattutto che ciò non debba mai accadere ai tuoi figli, a nessuno su questa terra».
Ne parlai con Pierre Vidal-Naquet: insegnava storia romana all’università e aveva pubblicato un saggio sul problema. «Sono le ideologie stesse che prendono un aspetto totalitario. Si può torturare quando si crede di avere ragione, e sono molti quelli che credono di essere possessori della verità. E, quando si è tutori di una certezza, si ha la tendenza a imporla a chi non la riconosce».
La sociologia, la psicologia, la scienza spiegano quasi tutto, anche l’indifferenza e lo spirito di legittimità di cui è pervaso Caino che in qualche modo si presenta addirittura nelle vesti del salvatore e sempre dell’idealista.
Si è inventato anche un linguaggio: in gergo militare si dice «assumere informazioni», in quello giuridico e poliziesco «porre domande»; «torturare» è un verbo che si coniuga soltanto riferito ad altri.
L’indifferenza di Caino
di ENZO BIAGI
Tema di questi giorni: la tortura. Protagonisti: gli Usa. Vittime della crudeltà: i prigionieri iracheni. Certe storie si ripetono. Trent’anni fa, a Parigi, andai a trovare Henri Alleg, alla redazione dell’ Humanité . Lo avevano arrestato ad Algeri durante l’estate 1957. Fu preso dai paracadutisti di Massu, lo portarono a El Biar, che era un posto di raccolta per quelli del Fronte di liberazione.
Alleg, piccolo, un po’ rotondo, sorridente, mi raccontò: «I fatti? Venivamo denudati, legati a un’asse marcia per i vomiti di quelli che c’erano passati prima, e poi lasciati così per ore, con certi tipi attorno che ci incitavano a parlare. Speravano bastasse la paura. Niente? E allora si passava agli esercizi, all’elettricità. Appendevano il prigioniero per i piedi, lo bruciavano con torce di carta: lo hanno fatto anche con me. Quando si sono contemplate delle cose orribili, quando le hai guardate, vissute su di te, si spera soprattutto che ciò non debba mai accadere ai tuoi figli, a nessuno su questa terra».
Ne parlai con Pierre Vidal-Naquet: insegnava storia romana all’università e aveva pubblicato un saggio sul problema. «Sono le ideologie stesse che prendono un aspetto totalitario. Si può torturare quando si crede di avere ragione, e sono molti quelli che credono di essere possessori della verità. E, quando si è tutori di una certezza, si ha la tendenza a imporla a chi non la riconosce».
La sociologia, la psicologia, la scienza spiegano quasi tutto, anche l’indifferenza e lo spirito di legittimità di cui è pervaso Caino che in qualche modo si presenta addirittura nelle vesti del salvatore e sempre dell’idealista.
Si è inventato anche un linguaggio: in gergo militare si dice «assumere informazioni», in quello giuridico e poliziesco «porre domande»; «torturare» è un verbo che si coniuga soltanto riferito ad altri.
vedere... toccare...
Repubblica 9.5.04
LO STUDIO
I risultati di un esperimento sui non vedenti
"La vista e il tatto ci trasmettono la stessa immagine"
La ricerca è stata svolta dall'ateneo di Pisa con la risonanza magnetica
ROMA - Guardare un oggetto con gli occhi o toccarlo con le mani: per il cervello non esiste molta differenza. L´immagine della realtà, ricostruita dal nostro organo del pensiero, non cambia se a fornire informazioni è un senso piuttosto che un altro. Questa la conclusione di uno studio dell´università di Pisa (in collaborazione con uno psicologo dell´università di Princeton) apparso a marzo su Proceedings of the national academy of sciences. «Abbiamo dimostrato - sintetizza Pietro Pietrini, coordinatore dell´equipe - che è possibile «vedere con le mani». Quando un non vedente o un uomo bendato analizzano la forma di un oggetto, poniamo una bottiglia, toccandolo con i polpastrelli, nella loro corteccia cerebrale si forma l´immagine della bottiglia. Quest´immagine è sostanzialmente identica a quella di una persona che osserva la bottiglia con gli occhi. Cambia il canale di afferenza delle informazioni, ma non il risultato finale».
I risultati sono stati ottenuti utilizzando immagini di risonanza magnetica. Ai volontari, in parte vedenti (bendati negli esperimenti), in parte non vedenti dalla nascita, è stato chiesto di riconoscere al tatto degli oggetti comuni come bottiglie o scarpe e delle maschere che rappresentavano dei visi. La scoperta, prosegue Pietrini, «apre la strada a nuove strategie di riabilitazione dei non vedenti». Le capacità di adattamento delle persone prive della vista già oggi rappresentano uno degli esempi più evidenti di plasticità cerebrale. «I nostri risultati - si legge nell´articolo - dimostrano che il cervello è organizzato in maniera molto più complessa rispetto a quanto sapevamo finora. Quella che siamo abituati a chiamare corteccia «visiva» appare in realtà indipendente dalla modalità sensoriale che fornisce informazioni.
(e.d.)
LO STUDIO
I risultati di un esperimento sui non vedenti
"La vista e il tatto ci trasmettono la stessa immagine"
La ricerca è stata svolta dall'ateneo di Pisa con la risonanza magnetica
ROMA - Guardare un oggetto con gli occhi o toccarlo con le mani: per il cervello non esiste molta differenza. L´immagine della realtà, ricostruita dal nostro organo del pensiero, non cambia se a fornire informazioni è un senso piuttosto che un altro. Questa la conclusione di uno studio dell´università di Pisa (in collaborazione con uno psicologo dell´università di Princeton) apparso a marzo su Proceedings of the national academy of sciences. «Abbiamo dimostrato - sintetizza Pietro Pietrini, coordinatore dell´equipe - che è possibile «vedere con le mani». Quando un non vedente o un uomo bendato analizzano la forma di un oggetto, poniamo una bottiglia, toccandolo con i polpastrelli, nella loro corteccia cerebrale si forma l´immagine della bottiglia. Quest´immagine è sostanzialmente identica a quella di una persona che osserva la bottiglia con gli occhi. Cambia il canale di afferenza delle informazioni, ma non il risultato finale».
I risultati sono stati ottenuti utilizzando immagini di risonanza magnetica. Ai volontari, in parte vedenti (bendati negli esperimenti), in parte non vedenti dalla nascita, è stato chiesto di riconoscere al tatto degli oggetti comuni come bottiglie o scarpe e delle maschere che rappresentavano dei visi. La scoperta, prosegue Pietrini, «apre la strada a nuove strategie di riabilitazione dei non vedenti». Le capacità di adattamento delle persone prive della vista già oggi rappresentano uno degli esempi più evidenti di plasticità cerebrale. «I nostri risultati - si legge nell´articolo - dimostrano che il cervello è organizzato in maniera molto più complessa rispetto a quanto sapevamo finora. Quella che siamo abituati a chiamare corteccia «visiva» appare in realtà indipendente dalla modalità sensoriale che fornisce informazioni.
(e.d.)
Iscriviti a:
Post (Atom)