martedì 23 novembre 2004

Marco Bellocchio

Corriere della Sera 23.11.04
Cinema e società

"Cinema e società: ieri e oggi", incontro in ricordo di Lino Miccichè. Intervengono, tra gli altri, Giancarlo Bosetti, Gianni Amelio, Marco Bellocchio, Italo Moscati e Walter Veltroni.
Università Roma Tre Facoltà di Lettere, via Ostiense 234, alle 11. Infoline: 06.68407011.

Il Messaggero 22.11.03
Il grande schermo all’Università nel solco di Lino Miccichè
di FABIO FERZETTI

Gianni Amelio, Marco Bellocchio, Eugenio Cappuccio, Italo Moscati, Walter Veltroni. Tre registi, un critico e il sindaco di Roma, più altri registi, sceneggiatori, produttori, dirigenti tv. Tutti insieme per Lino Miccichè, il grande critico scomparso il 30 giugno, uno dei più influenti del dopo-boom, che verrà ricordato domattina alle 11 nell’Aula magna della Facoltà di Lettere di Roma Tre (via Ostiense 234) in un dibattito organizzato dal Sindacato Critici Cinematografici con l’Università e la rivista Reset , “Cinema e società, ieri e oggi”.
Amelio in realtà non sa ancora se potrà esserci. Tornato dalla Cina, dove prepara il film tratto dalla Dismissione di Ermanno Rea, deve raggiungere Los Angeles per l’uscita delle Chiavi di casa , ma vuole ricordare uno dei volti forse meno noti fra i tanti del grande studioso che oltre a scrivere decine di volumi e fondare la Mostra del Cinema di Pesaro traghettò la Biennale di Venezia verso la riforma. «Con tutte le vite che ha avuto, da studioso e da cineasta, Miccichè ha lasciato impronte profonde», dice Amelio. Ne so qualcosa perché fu lui a volermi come docente al Centro Sperimentale di Cinematografia da consigliere d’amministrazione, e poi a chiamarmi nel comitato scientifico quando diventò presidente La prima cosa che fece fu rendere annuale l’esame d’ammissione, prima triennale, triplicando di colpo gli allievi. Una scommessa non da poco. La seconda - prosegue Amelio - fu imporre lo studio dei testi scritti e filmati. Appena arrivati al Centro, ogni mattina, gli allievi dovevano vedere un film, religiosamente, e discuterne. Può sembrare ovvio, ma nella patria del talentaccio e dell’improvvisazione non lo è. Anzi, fu una rivoluzione. Purtroppo Miccichè non ha avuto il tempo di valutarne gli effetti».
Mai una discussione, un contrasto? «Altro che. Col suo carattere era il minimo. Grazie al cielo, aggiungo, perché Lino non era certo uomo da occupare poltrone, come si dice. Se aveva un “difetto” era la veemenza con cui difendeva le sue idee. Mai visto qualcuno più curioso e innamorato della sua materia». Con la sua morte si è anche chiusa una pagina fondamentale del cinema inteso come cultura. «Vero. Ma è un problema globale della nostra industria che trasformandosi ha perso i “padri”», conclude Amelio. Penso anche a produttori cone Cristaldi o De Laurentiis, che hanno iniziato a mancarci crudelmente negli anni 80. E’ tutto il cinema, diventato televisivo, a non essere più lo stesso».

sinistra
Pietro Ingrao

Il Mattino 23.11.04
Il governatore si confessa: «Ingrao resta il mio maestro»
di f.v.

Il libro di Antonio Galdo, «Pietro Ingrao, il compagno disarmato» (Sperling & Kupfer editori), è un viaggio nelle passioni di un secolo attraverso i «tormenti e le sconfitte» di un dirigente comunista. Oggi pacifista assoluto, ieri convinto della guerra per necessità contro il nazifascismo, Ingrao si è posto fuori dall’eredità diessina del Pci, di cui era fedelissimo fino a sostenere l’Urss nell’azione in Ungheria nel 1956, pronto allo strappo congressuale per il dialogo interno ma poi pronto a votare l’espulsione dei dissidenti del Manifesto. Contraddizioni e paradossi, ma soprattutto passioni perché Ingrao è stato riferimento per intere generazioni di giovani di sinistra. Ieri, a Città della Scienza, la presentazione del libro con l’autore e l’occasione per una riflessione sul passato e sul presente con Antonio Bassolino e Guglielmo Epifani, segretario della Cgil. Con Bassolino ed Epifani l’editorialista del Corriere della Sera, Paolo Franchi, e il direttore del Mattino, Mario Orfeo. Novantenne, Ingrao «dà lezione a quella parte minoritaria della sinistra che subisce la maledetta tentazione della violenza come strumento di battaglia politica», suggerisce Galdo. Per Bassolino, che fu tra i più vicini a Ingrao, «Pietro, al di là dell’affetto e delle strade che si sono separate, resta soprattutto un maestro». Bassolino si confessa: «È da lui che ho appreso la tecnica oratoria e ho imparato ad affrontare le piazze superando un problema che avevo sin da bambino». I ricordi arrivano alla Bolognina, la svolta che fece del Pci il Pds e che Ingrao non condivise. Bassolino, con Alfredo Raichlin, andò ad accogliere l’anziano leader di rientro dalla Spagna nell’estremo tentativo di convincerlo. «Ma Ingrao disse che ci avrebbe ancora pensato», ricorda il governatore. «Di chi è oggi Pietro Ingrao e per chi vota?», si chiede Galdo, che poi aggiunge: «Credo appartenga a tutta la sinistra e alla democrazia». Da analista, Paolo Franchi affronta i tormenti dell’uomo partendo da un errore che Ingrao non s’è perdonato: il giudizio sull’atteggiamento durante la repressione sovietica dei moti d’Ungheria. Infine Epifani, che traccia un profilo di Ingrao attraverso i paradossi: «Catapultato a 30 anni nella politica, lui che amava poesia e cinema, un uomo che piaceva alle masse ma che dà il meglio di sè da presidente della Camera. Insomma, un uomo che sa scegliere e sbagliare da solo senza farsi condizionare da apparato e da correnti». Per finire la provocazione di Galdo: «Ingrao dà lezioni a quella parte minoritaria della sinistra tentata dall’uso della violenza».

Intervista a Antonio Galdo

Come mai ha deciso di esplorare il mondo di Pietro Ingrao?
Ingrao è uno dei personaggi più interessanti e densi della politica italiana, sia per il percorso politico da direttore dell’Unità a leader di un’intera area della Sinistra italiana, sia per la sua straordinaria dimensione umana. Ingrao, prima di essere, dico con le sue parole, “preso a calci dalla politica per tutta la vita”, è un poeta, uno sceneggiatore, ha scritto “Ossessione” di Luchino Visconti, un ottimo giocatore di tennis.
In cosa si manifesta la sua straordinaria umanità?
In questo libro Ingrao mi ha confessato di aver provato qualcosa in più di una semplice tentazione a farsi monaco. Ci ha pensato, e molto seriamente. Soprattutto dopo le definitive sconfitte della sua parte politica, e i suoi dolori di un uomo che ha fatto, anche in questo libro, un limpido e radicale riconoscimento dei suoi errori. Errori, vorrei ricordarlo, comuni ad intere generazioni di dirigenti comunisti: nessuno di loro, però, ha mai riconosciuto con tanta chiarezza, come si evince in questo libro, gli errori della classe dirigente comunista e post-comunista.
Quali sono gli errori riconosciuti da Ingrao?
L’errore, con la “e” maiuscola, Ingrao lo ha fatto nel ‘56. All’epoca dirigeva l’Unità e, su indicazione di Palmiro Togliatti, che lo considerava il pezzo più pregiato di una nuova generazione di dirigenti comunisti, scrisse un articolo di fondo in favore dell’invasione dei carri armati sovietici in Ungheria, dove il popolo tentava di ribellarsi alla sopraffazione del regime comunista sovietico. Ingrao sbagliò, ed oggi ha l’onestà intellettuale di ammetterlo, riuscendo ad andare anche oltre la semplice autocritica.
Oggi qual è la sua posizione sull’invasione comunista dell’Ungheria?
Secondo Ingrao i comunisti italiani nel 1956 avrebbero potuto dire “no” alla violenza del regime di Mosca e con quell’atto sarebbe cambiata la storia della Sinistra europea. Quindi, come vede, l’errore è giustamente rimarcato da Ingrao con la “e” maiuscola.
Ingrao mette in guardia anche sui rischi della lotta armata. Nel suo libro mi sembra di capire che per lui “il fine non giustifica più i mezzi”?
Ingrao è modernissimo e attualissimo rispetto ad un rischio di lotta armata che lui vede in alcune frange minoritarie della sinistra italiana. Ingrao è un pacifista, e in questo libro archivia Lenin e si avvicina a Gandhi, arrivando ad affermare, per dirlo con le sue parole, “Ecco la nuova stella polare deve essere questa: un pacifismo assoluto”.
E rivolge anche un appello alle nuove generazioni per invitarle alla non violenza.
Sì, una delle cose più interessanti, è proprio l’appello che lui rivolge ai giovani della Sinistra italiana che si può riassumere nello slogan “mai più violenza nella lotta politica”. Un appello molto attuale visto ciò che sta accadendo con gli esprori proletari ed un clima che nel Paese si è fatto molto pesante.
A chi consiglia la lettura di questo libro?
Ai giovani, a chi ha una passione e può trarre insegnamento dalla parole di un uomo che ha speso una vita per i suoi ideali. E ha perso. E oggi è un “compagno disarmato”.

il dibattito dentro Rifondazione
ideologia

Liberazione 23.11.04
La sinistra alla ricerca di una propria rappresentazione
Ideologie, l'occhio sul mondo
di Domenico Jervolino

Fausto Bertinotti ha sollevato la questione di una ripresa creativa da parte della sinistra del tema dell'ideologia, proponendo così un terreno di dibattito che a me pare opportuno e fecondo. Prima di essere sinonimo di "falsa coscienza", il fenomeno ideologico è legato alla necessità per qualsiasi gruppo sociale di dare un'immagine di se stesso, di rappresentarsi simbolicamente. L'ideologia è per la prassi sociale quello che per l'agire individuale è la motivazione. Essa è perciò anche giustificazione e progetto.
Su questo significato positivo e anzi necessario per il mantenimento del legame sociale si innestano caratteristiche di semplificazione e di schematismo, di inerzia temporale e di chiusura progressiva che avviano le ideologie ad assumere, in circostanze storico-sociali ben determinate, funzioni di mera legittimazione del potere e di mistificazione del reale. Si tratta di una deriva possibile, ma non ineluttabile e che comunque rende necessaria la marxiana critica delle ideologie, di cui non possiamo né dobbiamo fare a meno. Anche se da una certa cultura del sospetto siamo abituati a vedere nell'ideologia una lente deformante, resta il fatto che la funzione prima di una lente non è quella di deformare ma di aiutare la visione.
Nelle società moderne diventano ideologie (positive ma non indenni dalla possibilità di degenerare) i grandi eventi fondatori: la Dichiarazione d'indipendenza americana, l'Ottantanove francese, la rivoluzione di Ottobre, la Costituzione italiana, nata dalla Resistenza, ecc. Non è un caso che proprio queste memorie fondatrici sono oggi messe in questione, sicuramente non solo per la cattiveria degli avversari, ma anche per le infedeltà, gli errori, le miserie di chi avrebbe dovuto continuarne l'eredità.
Oggi si parla tanto di conflitto di civiltà, ma la situazione che si sta creando negli Stati Uniti a me sembra che riveli piuttosto un conflitto dentro quella civiltà, fra chi si richiama alla cultura illuministica dei Padri fondatori (spesso poi tradita nella pratica politica e quindi diventata ideologia nel senso deteriore) e il tentativo di fondare una nuova ideologia, una nuova "religione civile" basata sull'idea di una missione speciale conferita all'America da un Dio dai connotati molto generici e confusi ma che comunque garantisce un certo pacchetto di valori tradizionali rozzamente concepiti, da imporre al resto del mondo, ma anche ai devianti di casa propria. Si tratta di un miscuglio religioso o pseudo-religioso che non coincide con nessuna delle grandi confessioni storiche, che sono in parte coinvolte e contaminate da questa ondata. Il populismo fondamentalista, che esiterei a chiamare cristiano, non è poi diverso dal fondamentalismo islamico, che anch'esso è per tanti motivi lontano dalla grande cività araba e musulmana.
Ovviamente non basta respingere il nuovo fondamentalismo, bisogna capire i modi in cui esso si diffonde, mette radici e i bisogni che, almeno in prima istanza, riesce a soddisfare.
In Italia e in Europa abbiamo il vantaggio che i nostri paesi sono perlopiù (ma non sempre) vaccinati rispetto agli integrismi pseudo-religiosi e quindi il vantaggio di poter lottare su un terreno più favorevole, più politico. Dubito che chi vuol imitare l'America, su quel terreno, ci riesca veramente, e che per esempio l'icona di San Buttiglione martire possa da noi suscitare consensi di massa.
Peraltro la più grande attenzione deve essere dedicata all'attacco che viene mosso in Italia a quella che è la "religione civile" della nostra Repubblica, i cui valori sono messi in discussione non solo con le controriforme istituzionali, ma anche prosciugando il terreno nelle coscienze della gente, nel senso comune delle masse, disorganizzate e ridotte alla condizione di spettatori e/o di meri clienti, rispetto a quei valori che almeno a livello di principio la nostra Carta proclama: in particolare l'uguaglianza fra i cittadini, il lavoro come fondamento della democrazia, il ripudio della guerra.
Tutto questo richiede la vigilanza critica, ma non basta, occorre rilanciare quei valori anche in positivo: questa appunto sarebbe l'ideologia "buona", capace di proteggere la salute del corpo sociale, e i cui pilastri sono, per la sinistra che noi vogliamo, gli stessi indicati da Bertinotti: la nonviolenza, l'egualitarismo e la speranza che un altro mondo sia possibile. Credo che questi valori possono animare una reinvenzione della democrazia che non significa eliminare i conflitti ma saperli gestire nel contesto di quella che con Balibar chiamerei la "civilizzazione" della politica

Liberazione
sul congresso degli atei a Firenze e il vittimismo dei vescovi

Liberazione 23.11.04
Sesta assise dell'Unione atei e agnostici razionalisti. Laicità in pericolo anche in Europa
Le due anime degli atei a congresso
di Fulvio Fania

Firenze, nostro inviato. Per favore non chiamateci "non credenti". Vera Pegna, responsabile internazionale dell'Uaar - Unione atei e agnostici razionalisti -, è stanca di sentirsi definita per negazione ed ancor più preoccupata che dietro quel "non credenti" si faccia intendere che chi non ha Dio non ha neppure valori.
E infatti c'è scritto grosso "atei" in fondo allo scalone del palazzo dei congressi, sul semplice cartello giallo posto a far da guida verso la sesta assise nazionale dell'Uaar, utile oltretutto a salvarti dal concomitante raduno toscano di Forza Italia.
Eppure dire atei o agnostici forse non basta ad esprimere le ambizioni dell'associazione nata nel 1987 tra un gruppo di amici veneti e oggi forte di un migliaio di iscritti e circoli in 18 città italiane. In Europa - spiega Pegna, che è anche vicepresidente della Federazione umanista europea - grandi organizzazioni laiche preferiscono denominarsi umaniste per sottolineare che l'indispensabile distinzione tra Stato e Chiesa non esaurisce il concetto di laicità né l'impegno contro tutte le discriminazioni.
L'Europa unita ha complicato le cose per le chiese ma non le ha semplificate ai laici. In Italia vige il Concordato, in Gran Bretagna la regina è capo degli anglicani e ora anche nel Trattato europeo compare un accordo con le chiese. Sotto il «polverone suscitato sulle radici cristiane» - sottolineano - è andato in porto quasi in sordina il "vero" obiettivo del Vaticano, l'articolo che stabilisce "un dialogo regolare" tra le istituzioni Ue e le chiese sulle materie che i vescovi decidono di loro competenza. Mario Ferialdi di Padova si sfoga: «Sulla tv non passano dieci minuti che appare il papa, una suora o un prete»
Prendersela con Wojtyla o soprattutto con parlamentari e governi? E' una domanda chiave per comprendere gli umori dell'assemblea. Se gli atei hanno un'anima, qui ne rivelano addirittura due. Cinque mozioni congressuali ribadiscono il richiamo all'articolo 11 della Costituzione italiana nelle Tesi dell'Uaar raccomandando la partecipazione alle iniziative contro la guerra. Tre di questi documenti vengono approvati ma i contrari sfiorano la metà. Il segretario Giorgio Villella si oppone ad un'ampliamento dell'area di intervento dell'associazione. C'è fin troppo da fare a tutelare i diritti delle persone senza religione, meglio un «sindacato, una union» contro i soprusi di uno Stato che in questi anni sta passando dal «clericalismo al multiclericalismo». Oggi - osserva Villella - per consultare gli islamici si interpellano gli iman malgrado solo il 5% degli immigrati islamici vada in moschea. D'altra parte il bilancio delle attività di "tutela" è confortante. E' bastato il sito web dell'Uaar - osservano - a garantire la buona riuscita della campagna di "sbattezzo", un'iniziativa che ha coinvolto il Garante della privacy e ha costretto la Cei ad annotare nei registri parrocchiali la richiesta di coloro che non riconoscono il proprio battesimo.
Ciononostante - sostiene Maria Turchetto nuova direttrice della rivista "L'ateo" - «certi laici bon-ton alla "Micromega"» trattano l'Uaar con «snobismo» come «laicisti e vecchi anticlericali».
Vediamoli allora da vicino. A presiedere la seduta è Raffaele Carcano, giovane bancario che sta per laurearsi in diritto ecclesiastico. L'età media è alta ma ci sono anche trentenni, molti sono professionisti ma il tesoriere Luigi Feriglio è un capostazione in pensione. Ed ecco l'intervento di Stefania Bruno, studentessa dell'Istituto Volta di Napoli. Lei è cattolica ed è arrivata qui con un gruppo di compagni, su proposta del professore di matematica applicata, sudandosi la necessaria autorizzazione del preside. Desideravano conoscere il punto di vista degli agnostici e atei. Frequentano tutti l'ora di religione e ne hanno una pessima esperienza, «è solo una perdita di tempo». La Chiesa è in minoranza tra i giovani? «Sì», risponde senza titubanze Stefania. Raccontano che i coetanei vanno in chiesa solo per conformismo, oppure perché è l'unica forma di aggregazione e questo è il suo lato positivo. Ma l'etica, sulla guerra o sul sesso, non deriva dalla religione? La risposta è negativa e va al cuore del problema affrontato in apertura del congresso da Valerio Pocar e Piergiorgio Donatelli.
Al banco dei libri sono esposti i volumi delle edizioni Kaos, testi "duri" contro le religioni, ma anche la storia del papato scritta dai cattolici Alberigo e Riccardi o lo studio di Prosperi sull'Inquisizione o un saggio del teologo della liberazione Leonardo Boff. La maglietta dell'Uaar riproduce una vignetta di Sergio Staino, chiamato a far parte del comitato di presidenza con altri intellettuali tra cui Margherita Hack. Staino porta al congresso la satira che «semina dubbi» e si dice convinto che nell'epoca del bipolarismo certe battaglie per la laicità bisognerà condurle direttamente nella società.

Liberazione, stessa data
Il parere di Valerio Pocar presidente del comitato bioetica dI Milano
«Il vittimismo dei vescovi è una strategia»
di F. F.

Valerio Pocar insegna sociologia del diritto all'università della Bicocca e presiede il comitato milanese di bioetica. Negli Usa - sostiene - la campagna integralista a favore di Bush è stata «rozza» ma quella più «sottile» della Chiesa cattolica in Europa non è meno insidiosa. Non è più «l'arroganza dello Stato-altare ma il richiamo "democratico" alla morale naturale, alla "retta morale», con la pretesa di farla valere nelle leggi di tutti. «Si dica onestamente - obietta il professore - che la morale naturale è quella che intende la natura come creazione divina secondo un disegno provvidenziale. E' dunque la morale della Chiesa, rispettabile come le altre, ma non di tutti». Quanto alle accuse di relativismo, «la lettura delle gerarchie è inaccettabile: negare una verità assoluta non significa non avere principi in cui credere fortemente».
Il cardinale Ratzinger ha parlato di «un'aggressività ideologica secolare». «Un vittimismo immotivato - replica Pocar -, non c'è aggressione né potrebbe esserci perché il vero laico rispetta le convinzioni religiose, ritiene che non esista una verità assoluta e perciò considera potenzialmente valide tutte le verità. Non sopporta invece che le istituzioni favoriscano una parte sola come è avvenuto nel Trattato europeo». «In realtà - aggiunge - il vittimismo della chiesa è una strategia per rovesciare l'oppresso in oppressore». Ratzinger ha detto che «la laicità è libertà di religione»? «Anche di religione» - risponde Pocar - ma il fatto stesso che si citi così sovente la libertà di religione è già un privilegio perché quando si afferma la libertà di opinione, espressione e pensiero si include quella di religione».

boom delle lingue orientali nelle università

una segnalazione di Dicta Cavanna

Il Messaggero Martedì 23 Novembre 2004

LA SAPIENZA
Il prof di cinese: otto ore al giorno di studio

ROMA. Federico Masini è vissuto dieci anni in Cina, faceva l’addetto stampa dell’ambasciata italiana. Ora è preside della facoltà di Studi Orientali della Sapienza. È professore di cinese.
Quali sono i corsi più richiesti della sua facoltà?
«Cinese, giapponese, arabo».
Un laureato triennale in lingue ”esotiche” che padronanza ha raggiunto?
«L’ultimo semestre la maggior parte degli studenti lo passa nel paese straniero. Dopodiché il loro livello gli permette di sostenere il linguaggio basilare, possono andare in giro e farsi capire, sfogliare un giornale e afferrare il senso degli articoli».
Qual è la difficoltà principale del cinese?
«I pochi punti di contatto con la nostra lingua, la pronuncia aliena, la scrittura con gli ideogrammi».
È complicato impararli?
«Sono difficili ma non così tanto, visto che vengono usati da un miliardo e mezzo di persone».
Quanto bisogna applicarsi al giorno?
«Tra lezioni e studio passano 8 ore al giorno. Un allenamento da atleti».
Quali le prospettive di lavoro?
«Con la laurea triennale quasi tutti si sistemano: nelle aziende italiane che operano in Cina, nelle agenzie turistiche, in compagnie aeree, l’ambasciata italiana a Roma ha preso dei nostri laureati...».
L’università italiana come affronta questo arrembaggio all’Oriente?
«Male. Tutti gli atenei sono sottodimensionati rispetto alle richieste. Io non ho i soldi per pagare i professori».
L.P.

Il Messaggero Martedì 23 Novembre 2004
Dall’arabo al giapponese, boom dell’Oriente in cattedra
di LUIGI PASQUINELLI

ROMA Le sue quotazioni sono schizzate verso il cielo come Bruce Lee in una piroetta di Kung Fu. Ripescata negli scrigni della memoria dove, come gemme preziose, riposano i sussurri di Shéhérazade e le grida dei samurai, i balzi di Sandokan e i quiz di Turandot, cattedrali vegetali e serragli animali, soli nascenti e linee d’ombra calanti, pirati e barriti, harem e sushi, la magia dell’Oriente ha stregato le nostre università. Un incantesimo che nasce nel passato ma che si proietta nel futuro. All’orizzonte, simili a penne pellerossa oltre la collina, spuntano cifre e dati, lo sviluppo promette di scuotere le economie tradizionali come il tornado Ivan le coste caraibiche. Cina in primo luogo, poi India: due miliardi e mezzo di nuovi consumatori, affamati di costruzioni, impianti, insegnamenti, importazioni, capitali, strutture, conoscenze, benessere. E poi la galassia Islam, che penetra quotidianamente nelle nostre case, violenta come la paura, seducente come il mistero.
Da un anno all’altro L’Orientale di Napoli porta a casa un più 25 per cento di immatricolazioni e decuplica, da sessanta a seicento, l’offerta di stage. Analoghe progressioni nelle facoltà ”esotiche” della Sapienza, iperboliche performance registra la Ca’ Foscari di Venezia: i tre centri accademici con lo sguardo tradizionalmente rivolto a Levante. Ma sono molti altri, da Lecce a Siena, gli atenei colpiti da sindromi cinesi, giapponesi, arabe. «Quando studiavo cinese classico, a metà anni 70 ricorda Maurizio Scarpari, prorettore vicario alla Ca’ Foscari in tutti i corsi orientali eravamo non più di 40, oggi gli allievi sono 2.124». Affrontano gli idiomi più remoti, vivi e morti, dall’aramaico al bantu, dall’etiopico al persiano allo swahili, con relative civiltà, ma devono conoscere anche inglese, francese, tedesco perché su quelle culture di testi e vocabolari italiani c’è poco o nulla. «Non siamo più isolati dice il rettore dell’Orientale Pasquale Ciriello l’integrazione europea è un fatto, da 15 che eravamo siamo diventati 25. Da noi si insegnano lingue e letterature dei Paesi appena entrati e di quelli che arriveranno come la Turchia. Sta maturando anche una sensibilità per le realtà asiatiche e africane, il mondo è ai nostri piedi, 200 anni fa l’intera vita di un uomo era raggiunta dalla quantità di informazioni contenuta nell’edizione domenicale del New York Times».
Sono giovani, hanno la vista lunga, nei corridoi e nelle aule de L’Orientale, abbarbicata su un vicolo napoletano, respirano il mondo. Fabio Battiato, 25 anni di Catania, neolaureato, fresco di ebraico antico, arabo, aramaico, la lingua degli imperatori persiani, la lingua di Gesù: «Vorrei rimanere all’interno dell’università. In Italia non ho molte prospettive, l’aramaico è difficilmente spendibile sul mercato del lavoro. Più chance con l’arabo, ma all’estero. Cinque settimane in Tunisia e mi hanno offerto due lavori: insegnante di italiano e agente turistico. Ho imparato che non esistono civiltà belle e brutte, migliori o peggiori, ricche o povere ma solo civiltà differenti». In Cina, dice Paola Sellitto, 22 anni, prossima alla laurea, l’occidentale parte in pole position: «Rimangono incantati dai nostri grandi occhi, dal colore biondo, dalla statura. Tutti ti guardano con ammirazione, sei lao wai? Sei straniero? Tre mesi di studio lì equivalgono a tre anni qui. Ho lavorato a Canton in una fiera di motociclette. Un mio amico ha fatto il modello e pubblicità radiofonica pur non essendo un Adone. Forse il mio futuro è lì». I sogni di Licia Pizzi, 30 anni, studiosa di indonesiano e giapponese, hanno un raggio meno esteso: «Penso alla Francia, ma soprattutto all’Olanda, dove esistono importanti centri studi. In Italia sono pochissime le occasioni».
Con il nuovo ordinamento, 3+2, pare che gli studenti si perdano meno per strada ma che siano anche meno preparati: «Per non andare fuori corso racconta il prof di Giapponese Gianluca Coci frequentano tanti corsi e hanno poco tempo per lo studio. Io ho cominciato ad avvicinarmi al Giappone grazie ai cartoni animati degli anni 70. Per molti altri la molla iniziale sono le arti marziali». Pasquale Manzo, assistente del prof Pandey Shyammanohar, ha deciso di dedicare la sua vita all’Hindi, la lingua ufficiale della terra dei maharaja. «Fin da bambino ero attratto dall’India, la scintilla è scoccata dopo aver visto alcuni documentari». Da dieci anni docente e allievo stanno costruendo un ponte che collegherà i due Paesi: un vocabolario Hindi-Italiano.

Venezia
Carpaccio all'Accademia

La Stampa 23 Novembre 2004
CARPACCIO
I santi in maschera
di Giovanna Nepi Sciré
La mostra Carpaccio, pittore di storie si inaugura venerdì 26 alle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Sarà aperta al pubblico fino al 13 marzo 2005, con orario 8,15-19,15 (il lunedì chiude alle 14. Il biglietto di ingresso comprensivo della visita alle Gallerie dell’Accademia costa 9 euro. La mostra è dedicata a Rona Goffen, storia dell’arte americana, grande appassionata della cultura artistica veneziana. Pubblichiamo la prefazione al catalogo (edito da Marsilio) di Giovanna Nepi Sciré, soprintendente al polo museale veneziano e curatrice della mostra.



CARPACCIO è un artista di grande raffinatezza ed autonomia, anche quando si cimenta nel campo della tradizionale pittura narrativa veneziana, traducendola in una propria originalissima visione. La pittura di «storie» è certo l'aspetto più vistoso della sua produzione ed è straordinario che due dei suoi cicli più importanti, quello per la Scuola di Sant'Orsola e quello per la Scuola dalmata di San Giorgio siano sopravvissuti integri nella città per cui erano stati eseguiti: uno alle Gallerie dell'Accademia, l'altro ancora in situ. Alle Gallerie dell'Accademia è anche conservato il telero con il Miracolo dell'ossesso al ponte di Rialto, già nella Scuola Grande di San Giovanni Evangelista, uno dei più straordinari «ritratti di città» di tutta la pittura rinascimentale.
Da qui l'idea di riunire, intorno a questo nucleo forte, che tanti musei ci invidiano, i dipinti dispersi di altri cicli un tempo a Venezia. Prima di tutti i teleri della Scuola degli Albanesi, dedicati alla vita della Vergine, di cui due già erano rimasti a Venezia alla Ca' d'Oro e un terzo, dato in deposito demaniale al Museo Correr, è stato recentemente riunito a questi. La pronta accettazione dei colleghi di Brera e dell'Accademia Carrara di Bergamo ha reso possibile la realizzazione del progetto.
Più difficile è stato riunire i teleri della Scuola di Santo Stefano, che hanno subito vicende piuttosto avventurose. Alla soppressione della Scuola nel 1806, le opere vennero disperse. Considerata da Pietro Edwards «da alienarsi», la Consacrazione dei diaconi fu ceduta al mercante Giovanni Davide Weber e finì poi nei musei di Berlino. La Disputa e la Predica giunsero nel 1808 a Brera, ma la seconda pervenne poi al Louvre per uno scambio voluto da Napoleone. La Lapidazione fu assegnata alle Gallerie dell'Accademia, ma ceduta insieme ad altre opere all'abate Luigi Celotti in parziale pagamento della collezione di disegni che era stata di Giuseppe Bossi.
Se il Louvre, il Museo di Stoccarda e il Gabinetto dei Disegni e Stampe degli Uffizi, hanno aderito prontamente all'iniziativa, la Pinacoteca di Brera e i Musei civici di Berlino non hanno ritenuto opportuno far correre i rischi del trasporto alle loro opere. Seppur a malincuore, perché l'occasione era veramente unica, non possiamo non rispettare questa decisione, motivata da scrupoli di tutela. Due riproduzioni in scala 1:1 sostituiscono, per quanto possibile, gli originali, e ci restituiscono la continuità della narrazione.
Del resto i musei difficilmente si separano dalle opere di Carpaccio, pittore tanto raro e spesso non rappresentato anche in grandissime istituzioni. Non a caso l'ultima e unica mostra monografica che gli è stata dedicata è quella memorabile organizzata da Pietro Zampetti nel 1963 a Palazzo Ducale.
Dalle Gallerie, i nostri visitatori potranno andare nel vicino campo Santo Stefano a vedere-all'anagrafico 3467 di San Marco - la facciata della Scuola dedicata al Santo in calle del Piovan e poco lontano, all'imbocco di campo San Maurizio, quella della Scuola degli Albanesi, con gli interessanti bassorilievi in pietra d'Istria. Ma soprattutto potranno arrivare (e utilizzando il biglietto delle Gallerie godere di uno sconto) fino alla Scuola di San Giorgio degli Schiavoni a Castello, dove le storie dei santi Giorgio, Trifone e Gerolamo sono conservate ancora nell'edificio originario.
Come di consueto è stato realizzato un percorso che collega il museo con il territorio, cercando, ove possibile, di restituire al fruitore non solo l'opera musealizzata, ma anche i contesti di provenienza.


La Stampa, stessa data
La nuova stella erede di Bellini
Misteriosa la formazione del pittore
che si affermò con le sacre storie
di Marco Rosci

COLPISCE la scarsità di notizie documentate sulla vita del Carpaccio, tanto che possiamo ipotizzare una nascita intorno al 1460 solo considerando che risale alla fine degli anni ‘80 la commissione del colossale ciclo di teleri - in tutti i sensi, dal numero alle dimensioni - delle Storie di Sant’Orsola per la Scuola omonima, che lo terrà impegnato dal 1490 almeno fin al 1499. Tanto bastava per poi imporlo come nuova stella nella tradizione veneziana dei teleri figurati, in cui le sacre narrazioni sono puro pretesto per racconti di vita cerimoniale in una Venezia mascherata in un fastoso e complesso scenario teatrale adatto ad ogni luogo deputato dalla leggenda, dalla Britannia a Roma a Colonia.
La lucidissima intersecazione prospettica dei piani scenici, nascente dalla maturità del sistema brunelleschiano in Leon Battista Alberti e in Piero della Francesca proietta al di là della staticità ritmica degli scenari di Gentile Bellini e di Alvise Vivarini i racconti di figure e di spazi del giovane, che nel pieno dei lavori delle Storie di Sant’Orsola supera sè stesso nella cronaca veneziana a pieno titolo del Miracolo della reliquia della Croce al Ponte di Rialto per la Scuola di San Giovanni Battista, anch’esso conservato all’Accademia di Venezia come il ciclo di Sant’Orsola.
Nel 1507 questo ruolo di nuova stella gli viene riconosciuto dai Dieci quando viene chiamato a fianco di Giovanni Bellini, essendo morto Alvise Vivarini, all’impresa dei teleri per la Sala del Maggior Consiglio, poi distrutti nell’incendio del 1577, dove Carpaccio dipinge la storia anconetana con il dono del baldacchino al Doge Sebastiano Ziani da parte di Papa Alessandro III. Il pittore ne fa vanto e mezzo di presentazione al marchese di Mantova Francesco Gonzaga al quale scrive nel 1511: «Io son quello pictor dallo excelso consiglio dei diece conducto per dipinger in salla granda, dove la S.V. se dignò a scender sopra il solaro ad veder l’opra nostra che è la historia de Ancona. Et il nome è dicto Victor Carpatthio».
Tutto questo legittima ampiamente la scelta della Soprintendente Nepi Scirè di organizzare per cicli la mostra di un maestro, che nei ventisei anni dopo la grande impresa di Sant’Orsola fu anche un pittore, cromaticamente splendente nell’eredità di Giovanni Bellini, di pale sacre e di almeno due capolavori come le Dame del Museo Correr e il Ritratto di cavaliere Thyssen emigrato da Lugano a Madrid. La scelta è stata quella di affiancare all’Accademia gli otto teleri del ciclo di Sant’Orsola e il Miracolo del ponte di Rialto altri due cicli successivi, quello della Vita della Vergine già nella Confratenita degli Albanesi, con la raffinata Annunciazione datata 1504, e quattro teleri del ciclo di Santo Stefano del secondo decennio del ‘500, il più travagliato e disperso dopo la soppressione della Scuola nel 1806.
Esso comprende un altro momento fra i più alti del pittore, la Lapidazione del protomartire in un ampio scenario naturale, in cui emerge l’evoluzione dell’artista, pur fedele fino alla fine al lume cristallino degli esterni del presumibile maestro Giovanni Bellini, verso il gran respiro di natura emergente dalla rivoluzione di Giorgione e Tiziano. Essendo così strutturata la mostra, ne diviene naturale complemento la visita, in una Venezia di Castello sopra Piazza San Marco ancora per fortuna poco sommersa dai flussi turistici, dell’altro stupendo ciclo, posteriore di due anni alla fine di quello di Sant’Orsola, della Scuola di San Giorgio agli Schiavoni, l’unica rimasto intatto nella sede originaria.

mistificando la scelta "politica" di Paolo di Tarso
cosa dicono i cattolici oggi delle immagini

Giornale di Brescia 23.11.04
Il Cristianesimo e i suoi rapporti con l’immagine

DELL’ARTE
L’«IO CREDO»
di Timothy Verdon

Mons. Timothy Verdon, già Consultore della Pontificia commissione per i beni della Chiesa, è direttore dell’Ufficio per la Catechesi attraverso l’Arte dell’Arcidiocesi Fiorentina e docente alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale nonché alla Stanford University. Le sue ultime pubblicazioni sono "Vedere il mistero. Il genio artistico della liturgia cattolica" (Mondadori, 2003) e "Maria nell’arte europea" (Electa, 2004).[...]


Un testo base della fede cristiana, il Vangelo secondo Giovanni, apre con le parole: «In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio» (Gv 1,1). Più avanti, afferma che «il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito del Padre, pieno di grazia e verità» (Gv 1,14). Un altro testo, la prima Lettera di Giovanni, dirà che il «Verbo della vita (...) si è fatto visibile, noi l’abbiamo veduto e di ciò rendiamo testimonianza» (1 Gv 1, 1-2), e in una lettera paolina Cristo è chiamato semplicemente «immagine» - nel greco originale, eikon, icona - «del Dio invisibile» (Col 1,15). Queste citazioni suggeriscono il rapporto particolare del cristianesimo con la visibilità, con le immagini e quindi con l’arte. Mentre in altri sistemi religiosi pittura e scultura servono ad illustrare contenuti il cui baricentro rimane altrove, nel cristianesimo le immagini portano dritto al cuore dell’esperienza di fede, facendo "vedere" una gloria, una grazia, una verità e vita associate a Colui che è egli stesso «immagine», Gesù Cristo. Anche l’arte più concreta, l’architettura, è percepita dai cristiani in termini di mistica identificazione, perché Cristo ha chiamato «tempio» il suo corpo risorto (Gv 2,19-22) e il Nuovo Testamento caratterizza la comunità dei credenti come una «costruzione (che) cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore» (Ef 2,21) - un "edificio spirituale" le cui pietre sono gli stessi cristiani (1 Pt 2,5). Ecco perché, a chiusura del Concilio Vaticano II nel 1965, papa Paolo VI ha insistito sul ruolo degli artisti nella vita cristiana. «Da lungo tempo la Chiesa ha fatto alleanza con voi - diceva - voi avete edificato e decorato i suoi templi, celebrato i suoi dogmi, arricchito la sua liturgia. Voi l’avete aiutata a tradurre il suo messaggio divino nel linguaggio delle forme e delle figure, a rendere sensibile il mondo invisibile». Sullo stesso tono, nella Lettera agli artisti del 1999 Giovanni Paolo II afferma che, «per trasmettere il messaggio affidatole da Cristo, la Chiesa ha bisogno dell’arte. Essa deve infatti rendere percettibile e, anzi, per quanto possibile, affascinante il mondo dello spirito, dell’invisibile, di Dio».
La testimonianza dell’arte è specialmente importante nel contesto della liturgia, dove da quasi due millenni le immagini e la stessa configurazione architettonica del luogo di culto servono a rendere "visibile" il mistero cristiano. La liturgia poi - il complesso di riti con cui una civiltà esterna il suo rapporto con Dio - è in sé opera artistica e generatrice d’arte. Composta di azioni rituali abbinate a parole, ha bisogno di spazi in cui svolgere le azioni e di arredi illustranti i testi. A loro volta, i templi e le processioni, i canti sacri, le immagini e suppellettili presuppongono la collaborazione di professionisti nei vari campi: architetti e coreografi, compositori, cantori, poeti, pittori, scultori, orefici. Nella tradizione giudeo cristiana, l’estro creativo al servizio del culto è considerato addirittura un dono di Dio, e l’arte in tutte le sue forme viene pensata in rapporto al sacro. Nell’Antico Testamento, ad esempio, l’origine delle arti viene inequivocabilmente presentata in funzione del culto, e «gli artisti che il Signore aveva dotati di saggezza e d’intelligenza perché fossero in grado di eseguire i lavori della costruzione del santuario» sono istruiti da Mosé in persona, perché facciano «ogni cosa secondo ciò che il Signore aveva ordinato» (Esodo 36,1). Nell’Esodo l’arte ha a che fare col peccato e col perdono; segna una radicale scelta da parte del popolo; e materializza la promessa di Dio di "camminare" in mezzo ad esso. Inoltre prolunga una parziale rivelazione della divina gloria (le spalle viste da Mosé, non il volto) e manifesta la volontà del popolo di contribuire con i propri mezzi a realizzare un «luogo vicino a Dio», il cui architetto è sempre Dio. Tale «volontario contributo» da parte del popolo diventa poi segno di penitenza per il peccato d’idolatria, come la conseguente bellezza del santuario sarà segno dell’alleanza offerta da un Dio «misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e fedeltà, che conserva il suo favore per mille generazioni e perdona la colpa, la trasgressione e il peccato» (Esodo 34, 6-7). Così com’è presentata nell’Antico Testamento, cioè, l’arte diventa uno dei segni del patto sussistente tra l’uomo peccatore e Dio che, perdonando la colpa, cammina in mezzo al suo popolo; è quasi un "sacramento" della presenza e della salvezza che Dio offre.
Queste funzioni, che in Israele furono concentrate nel santuario portatile fatto realizzare da Mosé e successivamente nel Tempio gerosolimitano, sembrano destinate a venir meno nella nuova alleanza istituita da Gesù Cristo. Parlando con una donna della Samaria, Gesù dirà infatti che né il monte sacro dei samaritani né il tempio degli israeliti servono più, perché «è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità, perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito - continua Gesù - e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità» (Giovanni 4,21-24). Nel Nuovo come nell’Antico Testamento, l’uomo non può vedere Dio direttamente, e il quarto Vangelo insiste che «Dio nessuno l’ha mai visto» (Giovanni 1,17). Ma aggiunge subito che «proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Giovanni 1,18) - affermazione risalente a Cristo stesso, il quale - all’apostolo Filippo, che aveva chiesto di vedere Dio - disse: «Chi ha visto me ha visto il Padre» (Giov. 14,9). (...) Se Cristo è la personale ed incarnata "icona" dell’invisibile Padre, allora il ruolo delle immagini nella Nuova Alleanza dovrà essere più importante che nell’Antica. Il luogo maggiormente decorato del Tempio gerosolimitano era la cella interna o Sancta sanctorum contenente l’Arca in cui erano conservate le dieci parole di Dio su tavole di pietra; i rivestimenti in pregiato legno di cedro con rilievi raffiguranti boccioli di fiori alludevano all’importanza delle parole di Dio. In Gesù Cristo, però, non «dieci parole» ma la Parola - il Logos o Verbum - si fece carne. Non era nascosta, ma manifesta a tutti, così che la prima Lettera di Giovanni potrà dire: «Ciò che era fin dal principio, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo a voi, perché anche voi siate in comunione con noi» (1 Giovanni 1,1-3). Il ruolo dell’arte nella Nuova Alleanza sarà appunto quello di un annuncio, finalizzata alla comunione, di «ciò che era fin dal principio» e che alcuni hanno ora sperimentato in modo sensorio - che hanno cioè "veduto", "contemplato", "udito" e perfino "toccato"-: la Parola incarnata, Vita eterna che, rendendosi visibile, suscita in chi la vede una testimonianza gioiosa. Il brano evangelico citato conclude: «Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta» (1 Giov. 1, 4).

i reparti di psichiatria di Firenze

Repubblica, edizione di Firenze 22.11.04
A Firenze non c'è una struttura per loro, l'alternativa è il trasferimento a Pisa
Minorenni con crisi psichiatriche ricoverati insieme agli adulti
di MICHELE BOCCI

A Firenze i ragazzini tra i 15 e i 18 anni con crisi psichiatriche gravi vengono ricoverati insieme agli adulti, nei reparti di Ponte Nuovo o Ponte a Niccheri. Minorenni quasi sempre al primo ingresso in ospedale che finiscono in ambienti non adatti a loro, in mezzo a malati psichiatrici che spesso hanno bisogno di cure completamente diverse. Un´altra possibilità per i circa 20 adolescenti che vivono in provincia e una volta all´anno accusano una crisi è il trasferimento all´istituto Stella Maris di Pisa. Eppure a Firenze una neuropsichiatria infantile c´è. Si trova a Careggi ed è diretta dal professor Massimo Papini. «Da anni abbiamo chiesto i mezzi per far fronte anche alle emergenze - dice il primario universitario - Per le risorse che abbiamo possiamo occuparci solo delle urgenze». In effetti sono proprio anni che si va avanti così. La posizione di Papini è ben nota ai vertici di Careggi, ma anche di Asl, che segue i problemi psichiatrici dei minori con i servizi territoriali, e Meyer, che non ha letti propri a disposizione per questi malati. Anche la Regione è a conoscenza della situazione e proprio in questo periodo sono in piedi almeno un paio di commissioni, una delle aziende e una del dipartimento sanità, che mirano a risolvere il problema fiorentino. Quello di una zona abitata da quasi un milione di persone che non riesce a mettere a disposizione dei minorenni che soffrono di disagi acuti una struttura di ricovero adeguata. «Da cinque anni a questa parte i pazienti gravi stanno aumentando in modo preoccupante - dicono dalla psichiatria della Asl - Perché cresce il disagio giovanile, soprattutto per il gran numero di immigrati, ma non solo». La cronaca di queste settimane racconta di queste difficoltà - dai suicidi alle baby-gang fino al fratello che ha minacciato la sorellina con il coltello - che fortunatamente solo in una piccolissima parte dei casi sfociano in un ricovero ospedaliero.
Mentre Asl e Meyer si organizzano per avere una consulenza neuropsichiatrica infantile nei loro pronto soccorso e riorganizzano l´assistenza territoriale, le aziende si scrivono lettere. Dal Meyer si avverte Careggi che quando, tra circa un anno, ci sarà il nuovo ospedale nella ex Villa Ognissanti le cose dovranno cambiare. «In quella struttura ricovereremo le emergenze psichiatriche - dice il direttore del pediatrico Paolo Morello - Ho già avvertito gli interessati: se il personale della neuropsichiatria infantile di Careggi vorrà lavorare con noi dovrà adattarsi alla novità. Altrimenti prenderemo altri medici». Ma anche Careggi sembra intenzionata ad imporre comunque ai suoi di fare le emergenze. Intanto Papini espone le sue ragioni: «La nostra struttura non è sicura per affrontare quel tipo di problemi. Non è soltanto di mancanza di spazio, ma di un progetto che organizzi la risposta. E poi se un ragazzino con una crisi psichiatrica grave viene messo in una stanzina il suo problema diventa più esplosivo che se fosse ricoverato, faccio per intendersi, in una palestra. E´ un po´ la differenza che c´è tra mettere una bomba in lavatrice o in uno spazio più grande. I danni dell´esplosione nel secondo caso sono minori». Il problema è che ad oggi le «bombe» sono ricoverate comunque in stanzette, per di più insieme agli adulti.

psicofarmaci e altro

il manifesto 21.11.04
AEROSOL
L'inquietante psicofarmaco
di ROBERTO SUOZZI

Il «Progetto italiano salute mentale adolescenti», meglio conosciuto come Progetto Prisma (acronimo), condotto su bambini in scuole selezionate, che ha tra gli scopi fondamentali quello di conoscere e acquisire dati sul disagio psichico della preadolescenza e di programmare «l'evoluzione dei servizi specifici, di prevenzione, diagnosi e cura» avanza implacabile. A dirla così, per molti addetti ai lavori, Prisma, che ha in pratica lo scopo di indagare la salute mentale dei bambini, solleva, volendo essere eufemistici, «perplessità, inquietudini, interrogativi». Se poi ci si attiene alla valutazione scientifica del progetto le inquietudini prendono corpo in critiche (severe) alla metodologia dell'indagine e quanto altro. I medici e i ricercatori della mente, pertanto, hanno scoperto che su 5627 scolaretti, tra i dieci e i quattordici anni, di scuole urbane, il 9,1% avrebbe, secondo il test a risposte multiple (con domande stravaganti direi) mostrerebbe disturbi psichici, e che una parte di questi soffrirebbe di ADHD. «Disturbo da deficit dell'attenzione con iperattività» è l'ADHD (Attenting Deficit Hyperactivity Disorder) che appunto colpirebbe bambini in età prescolare e scolare. Disturbi dell'attenzione e iperattività sono le manifestazioni del «male», diagnosticati con osservazioni assai superficiali, per altro nello spazio temporale di poche ore, nonché su tests semplicistici quali ad esempio: «il bambino pone una domanda e non attende la risposta» oppure «si lascia distrarre facilmente da stimoli esterni», oppure «interrompe o si intromette nelle conversazioni o nei giochi degli altri».
Uno dei punti in questione è dibattere sull'ADHD, sulla sua stessa esistenza (come patologia) che viene messa in dubbio da molti, ma che ha «stimolato» in Italia la nascita di un Registro Italiano (che di fatto ha avallato l'esistenza della malattia). Curioso, e a noi piacciono gli eufemismi, è che dal marzo 2003 un decreto ministeriale considera una sostanza anfetaminica, a base di metilfenidato, il famoso Ritalin, non più stupefacente, bensì uno psicofarmaco. L'indicazione del Ritalin che in America va giù come l'acqua, è il suo utilizzo nella cura dei bambini affetti da ADHD. Il metilfenidato è un'amfetamina già usata come dimagrante ed è euforizzante; ancor oggi è oscuro il suo meccanismo biochimico fondamentale. Più certi sono i rilevanti effetti collaterali e la dipendenza che essa stessa può dare: «un uso abusivo del farmaco può indurre marcata assuefazione e dipendenza psichica con vari gradi di comportamento anormale. Si richiede un'attenta sorveglianza anche dopo la sospensione del prodotto poiché si possono rilevare grave depressione e iperattività cronica»; è quanto riporta la stessa multinazionale (Novartis) produttrice del farmaco, negli Stati uniti diversi medici psichiatri hanno lanciato un forte allarme. Al di là degli effetti collaterali del Ritalin, si sollevano altre argomentazioni di carattere medico e culturale, di una medicalizzazione e di un controllo farmacologico di una società in avanzato stato di decomposizione. Troppo poco per un solo «Aerosol», per queste argomentazioni già sollevate da molti psichiatri, operatori della salute e associazioni.

Yahoo! Salute 22.11.04
Verso l'eccessiva medicalizzazione del disagio psichico?
Di Italiasalute.it

Arrossire, mostrare timidezza o tristezza rischiano di diventare un buon motivo per somministrare dei farmaci perché sono il sintomo di un disagio psichico da curare? È la preoccupazione mostrata da un'insegnante in una lettera alla redazione di Italiasalute.it:

Egr. Direttore,
nel recente congresso della Federazione Mondiale della Salute Mentale, cinquemila psichiatri riunitisi a Firenze dal 10 al 13 c.m., hanno preso a cuore la salute mentale dei nostri bambini ed hanno annunciato che ora tengono sotto osservazione i nostri figli nelle scuole per prevenire il “disagio psichico dei bambini in età scolare”.
“….comportamenti che psichiatri e insegnanti valutano con attenzione se persistono nel tempo e si manifestano in modo evidente.
1)Reazioni fisiche ed emotive eccessive: scoppi di pianto, riso o tristezza esagerati, rossore o pallore improvvisi.
2)Manifestazioni d’ansia: stati d'allarme non giustificati, eccessiva timidezza, paure sproporzionate nei rapporti sociali, timore ossessivo di deludere le aspettative di genitori e insegnanti.
3)Atteggiamenti depressivi: isolamento e apatia, difficoltà ad instaurare relazioni.
4)Comportamenti eccessivi: reazioni aggressive non giustificate o sproporzionate rispetto ad eventi avversi o conflittuali, ripetersi di episodi violenti.
5)Disturbi dell’apprendimento: scarso rendimento scolastico pur in presenza di un atteggiamento impegnato e assiduo.
6)Difficile rapporto con cibo: rifiuto, scarsa o eccessiva assunzione di alimenti.
7)Svantaggio familiare: appartenenza ad una famiglia in difficoltà con gravi problemi economici e di emarginazione”
(La Nazione inserto Firenze del 13/11/04 pag. II).

Tutti questi sono secondo la comunità psichiatrica segnali dell’esistenza di un disagio psichico, casi di cui lo psichiatra si dovrà prendere cura e curare, ma con quali terapie?
Naturalmente lo psicofarmaco che risolverà questi disturbi è già pronto, lo hanno presentato le case farmaceutiche che hanno sponsorizzato il suddetto congresso.
Sempre nello stesso congresso, casualmente, è stata data un’altra gran notizia:
“Prozac, i medici americani hanno dato il via libera all’uso di questo farmaco per curare anche i bambini colpiti dalla depressione. Il prodotto è stato autorizzato anche per i piccoli di 8 anni di età”

(La Nazione inserto di Firenze del 13/11/04 pag. III).
Il Prozac è già tristemente noto per gli effetti devastanti sulla mente di adulti che lo assumono. Tra il 1990 ed il 1995 più di 800 famiglie, parenti di persone vittime del Prozac, hanno intentato e vinto molte cause contro la casa farmaceutica produttrice, perché i loro parenti si erano suicidati e in alcuni casi avevano ucciso anche i figli a causa degli incubi o impulsi omicidi e suicidi che esso provoca.
Ora, grazie a queste nuove “scoperte” fornite dalla psichiatria, non solo abbiamo gli elementi per individuare il disagio psichico dei nostri bambini, ma abbiamo anche la “terapia”.
La psichiatria sta facendo un’ottima campagna di marketing per avere più soldi dai governi, procurarsi futuri clienti ed incrementare i propri affari.
C’è un particolare che desta notevole preoccupazione: il target di questa campagna sono i nostri bambini ed i bambini rappresentano il futuro di questa società.
Forse gli psichiatri sono vicini a realizzare il loro sogno: trasformare il pianeta in una gran corsia d’ospedale dove loro con i camici bianchi e le mani dietro la schiena passano tra i letti per assicurarsi che tutti siano tranquilli e dietro loro le infermiere con il carrello pieno di pillole da somministrare così che regni la pace?
Dovrà essere questo il futuro della popolazione di questo pianeta?
Penso che sta a noi dire no e impedire che questo succeda.
Un'insegnante

il manifesto 21.11.04
una lettera al giornale
Insegnanti e psichiatri


Con sempre più frequenza viene riportata dai media la notizia che l'istituto di ricerca tal dei tali o lo psichiatra di turno, ha scoperto l'esistenza di qualche disturbo o malattia, questo va dal «panico» alla «disfunzione nicotinica» alla «intossicazione da caffeina» (se la persona smette di fumare o di bere caffè), alla «disfunzione alimentare» se vostro figlio preferisce mangiare cibo di scarso valore nutritivo, così come vengono illustrati nel «Manuale statistico di diagnosi» (Dms IV) della psichiatria. Oggi esiste una diagnosi psichiatrica per ogni nostro male. Se una persona balbetta è una «malattia mentale», chi soffre di emicrania in realtà ha una «disfunzione del dolore». Il bambino irrequieto o troppo zelante nel gioco è «iperattivo» oppure soffre di disfunzione da deficit di attenzione. Se uno studente ha voti bassi in matematica si tratta di un «disturbo del calcolo». Se avete problemi nel comporre un testo scritto o fate fatica nell'organizzarne i paragrafi, questo non è un problema di pertinenza del vostro insegnante, bensì una «disfunzione nello sviluppo della scrittura espressiva». Se un adolescente litiga con i genitori non si tratta di crescita difficile o di tentativo di affermare la propria indipendenza, ma di «disturbo oppositivo provocatorio». Se vostra nonna non ricorda dove ha lasciato le scarpe e se ha pagato o meno la bolletta del telefono il mese scorso, ci sono precise basi psichiatriche per ricoverarla a forza in una casa di cura. Che questo proliferare di malattie serva a spingere sempre più i governi a stanziare fondi alla psichiatria è solo un aspetto della medaglia, l'altro molto più pericoloso, è che quando alle persone si diagnostica una malattia mentale e il comportamento normale viene ridefinito, chiunque può essere colpito. Alla diagnosi in genere segue la «terapia» psichiatrica, e quali sono le cure per tali disturbi? Elettroshock, shock insulinici, farmaci dannosi alla mente che non si indirizzano alla fonte o alla causa dei problemi, se tali esistono, e nessuna ne cura alcuno. Ritengo che questa situazione sia davvero allarmante e dovrebbe essere posto un freno al dilagare della psichiatria soprattutto nell'ambito educativo svilendo la figura degli insegnanti e togliendo loro il compito di educatori.
Margherita, insegnante

sinistra
Aprile: il congresso di Rifondazione

aprileonline.info 23.11.04
Centrosinistra. PRC a Congresso: la coalizione elettorale tema centrale
Fare la differenza
Si apre il difficile percorso del congresso di Rifondazione. Il Prc è chiamato a trasformare se stesso e la coalizione in cui ha deciso di stare a pieno titolo. Una scommessa che chiama a raccolta tutta la sinistra radicale, una sfida dagli esiti incerti ma che vale la pena di accettare

“Make the difference” dicono gli Americani. Fai la differenza. Nel linguaggio aziendale vuol dire che una persona o una fantasiosa trovata possono sbaragliare la concorrenza. In quello politico, che un leader, una vision, una certa politica, possono convincere gli elettori a dare il consenso a questo o quello dei duellanti. Ad esempio il conservatorismo teologico (la dottrina dei teocons) è ciò che ha fatto la differenza nelle elezioni presidenziali del 2 novembre. Tradotto in italiano “fare la differenza” perde questa connotazione un po’ destrorsa. E può suonare come “rendere differenti, alternativi, diversi” se stessi e l’ambiente in cui si opera.
E’ questo, forse, il compito che aspetta Rifondazione Comunista alla vigilia di un congresso impegnativo e non scontato. Sei mozioni in campo sono qualcosa che non si vede tutti i giorni. Qualcosa che denota da un lato una dose di pluralismo che è difficile trovare in altre formazioni politiche, ma dall’altra una insidiosa babele di linguaggi, opzioni strategiche, politiche e visioni del mondo.
Fare la differenza, dicevamo. Prima di tutto rendere differenti se stessi. Rifondazione esce da diversi anni di autoghettizzazione ideologica. La tesi delle due destre, l’idea cioè che non vi sia sostanziale differenza tra il centrosinistra e il centrodestra, ha portato Bertinotti e il suo partito prima ad una pesante scissione con Cossutta e Diliberto, che ha privato il Prc di diversi dirigenti, amministratori e quadri e del 2% dell’elettorato. Poi al minimo storico di consenso nel 2001. Quella fascia di elettori ondeggiante tra Ds e Rifondazione non ha visto di buon occhio l’alternatività del Prc rispetto al centrosinistra più che al centrodestra.
In questi tre anni, tuttavia, molta acqua è passata sotto i ponti. I movimenti alterglobal, la ripresa della conflittualità di un sindacato che, da Ciampi ad Amato e fino a Dini (e in parte anche dopo), aveva troppe volte subito i diktat delle compatibilità, il sorgere di un rifiuto di massa contro la guerra che ha investito in modo particolare il nostro paese, la nascita di una borghesia intellettuale radicalmente e culturalmente antiberlusconiana. In poche parole, nuove soggettività politiche che hanno preso le mosse non dalle scrivanie dei leader politici, ma dal cuore della società, dalla parte migliore del paese, come si diceva un tempo. Soggettività che non si sono fermate alla denuncia, ma che hanno avuto la capacità – o forse la fortuna – di far diventare senso comune le proprie parole d’ordine.
Queste soggettività sono state la scommessa di Bertinotti e del suo partito. Stare nei movimenti rinunciando all’egemonia su di essi, ma al contrario facendosi contaminare. Una politica che ha pagato perché il Prc è oggi uno dei più interessanti laboratori di idee nel panorama politico italiano, anche al di là dei suoi evidenti limiti in altri campi. Nonviolenza, beni comuni, pacifismo. E ancora analisi della precarizzazione della società e superamento della vecchia concezione della classe operaia. Suggestioni, stimoli, idee nate nei movimenti, che hanno contaminato un partito oggi lontanissimo dalla riproposizione stantia del vecchio comunismo, ma anche dal riformismo pallido dei Ds che non hanno fatto davvero i conti con le trasformazioni della società, ma più semplicemente hanno assunto altre classi di riferimento, altri valori, altra sostanza.
La scommessa che Bertinotti propone oggi al suo partito è più impegnativa: trasformare questo patrimonio in governo. Fare la differenza anche fuori di sé. E usare il governo come strumento per far lievitare i movimenti e le loro idee. Si tratta di una scommessa rischiosa, dagli esisti incerti e che può naufragare con estrema facilità. Una volta arrivati al governo, non è affatto detto che si abbiano gli spazi di manovra per realizzare questo progetto. I movimenti poi non sono certo in un periodo di grande vitalità. Gli alleati potenziali fanno di tutto per divaricarsi dalla prospettiva di un programma comune chiaramente progressista.
Ma è una scommessa che vale la pena di accettare. La società italiana è profondamente cambiata in questi anni. Il deposito delle grandi mobilitazioni è rimasto nella testa e nella pancia delle persone. Gli elettori non sono più disposti ad accettare un leader purché sia, una coalizione purché sia, un programma purché sia. Vogliono cacciare Berlusconi, ma subito dopo pretendono che si facciano, si dicano, si pensino cose di sinistra. Il problema non è più l’alternanza (io farò meglio di te). E’ per davvero l’alternativa (io sarà differente da te).
Detto ciò, non può essere solo il Prc a lavorare in questa direzione. Tutta la sinistra radicale ha di fronte il compito di cambiare se stessa e la coalizione democratica. I ritardi sono enormi: manca, per la coalizione, un programma. Non parliamo solo della lista delle cose da fare, ma dell’idea di società che ti fa compilare una lista invece che un’altra. E in secondo luogo manca alla sinistra radicale una elaborazione compiuta che trasformi le suggestioni in politiche concretamente applicabili. Queste due lacune dovranno presto essere colmate se davvero si vuole fare la differenza.