domenica 3 ottobre 2004

sull'Unità
di giovedì 30 settembre 2004

DUE LETTERE PUBBLICATE:
UNA DI PAOLO FIORI NASTRO
L'ALTRA DI DAVID ARMANDO

Caro Cancrini, ho apprezzato...


Prof.Paolo Fiori Nastro, S.S. di psichiatria e psicoterapia, Università di Roma La Sapienza
Cara Unità, da addetto ai lavori ho letto con grande interesse, ed ho molto apprezzato, la risposta di L. Cancrini alla lettera del Sig. Ugo Pirro, pubblicata sul vostro giornale il 27 09 us. L’elemento che ho trovato suggestivo e stimolante è stato l’aver inserito la storia e la ricerca di Massimo Fagioli all’interno di una riflessione su “movimenti considerati culturalmente e socialmente rivoluzionari”. Quello che vorrei sottolineare e specificare è che l’elemento veramente rivoluzionario, all’interno della storia di Fagioli, è la nuova teoria pubblicata oltre che nel libro già citato nell’articolo Istinto di morte e conoscenza anche in altri due volumi pubblicati a distanza di pochi anni dal primo. Teoria che rappresenta il germe da cui sono poi derivate sia la sua critica radicale alla psicoanalisi che la sua prassi psicoterapeutica pubblica, nota come Analisi collettiva. Ciò che a mio parere va sottolineato è che la pubblicazione dei tre volumi ha fatto sì che emergesse, nei primi anni ’70, l’immagine pubblica di uno psichiatra che proponeva la possibilità di una psicoterapia realmente trasformativa. Ritengo che sia questa identità o immagine di psichiatra che ha spinto poi N.Lalli ad invitare M. Fagioli all’Università (1975) ma soprattutto ha spinto centinaia e forse migliaia di persone a rivolgersi a Fagioli per chiedere la cura della propria malattia. Si è trattato quindi di una domanda emersa spontaneamente nella società, alla quale Fagioli ha avuto il coraggio e forse la “presunzione” di saper rispondere. Ritengo che ciò sia accaduto in virtù del fatto che la prassi terapeutica definita Analisi Collettiva è basata sin dal suo inizio su tre pilastri fondamentali: setting – transfert – interpretazione dei sogni. In particolare due parole sul setting che ci servono per evidenziarne l’aspetto “rivoluzionario”.
Fagioli è riuscito a conciliare quanto non era mai stato realizzato e cioè il rigoroso rispetto del setting e la assoluta libertà di ciascun partecipante che può, appunto, liberamente regolare la modalità e l’intensità del suo rapporto con il terapeuta. Rapporto, inoltre, mai soggetto ad alcuna clausola contrattuale neppure di natura economica. Fagioli è riuscito così a portare nel privato quanto è prerogativa della struttura pubblica, cioè la libertà e la gratuità della prestazione medica. Il rigoroso rispetto del setting vuol dire anche che la prestazione medica richiede un certo tipo di rapporto (definito transfert) che si può realizzare soltanto all’interno dello spazio e del tempo della seduta di psicoterapia. Terminato quel tempo e usciti da quello spazio ognuno dei partecipanti è libero di intraprendere le ricerche che ritiene più stimolanti. [...] L’essere medico e l’essere paziente rimangono rigorosamente circoscritti alla seduta di psicoterapia.


Parliamone ancora...

David Armando, Ricercatore Istituto per la storia del pensiero filosofico e scientifico moderno - CNR
Caro Cancrini, la sua risposta, sull’“Unità” del 27 u.s., a un lettore che ricordava la sua partecipazione al convegno napoletano del 1996 per i 25 anni del libro di Massimo Fagioli “Istinto di morte e conoscenza” (convegno alla pubblicazione dei cui atti, come lei sa, ho collaborato) ha il merito di riproporre la discussione su un’esperienza – quella di Fagioli, appunto, e della ricerca collettiva che a lui fa riferimento – la cui rilevanza nell’attuale panorama culturale è a mio avviso assai maggiore del rilievo attribuito ad essa dai mezzi di informazione, e di farlo in termini assai diversi da quelli che spesso in passato (non da lei) sono stati usati.
Già dal titolo (“La storia dell’uomo, tra chiese e rivoluzioni”) e poi dalle prime righe questo è evidente: non c’è più il “selvaggio” dei tempi lontani ma alla vicenda di Fagioli è attribuita rilevanza storica nel grande contesto delle “rivoluzioni” contro le Chiese, siano esse quella cristiana, quella marxista, quella psicoanalitica .
Non concordo con alcune delle sue considerazioni, come quelle che riguardano il vasto gruppo di persone che a vario titolo e in varie forme hanno seguito e seguono la ricerca teorica e la prassi terapeutica di Fagioli, ma questo rientra nel libero gioco delle opinioni senza il quale non esiste dialettica. C’è un punto, però, in cui credo francamente che la sua ricostruzione dei fatti non corrisponda alla realtà. È dove accomuna la posizione di Fagioli con i tentativi «eretici» di Lacan e Fromm di «squarciare il velo dell’ortodossia» in nome «di un ritorno... a quello che essi ritenevano il messaggio originale di Freud». Al contrario, Fagioli non individua nel pensiero di Freud un nucleo «originale e creativo» solo in un secondo tempo irrigidito in una «pratica di normalizzazione» ad opera dell’istituzione psicoanalitica creata per difenderlo, bensì punta il dito alla radice, sulla sua inconsistenza teorica, sui fondamenti religiosi dello stesso concetto di inconscio, che Freud peraltro non ha scoperto ma ha ripreso da una lunga tradizione precedente.
In altre parole, il «silenzio dell’analista» denunciato nel passo di “Istinto” che lei cita non è attribuito all’istituzione ma all’assenza, a monte, di un pensiero valido. Proprio il fatto che la “rivoluzione” di Fagioli abbia avuto come obiettivo la teoria, e solo conseguentemente le istituzioni, la rende distante e diversa dalle tante prassi senza teoria che costituiscono l’arcipelago della contestazione del ’68, in cui pure storicamente e cronologicamente essa si situa, e ha reso possibile che sulla sua base si sia svolta negli ultimi trent’anni una libera ricerca che ha mostrato e mostra la sua vitalità sia sul piano strettamente psichiatrico che su quello più ampiamente culturale.

Pirro, Cancrini, l'Unità
e MASSIMO FAGIOLI

l'articolo dell'Unità del 27 settembre
a pagina 27


taglio basso, a tutta pagina

LA STORIA DELL'UOMO, TRA CHIESE E RIVOLUZIONI

di Luigi Cancrini

in risposta ad una lettera di Ugo Pirro

Gentile professor Cancrini,
navigando su Internet ho avuto solo oggi notizia del suo intervento al convegno indetto dal professor Fagioli nel lontano 1996 e in cui lei espresse un garbato dissenso circa la tesi su Freud sostenute dal dinamico promotore del convegno. Non ne so molto, ma da quanto sento dire dai suoi seguaci e pazienti Fagioli dedica a Freud lo stesso disprezzo che merita un mestatore. Ovviamente non intendo negare il diritto al dissenso, ma colpisce il tono e lo stile che i seguaci del professor Fagioli usano nei riguardi di un grande pensatore del Novecento.
Mi chiedo, e le chiedo, che differenza passa fra l'influenza intellettuale che un maestro esercita sugli allievi e la sudditanza psicologica che un uomo riesce ad esercitare sui giovani? Dove, infine, finisce la terapia e la libertà di insegnamento e dove inizia la sudditanza psicologica?

Ugo Pirro

Caro Ugo,
vorrei partire, per rispondere ad un quesito difficile, da un articolo comparso nei primi anni '70 di Ignazio Matte Blanco, uno psicoanalista che è stato uno dei più autorevoli tra i didatti, miei e di Fagioli, nell'Istituto di Psicoanalisi dove tutti e due allora studiavamo. Dedicato al problema dell'ortodossia nelle istituzioni, l'articolo rifletteva sulla evoluzione nel tempo di tre grandi Chiese della sua e della nostra storia: quella propriamente detta di Roma e dei Papi, quella comunista dell'Internazionale e quella psicanalitica, dell'International Psychoanalitic Association, il gruppo che ufficialmente ha raccolto l'eredità culturale e scientifica di Freud. Blanco sosteneva che quelle tre chiese si erano formate intorno al tentativo di difendere la vitalità di un discorso originale e creativo dalla diffidenza e dalle resistenze che ad esso veniva opposto da una realtà sociale che li sentiva come scomodi (perché culturalmente o socialmente rivoluzionari) e che esse avevano svolto, da questo punto di vista, una fuzione estremamente utile alla crescita complessiva di tutti. Ma sostenendo anche che, una volta adempiuta questa funzione, esse si erano trasformate progressivamente in organizzazioni interessate soprattutto a conservare se stesse.
Espressione diretta di quello che psicanaliticamente è l'istinto di morte, l'ortodossia e i suoi rituali erano diventati, secondo Matte Blanco, il centro delle attività proprie di istituzioni in crisi arrivate a rinnegare, nel tempo, il discorso intorno a cui si erano strutturate: come accade nella Leggenda del Grande Inquisitore del capolavoro di Dostojevskji in cui il capo della «Santa Inquisizione» decide, per salvare i Vangeli, di condannare di nuovo a morte Gesù.
Forte e soggettiva, la tesi di Matte Blanco è particolarmente adatta a una riflessione sulla vicenda umana e scientifica di Massimo Fagioli. Non vestivamo alla marinara ma eravamo tutti e due molto giovani nel tempo, quello del '68, in cui la contraddizione inaccettabile sembrava proprio quella di una psicoanalisi nata come ascolto creativo e trasformata dall'istituzione in una pratica di normalizzazione: una pratica in cui l'analista diventava l'alleato dei genitori e di una autorità scossa dal movimento dei giovani e dal bisogno di una nuova libertà della coscienza. Tecnicamente, in una pratica in cui (Fagioli lo scriveva in «Istinto di morte e conoscenza», 1970) «il silenzio dell'analista ed il suo atteggiamento aspettante» diventavano strumento della conservazione nella misura in cui lo portavano ad una «deresponsabilizzazione inaccettabile e a una non accettazione sostanziale delle dinamiche inconsce del paziente».
Condivisa da molti, la critica di Fagioli fu alla base, allora, di molti abbandoni dell'Istituto e di una chiusura a riccio di quelli che non la accettavano: non solo in Italia, ma anche altrove, se pensiamo al modo in cui altri grandi "eretici", come Jacques Lacan o Erich Fromm, si dedicarono, su strade diverse, a un tentativo analogo di squarciare il velo dell'ortodossia. Nel nome di un ritorno, sempre, a quello che essi ritenevano il messaggio originale di Freud.
Gli esiti di queste ribellioni furono ovviamente assai diversi. Positivi per la chiesa psicoanalitica che ne ha preso atto, dopo il rifiuto iniziale, aprendosi a pratiche molto meno rigide. Legati, nel caso di Fagioli come in quello di Lacan, alla esuberanza di una creatività che tendeva ad esprimesri liberamente nelle situazioni duali e gruppali ma che difficilmente arrivava, però, alle formalizzazioni chiare, comprensibili e univoche necessarie comunque per dialogare con quelli che hanno fatto un percorso diverso.
Al di là delle intenzioni da cui si è partiti, caro Ugo, quello che ha avuto sempre più importanza nei gruppi che si ispirano alla pratica e alla teoria di Massimo Fagioli è stato paradossalmente e di nuovo il problema dell'ortodossia. Favorito dall'isolamento culturale in cui il gruppo è stato messo all'inizio ma di cui lo stesso gruppo ha finito in parte per compiacersi. Ma favorito, anche, dal fascino della persona e dalla sua difficoltà, specifica, a lasciare che il vero protagonista delle sedute e delle terapie sia il paziente. Definendo «difficile da realizzare se non addirittura impossibile» l'idea che sia proprio lui a «ricavare dai suoi ricordi le dinamiche inconsce difettose del passato per correggerle». Fagioli è arrivato a determinare, infatti, una situazione in cui l'intervento "attivo" diventa, a volte, troppo attivo: suggerendo o imponendo quello che non c'è a qualcuno (allievo o paziente: che sono, non a caso e troppo spesso, la stessa persona) che ha bisogno di un altro che gli imponga qualcosa.
Il mio ideale di terapeuta, nel gruppo e nella vita, è quello del maestro più caro, Vincent Morrone: uno davvero «capace di confondersi con la tappezzeria della stanza in cui lavora» insegnando che la psicoterapia è soprattutto attivazione delle risorse. L'uomo sta bene quando non ha bisogno di Chiese che lo proteggono dal dubbio e dalla paura e noi avremmo tutti bisogno di sedi tranquille (non di platee piene di spettatori entusiasti) in cui discutere di tutto questo anche con Massimo Fagioli.

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AVVENIMENTI n°38, adesso nelle edicole
Federico Masini
in Cina

I super sviluppati
Vecchia agricoltura e boom di telefonini. Ecco come la Cina sta scalando la modernità, bruciando tutte le tappe. Le Olimpiadi del 2008 il nuovo biglietto da visita della repubblica popolare per le "ex" potenze occidentali
L’Italia scopre la Cina
di Federico Masini

Sembra finalmente che l’Italia abbia scoperto la Cina. Dopo anni di reticenza, di sporadici articoli di “grandi firme” sui quotidiani italiani o peggio ancora fugaci passaggi televisivi di giornalisti improvvisati, come accadde durante la crisi della SARS lo scorso anno, quotidiani, inserti settimanali, periodici e perfino i canali della televisione di stato, stanno iniziando a pubblicare con regolarità notizie sulla Cina, come forse non era mai accaduto in precedenza. A che cosa si deve questo improvviso, quanto tardivo interesse per la Cina? Perché la Cina adesso fa notizia?
Dopo decenni in cui la paura del crescente sviluppo cinese era stata esorcizzata con il totale disinteresse da parte del mondo politico e cultuale italiano, in primavera, in particolare dopo la visita a Roma del primo ministro cinese Wen Jiabao, si è assistito ad un pullulare di articoli sulla Cina, dedicati in primo luogo allo stupefacente sviluppo economico cinese. Lo sconcerto quindi ha lasciato il posto all’interesse, principalmente economico, del nostro paese verso il più grande mercato in espansione. Ormai da più parti si afferma che la ripresa economica degli USA dipende dall’effetto traino del gigante asiatico e la speranza che questa tocchi anche l’Europa dipende dalla nostra capacità di sfruttare le opportunità offerte dal mercato cinese. Dopo i primi articoli nei quali i nostri corrispondenti dalla Cina si sono affrettati a celebrare, o stigmatizzare, come il fenomeno della globalizzazione sia arrivato anche in Cina, a lungo andare anch’essi sembrano scoprire come la realtà cinese male si presta a facili generalizzazioni: Pechino e Shanghai pullulano di MacDonald e Kentucky Fried Chicken, le loro strade sono intasate di Audi, ma basta fare due ore di treno fuori da quelle città per scoprire come ci siano ancora contadini che trascinano a spalla l’aratro, sarchiando aride e ingrate terre. Cos’è la Cina? Il paese dove si vendono più cellulari al mondo o il continente agricolo più vasto al mondo. Anche noi finalmente ci accorgiamo come la Cina possa essere una realtà composita, fatta di contraddizioni e sperequazioni, come molti altri paesi al mondo, incluso il nostro.
Ciò che caratterizza meglio l’attuale fase che sta vivendo la Cina, e che credo si possa ben adattare a tutto il paese, è il dinamismo e la voglia di cambiamento: i cinesi hanno scoperto la possibilità di cambiare, tutto cambia in continuazione e con una rapidità a noi sconosciuta; cambia il paesaggio urbano: ovunque nelle città grandi o piccole nascono nuovi grattacieli e nelle campagne sorgono nuove costruzioni; cambiano le abitudini alimentari della popolazione: a Pechino o Shanghai si susseguono le mode culinarie, oggi sorgono ristoranti di “collo di anatra”, laddove sei mesi prima erano stati aperti negozi che vendevano “astice in salsa rossa”; la gente cambia lavoro o casa con una velocità impressionante: ovunque si vedono traslochi e spostamenti di mobili; le edicole ospitano ogni giorno giornali o riviste nuove, per lo più destinate a vita breve; le librerie tengono negli scaffali i volumi solo poche settimane, subito sostituiti da altri diversi e più nuovi. Tutto sembra cambiare con una rapidità impressionante, come se si assistesse al desiderio di rifarsi, in pochi lustri, di decenni di immobilità e stasi sociale e politica.
A giudicare dai resoconti dei commentatori nostrani, la Cina sembra cambiare solo nella sua realtà economica e sociale, ma non in quella politica; sembra che si attenda soltanto che la democrazia ed il suffragio universale possano un giorno giungere anche in Cina, per risolvere d’incanto tutti i suoi i problemi. In realtà anche la politica cinese cambia, anche se ad una velocità più ridotta: i governanti sembrano ora alternarsi in modo quasi indolore; come accaduto questa settimana, quando Jiang Zemin - già segretario del partito a Shanghai durante i fatti di Tian’anmen del 4 giugno 1989, richiamato a Pechino da Deng Xiaoping per sostituire il destituito Segretario del Partito Zhao Ziyang – si è finalmente fatto da parte, lasciando anche la sua ultima carica, quella di Presidente della Commissione Militare Centrale. Egli ha assicurato così una completa transizione verso una nuova generazione di governanti, conoscitori delle dinamiche internazionali, capaci di far crescere la posizione politica della Cina nel panorama internazionale, facendole giocare un ruolo nuovo, sia nella politica multilaterale dei consessi internazionali, sia rafforzando i legami con la Russia, nel tentativo di liberare lo scenario internazionale dal dominio americano.
La percezione del cambiamento è così forte che un viaggiatore, che avesse la fortuna di visitare la Cina, con gli occhi di due bambine, come è capitato a me questa estate, si renderebbe conto di quanto la Cina dei centri urbani possa sembrare il paese dei balocchi. Appena abbandonato il circuito dei grandi alberghi di lusso, i bambini occidentali, soprattutto se dagli colori cerulei, sono ancora visti come uno straordinario evento: ovunque, nei parchi come nei grandi magazzini, la gente si affolla per fermarli e poter scattare con loro una foto ricordo: famiglie intere li circondano nel desiderio di avere un’immagine dei fanciulli stranieri da riportare a casa, per mostrare agli amici il volto del biondo occidente. Un signore mi ferma per strada e mi chiede come ho fatto ad avere due figli, traduco alla prole la domanda, che le lascia basite; non sanno che avere due figli in Cina è il miglior status symbol, di ricchezza ed opulenza. Un vecchio amico mi viene a trovare con la sua fiammante Audi A6 con gli interni in pelle e, prima che io abbia modo di complimentarmi con lui, si affretta a far scendere dall’auto I suoi due figli, tanto vicini di età, da sembrare gemelli. Chiedo ad uno di loro se sono gemelli ed il padre raggiante mi risponde di no: è diventato così ricco da poter pagare la salatissima multa che gli ha permesso di tenere anche il secondo figlio. Perfino un tassista, uno di quegli autisti che guidano dodici ore al giorno, dividendo la macchina con un collega, in turni diurni o notturni, senza un giorno di riposo settimanale, si complimenta con me per la mia prole e mi dice raggiante che anche lui ha due figli e che ha potuto pagare la multa grazie al suo duro lavoro.
Nel desiderio di vedere quanto la Cina sia cambiata negli ultimi decenni, contatto i tanti amici, conosciuti oltre vent’anni fa, quando avevo vissuto in questa città come studente. Ritorno così nei posti della mia giovinezza: un lungo viale alberato, non completamente asfaltato, segnato ai bordi da un canale dove scorrevano le acque nere del quartiere, sovente dragato da un vecchietto maleodorante che raccoglieva I liquami per concimare gli attigui campi di verza. Quel viale è ora una autostrada a sei corsie per carreggiata, incrociato da una futuristica metropolitana sopraelevata. Provo a raccontare l’aspetto che aveva quel luogo solo vent’anni fai alle mie bambine che mi guardano stupite e mi chiedono con insistenza, se non avessi sbagliato posto. Andiamo poi a trovare un mio vecchio compagno di studi, che avevo salutato all’ingresso di un polveroso parco e del quale conservavo solo una sbiadita foto in bianco e nero, in cui eravamo entrambi ritratti vestiti “alla cinese” con scarpe di tela e casacca blu allacciata fino al collo. Ora è un uomo di successo, vive in una bella casa, con la colf, una contadina venuta dalla provincia. Mi parla a lungo della sua vita in questi decenni e il discorso cade, come spesso accade anche da noi, sull’educazione dei figli: la scuola, gli insegnati, le preoccupazioni per il futuro. La scuola dove va sua figlia Lulu è un’ottima scuola elementare, che si auspica possa consentire alla bambina di accedere ad una buona scuola media, che le schiuderà la possibilità di entrare in un buon liceo, da dove potrà partecipare al temutissimo esame statale per l’accesso all’università con qualche possibilità di successo. Come accadeva nell’antica Cina, l’accesso alle cariche dello stato, o alle grandi imprese statali o semiprivate, dipende infatti principalmente dalle scuole che si sono frequentate: le università cinesi sono rubricate in un rigido elenco nazionale, dalle prime della lista, Beida e Qinghua a Pechino, Fudan e Tongji a Shanghai, fino alle ultime arrivate nelle più sperdute campagne del profondo sud cinese. Il punteggio conseguito all’esame nazionale, che si svolge tutti gli anni ai primi di giugno contemporaneamente per oltre sette milioni di ragazzi appena usciti dalle scuole superiori, consente, secondo una rigida graduatoria, di accedere alle università. L’esame si svolge su quattro argomenti predefiniti a livello nazionale: politica, inglese, matematica e cinese. Pertanto, i genitori fin dai primi anni delle scuole elementari, costringono i piccoli allievi a subire corsi intensivi e di recupero, anche al di fuori del normale orario scolastico, spesso il sabato e la domenica, così da permettere agli alunni di essere competitivi nelle prove scolastiche. Poi, nel caso in cui ciò non fosse sufficiente, viene in aiuto il denaro: in modo ormai quasi istituzionalizzato i genitori infatti possono compensare I debiti formativi degli alunni versando ingenti somme agli insegnanti che in questo modo chiudono un occhio sulle manchevolezze degli scolari. Il sistema è così perverso, che il denaro sta diventando sempre più fattore discriminante per far progredire gli studenti nel curriculum scolastico. Accadeva così anche nell’antica Cina, dove la severità del sistema nazionale degli esami era accompagnata da un complesso sistema di retribuzioni in denaro che le famiglie versavano ad insegnati ed esaminatori per mantenere agli studi i propri rampolli e consentire loro di superare le varie prove concorsuali, che schiudevano loro, a quel tempo, la carriera mandarinale. Sotto questo riguardo la Cina sembra cambiata assai poco, tuttavia l’abnegazione nello studio, anche in un tale sistema di corruzione generalizzata, consente spesso ai più meritevoli di accedere alle migliori università del paese.
La scadenza annuale degli esami per l’accesso all’università è un momento così importante per tutto il paese, al punto che quest’anno è stata perfino spostata la visita a Pechino del Comitato Olimpico Internazionale poiché cadeva proprio durante la fatidica data delle prove per l’accesso all’università, quando tutta la Cina, dai ministri fino ai più modesti impiegati, si ferma per fornire assistenza ai propri figli che partecipano alle prove.
Altro argomento prediletto, in particolare dal popolo dei tassisti che affollano le strade di Pechino, sono le Olimpiadi del 2008, la grande occasione che la Cina è riuscita a costruirsi per imporsi definitivamente all’attenzione del mondo occidentale. Nell’agosto del 2008 tutto dovrà essere finito, le centinaia di grattacieli in costruzione dovranno essere terminati, le centinaia di migliaia di contadini, riconvertiti ai lavori edili, che si sono riversati nei cantieri della capitale, dovranno fare ritorno alle loro campagne, tutte le strade principali saranno asfaltate di fresco e la Cina intera tratterrà il respiro per evitare di inquinare ulteriormente l’aria della capitale. Il nuovo villaggio olimpico è già in fase avanzata di costruzione e tutto sembra così avanti nell’organizzazione che, se per un impossibile scherzo del destino, i giochi olimpici dovessero svolgersi con due anni di anticipo, questo non costituirebbe alcun problema. Le stesse Olimpiadi di Atene, viste a Pechino, erano presentate come una prova generale in vista del grande evento del 2008, chi aveva perso la medaglia veniva consolato in televisione con l’auspicio che potesse vincere a Pechino, chi invece l’aveva vinta veniva salutato con l’auspicio di ripetere l’impresa anche in Cina. La partita Italia-Cina di pallacanestro, trasmessa in diretta, è stata interrotta, poco sportivamente e senza preavviso, quando si è capito che l’Italia stava vincendo, e al suo posto è stata trasmessa a ripetizione la vincita della medaglia d’oro da parte di una mastodontica e mascolina sollevatrice di pesi.
La Cina si presenta così al viaggiatore più paziente come un mondo in tumulto, in continua lotta per il cambiamento, dove tuttavia restano saldi alcuni ferrei legami con il suo passato, comunista o addirittura imperiale: il sistema educativo, i riti della politica comunista, anche se leggermente snelliti e rielaborati, la sudditanza politica delle campagne nei confronti delle città, il controllo sui mezzi di informazione, ora liberi come mai nella storia millenaria della Cina, ma sempre impediti nella libera circolazione di idee e opinioni sui temi caldi quali il Tibet, i diritti umani, la pena di morte, la politica verso Taiwan, il connaturato ed atavico disinteresse dei cinesi per ogni questione attinente la religione, ecc. Questa miscela di cambiamento e conservazione rendono così la Cina, o meglio Pechino, un mondo ancora sconosciuto e così diverso dalla vecchia Europa, tanto da riuscire ad inumidire gli occhi perfino a due smaliziate bambine italiane sulla via del ritorno.


Domenico Fargnoli
si è chiusa la mostra di Siena

è disponibile
il nuovo libro di Domenico Fargnoli
“Homo Novus”
(sul sito è pubblicata per il momento solo una parte delle opere presenti alla mostra)

su SPAZI è conservata la raccolta degli articoli pubblicati da vari organi di stampa su questo evento
curata da Mentore Riccio
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nel quasi assoluto silenzio dei media
si commemora oggi il 60° anniversario
dell'eccidio di Marzabotto

IL GIORNO DELLA MEMORIA

a Marzabotto, nel 1944, 1830 inermi furono massacrati dagli esponenti di un'altra "superiore civiltà": i tedeschi comandati dal maggiore Reder

«In questi giorni si celebra anche il 60anniversario di altre stragi naziste. Numerosi gli appuntamenti per la Strage del Cavalcavia a Casalecchio. La cerimonia commemorativa è sabato 9 ottobre alle 10,30. Dal 7 al 9 le «serate della memoria» sul luogo dell´eccidio con immagini e suoni. Il 7 alle 18,30, consiglio comunale straordinario con il senatore Walter Vitali che consegna al sindaco Simone Gamberini il dossier desecretato sulla strage. Domenica 10 si ricorda a Monte San Pietro la lotta di liberazione nel Bazzanese e nella valle del Samoggia dove operava la Brigata Bolero. La strage di Ronchidos è stata già ricordata domenica 26 settembre. Il sindaco di Gaggio Bruno Gualandi ha intitolato una piazzetta del paese al «capitano Pietro», partigiano di «Giustizia e Libertà». A proposito della strage, un uomo trovò sotto le rovine i cadaveri di tredici persone, compresi la moglie e quattro figli. «Si chiamava Narciso Palmonari e non Palmieri come risulta dagli archivi americani», precisano a Gaggio».
(da Repubblica, cronaca di Bologna 3.10.04)

dal supplemento domenicale del Sole 24ore e dall'Unità del 3 ottobre 2004

Sole, Pagina 33
Ad occhi chiusi
Sogni d'oro, Medioevo
Un'epoca in cui il sonno era una porta per vedere il futuro: da Elio Aristide a san Gerolamo, fino ai due santi Gregorio, il passaggio dal paganesimo al cristianesimo avvenne anche di notte
di Franco Cardini

Recensione di : Patricia Cox Miller, «il sogno nella tarda antichità», traduzione italiana di Francesco Zappa e RossellaLozzi, Jouvance, Roma 2004, pagg. 344, €28


Sole, Pagina 41

Piergiorgio Odifreddi
La logica come tecnica per smontare pezzo per pezzo le astruserie dei concetti metafisici
Le trappole del pensiero
Infinito, anima, vero e falso. persino democrazia. Le insidie del liguaggio da cui sfuggire imparando le tecniche del ragionamento
di Armando Massarenti

Recensione di: Piergiorgio Odifreddi, «Le menzogne di Ulisse. L'avventura della logica da Parmenide ad Amartya Sen», Longanesi, Milano 2004, pagg. 288, €15


L'Unità, Pagina 21:

Delude la mostra al Palazzo dei Diamanti: molti comprimari e una catalogazione tematica che va stretta al movimento. Assenti le grandi opere di Braque e Picasso
Ma il Cubismo non è un album delle figurine
di Renato Barilli

«Il cubismo. Rivoluzione e tradizione», Ferrara, Palazzo dei Diamanti, fino al 9 gennaio 2005

"Bifo" Berardi e i dati dell'Istituto di Psichiatria di Londra

www.lalettera.it 3.10.04
Franco "Bifo" Berardi, parlando dell'uscita del film "Lavorare con lentezza" di Guido Chiesa, sul movimento del '77

[...]

Aveva qualche dubbio sull’esito della pellicola ?
Ero un pò preoccupato dal rischio nostalgia. Invece, non è un film sul “come eravamo”. Con l’attuale scenario del mondo, figuriamoci a chi può fregare di ravanare nostalgicamente tra le foto in bianco e nero degli anni ’70. Mentre invece questo film, a cominciare dal titolo, mette i piedi nel piatto, ci parla del presente. In particolare del presente di chi ha tra i venti e i trent’anni. Che vivono un momento drammatico: l’equilibrio psichico delle nuove generazioni è lacerato dall’esasperazione competitiva e dalla depressione. Pensate che secondo dati dell’Istituto di Psichiatria di Londra, pubblicati dal Guardian di qualche giorno fa, negli ultimi 5 anni tra i ragazzi tra i 20 e i 30 anni i suicidi si sono triplicati. E 2 uomini su 3 tra i 20 e i 46 anni prendono il Viagra prima di un incontro sessuale. Questo è il panorama di miseria personale, sessuale e materiale in cui ci sta precipitando questo modello di sviluppo.

[...]

sei film di Tarkovskij, completamente restaurati, alla Cineteca di Firenze

Repubblica cronaca di Firenze 3.10.04
L'EVENTO
Da domani un ciclo con 6 opere restaurate
Un Tarkovskij tutto nuovo
In programma anche un documentario sull'arte del regista russo

La Cineteca di Firenze apre la stagione 2004-2005 con un classico rimesso a nuovo. E rende omaggio ad Andrej Tarkovskij presentandone tutta l´opera: otto film, sei dei quali, quelli girati in Russia, messi in salvo e restaurati dalla Regione Lombardia. Da domani al 27 ottobre il cinema Castello (via Reginaldo Giuliani 374) ospita la retrospettiva completa del regista, che a Firenze trascorse gli ultimi anni della sua vita, accompagnata da alcuni documentari e interviste filmate e da una manciata di capolavori della grande tradizione cinematografica russa, da Ivan il terribile di Ejzenstejn (12 ottobre) a La madre di Vsevolod Pudovkin (19 ottobre).
La rassegna prende il via domani con Andrej Rublev (alle 18 e alle 21.15), il capolavoro ma anche l´opera più tormentata di Tarkovskij: bloccato a lungo dalla censura del regime sovietico, il film arrivò in Europa solo dopo molti anni dalla sua realizzazione, sull'onda della fama conquistata dal regista con Solaris, lo straordinario esperimento di fantascienza metafisica in programma l´11 ottobre nella versione integrale di quasi tre ore. Intorno alle riprese di Nostalghia (il 12, 19 e 27 ottobre) ruotano il diario per immagini Tempo di viaggio (27 ottobre) e i due filmati realizzati da Donatella Baglivo sul set del film: un´intervista al regista (12 ottobre) e un reportage sul suo lavoro con gli attori e lo sceneggiatore Tonino Guerra (19 ottobre). Si concentra invece sulla lavorazione di Sacrificio (in programma il 26 e 27 ottobre) il documentario di Micha Leszczylowski Directed by Tarkovskij (26 ottobre). Il biglietto per le proiezioni serali costa 6 euro (5 con la tessera della Cineteca), quelle del pomeriggio 5 euro (4 con la tessera).
(b.m.)

Emanuele Severino: la cremazione il nulla e la vita eterna...

Corriere della Sera 3.10.04
RICHIAMO DEL NULLA
di EMANUELE SEVERINO

I dati più certi riguardano Milano. Ma sembra che possano essere estesi a tutta l’Italia settentrionale. Al Nord la volontà di far cremare il proprio cadavere sta crescendo molto più rapidamente che al Sud. I motivi sono diversi. Ad esempio, quella volontà può esprimere il desiderio di semplificare i rapporti con i vivi. Forse si è sperimentata e comunque ci si è convinti dell’esteriorità delle forme tradizionali dell’inumazione e sparendo nel fuoco si aspira ad essere presenti in modo più autentico nella coscienza dei vivi.
Forse perché i vivi li si è amati poco e quindi non interessa nemmeno quel loro più o meno apparente rimpianto che è più visibile nell’inumazione che nella cremazione. (Senza con ciò escludere che si possa esser pieni di amore e insieme desiderare la cremazione). E queste convinzioni possono prendere più piede al Nord industrializzato, dove la complessità dei rapporti sociali è maggiore, quindi maggiore l’aspirazione alle semplificazioni, e dove la cultura contadina e il calore dei rapporti familiari del Sud sono andati illanguidendo.
Ma oltre a molti altri, un motivo può essere anche una sorta di vendetta verso la vita. È probabilmente più raro, ma più sintomatico e destinato a crescer di più. Ci si vendica della vita che, quel poco che ha dato, lo ha dato male e lo ha tolto presto; e allora non le si vuole lasciar nulla, si vuole incenerire e annientare perfino il proprio cadavere. In questo caso, il riscontrato aumento dei suicidi andrebbe messo in relazione alla crescita delle cremazioni. Che si presentano come forme di suicidio da parte di chi vivendo non è riuscito a uccidersi, e deluso dalla propria esistenza la vuole soppressa, incenerando perfino quel barlume di vita biologica che ancora per un poco rimane nel cadavere.
Più sintomatico, questo motivo della volontà di farsi cremare, perché più degli altri è segno dei tempi. Segno della desacralizzazione crescente. In questa direzione ci si spiega perché la Chiesa abbia per lungo tempo proibito la cremazione. Propriamente, la proibizione si riferiva al sottinteso che stava alla base della volontà di far cremare il proprio cadavere: il sottinteso dell’inesistenza della resurrezione della carne. Poiché non c’è resurrezione, il cadavere può diventar cenere e nulla. E poiché il cadavere può diventar cenere non c’è resurrezione. Ma chi non crede nella resurrezione e si fa cremare intende appunto dar vita a una forma di suicidio: uccide la propria speranza di sopravvivenza. La uccide perché la ritiene una fola. Vanno allora forse meglio le cose col vecchio Dio veterotestamentario? Questo Dio dice ad Adamo, che ha peccato: «Sei polvere e tornerai ad esser polvere». Polvere: cenere. Adamo esce dalla cenere ed è destinato a ritornarvi. Esce dalla cremazione teurgica e a tale cremazione è destinato a ritornare. La teurgia inceneritrice concepisce l’uomo come un nulla originario, come qualcosa che «di per sé» è nulla, cenere.
Questo modo di pensare del Dio (cioè di chi evoca questo Dio) uccide due volte Adamo, l’uomo. Una prima volta perché - aprendo la strada che poi sarà percorsa dalla forme dominanti della civiltà - concepisce l’uomo come cenere. Una seconda volta perché lo vede come qualcosa che di per sé è destinato alla cenere. Perché meravigliarsi se, all’interno di questo modo di pensare, cresce la convinzione che le cose tutte e l’uomo siano nulla; e perché meravigliarsi se l’uomo sente sempre più il richiamo del nulla che sempre più a gran voce gli chiede di annientarsi? (Eppure nel fondo di ognuno di noi un’altra voce - quella autentica - dice che l’uomo non è cenere, ma è eternamente salvo dal nulla e che la sua è la morte di chi, pur morendo, in quella salvezza eternamente permane).

storia delle donne
Ipazia (375?-415), matematica e astronoma
assassinata dai cristiani

Gazzetta del Mezzogiorno 3.10.04
Adriano Petta e Antonino Colavito
Ipazia, storia privata
di una martire della scienza
La pensatrice pagana uccisa dai cristiani nell'Egitto del 400
di Diego Zandel

Dopo aver raccontato la storia dell'eretico Giordano Nemorario e della strage dei Catari rispettivamente nei romanzi Eresia pura e Roghi fatui (entrambi recensiti su queste colonne), Adriano Petta, scrittore antagonista per eccellenza, ci riporta di nuovo a una di quelle storie di oscurantismo, che l'autore ha nei suoi strali, con Ipazia, scienziata alessandrina.
A dispetto del titolo, che si limita al nome della protagonista, la prima donna scienziata dell'umanità, colpevole due volte, per credere alla scienza invece che ai dogmi della Chiesa e per essere donna, il libro non è una biografia, ma, come quelli che l'hanno preceduto, un romanzo. Anche se il personaggio è rimasto nella storia del pensiero per le sue idee e invenzioni (a lei si devono, tra l'altro l'astrolabio, l'idroscopio e l'aerometro), anche se tutti i libri o quasi che ha scritto sono stati bruciati, anche se di lei restano solo poche testimonianze da parte di chi l'ha conosciuta, Ipazia, proprio per questo, non può che ispirare un romanzo.
Ed eccolo, dunque. Petta l'ha firmato insieme ad Antonino Colavito, i cui interventi, proiettati a far capire il pensiero della donna, si alternano ai capitoli strettamente narrativi del primo, che questa volta si è messo nei panni dell'amato allievo egiziano Shalim, che diventa così, secondo un metodo che è tipico di Petta, l'io narrante della vicenda. La quale ci porta dritti alla grande Alessandria del 400 d. C., sede di quella Biblioteca, per antonomasia, che rappresentava tutto il sapere dell'epoca.
La situazione però, al momento in cui comincia il romanzo, 1 luglio 391, non è più quella florida di un tempo. Manca la carta di papiro che viene requisita dagli intellettuali del potere temporale della Chiesa che si sta estendendo nel vuoto lasciato dal declino dell'impero romano, ormai agonizzante. Il piano che si sta attuando è terribile: distruzione della Biblioteca, soppressione della scienza e degli scienziati, cancellazione del paganesimo e del libero pensiero, così come era inteso allora. Mentre viene interdetto ai vescovi di studiare Aristotele, Platone, Euclide, Tolomeo, Pitagora, prendono posto i grandi teorici del pensiero cristiano, Ambrogio, Giovanni Crisostomo, Agostino, Cirillo, diventati poi santi. Epoca quest'ultima pressoché rimossa dalla coscienza del mondo occidentale.
In questo contesto si inserisce la figura, per molti versi tragica, di Ipazia che pagherà tutte le conseguenze dei cambiamenti epocali, fino a quando, l'8 marzo (evidentemente data fatale per le donne) del 415, il suo corpo sarà orribilmente straziato. Pagine quest'ultime di grande commozione, segnate anche, nel romanzo, dalla testimonianza dell'amore che ha unito alla donna Shalim, che le sopravviverà giusto il tempo per raccontare la sua storia, come un'apocrifa testimonianza postuma.
Il ritmo che Petta ha impresso alla narrazione permette una lettura generosa, quasi vorace. Perché ciò che si racconta sono scoperte, fughe, violenze che annichiliscono e riempiono il lettore della stessa passione e rabbia con la quale l'autore deve aver scritto il libro. C'è da domandarsi a riguardo quanto abbiano giovato, alla dinamica narrativa, gli innesti più di carattere saggistico che narrativo del Colavito. E' come se il primo autore, Petta, fatto il suo racconto, avesse sentito il bisogno di inserire la trama romanzesca in un quadro di riferimento scientifico e filosofico che rendesse la figura e il pensiero di Ipazia più aderente alla verità storica. Evidentemente gli premeva più il discorso «politico» in senso ampio, rispetto a quello più strettamente narrativo e commercialmente appetibile del romanzo storico tout-court. D'altra parte o si è scrittori antagonisti fino in fondo o no. E ciò vale nei confronti dei lettori, siano essi dal palato facile o meno, così come delle leggi del mercato editoriale per il quale il consumo, l'omologazione in genere, del prodotto culturale vale più di un'idea di lotta e del sapere.

«Ipazia, scienziata alessandrina» di Adriano Petta e Antonino Colavito (Lampi di Stampa ed., pp. 285, euro 15,00).

un convegno sulle immagini

Repubblica 3.10.04
Immagini
Hanno occupato il mondo e trasformato le nostre vite
dall'arte al cinema
Aby Warburg e Alfred Hitchcock, due modi di affrontare la storia dello sguardo
Un convegno ad Alghero discutendo di immagine, verità e comunicazione In che misura siamo condizionati da quello che vediamo?
ANTONIO GNOLI

Le immagini coinvolgono la nostra vita, ne fanno parte in vari modi. In esse a volte ci perdiamo, con esse ci identifichiamo, anche quando non vorremmo e proviamo a sottrarci al loro potere. Le immagini hanno una relazione con la verità e con il comunicare. Ma non sappiamo quanto siano vere e che cosa davvero ci comunicano.
Che cosa si prova di fronte a una immagine come il crollo delle Twin Towers o alle due Simone liberate? Un flusso di emozioni scorre davanti ai nostri occhi. Ma è giusto dire "davanti"? Quanto siamo noi che guardiamo o quanto siamo guardati da quel nucleo imprescindibile e misterioso che si lega allo sguardo?
Una molteplicità di accadimenti si tesse e si articola nelle forme visibili. Proviamo a pensare in che cosa siamo immersi, con quale tempo visivo ci riconosciamo o siamo riconosciuti. Ed è come se il soggetto, quell´entità filosoficamente certa fino a mezzo secolo fa, non avesse più un codice di accesso alle cose. Una password per entrare nel mondo. Il mondo è una sequenza infinita di immagini.
Immagini di gioia, o di tristezza. Immagini fredde o travolgenti. Immagini che coinvolgono il nostro passato o aperte sul nostro futuro. Immagini irrappresentabili. Immagini indelebili che segnano un mondo o un´epoca. Immagini vere o false. O semplicemente virtuali. Immagini che ci parlano della realtà o che la nascondono, o la stravolgono. Feticci, simboli, emblemi. Segni. E poi l´arte e il suo contrario. Immagini ferme e in movimento. Foto, cinema, televisione. Comunque le giriamo, le immagini coinvolgono la nostra esistenza. Diamo loro un senso oppure lo ricaviamo da esse.
Il mito amava parlare per immagini. La filosofia ne ha fatto un percorso argomentato della sua storia. È Platone, con il mito della caverna, ad aver dato all´immagine e al suo rapporto con la verità la risonanza più acuta.
A volte, si parla e si racconta per immagini. Esse attraversano la scienza, l´arte, la poesia, la letteratura. Le immagini possono comunicare con una intensità sconosciuta. Quando Proust deve alludere al ricordo, è l´immagine della madeleine che lo evoca e lo richiama. Perfetta epifania di un mondo che non c´è più, ma che ancora persiste: ecco il potere dell´immagine sul soggetto. Che ossessionò fra gli altri Aby Warburg e Alfred Hitchcock, nomi non evocati a caso.
Ma dove risiede la legittimità delle immagini, in che cosa consiste la sua forza? Le immagini pongono un problema di verità e di comunicazione. Rinviano a un interdetto e a una origine: iconofilia e iconoclastia. Due sponde ermeneutiche che il mondo contemporaneo conosce benissimo nelle sue numerose varianti. Se ne è discusso in un convegno che si è tenuto giorni fa ad Alghero - organizzato da "spazidelcontemporaneo", con l´ausilio dell´assessorato alla Cultura e al Turismo. Vi hanno partecipato Massimo Donà, Giulio Giorello, Vincenzo Vitiello, Paolo Flores d´Arcais, Silvano Tagliagambe, Sebastaiano Ghiso, Domenico Fiermonte, Andrea Tagliapietra e Enrico Ghezzi. Più che un convegno, a dire il vero, è stato un piccolo e interessante festival filosofico che gli organizzatori vorrebbero trasformare in appuntamento annuale. Del resto la filosofia in Italia moltiplica la sua presenza nelle piazze: dopo Modena, Rimini, Milano (con il Pier Lombardo), anche Roma sta pensando per il prossimo anno ad allestire una casa delle filosofie. È un segnale del modo in cui il pubblico segue, con attenzione e intensità, autori e temi spesso non facili. La riprova la si è avuta ad Alghero dove la parte del dibattito nella quale il pubblico si è lasciato coinvolgere, è stata altrettanto importante degli interventi dei relatori. Che hanno avuto il pregio di essere molto liberi e poco accademici.
Si è insistito, lo ha fatto Massimo Donà, sull´idea che l´immagine è sempre qualcosa di originario. Qualcosa che ha a che fare da sempre con la verità. Ma in che senso? C´è la verità da un lato e la sua immagine dall´altro, oppure l´immagine e la verità sono tutt´uno? Ma se immagine e verità sono la stessa cosa che ragione c´è di distinguerle? E poi: stiamo parlando della verità o delle verità possibili o molteplici? Se la verità è una e una sola - diciamo il Dio dei monoteismi - essa non può essere rappresentata. Il divieto di dare l´immagine di Dio si spiega con il fatto che Dio può solo essere l´immagine di se stesso. Ma, d´altra parte, solo se quel Dio riesce a vivere nella ricchezza molteplice delle immagini esso trova se stesso nell´altro. Il miracolo trinitario del cristianesimo, come ha ancora osservato Donà, nasce qui, da questo evidente paradosso.
Anche per Vitiello l´immagine fonda la verità. Ma non c´è un prima e un dopo. Qui il senso del fondare, o meglio dell´origine, si ricava da una analisi che mette a frutto le riflessioni di Vico e Husserl. Nel corpo come immagine, nel gesto visibile che esso traccia risiede l´origine della verità. In quell´impasto di storia che è ancora natura e di natura che sta per diventare storia, sulle soglie della civiltà, l´immagine promette la sua potenza.
Ma l´origine di qualcosa o, più ambiziosamente, del tutto, è o no un gesto arbitrario, anche se necessario, si è chiesto Giulio Giorello. Si dice, si scrive, si racconta che l´origine dell´Europa sia nella Grecia e nella Roma antiche. Tanto nel logos filosofico, quanto nel diritto. Nella parola e nella forza. Ma siamo certi che lì sia rintracciabile il nostro certificato di nascita e non magari più indietro nel tempo in quella civiltà sumerica nata tra due celebri fiumi? È la provocazione con cui Giorello ha esordito nel suo intervento.
Al mercato delle idee filosofiche ciascuno sceglie a quali costellazioni affidarsi, a quali verità e immagini rifarsi. Si parte sempre da qualcosa. Che sia un origine collocabile nella storia o una pura congettura ontologica, o epistemologica come nella riflessione che Flores ha condotto sulle verità di fatto (sono sempre in grado, come essere finito, di darmi una conoscenza accertabile) si ha l´impressione che una nostalgia del fondamento abbia avvolto anche se involontariamente parte degli interventi.
Intendiamoci. Nessuno oggi può seriamente sostenere che il pensiero sia alla ricerca di un punto zero, senza incorrere in devastanti obiezioni. Ma è pur vero che quel pensiero ha lasciato una traccia, una immagine di sé dalla quale ciascuno a suo modo riparte. È dall´ambiguo lascito ontologico che molte delle riflessioni contemporanee dipanano i loro fili concettuali. E tutto questo si è profilato talvolta come una nostalgica esigenza di verità, in parte simile agli effetti della perdita dell´eden.
In che modo, ci si può chiedere, le immagini concorrono al formarsi di questa nostalgia? Se sono costitutive della verità, c´è il rischio che su loro ricada il peso di quella perdita. Esse "fondano" la nostra visione del mondo e insieme la allontanano drasticamente dalla nostra percezione. Si può capire il senso di una tale ambigua oscillazione richiamando due autori che nulla hanno in comune: Aby Warburg e Alfred Hitchcock.
È noto che Warburg coltivò a lungo il progetto di creare una sorta di "Atlante" delle immagini. Una simile idea, che sfociò nel progetto Mnemosyne, aveva in sé qualcosa di inaudito: le immagini, dall´antichità a oggi, potevano comunicare tra loro. E per mostrarlo Warburg concepì una specie di montaggio cinematografico che presupponeva che le immagini si contagiassero in maniera epidemica: ogni immagine sopravviveva spiegando il senso delle altre. Mnemosyne fu denso di conseguenze. La più vistosa fu di abolire le distanze temporali rompendo drasticamente con l´idea che le immagini hanno legittimità e importanza solo in una scala gerarchica.
Naturalmente Warburg non pensava che le immagini fossero indistintamente tutte uguali e che non intervenissero questioni di gusto, di estetica e di ricostruzione a rilevarne il peso. Ma quello che intuì fu che solo connettendole, quasi fossero un organismo vivente, una rete disposta orizzontalmente, esse avrebbero potuto sconfiggere la loro morte.
Ciò che Warburg non vide, che non poteva vedere, è che quella idea che le immagini sono disponibili si sarebbe concretizzata totalmente con il cinema, con la televisione e infine con internet.
Solo un uomo con l´esperienza di Hitchcock avrebbe voyeuristicamente saputo cogliere questo passaggio. Che potremmo riassumere così: nel momento in cui tutte le immagini sono virtualmente disponibili, allora non sono esse ad essere guardate, ma sono loro che di volta in volta guardano noi. L´immobilità del protagonista de La finestra sul cortile, suggerisce una palese costrizione che lo porta apparentemente a frugare nella vita di un condominio, in realtà ad esserne totalmente condizionato.
Non è questo in fondo il destino dei media? La disponibilità con cui le immagini scorrono e avvolgono la nostra vita ci fanno sospettare una ricchezza e una pienezza di sguardi che poche epoche in passato hanno conosciuto. Tutto è a portata dell´occhio. Ma il riflesso si sta facendo opaco. La proliferazione delle immagini indebolisce lo sguardo, ne fraintende il senso. Se ciò che c´è, esiste solo in quanto teatro di una scena fatta di immagini (il caseggiato hitchcokiano, il mondo letto e interpretato attraverso il cinema e i media), allora è molto più complicato rivendicare un primato della realtà. Dove essa occulti se stessa, a quale legislazione segreta risponda non è facile rispondere. E nessuna drastica dichiarazione di intenti a suo favore oggi potrà riconsegnarla ingenuamente alle nostre meditazioni.

pluralismo...
una nuova università cattolica a Roma
per settemila Legionari di Cristo...

Repubblica 3.10.04
A Roma da ottobre 2005
Legionari di Cristo nasce l'università

ROMA - Nasce a Roma un nuovo polo universitario d'ispirazione cattolica che accoglierà studenti da tutto il mondo a partire dall'ottobre del 2005. L'Università europea di Roma, questo il nome della struttura non statale fondata dalla Congregazione dei Legionari di Cristo, avrà sede all'Ateneo Pontificio Regina Apostolorum. La struttura, che è in grado di accogliere fino a 7.000 studenti, ospiterà quattro corsi di laurea triennale: filosofia, scienze storiche, psicologia e scienze giuridiche.

il premio romeno a "Buongiorno, notte"

ricevuto da Dicta Cavanna
traduzione dal romeno di Nicu


Il film di Marco Bellocchio "Buongiorno, notte" ha vinto queesto Agosto in Romania il 1° premio (Trofeul Festivalului) del Festival del Danubio che ha avuto luogo dal 17 al 22 Agosto 2004. Di ciò era stata data notizia ai primi di Settembre.
Ecco adesso la traduzione dal romeno della scheda che accompagnava quella notizia:


«Slogan rivoluzionari e guerra dura contro il capitalismo. Chiara è coinvolta nel rapimento e nel sequestro di Aldo Moro. Alla luce del giorno, lei vive una vitabanale:lavoro,ufficio,compagni e un amico che sembra conoscerla meglio di quanto lei stessa non si conosca . Attraverso lo sguardo di Chiara, cieca davanti alla realtà che la circonda, ci viene proiettato il cammino verso la fiducia fanatica nella Rivoluzione e verso l’ossessione dei rituali clandestini. Il film trae la forza proprio da questo allontanamento dalla realtà. Entrata in contatto con il prigioniero di lusso, chiuso in una cella nascosta dietro a una finta libreria, che non la vede e con la quale non parlerà mai. Chiara vede le sue certezze scombussolate.

Marco Bellocchio Nato nel 1939 a Piacenza. Nel 1959 interrompe gli studi di Filosofia e s’iscrive al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Tra il 1961 e il 1962 realizza i cortometraggi Abbasso lo zio, La colpa e la pena e Ginepro fatto uomo,dopo di ché parte a Londra per studiare alla Scuola di Belle Arti Slade. Il suo primo lungo metraggio,I pugni in Tasca,presentato a Locarno nel 1965, gli porta la consacrazione internazionale.

Altri Festival dove ha partecipato: Festival internazionale di film indipendenti a Buenos Aires 2004 . Festival internazionale di film a Hong Kong 2004 . Festival internazionale di film a Karlovy Vary 2004 . Festival internazionale di film a Salonicco 2003. Festival internazionale di film a Toronto 2003.

Premi ottenuti : Premio per miglior contributo individuale alla sceneggiatura, al Festival internazionale Cinematografico di Venezia 2003. Premio FIPRESCI per il miglior film conferito dall’Accademia Europea di Film.