domenica 7 settembre 2003

trascrizione dei testi dei servizi di alcuni tg

(ricevuto da Francesca Iannaco)

TG LA7 (ore 12,45 e 19.45)

Speaker:
«Va al deluso Marco Bellocchio solo un premio minore per la sceneggiatura, ma lui non c'era, con il cast ha lasciato Venezia per Roma, e per tutti c'è stato un vero bagno di folla alla prima romana di Buongiorno notte, vediamo...» (inizia il servizio)

Folla davanti al cinema, una e più voci:
«Avete vinto voi!!!»

Domanda:
«La reazione del pubblico... Leone d'oro comunque a furor di popolo...»

Marco Bellocchio:
«Si... adesso... Leone d'oro, Leone d'argento... , il pubblico, mi sembra qui in particolare emozionante la reazione, però anche in tutta l'Italia c'è un'attenzione, ma questa attenzione, questo interesse si è dimostrato subito...»

Domanda:
«Questo Leone d'oro... a lei che era uno dei super favoriti... resta un pò d'amarezza per questa scelta veneziana?»

Marco Bellocchio:
«Be io non sono un ipocrita, certamente... è quell'amarezza che dura magari qualche ora, poi uno va avanti per la sua strada. Lo dico per esperienza, per formazione e per quello che io sono... insomma, non ne farò una malattia...
Ho preferito venire qui a salutare il pubblico piuttosto che stare là a ritirare un premio... dignitoso, anche rispettabile ma che non mi... non ci rappresenta»

TG1 delle 13,30

Speaker:
«A Bellocchio è andato solo un premio minore. Un premio che non mi rappresenta, ha detto ieri sera il regista che lasciata Venezia ha voluto salutare il pubblico di un cinema romano» (inizia il servizio)

Vincenzo Mollica:
«... il verdetto comunque ha suscitato molte polemiche perchè in qualche modo è sconcertante deludente quasi surreale il fatto che al film di Marco Bellocchio sia andato solo un premio minore per il contributo personale dato alla sceneggiatura, premio ritirato dall'attore Luigi Lo Cascio, un premio che ha detto Bellocchio non lo rappresenta, ma il pubblico sta premiando questo bel film e questo è quello che conta»

Marco Bellocchio:
«Se ho prefertio essere qui che a Venezia evidentemente perchè sto meglio qui che a Venezia.
Fuori da qualsiasi ipocrisia questo nasce da una mia piccola amarezza rispetto ai risultati, non posso aggiungere altro, per serietà...»

Speaker:
«Bagno di folla e applausi lunghissimi per Marco Bellocchio che cerca così in un cinema romano di dimenticare l'amarezza per il Leone d'oro mancato.
Eccetto Luigi Lo Cascio con lui tutto il cast di Buongiorno, notte un film che riempie le sale e colpisce il pubblico»

Domanda:
«Maestro, il Leone d'oro glielo ha dato il pubblico...»

Marco Bellocchio:
«Speriamo... fin ora si... me lo ha dato il pubblico direi alla grande e si può solo sperare che continui questo successo che sicuramente vale più di qualsiasi cosa»

(Nel TG1 delle 20 il servizio è cambiato, è sempre di Mollica, insiste sul fatto che la Rai ha deciso di non mandare più suoi film a Venezia perchè il festival non tutela abbastanza il cinema italiano e dice anche che non c'è stata nessuna dietrologia nessun influenzamento [...?])

TG3 ore 14

Speaker:
«...Ma ieri sera Bellocchio ha risposto da Roma dove ha scelto di stare in mezzo al suo pubblico che affolla la sala» (inizia il servizio)

Marco Bellocchio (all'interno del cinema Eden):
«Io sentivo che era più giusto essere qui insieme a voi...»

e ancora (rispondendo a una domanda):
«Non conosco gli altri concorrenti, ho accettato di concorrere quindi ho anche accettato, così senza battere ciglio, il premio che mi hanno dato, e basta...»

Ribellione: gli artisti

Corriere della Sera 7.9.03
Corriere Speciali
IL NOVECENTO DALLA SECESSIONE ALLA BODY ART, I MOVIMENTI CHE HANNO RIDISEGNATO IL MONDO
Cent’anni contro, la ribellione si fa arte
Simbolisti e surrealisti fuggono dalla realtà e scoprono il sogno. Gli espressionisti («degenerati» secondo Hitler) ribaltano i canoni della bellezza. Poi arrivano i dissacranti dadaisti...
di Franco Fanelli


Alla fine dell’Ottocento qualcosa si spezza nel rapporto fra gli artisti e la società. Da allora in poi, gli ideali di bellezza perseguiti per secoli cedono il passo a manifestazioni di dissenso, angoscia, disagio se non addirittura di follia. La crisi inizia nel momento in cui gli artisti si interrogano sulle loro funzioni dopo la scoperta della fotografia, formidabile strumento per la creazione di immagini. Ma al di là delle innovazioni tecnologiche, ci si chiede quale spazio riservi all’arte e alla poesia una società regolata dalle rigide leggi dell’economia e dall’industrializzazione; la tragedia della Prima guerra mondiale, che segna la fine dell’ottimismo positivista e della Belle Époque, ispirerà ulteriori inquietudini. All’artista, che non vuole aderire ai princìpi e ai gusti della nuova società borghese, non resta che la dissidenza, il rifiuto di ogni conformismo e del circuito ufficiale e istituzionale dell’arte, come fecero nel 1897 gli esponenti della Secessione viennese. Ma la storia dei dissidenti inizia con una fuga dalla realtà: il Simbolismo è il movimento europeo che dal 1885 raccoglie gli spiriti inquieti degli artisti «non allineati». La fuga avviene tramite l’evocazione di un mondo parallelo ed esoterico, abitato da allegorie e divinità. Sono le creature dipinte da Odilon Redon e Gustave Moreau negli stessi anni in cui lo svizzero Arnold Böcklin fa appello alle mitologie mediterranee, a centauri e tritoni redivivi. A Böcklin guarderà con molto interesse un giovane pittore durante un suo soggiorno a Monaco di Baviera nel 1906: Giorgio de Chirico sa che una possibile via di fuga si cela al di là delle apparenze del mondo cosiddetto reale, in un «altrove metafisico» che racchiude altre verità, quelle che scaturiscono dall’inconscio ma anche da legami che, misteriosamente, l’artista-archeologo sa intrecciare tra epoche diverse.

A de Chirico fa la corte, in Francia, un poeta che si chiama André Breton : nel 1924 ha fondato una nuova avanguardia, il Surrealismo. Ne fanno parte artisti convinti che il loro compito sia lo svelamento della parte più nascosta dell’uomo, la psiche e la sua attività onirica; a Vienna, esattamente 24 anni prima, un medico, Sigmund Freud, ha pubblicato «L’interpretazione dei sogni», testo-chiave di una nuova scienza, la psicanalisi, capace di sondare nella follia, nelle angosce, nei desideri e nelle verità, anche le meno gradevoli, che la razionalità, le norme sociali e altre inibizioni tendono a reprimere. E tra i surrealisti, vi è chi, come Henri Michaux , opera appunto sotto il puro impulso psichico, creando un misterioso alfabeto di segni che sembrano sgorgare da profondità sino ad allora insondate.
In Germania, intanto, dagli anni Dieci gli espressionisti come Kandinskij, Kirchner o Nolde stanno rivoluzionando la maniera di dipingere i temi più tradizionali, come il paesaggio o la figura umana. La verità, anche per loro, viene dall’interiorità: non da ciò che vediamo con gli occhi, ma da ciò che la visione provoca dentro di noi. Se si dà libero corso alla spontaneità, ecco che una montagna può essere dipinta in rosso, un cavallo in azzurro. L’Espressionismo, che da subito manifesta molte somiglianze con l’arte degli alienati mentali (e Hitler lo marchierà come «arte degenerata») scardina ogni convenzione, sia nel disegno, sia nel colore; anche il ritratto della donna amata, una volta sulla tela, può assumere sembianze deformate, poiché la bellezza o la bruttezza non sono legate ad alcun canone.
Alcuni espressionisti, come George Grosz e Otto Dix , si fanno invece carico di raccontare altre verità, quelle, terrificanti, che germinano nella Germania sconfitta nella Prima guerra mondiale e assetata di rivincita. I due saranno anche fra i primi a denunciare la violenza della dittatura nazista. Nelle arti del Novecento, infatti, la ribellione politica va di pari passo con la rivoluzione estetica, quella che ha il suo momento più clamoroso e dissacrante con il Dadaismo, quando nel 1917 Marcel Duchamp , esponendo come opera d’arte un orinatoio, dimostra che ciò che conta per un artista è il pensiero, anche il più provocatorio, e non più la mera esecuzione.

Se il Dadaismo aprirà la strada alle correnti concettuali del secondo dopoguerra, le poetiche del disagio e dell’angoscia attingeranno invece al Surrealismo e all’Espressionismo. Il trauma generato dalle distruzioni e dai genocidi della Seconda guerra mondiale impone agli artisti ulteriori riflessioni sul destino e sulle ragioni del proprio mestiere. A tutti è chiaro che continuare a perseguire un ideale di bellezza equivale, alla luce dei fatti, a una bestemmia. Quale bellezza avrebbe potuto sopravvivere al secolo dei campi di sterminio o di Hiroshima? C’è allora chi, sulle orme del Picasso di «Guernica», si dedica a un realismo di denuncia. Ben più diffusa la volontà di negare anche l’ultimo residuo di «bella pittura»: non ci sono regole compositive, né armonia prestabilita nelle opere degli artisti informali, nei sacchi lacerati di Alberto Burri , nei densi impasti di gesso e colore che, nelle opere del francese Jean Fautrier, imprigionano come crisalidi immaginari «Ostaggi».

Anche chi decide, nonostante tutto, di continuare a dipingere figure, dà inevitabilmente vita a un mondo di corpi squartati e deformati ( Francis Bacon ), di teste angosciosamente scavate nel bronzo ( Alberto Giacometti ), a una corporalità sofferente, che non nasconde le piaghe generate dal male di vivere ( Lucian Freud ): se gli informali attingono a piene mani dalla gestualità psichica e «automatica» di matrice surrealista, gli esponenti della figurazione esistenzialista guardano invece con attenzione agli espressionisti.
Il secolo che ha dato i natali all’Astrattismo, si chiude comunque con un rinnovato interesse per la figura umana e per il corpo. È su questo versante, infatti, che si sviluppano e si confrontano correnti come la Body-art (dagli anni Settanta) e alcune fra le più significative tendenze affermatesi negli anni Novanta, nell’epoca detta post-moderna. Le cruenti performance della Body-art ripropongono una figura nata all’inizio dell’arte moderna, l’artista sofferente perché non capito, martire di una civiltà che ne rifiuta la trasgressione.
Nell’era dell’ingegneria genetica e del culto della bellezza artificiale, il corpo mutante diventa invece uno dei temi prediletti da una nuova generazione di artiste (da Cindy Sherman a Vanessa Beecroft ) che, assieme ad antiche istanze femministe, ripropongono, contro la globalizzazione e la massificazione, la riscoperta dell’individualità e dell’intimismo: è la più recente manifestazione di ansia e dissidenza degli artisti rispetto a un mondo che continua a non accettare la differenza.

Amore e Psiche

«Amore e psiche» brilla
per le splendide coreografie
La danza di Daniele Megna, ispirata alle «Metamorfosi» di Apuleio, in programma domani sera allo Spasimo

Domani, per la sezione danza, alle 21.30, nel complesso monumentale dello Spasimo (via Spasimo 13), andrà in scena lo spettacolo «Amore e Psiche», di Daniela Megna, ispirato alle «Metamorfosi» di Apuleio. Coreografie di Daniela Megna. Ballerini solisti: Candida Amato, Gaetano La Mantia, Daniela Megna, Luigi Variale. Corpo di ballo: Claudia Gallo, Vittoria Valerio, Claudia Corte, Pamela Monreale, Rosi Prestigiacomo, Laura Ucciardi. Voce narrante: Elio Cacciamo. Scenografie: Simona Micalizzi. Costumi: Franca Giammona. Ingresso libero.

Liberazione

Bellocchio indignato torna a Roma
Ha lasciato il Lido ieri mattina, Marco Bellocchio. Il regista ha deciso di non partecipare alla premiazione ieri sera in Sala Grande. Manifesta così la propria delusione Bellocchio per la mancata assegnazione - già nell'aria - del Leone d'oro. Al suo film è andato soltanto un premio al "contributo individuale per la sceneggiatura", ritirato da Luigi Lo Cascio. Marco Bellocchio ha annunciato che avrebbe parlato ieri sera al pubblico del cinema Eden di Roma, alla fine della proiezione del suo film. La pellicola, appena uscita nelle sale italiane, è al terzo posto nella classifica degli incassi dopo "Hulk" e "La maledizione della prima luna". Il cineasta italiano non ha mai vinto un Leone d'oro nel corso della sua carriera.

La Repubblica

Repubblica 7.9.03
L´ESCLUSO
Incontro con il regista che ha voluto vedere il suo film con il pubblico al cinema Eden di Roma
Bellocchio: mi sento un isolato forse non sono un tipo da premi
"Ho avuto una reazione di amarezza, non volevo vedere intorno a me facce dolenti"
"Ognuno ha la sua testa. E noi italiani siamo imbattibili a non difendere le nostre cose"
di CONCITA DE GREGORIO

ROMA - La folla ferma il traffico, alle dieci di sera davanti a un grande cinema di Roma. Bellocchio, Maya Sansa, Herlitzka-Moro e tutti gli altri attori di "Buongiorno, notte" davanti all´ingresso. Tutti tranne Lo Cascio, rimasto a Venezia a ritirare il premio per "il miglior contributo alla sceneggiatura", piccolo premio marginale. «Bravi, il Leone d´oro l´avete vinto voi», gridano. Dieci minuti di applausi, «bravo Marco», dieci minuti sono lunghi, finisce che commuovono. Bellocchio si asciuga gli occhi dietro le lenti. «Ha capito perché ho preferito venire qui?» bisbiglia all´orecchio Maya con quel suo sorriso «perché volevo una festa, lui se la meritava». Lui, il regista. Herlitzka viene avvicinato da una signora che gli dice: «Ma allora lei è vivo, che impressione». Sorride gentile: «Non è la prima che sussulta a vedermi, anche a Venezia...».
Venezia. Il Leone l´ha vinto il film russo e Marco Bellocchio se n´è andato via. «Ma guardi, non per polemica. Riconosco le regole e le rispetto. Nemmeno perché volessi il premio, figuriamoci. Non ho mai vinto un festival in tutta la vita. È solo che ho preferito così: mi sono preso una libertà. Ho avuto voglia di stare coi miei attori e con il pubblico, stasera. Sa, sono un passionale. Ho agito d´istinto». In sala prende il microfono: «Voglio esprimere il piacere di essere qui con voi e non là con loro. Ecco, basta». Altri applausi, altre lacrime.
Eppure, Bellocchio, è nella logica di un festival che uno vinca e gli altri no. Magari il film russo è bellissimo.
«Non saprei, non l´ho visto. Non ho avuto tempo di vederne nessuno. Magari sarà bello, sì. Cosa vuole che le dica? Ho avuto una reazione di amarezza, non ho avuto voglia di vedere attorno a me facce dolenti. Volevo un po´ di contentezza stasera. Forse sul piano razionale ho avuto torto, ma di fronte a un pubblico che riempie le sale e che ti accoglie così, come qui stasera».
Andarsene la sera della premiazione ha anche un colore polemico. Dicono che con Monicelli vi siate incontrati senza salutarvi, e che lui vedendola circondato dai sui attori abbia detto: «Ecco il plotone».
«Ma no, Monicelli è simpatico. E poi ognuno ha la sua testa. Si può amare un film oppure no. Aveva detto che a parità di condizioni si dovevano premiare i film italiani. Evidentemente non è stato così. Noi italiani siamo imbattibili a non difendere le nostre cose».
Premiamo i russi, i giapponesi, i cinesi.
«Ecco, sì, anche bravissimi. Peccato che poi non ci sia reciprocità».
Dicono anche che Accorsi, l´altro giurato italiano, volesse fare la parte di Moretti nel suo film e che lei gli abbia preferito Lo Cascio.
«Sì ma cosa c´entra?, sono cose che succedono».
Infine dicono che i giurati stranieri, il cinese, il tedesco forse il francese non abbiamo capito il senso che questo film ha per un pubblico italiano.
«Questo è possibile. D´altra parte io questi giurati non li conosco. Forse sono dei geni nei loro campi, ma non li conosco».
Però le hanno dato il premio per il contributo alla sceneggiatura.
«Diciamo la verità: un premio marginale. Ho gradito di più quelli delle giurie dei giovani. Ma poi non è per il premio, sa...».
Per cosa, dunque?
«È che questo film ha avuto per me un´importanza, un senso speciali. Io che sono stato solo uno spettatore di quegli eventi, che ho avuto una militanza politica utopistica e ridicola dieci anni prima, ma poi al tempo della tragedia mi sono tenuto lontano, ho chiuso gli occhi... ecco, venticinque anni dopo si sono stabilite le condizioni per ripensare qualcosa che riguardava tutti, e anche me. I conti con un passato lasciato in sospeso. Un operaio mi ha avvicinato a Venezia e mi ha detto: io sono fra quelli che quando rapirono Moro stavo idealmente con loro, a rivedere il film mi sono messo a piangere».
Altri, a sinistra, hanno criticato una sua certa indulgenza nel tratteggiare la figura di Moro.
«Sì un amico mi ha detto che qualche vecchio comunista ha trovato il mio Moro un po´ idealizzato. Ma sa, io non ho fatto un documentario. Ho pensato a una figura di padre, in specie al mio che è morto quando avevo 16 anni: una figura che ho annullato per l´insostenibilità della tragedia della morte. Il film è tutta una storia di padri e figli, o figlie».
Ha voluto nel cast anche suo figlio Piergiorgio.
«Sì, non credo sia un caso. Pensi che siccome Herlitzka al principio non poteva per un momento ho pensato di fare io la parte di Moro. Per fortuna ho scartato l´idea. Sarebbe stato un pasticcio notevole: io nel ruolo di mio padre e mio figlio in quello del mio assassino».
Psicanaliticamente perfetto.
«Troppo, no? Ma quel che conta è andare avanti. Ho un altro progetto, si chiama "Il regista di matrimoni". Lo sto scrivendo. È la storia di un regista di cinema che lontano da Roma conosce un regista di matrimoni e si mette a lavorare con lui. Lo farà Castellitto. Un´altra storia autobiografica. Del resto, ripensando al Leone, deve essere scritto nella mia storia che io non sia un tipo da premi».
Da cosa dipende?
«È un destino. Io sono irrimediabilmente un non riconciliato. Un isolato. C´è qualcosa che mi rende estraneo, eppure stimo e sono stimato, ma estraneo: incapace di fare famiglia col cinema italiano. "I pugni in tasca" ha segnato la mia vita, come tutte le prime volte. "Il diavolo in corpo" è stato per me sconvolgente. Adesso sono in pace col mio lavoro, lo amo. Il pubblico lo sente, si vede che basta così».

La Gazzetta del Sud

La Gazzetta del Sud 7.9.03
CHE COSA NON HA FUNZIONATO?
Non è facile comprendere una giuria che dimentica il film italiano più acclamato
Decisione difficile da accettare
Silvio Danese

VENEZIA – Non è facile accettare la decisione di una giuria che dimentica il film italiano più acclamato della sessantesima Mostra di Venezia e, va ricordato, tra i più importanti della selezione del concorso internazionale. Che cosa è successo? Che cosa non ha funzionato? Intanto le aspettative verso un risultato positivo per l'Italia erano alte e motivate. Poco prima dell'apertura, il direttore De Hadeln aveva annunciato una selezione positiva dei film italiani, con Winspeare («Il miracolo»), Paolo Benvenuti («Segreti di stato») e, appunto, il film di Marco Bellocchio sul caso Moro «Buongiorno, notte». Puntualmente, ciascun film ha avuto vasti consensi. Bellocchio era addirittura in pole position ancora l'ultimo giorno di concorso. Dalle voci di corridoio si sapeva che Monicelli aveva amato meno Benvenuti e Winspeare, e più Bellocchio. Tra gli stranieri, invece, si diceva che Monicelli avesse molto apprezzato il cinese Tsai Ming Liang, il giapponese Kitano, il portoghese De Oliveira (a cui avrebbe volentieri affidato il Leone d'oro) e il film riusso «Il ritorno», a cui è andato effettivamente il primo premio. Comunque, per l'italiano «Buongiorno, notte» l'orizzonte era aperto, secondo le parole dei funzionari di Rai Cinema, produttrice del film di Bellocchio (che fu addirittura invitato dalla Rai a girare un film su Moro). Va aggiunto che gli osservatori italiani ritenevano molto probabile un premio a Bellocchio anche per la formazione “nazionale” della giuria, che annovera ben due membri italiani, Monicelli e Accorsi, uno addirittura alla presidenza. Secondo alcune indiscrezioni, il film non ha coinvolto l'intera formazione straniera della giuria, l'americano Michael Ballahaus (direttore della fotografia), la cinese di Hong Kong Ann Hui (regista e produt trice), il francese Pierre Jolivet (attore e regista) la spagnola Assumpta Serna (attrice) e l'americano Monty Montgomery (regista e produttore). L'ambientazione storica squisitamente italiana, sulla quale Bellocchio ha costruito un film di fantasia, avrebbe reso difficile la comprensione del film. Questi motivi di dissenso, che sono prevedibili e frequenti in una giuria internazionale, in genere vengono superati dalla diplomazia, cosa che sembra non sia successa per un irrigidimento delle posizioni tra italiani e «resto del mondo». È immaginabile che a un certo punto la giuria sia passata a una votazione finale, nella quale ha prevalso la maggioranza non italiana, mentre sul film russo è stato trovato un accordo che ha coinvolto quasi tutti. È possibile che una certa contrapposizione di partenza tra giurati italiani e stranieri abbia inficiato l'abituale lavoro diplomatico nella di stribuzione dei premi, mentre, come è stato osservato ieri, non è comprensibile l'assenza di un accordo almeno su un ex aequo per dare a Bellocchio un premio importante. Tuttavia, Monicelli si era legato le mani: prima di incominciare i lavori, aveva dichiarato che la sua giuria non avrebbe mai assegnato ex aequo. Rai Cinema, che ha mandato in sala ieri ben 170 copie del film, è delusa, ma confortata dagli incassi del primo giorno: «Buongiorno, notte» è al terzo posto degli incassi dietro due blockbuster americani.

Il Tempo

Il Tempo 7.9.03
Dalle sale il premio voluto dal pubblico
di ANTONELLO SARNO

VENEZIA — È finita con la sorpresa più amara per l’Italia e per la Rai. «Buongiorno, notte», il film sul rapimento Moro commissionato a Marco Bellocchio da Viale Mazzini, la pellicola che tanto è piaciuta al Lido a pubblico e critica, è rimasto a bocca asciutta, salvo un ipocrita riconoscimento tirato fuori in extremis dal regolamento, un Premio per un contributo individuale di rilievo, andato appunto al regista de «I pugni in tasca». Il quale se n’è rimasto a Roma, così come a Roma è tornata Maya Sansa, costringendo Chiambretti a modificare la scaletta della diretta su Sky, visto che l’attrice - che nella pellicola su Moro impersona la Braghetti - avrebbe dovuto essere sul palco del Lido per consegnare un premio. Il Leone d’Oro è andato al film russo «Il ritorno», di Andrej Zvjagintsev. Proprio quel film il cui il giovane protagonista, Vladimir Garin è morto poco dopo la fine delle riprese.
A Roma sono precipitosamente tornati Giuliano Montaldo, presidente di Rai Cinema, e Lucia Annunziata, presidente della Rai. E lui, Bellocchio? «Ringrazio la giuria per avermi assegnato questo premio. Evidentemente ha giudicato che lo meritassi - ha detto dalla Capitale - D’altronde, se si sceglie di partecipare al concorso bisogna anche accettarne le regole. Torno da Venezia ripagato soprattutto dal premio che mi hanno attribuito tutte e tre le giurie dei giovani, straordinariamente unanimi nello scegliere il mio film».
Insomma, una mostra al finale con i veleni. E che ha vissuto il suo ultimo giorno in un'atmosfera di parole pronunciate a bassa voce, di sussurri al vetriolo, di costernazione diffusa. Nella vigilia della premiazione si diffonde come un fulmine la notizia che, dopo le ovazioni ricevute dai giornalisti e dal pubblico, Bellocchio è escluso dal Leone d'oro e da qualsiasi altro premio di rilievo. Tra le voci che più frequentemente rimbalzano nei settecento metri che separano l'hotel Excelsior dal Des Bains, dove alloggia la giuria, una in particolare riguarda il presidente Mario Monicelli. Ma non aveva annunciato che si sarebbe battuto allo stremo per far vincere un film italiano? E allora? È vero, se è vero, che anche Monicelli non ha difeso «Buongiorno, notte» come del resto l'altro giurato italiano Stefano Accorsi? Domande al momento senza risposta. I giurati sono rientrati al Lido da Venezia città dopo una riunione-fiume durata dieci ore, che faceva presagire la mancanza di unaninità, peggio, aspre discussioni. Voci e sussurri, appunto, ma sufficienti a far tornare a Roma Marco Bellocchio e la sua attrice Maya Sansa, lasciando in laguna il solo Luigi lo Cascio incaricato di ritirare il premio di consolazione che la Giuria avrà deciso di assegnargli. Prodotto dalla Rai, che per coprire al meglio il festival in tutti gli spazi possibili si è davvero svenata, «Buongiorno, notte» meritava certamente un trattamento migliore. Perfettamente comprensibile, quindi, l'irritazione del vertice di RaiCinema per la dolorosa esclusione, parzialmente riparata dal grande successo che il film sta avendo nelle 170 sale in cui è appena uscito.

Caprara sul Mattino

Il Mattino 7.9.03
Un capolavoro
umiliato e offeso
VALERIO CAPRARA

Venezia. Lo scherzo del cartaio sadico Moritz de Hadeln produce infine l'inevitabile jolly. C'è anche una finezza da Guinness dei primati nelle pieghe di un verdetto adeguato alla carambola impazzita del programma: il Leone d'argento che corrisponde al premio speciale per la regia va alla signorina libanese Chahal Sabbag, autrice di un film il cui livello di maturità e complessità rispecchia in pieno il suo titolo, «L'aquilone».
Ne consegue che Marco Bellocchio non è stato ritenuto competitivo neppure sul piano dello stile e della tecnica, anche perché la mancia che gli viene erogata sotto forma di menzione dopolavoristica gli riconosce un «contributo individuale di particolare rilievo».
Formidabile: chi ha detto che i festival coltivano un pregiudizio contro la comicità e la commedia? Nell'ipotesi più buonista che ci venga in mente, Monicelli & company (compreso Stefano Accorsi che recita molto meglio di quando esterna) hanno pensato di aureolare «Buongiorno, notte» spingendolo nella lista dei capolavori umiliati e offesi.
È chiaro, invece, che la forza di una pellicola capace di esprimersi a un livello multiplo (psicanalitico, artistico, politico) senza concedere appigli fissi trascende il piccolo cabotaggio degli addetti ai lavori, abituati a scappellarsi soltanto di fronte ai girotondini della cinefilia. Prendiamo il Leone d'oro che va a «Il ritorno»: sarà perché l'opera prima di Zvjagintsev segnala una talentuosa predisposizione oppure perché include una nebulosa metafora sullo sfascio morale della nuova Russia?
Per la Mostra impettita di Bernabé e de Hadeln, che effettivamente ha arruolato qualche film migliore del solito e ha distanziato (non ci voleva molto) quell'odioso cineclub francomane che è diventata Cannes, si sono mossi molti fiancheggiatori frementi, ma alla resa dei conti la campana ha suonato in maniera stonata.
Il doppio concorso non ha funzionato, le carenze strutturali non sono state arginate, il glamour ha come al solito boccheggiato nel claustrofobico recinto Palazzo-Casinò-Excelsior e l'infelice assemblaggio della giuria non ha fatto altro che portare al pettine i nodi di sempre. Certo, un Leone d'argento è andato all'irresistibile pastiche di Takeshi Kitano, uno che nello sparigliare i generi divertendosi e divertendo non è secondo a nessuno. Ma che dire di fronte all'ennesimo premio affibbiato a Sean Penn, americano «contro» e quindi remunerato d'ufficio persino quando s'arrangia in un film insulso come «21 grammi»?
Se Bellocchio è stato bastonato, il grandioso Roberto Herlitzka/Aldo Moro non poteva che seguirlo nel cantuccio dei cattivi. Per non parlare dell'attrice del probo centone televisivo «Rosenstrasse», una di quelle oneste professioniste che proprio non ce la fanno a incarnare un modello di recitazione trascinante e moderno. Quasi quasi il sessantesimo festival riesce a tramandarsi con più sprint grazie alle maglie nere, macchie di celluloide che in qualche modo valorizzano il menù ritualistico: «Segreti di stato», una sorta di compitino per ritardati dell'impegno, o magari «Twentynine Palms», che porta ai limiti estremi l'occulto disegno dell'autorismo eurocéntrico. Vuoi vedere che il genio incompreso Bruno Dumont è il vero capo delle Br e il responsabile della strage di Portella della Ginestra?

Il Mattino

Il Mattino 7.9.03
Bellocchio
l’incompreso
Dall'inviato a Venezia Titta Fiore

La speranza di una festa annunciata per il cinema italiano, ieri alla Mostra di Venezia, si è trasformata in un lungo giorno di amarezze e polemiche. Marco Bellocchio, favorito della vigilia con il film sul caso Moro accolto benissimo dal pubblico e dalla critica, «Buongiorno, notte», deve accontentarsi di un premiolino alla sceneggiatura francamente inadeguato alla portata, al valore artistico, allo stile dell’opera.
Il Leone d’oro va al russo «Il ritorno», una toccante opera prima sul rapporto padre-figli piaciuto a molti e soprattutto, cela va sans dire, alla giuria guidata da Mario Monicelli.
Il verdetto, trapelato come sempre al Lido qualche ora prima del galà ufficiale, scalda subito gli animi dei sostenitori dell'uno e dell'altro come e meglio di una partita della Nazionale. Ci si chiede quanto il presidente e il giurato italiani, Monicelli e Accorsi, abbiano realmente sostenuto il film, quanto si siano battuti per difenderlo dall'opposizione degli altri giurati. Si sa che la riunione finale, nel pomeriggio di venerdì, non è andata per le lunghe, particolare che gli aruspici del festival interpretano come segno di concordia e di comune sentire. Si teme che Monicelli abbia sì battagliato per il collega Bellocchio, ma non tanto da portare a casa, se non il Leone, almeno il gran premio della giuria, considerato da sempre appannaggio del presidente. I molti appassionati di dietrologia sostengono che le sue incaute dichiarazioni all'apertura della Mostra sul desiderio di favorire un italiano, in caso di parità, abbiano finito per penalizzare Bellocchio, escludendolo dai premi maggiori. Ma più semplicemente, ai membri stranieri della giuria, ovvero alla maggioranza, pare risultata incomprensibile la storia e del tutto ignota la drammatica vicenda del presidente della Dc ucciso dalla Brigate Rosse.
Lo dice, ad esempio, la spagnola Assumpta Serna, invitando per il futuro i nostri autori a una maggiore chiarezza e facilità di temi. «Che cosa significa, che dovremmo realizzare film didascalici?» replica Giancarlo Leone, amministratore delegato di Rai Cinema che ha prodotto «Buongiorno, notte». «Bellocchio ha fatto cinema, non cronaca, e poi non mi pare che gli altri film premiati, tutti belli, raccontassero storie semplici». C'è amarezza e delusione tra gli uomini di viale Mazzini che, dopo le trionfali accoglienze, sentivano di avere già in tasca la vittoria: il presidente di Rai Cinema, Giuliano Montaldo, rifiuta di consegnare il premio al vincitore della sezione Controcorrente, e altrettanto fa la protagonista di «Buongiorno, notte», Maya Sansa. «I verdetti vanno accettati», commenta Leone, «ma resta il rammarico per un’occasione perduta. Purtroppo, noi italiani siamo i nostri principali nemici». Inutile venire a Venezia, quindi? «No, anche grazie al gran parlare che se n'è fatto alla Mostra il film di Bellocchio ieri ha incassato circa 140 mila euro, un risultato clamoroso per un italiano. Che dire... Il pubblico dimostra di essere più maturo della giuria».
Fanno buon viso a cattivo gioco i massimi vertici Rai, il direttore generale Cattaneo e la presidente Lucia Annunziata, per una volta d'accordo. Lui sorride sull'«esterofilia» esagerata degli italiani, lei lascia il Lido prima del previsto per partecipare a un dibattito con il ministro Gasparri e diserta la serata di gala. «Abbiamo portato alla Mostra i film più belli, sono comunque contentissima» dice, «perché è sotto gli occhi di tutti che la Rai ha rivitalizzato il cinema». Aspettando la premiazione, nella hall dell'Excelsior il regista Pasquale Squitieri s'indigna per il verdetto («è una vergogna, i nostri autori dovrebbero essere più tutelati»), l'attore Luigi Lo Cascio, che in «Buongiorno, notte» interpreta il capo delle Br Moretti, si prepara disciplinato a ritirare il premio alla sceneggiatura a nome di Bellocchio. Il regista, invece, rientra subito a Roma per tenersi lontano dalle polemiche e smaltire diversamente la delusione. «Chi partecipa a un gioco deve accettarne le regole» ha detto, «quindi va bene così. Il mio film è piaciuto ai giovani e questo per me è il premio più importante».

Il Messaggero

Il Messaggero 7.9.03
Uno schiaffo alla rinascita del cinema italiano
dal nostro inviato Fabio Ferzetti

Venezia
PATATRAC. Era l’anno dei film sul Padre e il nostro era il più bello di tutti. Ma invece del caso Moro riletto da Bellocchio con gli occhi del mito e dell’immaginazione, il leone d’oro è andato a un film russo, sempre molto bello in verità. Dove un altro Padre, che stavolta è pure un padre carnale, viene messo a morte (involontariamente?) dai suoi due figli.
Perde dunque l’episodio storico, sia pure sottratto alla dittatura dei fatti e reinventato con poetica libertà; vince la parabola fitta di simboli, di allusioni, di preziosismi visivi. E soprattutto aperta alle più varie interpretazioni. Un caso, una beffa, un’ingiustizia? Magari Il ritorno è più vicino alla sensibilità internazionale, meno legato alla conoscenza puntuale di fatti e dilemmi di casa nostra (difatti ha vinto pure il prestigioso De Laurentiis per l’opera prima). Ma vista con occhi italiani la mancata vittoria di Buongiorno notte resta uno scandalo, un abbaglio, una sciocchezza.
C’era l’occasione di premiare un grande cineasta che dai Pugni in tasca a oggi ha compiuto un tortuoso itinerario personale e politico; si poteva riconoscere la grandezza di un film che fa piazza pulita di indagini e dietrologie per tornare all’essenziale e svelare, scavando nell’intimo dei protagonisti, tutto ciò che si agita dietro i proclami, le ideologie, le farneticazioni di un terrorismo che oggi ha cambiato volto ma non è certo scomparso. Invece, niente. Solo un premiolino quasi offensivo alla sceneggiatura. Come se il primo merito di Bellocchio non fosse proprio quello di restituire leggerezza e trasparenza all’inestricabile caso Moro concentrandosi su un pugno di personaggi, di spazi, di conflitti interiori, e usando i corpi, i volti, lo spazio, come solo un grande regista sa fare.
Nessun riconoscimento nemmeno agli attori, Roberto Herlitzka e Maya Sansa, cui spettava il difficile compito di dar vita a personaggi tutt’altro che aderenti ai loro modelli. In compenso, coppa Volpi all’istrionico Sean Penn, bravissimo per carità, in un film che gronda retorica. Niente al grande protagonista del polacco Pornografia (scrivemmo lo stesso, un paio d’anni fa, di un grandissimo interprete rumeno: ci vorranno anni perché gli attori centro ed est-europei tornino a vincere premi). Mentre fra tanti film medi o deludenti la giuria ha riconosciuto, come giusto, l’incontenibile talento di Takeshi Kitano; e ha premiato lo sberleffo alle frontiere di uno dei tanti film che abbiamo perso per colpa dei nuovi orari demenziali, il libanese Le cerf-volant .
Vanno meglio i premi di Controcorrente, che resta un concorso di serie B, come prova già la giuria di minor prestigio. E non si capisce perché non fossero in serie A i film di Sofia Coppola, di Lars Von Trier, dell’iraniano Jalili. E quello del curdo Hiner Saleem, Vodka Lemon , che ha vinto a mani basse con questa commedia surreale girata nell’Armenia innevata, parlata in tre lingue e impreziosita da una lieve ironia. Confinato all’ultimo giorno, era tra i migliori film di una Mostra avara di scoperte. Dalla quale riporteremo a casa, oltre ad alcune immagini, non molte, quanto dice Shimon Peres a Oliver Stone in Persona non grata: «Insegnare la Storia è pericoloso. E’ scritta col sangue. In fondo tutto ciò che impariamo è come dimenticare. Ai giovani dobbiamo insegnare a usare più l’immaginazione e meno la memoria». Proprio come fa Bellocchio, guardacaso, con Buongiorno notte .

Per il regista “tradito” al festival ovazioni e bagno di folla in un cinema romano
«A Venezia preferisco il mio pubblico»
di Roberta Bottari

ROMA - La sua battaglia personale, Marco Bellocchio, l’ha vinta ieri sera. Un applauso interminabile e una folla davvero commossa hanno accolto il regista davanti al cinema Eden di Roma, dove proiettano Buongiorno, notte . Bellocchio e gli attori si sono presentati con semplicità, senza glamour. Il regista e Roberto Herlitzka sono arrivati con le loro giacche di lino e l’aria spiegazzata, Maya Sansa con i jeans e la maglietta del film. Ma non erano così lontani dalla passerella della Mostra di Venezia come si sarebbe potuto pensare. E, quando dopo più di dieci minuti di applausi, il pubblico ha gridato: «Avete vinto voi», l’emozione si tagliava a fette.
Dentro il cinema è stato un tripudio. Gli spettatori che avevano appena visto Buongiorno, notte hanno dedicato al regista e al cast una vera e propria standing ovation. «Siamo qui - ha detto Marco Bellocchio appena è riuscito a prendere la parola - perché ci sentiamo più a nostro agio con il pubblico che al Lido. D’istinto, abbiamo preferito essere qui con voi, piuttosto che a Venezia, per ritirare un premio, di per sé dignitosissimo, che però non ci rappresenta. Al contrario, sono molto contento dei riconoscimenti arrivati dalle giurie di giovani. Si tratta di ragazzi che quando è stato rapito Moro non erano nemmeno nati. Forse tutto ciò vuole dire che è arrivato il momento di fare i conti con quella pagina di Storia. D’altronde, sono convinto che la crisi della Prima Repubblica sia iniziata proprio dall’omicidio di Aldo Moro».
E la delusione per il mancato Leone d’oro? «Se si sceglie di partecipare a una gara, bisogna anche accettarne le regole. Ma - ha ammesso il regista - sento una piccola amarezza nel cuore. Non ho visto gli altri film, quindi su questo argomento non posso aggiungere altro. Certo, alla Mostra siamo stati accolti molto bene sia dal pubblico, sia dalla critica, ma poi le cose sono andate diversamente. Maya Sansa e Roberto Herlitzka hanno vinto il Premio Pasinetti: lo ritireranno in un’altra occasione. Lo ripeto: mi sento molto più a mio agio qui, in una sala cinematografica a parlare con la gente che ha visto il mio film, che a Venezia».

Corriere della Sera

Corriere della Sera 7.9.03
Bellocchio: accetto le regole però non sono soddisfatto
Il regista applaudito a Roma alla prima del suo film «Rai Cinema» contesta la scelta della giuria del Lido
DA UNO DEI NOSTRI INVIATI


VENEZIA - Delusione, amarezza, ira. Sentimenti molto diffusi ieri tra quanti, il regista Marco Bellocchio su tutti, si aspettavano, anzi erano certi, che un importante riconoscimento sarebbe andato a Buongiorno, notte .
Accolto al Lido con una rara unanimità di critica e pubblico, il film aveva dalla sua anche un tema forte, una riflessione privata sul rapimento Moro. Ma già nella notte di ieri voci di malaugurio svolazzavano avvertendo che in giuria non tirava per l'Italia aria favorevole. Ieri l’ufficialità con la notizia di un premio striminzito, per la sceneggiatura. Una frustata all'ottimismo dell'attesa, che subito ha dato la stura a sconforti e veleni da parte dei tanti fan che l'hanno sostenuto e dell'entourage Rai che l'ha prodotto.

GARA - Bellocchio è il primo a non digerire il verdetto. Si dilegua sin dal primo mattino per andare a Roma alla proiezione del suo film al cinema Eden con alcuni attori e la troupe. «Il premio ricevuto è un premio dignitosissimo che però in qualche modo non mi e non ci rappresenta - ha detto al pubblico -. Siamo qui per un motivo molto semplice, una scelta. Non voglio dire nulla sugli addetti di Venezia. Però vorrei spiegarvi che noi, d'istinto, abbiamo preferito essere qui con voi». Poi ammette: «Parlando senza ipocrisie non nascondo che c'è stata una piccola amarezza. Ma non posso aggiungere altro perché non ho visto gli altri film e non so come è stata presa la decisione». E in giornata aveva detto: «Queste sono le regole del gioco di ogni gara. Venendo alla Mostra le abbiamo accettate. E poi i premi migliori al Lido io li ho già ricevuti, i tre del pubblico giovane. Inoltre, ho saputo che già da ieri tanti ragazzi hanno visto il film».

NEMICI - Meno sportivo Giancarlo Leone, amministratore delegato di Rai Cinema, parla di «occasione perduta per il cinema italiano». «Gli applausi del pubblico, le lodi della critica, il fatto che in giuria ci fossero Monicelli e Accorsi... Nulla è valso. Purtroppo noi italiani siamo i primi nemici di noi stessi». La giurata spagnola, l'attrice Assumpta Serna, ha spiegato che Buongiorno, notte non è piaciuto perché non di facile comprensione per gli stranieri in giuria. Se il cinema italiano vuole uscire dai confini, ha suggerito, deve raccontare le sue storie in modo più chiaro. «E allora le storie del libanese? E quelle curde o taiwanesi? Sono accessibili a tutti?», ribatte Leone. «Se non sbaglio qui siamo a una Mostra d'arte cinematografica, non di documentari o reportage. Un film d'autore ha sempre un suo linguaggio personale».

CAPOLAVORO - Furente e sanguigno come sempre, Pasquale Squitieri, regista che mai ha nascosto le sue simpatie per la destra, spezza a sorpresa una lancia per il collega Bellocchio, notoriamente di sinistra. «Il suo film è un capolavoro, non averlo premiato è stata una vergogna ».
Pacata e diplomatica Lucia Annunziata, presidente della Rai. «Siamo contentissimi di come è andata - assicura -. La Rai ha avuto un ruolo di primissimo piano alla Mostra. Abbiamo portato qui i film più belli, Rai Cinema ha dato nuova linfa al nostro cinema partecipando al 30 per cento dell'intera produzione. E' il nostro gioiello della corona», conclude Annunziata, sorridente ma decisa a non presenziare alla cerimonia dei premi. «Purtroppo ho un altro impegno», spiega.
«Questa Mostra mi pare un po' troppo esterofila - commenta Flavio Cattaneo, direttore generale della Rai -. Si premiano sempre gli stranieri, meglio se afghani o curdi. Pazienza. Mi dicono che nei cinema il film di Bellocchio è partito benissimo. E' quello che conta».

BOX OFFICE
Gli incassi lo premiano

Lo «schiaffo» della giuria, il premio del pubblico. Per Buongiorno, notte gli incassi volano nonostante la giuria non lo abbia ritenuto da Leone d’oro. Nella giornata di venerdì la pellicola ha incassato 140 mila euro nelle circa 170 sale in cui era proiettato. Un ottimo risultato, se si pensa che Hulk , alla seconda settimana di programmazione, con 400 copie, ne ha incassati 235.

Lietta Tornabuoni su La Stampa

La Stampa 7 Settembre 2003
LA DOPPIA SCONFITTA DELL’ITALIA
di Lietta Tornabuoni

IL Leone d’oro della 60ª Mostra del cinema di Venezia è andato al film russo molto bello «Il ritorno», diretto dal regista debuttante quarantenne Andrej Zvjagintsev, storia lirica e livida del viaggio di un uomo e due ragazzini tra foreste ed acque nordiche. Gran Premio della Giuria all’arabo «L’aquilone» della libanese Randa Chahal Sabbag. Migliore attore, l’americano Sean Penn. Migliore attrice, la tedesca Katija Riemann. Miglior regista, il giapponese Takeshi Kitano.
All’Italia zero, salvo un premio minore a «Buongiorno, notte» di Marco Bellocchio: per la sceneggiatura, che non è l’elemento migliore dell’opera sul sequestro, la reclusione, l’uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse (dal film, gli ignari giurati stranieri non sono riusciti a capire nulla di quella tragedia). La sconfitta del cinema italiano è forse il fatto più rilevante di un verdetto non ingiusto (quasi tutti i premiati sono ammirevoli) ma non interessante. Alla competizione il nostro cinema si presentava persino troppo in forza: tre film in concorso (degli americani ce n’era in gara soltanto uno) di tre autori stimati («Buongiorno, notte» di Bellocchio, «Segreti di Stato» di Benvenuti, «Il miracolo» di Winspeare), più «The Dreamers» di Bernardo Bertolucci fuori concorso. Dilemmi o sfondi politici per noi appassionanti: il caso Moro nel 1978, la strage di Portella della Ginestra nel 1947, il Sessantotto di tutti i desideri e di tutte le speranze. La nostra Storia rivisitata drammaturgicamente, coi suoi misteri, le sue congiure, il sangue.
E neppure un riconoscimento. Fra tanti motivi possibili, la spiegazione più semplice è che ai giurati stranieri (un tedesco, una cinese, una spagnola, un americano, un francese) l’Italia cinematografica sia piaciuta poco, l’Italia politica non interessi affatto.

dopo: a Roma!

La Repubblica
06.9.03 Roma, 22:18
Mostra del Cinema, Bellocchio: meglio essere qui col pubblico


Ovazione per Marco Bellocchio e gli attori del cast di Buongiorno, notte da parte di un centinaio di persone che si trovavano all'esterno del cinema Eden a Roma. Bellocchio, che aveva abbandonato Venezia oggi pomeriggio, in segno di protesta per la mancata vittoria del Leone d'oro ha dichiarato, una volta in sala: "Preferiamo essere qui con il pubblico anzicché lì a ritirare un premio che non ci rappresenta".
"Il festival di Venezia - ha dichiarato Roberto Herlitzka l'attore che intepretava Aldo Moro - è come il Festival di Sanremo, non sempre vincono i migliori". (Fabio Santolini)

Corriere della Sera
06.9.03 22:34 Festival di Venezia: Bellocchio accolto da ovazione a Roma


ROMA - Una standing ovation ha accolto Marco Bellocchio e gli attori del cast di "Buongiorno, notte" che si trovavano nel cinema Eden a Roma. Bellocchio, che aveva abbandonato Venezia oggi pomeriggio, in segno di protesta per la mancata vittoria del Leone d'oro ha dichiarato: "Preferiamo essere qui con il pubblico anziche' li' a ritirare un premio che non ci reppresenta". (Agr)

su La Sicilia: Macaluso ricorda

La Sicilia 6.9.03
Macaluso: «Moro, il Pci e le Br»
di Tony Zermo

Ora che si riparla del caso Moro dopo il film di Bellocchio a Venezia, e dopo la «Piazza delle cinque lune», due film di cui si discute molto, ci chiediamo se la linea della non trattativa con le Br sia stata giusta. Liberi pensatori come Sciascia erano per lo scambio perché «la ragion di Stato non vale una vita». Quelli che bloccarono qualunque trattativa, a distanza di 25 anni hanno avuto dei ripensamenti? Lo chiediamo a Emanuele Macaluso, uno dei leader storici del Pci di allora. «Io in quel periodo - dice - ho sostenuto con convinzione la linea della fermezza con Berlinguer, Amendola, Pertini e gli altri. E questo per tre motivi: primo perché una trattativa avrebbe dato legittimazione alle Brigate rosse e quindi avrebbe allargato la loro presenza e l'area del consenso; la seconda preoccupazione era che in definitiva il Pci, che era stato indicato come "padre" delle Br anche dalla Rossanda, perché loro parlavano di leninismo, di comunismo, aveva l'esigenza di marcare una rottura radicale; terzo perché eravano arrivati nell'area di governo e quindi era necessario segnare con forza che il Pci era un partito dello Stato, dell'arco costituzionale. Infine nel Pci c'era ancora molta gente come Pajetta, Amendola e altri che avevano fatto anni e anni di carcere i quali avevano trasmesso anche a noi che quando si fa politica si deve rischiare, quando si sta in carcere non bisogna piegarsi, che chi fa questa scelta la deve fare fino in fondo. C'era insomma anche una questione morale, tutta una concatenazione di motivi per cui il Pci su questo fronte fu abbastanza compatto».
Nemmeno quando le Br proposero lo scambio uno contro uno, la vita di Moro in cambio della liberazione di Paola Besuschio, che tra l'altro era ammalata e non aveva ucciso nessuno?
«Anzitutto nessuno credeva alla serietà di quella proposta, si pensava che l'avrebbero ucciso lo stesso e che quella richiesta dell'ltimo momento era solo un modo per fare dire di sì e poi ucciderlo lo stesso. Ci fu solo Bufalini che disse: ma in fondo si potrebbe liberare la Besuchio.Ma come ricordava Andreotti la Besuschio aveva una condanna definitiva e non si capiva come potesse uscire dal carcere».
Avete mai valutato cosa sarebbe stato di Moro se le Br lo avessero lasciato libero?
«In effetti molti si sono chiesti come mai le Brigate rosse non lo abbiano liberato, perché Moro libero sarebbe stato un elemento destabilizzante per il maggiore partito di governo. Però dai calcoli fatti, in definitiva loro, o chi per loro o con loro, pensavano che era necessario dare una prova di forza, per significare che non si fermavano davanti a nulla, che non avevano scherzato, che con loro non si scherzava».
Eppure il giudice Sossi di Genova l'avevano liberato.
«Ma Sossi non era Moro. Moro era lo Stato. Infatti loro avevano detto: abbiamo colpito il cuore dello Stato. Era qualcosa di diverso, la trattativa era con il cuore dello Stato, per il cuore dello Stato».
Tre settimane dopo il rapimento di Moro entrai nella sede della Dc in Piazza del Gesù per una conferenza del segretario dc Zaccagnini. In una stanza deserta vidi arrotolati dei grandi manifesti a lutto «per la morte di Moro». E Moro era ancora vivo.
«Questa è una cosa che non ho mai saputo. Forse quei manifesti furono stampati quando ci fu quel volantino che diceva: cercate il cadavere di Moro nel Lago della Duchessa. O forse è stato lo zelo di qualcuno. Se lei dice di averli visti, ci credo, ma francamente resto sorpreso».
Lo chieda a Beppe Sangiorgi, allora addetto stampa della Dc, il quale mi disse: «Sai, è per essere preparati al peggio».
«Se dovessi incontrare Sangiorgi glielo chiederò».

i giovani

il Gazzettino 6.9.03
Bellocchio conquista i giovani giurati

Superfavorito per il Leone d'Oro, Marco Bellocchio con il suo "Buongiorno, notte" ha già fatto man bassa dei premi assegnati dalle giovani giurie della Mostra di Venezia. Il film si è infatti aggiudicato il Leoncino d'Oro Agiscuola, il premio Cinemavvenire e il premio Arca. «Sono molto emozionato -ha detto il regista- di ricevere questi premi da ragazzi che nel '78 non erano nemmeno nati. Noi abbiamo vissuto la tragedia italiana raccontata nel film, quella del rapimento Moro, loro no. Per questo la loro emozione davanti al film è molto più preziosa».

dopo, Liberazione...

Un Leone che non ruggisce
Roberta Ronconi

Non è Bellocchio. Il Leone non è di Bellocchio. L'intero Lido ieri è rimasto senza fiato nel venire a sapere - durante la premiazione, ma in realtà le voci circolavano già dal pomeriggio - che il film più unanimemente amato e applaudito di questa 60ma Mostra di Venezia non avrebbe ricevuto il massimo riconoscimento della Giuria. Guidata dal suo presidente Mario Monicelli (e composta, inoltre, da Stefano Accorsi, Michael Ballahaus, Ann Hui, Pierre Jolivet, Monty Montgomery Assumpta Serna), questa ha preferito mettere il Leone d'oro nelle mani di Andrej Zvyagintsev, regista russo che ha dedicato la vittoria a uno dei suoi giovani protagonisti, morto subito dopo le riprese del film. "Il ritorno" è stato un titolo molto amato e applaudito dal pubblico del Lido, un po' meno dai critici cinematografici (noi comprese) che lo hanno trovato un perfetto prodotto da festival, formalmente e narrativamente impeccabile e proprio per questo meno interessante di altri titoli artisticamente più "sporchi". Una scelta che farà discutere a lungo, anche nei prossimi giorni, e che probabilmente ha un profilo politico, oltre che artistico. Per rabbia, crediamo, sia Marco Bellocchio che la sua attrice Maya Sansa (che avrebbe dovuto consegnare un premio) hanno lasciato ieri Venezia nel primo pomeriggio, decidendo così di non presenziare alla serata di premiazione.
(...)

prima, Il Corriere della Sera...
Quel sogno di Chiara
mentre moriva la Prima Repubblica
di Paolo Franchi

E’ il caso di ringraziare Marco Bellocchio per averci dato questo Buongiorno, notte, un bel film, anzi, un bellissimo film su una vicenda drammatica e cruciale come il sequestro, la prigionia e l’assassinio di Aldo Moro. Un film che non ci ammannisce verità preconfezionate sorrette da sconvolgenti pseudorivelazioni; ma che nonostante questo, o forse proprio per questo, ci costringe a ripensare a quei terribili 55 giorni e a cosa ci hanno lasciato in eredità. Altro che Mani Pulite, altro che referendum elettorali. La Prima Repubblica, quella vera, entrò in crisi preagonica il 16 marzo del 1978, il giorno del sequestro di Moro; visse la sua agonia nelle settimane in cui Moro fu rinchiuso nel «carcere del popolo»; e morì il 9 di maggio, quando il cadavere del presidente democristiano fu restituito dai brigatisti a poche decine di metri da Botteghe Oscure e da piazza del Gesù. Con Moro veniva meno il suo leader più lucido e consapevole, la sua incarnazione più alta: il conservatore illuminato che si era fatto garante della possibilità di portare a compimento definitivo l’allargamento delle sue basi politiche e sociali, una sorta di moderno Giolitti.Con il suo assassinio si chiudeva di fatto il tempo dell’unità nazionale, si apriva (da subito) la crisi del Pci, e in prospettiva (non lunghissima) la crisi democristiana. E finiva anche il nostro lungo dopoguerra, la stagione dei processi politici così lenti da sembrare interminabili, eppure fondati, così come i partiti che li promuovevano, su un consenso faticosamente guadagnato, passo dopo passo, nel profondo della società italiana, e alla fine così vasto da renderli quasi irreversibili. Tutto questo Moro era, o per lo meno questo simboleggiava, per amici, interlocutori ed avversari. E tutto questo era, senza di lui, letteralmente impossibile. Lo avevano chiaro anche i brigatisti: davvero sequestrandolo e assassinandolo il partito armato scientemente provvide ad uccidere, con un’ overdose di decisione politica, un sistema cronicamente afflitto da astinenza da decisione? Non può essere certo un film, seppure bello e intelligente, a dare risposte definitive a un simile quesito, specie se giustamente rifugge dall’eterno gioco della ricerca degli ipotetici mandanti, e ci racconta invece i carcerieri di Moro per quello che presumibilmente erano: militanti finiti sul binario morto dell’allucinazione ideologica, capaci anche, in alcuni casi, di chiedersi angosciati in quale girone infernale si fossero andati a cacciare, ma destinati, prigionieri com’erano di una cieca autoreferenzialità politica, a portare a sentenza irreversibile il loro «processo».
Certo, è solo un sogno della più inquieta delle carceriere, Chiara, quel Moro che se ne esce libero dall’appartamento, e se ne va da solo verso casa in una Roma deserta. Ma quel sogno avrebbe potuto anche essere una possibilità politica, oltre che, naturalmente, umana: la possibilità che, fuori dal carcere, il cosiddetto «partito della trattativa» cercò invano di tenere aperta, e che il cosiddetto «partito della fermezza» osteggiò con successo. Moro restituito vivo, dopo quei 55 giorni, non sarebbe stato davvero lo stesso di prima; e forse anche la nostra storia avrebbe preso una piega assai diversa. I suoi sostenitori democristiani, comunisti, laici, lo temettero. I suoi tradizionali avversari, a cominciare da Craxi, inutilmente lo sperarono. Alla fine, persero tutti.
Si disse allora che, dopo il suo sacrificio, nulla sarebbe tornato come prima. Non era vero. Il film di Bellocchio, stavolta feroce e impietoso, ci ripropone le immagini dei funerali di Stato di Moro nella basilica di San Giovanni: funerali senza salma, per volontà della famiglia. In piazza (ma queste il film non ce le mostra) qualche centinaio di bandiere scudocrociate e di bandiere rosse, che sventolano sempre più stanche. Dentro la basilica, ad ascoltare le parole di Paolo VI, che attanagliato dal dolore chiede angosciato a Dio perché non ha ascoltato la sua supplica, i volti impietriti di una classe dirigente che forse per la prima volta intuisce di non essere più tale. Non sapremmo dire se Buongiorno, notte sarà apprezzato dai più giovani. Certo però i più giovani questi volti li ricorderanno. E, ricordandoli, avranno un motivo per cogliere retrospettivamente come noi, in quel Moro sognato, che solo soletto fugge dai suoi assassini e forse pure da quella classe dirigente, un messaggio (deluso) di speranza.

IL LIBRO
«I canarini erano fuggiti. E la colpa era mia»

Paola Tavella, l’autrice dell’intervista di questa pagina, ha scritto con Anna Laura Braghetti il libro «Il prigioniero» (in nuova uscita per Feltrinelli Editore) che ha ispirato il film di Bellocchio. Eccone un brano :
La gabbia era vuota, con la porta spalancata. Mi prese il panico. Come poteva essere successo? Dovevo per forza essere stata io a lasciarla aperta. Ora dovevo andare in cucina e dirlo a Prospero. Si sarebbe infuriato, e avrei passato un guaio, lo sapevo benissimo. E non c’era modo di correre ai ripari. A quell’ora i canarini dovevano essere chissà dove.
Nella casa di via Montalcini c’era una gabbia con due canarini gialli. La tenevo appesa al soffitto, nel salone, ma accadeva che al mattino, prima di uscire, portassi la gabbia con una vaschetta piena d’acqua in giardino. Ai canarini piace fare il bagno. Prospero andava pazzo per quei due uccelli. Ne curò uno che si era ferito a una zampa, e un giorno che il tempo era cambiato ed erano restati fuori sotto il temporale lo trovai che li asciugava con il phon. E ora erano scappati, per colpa mia. Dovevo aver fatto uno di quei gesti automatici che, si sa, alludono ad altro. Chi avrei voluto lasciare libero? me stessa, Aldo Moro? Mi precipitai in casa e raggiunsi lo studio, feci girare sui cardini la libreria e accostai l’occhio allo spioncino sulla porta della cella. Era il mio rituale di tutte le sere, quello che segnava il salto fra una identità e l’altra. Come mai, invece, lo avevo dimenticato? Il prigioniero sedeva sul letto, un taccuino sulle ginocchia, e scriveva. In quei giorni scriveva sempre.
(per gentile concessione della Feltrinelli Editore)

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Al cinema con Anna Laura Braghetti, carceriera del leader dc: nell’opera di Bellocchio compare come Chiara
«Sognai di salvare Moro, come nel film. Ma non feci nulla»

«Ero contraria. Ero inorridita. Come nel film ho immaginato di lasciar andare Aldo Moro, ma non l’ho fatto. E’ troppo comodo dirlo adesso». Così l’ex brigatista Anna Laura Braghetti ricorda il dramma del sequestro e dell’omicidio del leader dc rievocato da Buongiorno, notte , il film di Marco Bellocchio ispirato al suo libro «Il prigioniero». La Braghetti commenta così la pellicola: «Il film suggerisce una via d’uscita che la morsa dell’ideologia a suo tempo non ci consentì neppure di immaginare. Non ho la distanza necessaria per dare un giudizio. E’ una tragedia e abbiamo causato dolori così grandi da non poter immaginare nemmeno quanto. Non vorrei riaprire delle ferite».
«Ma questa è via Montalcini. Hanno preso la casa vera...». Nel buio di un cinema di periferia, al primo spettacolo, Anna Laura Braghetti, che di Aldo Moro è stata la carceriera e la vivandiera, e della prigione del popolo l'inquilina ufficiale, reagisce così alle prime inquadrature di Buongiorno, notte , il film di Marco Bellocchio ispirato a «Il prigioniero», il libro che abbiamo scritto insieme nel ’97 sui cinquantacinque giorni del sequestro. Poi si rende conto che non si tratta dello stesso appartamento, ma la ricostruzione è fedele al punto da averla, per un attimo, ingannata. Tormenta un fazzoletto. Tiene la borsa a tracolla, come fosse sempre sul punto di alzarsi e andare via. Nell'intervallo osserva soltanto di non capire se il film le piace: «Non ho la distanza necessaria per dare un giudizio. E' una tale tragedia. E, anche, è la mia tragedia».
Non voleva cedere i diritti, oggi non vorrebbe parlare. Perché, spiega, «abbiamo causato dolori così grandi da non poter nemmeno immaginare quanto». Aggiunge: «Non vorrei che una mia parola riaprisse la ferita di qualcuno, lo offendesse. E' necessario essere sobri, avere pudore».
Quanto ti sei riconosciuta nel personaggio di Chiara?
«Ho una distanza così grande dal mio passato che quasi non riesco più a parlarne. C'è stato un periodo in cui ho fatto della ideologia un modello di vita e da quella persona lì sono lontana anni luce. Quando si diventa adulti non si capiscono più i discorsi dei ventenni. Ecco, ho appena compiuto 50 anni e non comprendo più i ragionamenti che facevo da ragazza. Stamattina ho letto sul giornale che all'epoca del delitto Moro avevo 23 anni e ci ho creduto. Solo dopo qualche ora ho realizzato che ne avevo 25. Comunque Chiara è l'unico personaggio che Bellocchio lascia davvero agire, gli altri sono piatti, quasi delle caricature. Lei invece esce fuori dalla cornicetta ideologica».
Nel film Chiara fantastica di liberare l'ostaggio, e forse alla fine lo lascia andare davvero. Tu eri contraria all'esecuzione, soprattutto per ragioni umanitarie...
«Sì, ero contraria. Ero inorridita. Ma è comodo dirlo adesso. A quei tempi non ho agito. Ho immaginato di lasciar andare Moro ma non l'ho fatto. Ho lasciato che accadesse. E sono rimasta nelle Br».
Questo film è anche un film sulla libertà, e sulla liberazione di Moro. Dice che era possibile.
«Sì. Se teniamo gli occhi socchiusi possiamo lasciar passare quelle immagini e fare assumere alla realtà un tono più accettabile. Fingere che sia stata quella. Forzarla. Ma la verità dei fatti è lì, dove e come si è verificata. E la riflessione, per me, non finirà mai».
Te lo chiedo ancora: la liberazione di Moro era possibile?
«Potrei ribattere che per le Brigate Rosse, nella nostra logica, non lo era. E infatti non lo è stata. E invece sento di non doverti rispondere, proprio per la buona ragione che le cose sono andate diversamente. Il film suggerisce una via d'uscita che la morsa dell'ideologia a suo tempo non ci consentì neppure di immaginare. Eppure Bellocchio ha colto qualcosa di quello che c'era dentro di me, dei messaggi che ci sono nel libro. Ha fatto un'operazione di compressione, poi ha preso dei dettagli, delle sfumature, e le ha fatte esplodere. Le lettere dei condannati a morte della Resistenza che mi venivano in mente ossessivamente in quei giorni, i canarini a cui senza volere ho lasciato aperta la gabbia. Si è servito di spunti, tracce narrative, ma ha saputo andare molto oltre. E' proprio frutto del suo lavoro, gli va riconosciuto tutto.
Sono colpita dalle reazioni della stampa e dei commentatori a questo film. Fino a ieri non si poteva parlare del caso Moro senza nominare i "misteri", oggi non vi si fa neppure cenno. E sembrava anche molto difficile che gli artisti, gli intellettuali italiani riuscissero a rielaborare, ripercorrere la storia del nostro Paese con film, libri, non solo con saggi politici. Invece ecco, esce il film di Bellocchio, esce il film di Bertolucci sul '68, la gente fa la fila per vedere La meglio gioventù di Giordana».
«Forse questi autori hanno saputo trovare il passo giusto. Però, per quel che mi riguarda questo accade in un momento in cui rifuggo dall'essere un personaggio pubblico. Cinque anni fa ho deciso che era venuto il momento di raccontare, di testimoniare, e abbiamo scritto il libro, sono andata in televisione a rispondere alle domande di Sergio Zavoli, ho discusso con tutti quelli che mi hanno chiesto di farlo. Tutti sanno chi sono adesso, come sono cambiata, perché. Ogni tanto - bada, non perché io possa dimenticare, o perché creda di poter davvero voltare per sempre quella pagina - vorrei soltanto vivere, fare il mio lavoro in sordina, essere lasciata in pace. Non restare ancorata per sempre a certi momenti della mia vita. Esistere per quello che sono oggi. Stare in disparte. Mi viene da dire che tocca agli altri, adesso. Non ero mica sola, in via Montalcini».
Nel film Chiara partecipa a una commemorazione del padre partigiano insieme ai suoi compagni nella Resistenza e tutti cantano «Fischia il vento». Che cosa ti ha fatto pensare?
«Bellocchio ha voluto fare una provocazione. La lotta partigiana è una pagina gloriosa, ma le ferite che si sono aperte a quel tempo non si rimarginarono. E' rimasto un odio di classe che la nostra generazione ha ereditato e portato alle estreme conseguenze. E' come se noi che abbiamo preso le armi avessimo messo in pratica quello che, in fondo, desideravano anche molti di coloro che non hanno sparato».
E oggi che cosa ci resta da fare?
«Lavorare sull'odio. Sul proprio odio e sull'odio collettivo. Spegnere l'odio».