Yahoo Notizie 30.1.04
Usa:
depressi? Cappellano aziendale
(ANSA)-NEW YORK, Dipendenti afflitti da problemi emotivi, preoccupati per lavoro o difficoltà in famiglia, depressi? Le società Usa chiamano il cappellano. Meno scientifico degli psicologi, considerato più alla mano, il parroco è la nuova ancora di salvezza delle imprese. Così è nato un nuovo filone imprenditoriale: quello del noleggia-un-sacerdote curato da aziende come Marketplace Ministries e Corporate Chaplains of America. Il costo varia tra i 250 e 100.000 dollari al mese.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
sabato 31 gennaio 2004
Luigi De Marchi e la "pastorale dei depressi" vaticana
Avanti 30.1.04
IL CONVEGNO VATICANO SUL “MALE DEL SECOLO”
Il depressione-business
di Luigi De Marchi
Da vent’anni segnalo il dilagare della depressione (che definivo “il male del secolo”) e cerco di spiegare - nel quadro della mia nuova teoria della nevrosi e della cultura - come essa sia un corollario del crollo delle certezze religiose. Quella teoria, sulla base di un’ampia documentazione storica e preistorica, conclude che, con la emersione della coscienza nel quadro dell’evoluzione umana, l’uomo era divenuto l’unica creatura vivente consapevole del proprio destino di morte ed era stato assalito da una devastante angoscia esistenziale contro cui aveva reagito negando la morte e sviluppando fantasie e credenze in una vita d’oltretomba. La difesa religiosa, quindi, era stata la prima e più durevole difesa della psiche umana contro l’angoscia primaria dell’uomo, appunto l’angoscia della morte. Ma il pensiero filosofico e scientifico moderno aveva messo in crisi le promesse e le certezze d’immortalità della religione esponendo la psiche umana a nuove ondate di angoscia esistenziale. Di recente, una conferma della mia analisi è venuta da un Convegno mondiale sulla depressione indetto dalla Chiesa cattolica anche per candidare se stessa alla terapia di questo “male del secolo”, che colpisce una quota sempre più ampia di popolazione. Le parole con cui il cardinale Xavier Lozano Barragan, presidente del Pontificio Consiglio per la Salute, ha analizzato il problema della depressione sembrano tratte di peso dai miei scritti degli anni Ottanta e Novanta: “La causa della depressione sempre più diffusa - ha detto il cardinale inaugurando il gigantesco Convegno, cui hanno partecipato oltre seicento tra scienziati, ambasciatori e ministri della Sanità provenienti dal mondo intero - va cercata nell’angoscia della morte che affligge l’uomo postmoderno. Nonostante le sue grandi scoperte scientifiche e tecniche, infatti, l’uomo non è riuscito a esorcizzare il fantasma della morte e l’angoscia esistenziale è divenuta il suo incubo insormontabile”. E a questo punto il Cardinale ha formalmente candidato la Chiesa e la sua industria assistenziale al ruolo di grande terapista dell’umanità contemporanea. “Solo chi, come Santa Romana Chiesa, possiede la risposta al problema drammatico della morte, solo chi può dare alla coscienza tormentata dell’uomo mo-derno la promessa dell’immortalità e della felicità eterna - egli ha detto - può anche dare una soluzione piena e definitiva al problema della depressione dilagante”. E proprio in questi giorni si è saputo che la macchina organizzativa del mondo ecclesiastico intende candidare migliaia di parrocchie e di centri cattolici all’assistenza dei depressi o, per usare il gergo ecclesiastico, “all’accompagnamento pastorale del depresso”. Insomma, come ha fatto dinanzi al problema dell’immigrazione, anche dinanzi a quello della depressione il Vaticano sta forse annusando un affarone. Purtroppo, però, con buona pace del cardinale e dei suoi seicento convegnisti, la terapia proposta dal Vaticano ha sempre portato a tremendi stermini di massa e oggi, con le moderne armi chimiche, biologiche e nucleari, rischia di uccidere l’umanità intera. La difesa religiosa dall’angoscia esistenziale, che oggi il Vaticano vuole ricostruire, è stata anche il fattore centrale della carneficina che ha insanguinato tutto il corso della storia umana, perché ogni gruppo umano ha creduto che le sue divinità fossero le uniche capaci di assicurare l’immortalità e ha percepito i seguaci delle altre fedi come miscredenti o addirittura come agenti del Demonio che minacciavano il suo Paradiso. La situazione si è aggravata con le grandi religioni monoteistiche (ebraismo, cristianesimo e islamismo) per il loro carattere spesso dogmatico e intollerante. Non quindi per caso, ma per intrinseca necessità la storia delle religioni monoteistiche è storia di guerre e di odi infiniti, non solo tra seguaci di religioni diverse (come la Crociate cristiane del XII e XIII secolo o le guerre sante islamiche, che tuttora ci deliziano) ma anche tra seguaci di sette diverse all’interno d’una stessa religione (per esempio cattolici e protestanti nel mondo cristiano, o sciiti e sunniti nel mondo islamico). Pretendere di risanare la depressione col ritorno a questa o quella fede dogmatica è quindi due volte insensato: non solo perché risuscitare la fede con le pressioni esterne è molto difficile, ma soprattutto perché, quand’anche l’operazione vaticana riuscisse, i depressi rischierebbero di passare alla mentalità dogmatica che da secoli produce solo conflitti e stragi tra gli umani. Al rimedio proposto dal Vaticano, quindi, si può solo applicare l’antico, beffardo proverbio veneziano: “Pejo el tacon del buso” (Peggio il rammendo del buco). Già cinquant’anni fa una brillante allieva di Freud, Melania Klein, dimostrò che il malessere psichico si esprimeva secondo due fondamentali modalità: quella depressiva e autodistruttiva o quella paranoidea e eterodistruttiva. La “terapia” della depressione che il Vaticano si accinge a prestare assicurerà certamente alla sua industria assistenziale nuovi giganteschi finanziamenti pubblici e privati ma potrà tuttalpiù riattivare le vecchie modalità paranoidee di pensiero e di comportamento, trasformando l’autodistruttività dei depressi in una distruttività uguale e contraria a quella che oggi imperversa nel mondo islamico e preparando così quello scontro di civiltà che a parole si vuole scongiurare e che, con le armi oggi disponibili, approderebbe ad un’apocalisse planetaria. Le speranze individuali e generali di serenità e di pace non stanno dunque in un ritorno ai vecchi dogmatismi paranoicali ma nella diffusione di un nuovo umanesimo liberale che, al di là delle contrapposizioni confessionali, promuova la solidarietà di tutti i popoli nella comune avventura esistenziale e cosmica.
IL CONVEGNO VATICANO SUL “MALE DEL SECOLO”
Il depressione-business
di Luigi De Marchi
Da vent’anni segnalo il dilagare della depressione (che definivo “il male del secolo”) e cerco di spiegare - nel quadro della mia nuova teoria della nevrosi e della cultura - come essa sia un corollario del crollo delle certezze religiose. Quella teoria, sulla base di un’ampia documentazione storica e preistorica, conclude che, con la emersione della coscienza nel quadro dell’evoluzione umana, l’uomo era divenuto l’unica creatura vivente consapevole del proprio destino di morte ed era stato assalito da una devastante angoscia esistenziale contro cui aveva reagito negando la morte e sviluppando fantasie e credenze in una vita d’oltretomba. La difesa religiosa, quindi, era stata la prima e più durevole difesa della psiche umana contro l’angoscia primaria dell’uomo, appunto l’angoscia della morte. Ma il pensiero filosofico e scientifico moderno aveva messo in crisi le promesse e le certezze d’immortalità della religione esponendo la psiche umana a nuove ondate di angoscia esistenziale. Di recente, una conferma della mia analisi è venuta da un Convegno mondiale sulla depressione indetto dalla Chiesa cattolica anche per candidare se stessa alla terapia di questo “male del secolo”, che colpisce una quota sempre più ampia di popolazione. Le parole con cui il cardinale Xavier Lozano Barragan, presidente del Pontificio Consiglio per la Salute, ha analizzato il problema della depressione sembrano tratte di peso dai miei scritti degli anni Ottanta e Novanta: “La causa della depressione sempre più diffusa - ha detto il cardinale inaugurando il gigantesco Convegno, cui hanno partecipato oltre seicento tra scienziati, ambasciatori e ministri della Sanità provenienti dal mondo intero - va cercata nell’angoscia della morte che affligge l’uomo postmoderno. Nonostante le sue grandi scoperte scientifiche e tecniche, infatti, l’uomo non è riuscito a esorcizzare il fantasma della morte e l’angoscia esistenziale è divenuta il suo incubo insormontabile”. E a questo punto il Cardinale ha formalmente candidato la Chiesa e la sua industria assistenziale al ruolo di grande terapista dell’umanità contemporanea. “Solo chi, come Santa Romana Chiesa, possiede la risposta al problema drammatico della morte, solo chi può dare alla coscienza tormentata dell’uomo mo-derno la promessa dell’immortalità e della felicità eterna - egli ha detto - può anche dare una soluzione piena e definitiva al problema della depressione dilagante”. E proprio in questi giorni si è saputo che la macchina organizzativa del mondo ecclesiastico intende candidare migliaia di parrocchie e di centri cattolici all’assistenza dei depressi o, per usare il gergo ecclesiastico, “all’accompagnamento pastorale del depresso”. Insomma, come ha fatto dinanzi al problema dell’immigrazione, anche dinanzi a quello della depressione il Vaticano sta forse annusando un affarone. Purtroppo, però, con buona pace del cardinale e dei suoi seicento convegnisti, la terapia proposta dal Vaticano ha sempre portato a tremendi stermini di massa e oggi, con le moderne armi chimiche, biologiche e nucleari, rischia di uccidere l’umanità intera. La difesa religiosa dall’angoscia esistenziale, che oggi il Vaticano vuole ricostruire, è stata anche il fattore centrale della carneficina che ha insanguinato tutto il corso della storia umana, perché ogni gruppo umano ha creduto che le sue divinità fossero le uniche capaci di assicurare l’immortalità e ha percepito i seguaci delle altre fedi come miscredenti o addirittura come agenti del Demonio che minacciavano il suo Paradiso. La situazione si è aggravata con le grandi religioni monoteistiche (ebraismo, cristianesimo e islamismo) per il loro carattere spesso dogmatico e intollerante. Non quindi per caso, ma per intrinseca necessità la storia delle religioni monoteistiche è storia di guerre e di odi infiniti, non solo tra seguaci di religioni diverse (come la Crociate cristiane del XII e XIII secolo o le guerre sante islamiche, che tuttora ci deliziano) ma anche tra seguaci di sette diverse all’interno d’una stessa religione (per esempio cattolici e protestanti nel mondo cristiano, o sciiti e sunniti nel mondo islamico). Pretendere di risanare la depressione col ritorno a questa o quella fede dogmatica è quindi due volte insensato: non solo perché risuscitare la fede con le pressioni esterne è molto difficile, ma soprattutto perché, quand’anche l’operazione vaticana riuscisse, i depressi rischierebbero di passare alla mentalità dogmatica che da secoli produce solo conflitti e stragi tra gli umani. Al rimedio proposto dal Vaticano, quindi, si può solo applicare l’antico, beffardo proverbio veneziano: “Pejo el tacon del buso” (Peggio il rammendo del buco). Già cinquant’anni fa una brillante allieva di Freud, Melania Klein, dimostrò che il malessere psichico si esprimeva secondo due fondamentali modalità: quella depressiva e autodistruttiva o quella paranoidea e eterodistruttiva. La “terapia” della depressione che il Vaticano si accinge a prestare assicurerà certamente alla sua industria assistenziale nuovi giganteschi finanziamenti pubblici e privati ma potrà tuttalpiù riattivare le vecchie modalità paranoidee di pensiero e di comportamento, trasformando l’autodistruttività dei depressi in una distruttività uguale e contraria a quella che oggi imperversa nel mondo islamico e preparando così quello scontro di civiltà che a parole si vuole scongiurare e che, con le armi oggi disponibili, approderebbe ad un’apocalisse planetaria. Le speranze individuali e generali di serenità e di pace non stanno dunque in un ritorno ai vecchi dogmatismi paranoicali ma nella diffusione di un nuovo umanesimo liberale che, al di là delle contrapposizioni confessionali, promuova la solidarietà di tutti i popoli nella comune avventura esistenziale e cosmica.
cristianesimo: il peccato originale
La Stampa Tuttolibri 31.1.04
Siamo peccatori irredimibili o possiamo salvarci?
di Federico Vercellone
IL cristianesimo è responsabile di un modello antropologico molto influente, di carattere non solo religioso ma potenzialmente universale, fondato sul senso di colpa e sul peccato. E' questa, molto sinteticamente, la tesi argomentata in termini molti efficaci da Ugo Bonanate nel saggio La Cultura del male. Il cristianesimo, da questo punto di vista, riguarda non soltanto i credenti, i quali liberamente accolgono un modello antropologico pessimistico e negativo. Esso concerne più in generale tutti, in quanto ognuno di noi dipende storicamente, magari senza saperlo, da un'eredità mitica che pone l'accento di una colpa originaria della quale saremmo tuttavia responsabili e che ci porteremmo dietro. C'è da domandarsi chi sia il responsabile primo di questa disfatta dell'uomo e di questo talora subdolo trionfo dell'autorità religiosa. Il principale imputato è: San Paolo, il cui apostolato fu rivolto essenzialmente all'edificazione della Chiesa in quanto stabile istituzione terrena che doveva quindi garantirsi un orizzonte di guida e di comando in questo mondo. La Chiesa in questo quadro è il solo veicolo di salvezza di un'umanità che senza di essa è ineluttabilmente condannata al naufragio: sine Ecclesia nulla salus. E' bene sottolineare che ciò non coincide con l'insegnamento del Gesù storico quale si riflette nei Vangeli sinottici (Matteo, Marco, Luca). Nei Vangeli sinottici il peccato compare infatti come un errore, come una redimibile infrazione della Legge del Signore che viene compiuta dall'uomo; non siamo invece posti dinanzi all'idea di una sorta di maestosa originarietà del peccato quale viene sviluppata dall'insegnamento paolino. Il peccato, la natura decaduta dell'uomo lo rendono, nell'ottica paolina, un essere deietto, incapace di collaborare alla propria salvezza, la quale può realizzarsi solo per iniziativa di Dio e senza che l'uomo abbia la possibilità di contribuirvi. Si tratta della famosa dottrina della salvezza che avviene esclusivamente per Grazia di Dio. «Infatti è per Grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi; è il dono di Dio», rammenta Paolo nella Lettera agli Efesini. E non si tratta di una dottrina isolata ma di uno dei cardini fondamentali del cristianesimo. Alla lezione paolina si accompagna, in questo senso, al termine del quarto secolo, quella di S. Agostino il quale nella polemica con Pelagio riafferma con forza il significato della Grazia divina nei confronti di un possibile merito umano nella conquista della salvezza. L'idea di colpa originaria costituisce così il principio di un dispositivo autoritario e forse rassicurante che si realizza nell'imposizione di regole morali e sociali che limitano e normano l'iniziativa umana di per sé sempre carente e irretita nell'orizzonte della colpa secondo quanto ci ricordano non solo i Padri della Chiesa ma anche, criticamente, pensatori quali Nietzsche e Freud. L'antropologia paolina si dimostra così, nella ricostruzione di Bonanate, ben più potente di quanto non si possa ricavare dalla sola dogmatica religiosa tanto da determinare non solo le leggi del cielo ma anche, e forse soprattutto, quelle di questo mondo. A questa concezione si può persuasivamente opporre l'ideale di un'etica laica che rinunci alla sicurezze dei dogmi per confidare nel pluralismo e nell'ideale della finitezza e del limite. Ma si può anche chiedersi per contro se l'antropologia cristiana sia compiutamente racchiusa in questo quadro. L'uomo infatti cristianamente non è solo creatura caduta ma anche imago Dei. E l'uno e l'altro aspetto vanno paradossalmente insieme e forse anche insieme andrebbero interrogati.
Siamo peccatori irredimibili o possiamo salvarci?
di Federico Vercellone
IL cristianesimo è responsabile di un modello antropologico molto influente, di carattere non solo religioso ma potenzialmente universale, fondato sul senso di colpa e sul peccato. E' questa, molto sinteticamente, la tesi argomentata in termini molti efficaci da Ugo Bonanate nel saggio La Cultura del male. Il cristianesimo, da questo punto di vista, riguarda non soltanto i credenti, i quali liberamente accolgono un modello antropologico pessimistico e negativo. Esso concerne più in generale tutti, in quanto ognuno di noi dipende storicamente, magari senza saperlo, da un'eredità mitica che pone l'accento di una colpa originaria della quale saremmo tuttavia responsabili e che ci porteremmo dietro. C'è da domandarsi chi sia il responsabile primo di questa disfatta dell'uomo e di questo talora subdolo trionfo dell'autorità religiosa. Il principale imputato è: San Paolo, il cui apostolato fu rivolto essenzialmente all'edificazione della Chiesa in quanto stabile istituzione terrena che doveva quindi garantirsi un orizzonte di guida e di comando in questo mondo. La Chiesa in questo quadro è il solo veicolo di salvezza di un'umanità che senza di essa è ineluttabilmente condannata al naufragio: sine Ecclesia nulla salus. E' bene sottolineare che ciò non coincide con l'insegnamento del Gesù storico quale si riflette nei Vangeli sinottici (Matteo, Marco, Luca). Nei Vangeli sinottici il peccato compare infatti come un errore, come una redimibile infrazione della Legge del Signore che viene compiuta dall'uomo; non siamo invece posti dinanzi all'idea di una sorta di maestosa originarietà del peccato quale viene sviluppata dall'insegnamento paolino. Il peccato, la natura decaduta dell'uomo lo rendono, nell'ottica paolina, un essere deietto, incapace di collaborare alla propria salvezza, la quale può realizzarsi solo per iniziativa di Dio e senza che l'uomo abbia la possibilità di contribuirvi. Si tratta della famosa dottrina della salvezza che avviene esclusivamente per Grazia di Dio. «Infatti è per Grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi; è il dono di Dio», rammenta Paolo nella Lettera agli Efesini. E non si tratta di una dottrina isolata ma di uno dei cardini fondamentali del cristianesimo. Alla lezione paolina si accompagna, in questo senso, al termine del quarto secolo, quella di S. Agostino il quale nella polemica con Pelagio riafferma con forza il significato della Grazia divina nei confronti di un possibile merito umano nella conquista della salvezza. L'idea di colpa originaria costituisce così il principio di un dispositivo autoritario e forse rassicurante che si realizza nell'imposizione di regole morali e sociali che limitano e normano l'iniziativa umana di per sé sempre carente e irretita nell'orizzonte della colpa secondo quanto ci ricordano non solo i Padri della Chiesa ma anche, criticamente, pensatori quali Nietzsche e Freud. L'antropologia paolina si dimostra così, nella ricostruzione di Bonanate, ben più potente di quanto non si possa ricavare dalla sola dogmatica religiosa tanto da determinare non solo le leggi del cielo ma anche, e forse soprattutto, quelle di questo mondo. A questa concezione si può persuasivamente opporre l'ideale di un'etica laica che rinunci alla sicurezze dei dogmi per confidare nel pluralismo e nell'ideale della finitezza e del limite. Ma si può anche chiedersi per contro se l'antropologia cristiana sia compiutamente racchiusa in questo quadro. L'uomo infatti cristianamente non è solo creatura caduta ma anche imago Dei. E l'uno e l'altro aspetto vanno paradossalmente insieme e forse anche insieme andrebbero interrogati.
Antonio Labriola (1843-1904)
La Gazzetta di Parma 31.1.04
ANTONIO LABRIOLA
Il maestro di Croce
di Sergio Caroli
All'alba del 2 febbraio di cent'anni fa moriva a Roma, all'Ospedale teutonico del Campidoglio, Antonio Labriola. Gli ultimi suoi giorni, anzi l'ultimo suo anno di vita, furono per lui di infinito tormento; perché oltre ai dolori fisici che gli impedirono il normale lavoro - lavoro di insegnante, di scrittore, di lettore inesauribile - egli fu afflitto dalla privazione più orribile per tutti e specialmente per lui: quella di non poter parlare. Il 14 febbraio 1904 Benedetto Croce, sul «Marzocco», ne scolpiva, in sette pregnanti pagine, un ritratto che incanta ad ogni rilettura. «Vent'anni fa - vi si legge - proprio tra gennaio ed il febbraio, conobbi Antonio Labriola, in Roma, nella casa di Silvio Spaventa, dove ogni sera si raccoglieva un piccolo gruppo di amici fedeli: qualche deputato, qualche giornalista, e parecchi professori. Erano i tempi del Depretis. Il salotto dello Spaventa rappresentava quanto di più pessimistico si potesse immaginare. Io che dalla politica non ero allettato e che il giure infastidiva - ero studente di giurisprudenza - stavo tutto orecchi ad ascoltare il Labriola, che la politica mutava in satira amenissima, del diritto faceva la critica, e di ogni cosa discorreva con vena abbondante, con spirito scintillante, con informazione sempre fresca delle novità librarie, specie germaniche, di cui egli era come il bollettino serale». Fu lo stesso Spaventa ad esortar Croce a frequentare le lezioni del Labriola all'Università dov'egli finì per ascoltare solo quelle. «Gli altri insegnanti - scriveva - mi annoiavano somministrandomi definizioni belle e fatte, sullo schema costante: "Fu Platone il quale disse, Aristotile invece sentenziò, Kant opinò" ecc. Non potevo persuadermi come tutti quei pensatori, dalla Grecia in qua, avessero dovuto attendere, per essere "integrati" ed "armonizzati", le litografiche dispense di quei miei professori». Invece «il Labriola si faceva punto d'onore di non dar mai una definizione; entrava subito in medias res; mostrava le difficoltà e gli aspetti varii dei problemi, svolgendo indirizzi antitetici come loro necessità intrinseche; non parlava con tono cattedratico, ma con periodi brevi e pungenti, che di tanto in tanto s'innalzavano ed ampliavano ad impeto ed onda oratoria. Parecchi dei miei compagni lamentavano che quel professore non si lasciasse "riassumere", ma io, nei corridoi dell'università, lo difendevo con ardore: in verità quelle lezioni mettevano in fervore il mio cervello e, secondo il detto di Kant, mi insegnavano non pensieri, ma a pensare». «Così mi venni stringendo d'affetto d'amicizia e di dimestichezza col povero Labriola».
Nato a Cassino il 2 luglio 1843, Labriola aveva cominciato ad insegnare a Napoli nel ginnasio Umberto, ma dopo breve tempo guadagnò per concorso la cattedra di filosofia morale e pedagogia all'università di Roma. Uscito dall'ambito della Destra moderata e conservatrice, nel 1886 divenne democratico e socialista. Hegeliano in gioventù, poi antihegeliano in favore di Herbart (sotto l'influsso del quale scrisse i saggi «Della libertà morale», «Morale e religione», «Dell'insegnamento della storia», «Del concetto di libertà» e «Socrate») ritornò, per impulso di Marx, ad Hegel, dando al materialismo storico, divenuto quasi un dogma presso i socialisti italiani e stranieri, una forma critica. Tale evoluzione non sorprese Croce. «Infatti - ricorda l'allievo - egli mi disse un giorno di esser giunto al socialismo rivoluzionario attraverso la critica dell'idea dello Stato. Quando lo Stato etico, vagheggiato dai pubblicisti tedeschi, gli si dimostrò un'utopia e dura ma sola realtà gli scopersero gl'interessi antagonistici delle classi sociali, si trovò nelle braccia del marxismo».
E, del marxismo, Labriola divenne «il miglior conoscitore che mai vi sia stato in Italia e forse nell'Europa tutta» (glielo riconoscerà, ne «La mia vita», anche quel Trotsky, che, secondo Deutscher, «è il solo storico di genio prodotto dalla scuola marxista di pensiero»). Dominatore della filosofia classica tedesca, Labriola comprese, come nessuno, la genesi di quella dottrina, uscita dalla sinistra hegeliana, che egli signoreggiò anche grazie ai rapporti epistolari col vecchio Engels, l'amico fraterno di Marx e con altri esponenti del socialismo tedesco. «Ma meglio di ogni altra parte del marxismo - osservò Croce - egli approfondì la dottrina storica di esso, il materialismo storico». Di questa concezione fu il primo banditore da una cattedra universitaria, il primo che ne trattasse, «non da dilettante, ma da scienziato, con severità d'intenti», avendo «vivo il sentimento del legame tra storia e vita presente, tra storia e politica». Ma - argomenterà altrove Croce - Labriola «non riuscì mai a superare, per quanti sforzi facesse, l'unilateralità del materialismo storico e il conseguente dualismo che esso apriva tra struttura economica e sovrastruttura ideologica e morale, e che spezzava l'unità della storia».
E il discepolo ricorderà che quando egli ebbe pubblicato i suoi saggi sul marxismo e il Labriola protestò contro le conseguenze negative alle quali era pervenuto, egli rispose al suo maestro: che la colpa, se mai era di lui, Labriola, che aveva iniziato a trattare criticamente di quella dottrina, togliendole il carattere di dogma infallibile che possedeva presso i marxisti tedeschi. Croce, che degli scritti del maestro fu editore, assevera poi che «tutti gli studi sulla metodologia della storia che si son fatti in Italia debbono il primo impulso al Labriola che fu sempre aperto e attento ad ogni moto di idee, irrequieto e insoddisfatto, e rinnovò e rinfrescò di continuo la sua cultura». Di lui riconosce anche la «non piccola efficacia sulle cose politiche italiane negli ultimi decenni, sebbene operasse quasi dietro le quinte o nell'altra scuola che egli teneva ogni giorno al caffè Aragno». «Entrato nel socialismo fu il terrore dei socialisti, specie dei giovani: una frusta letteraria sempre levata, che colpiva implacabile». Un aspetto lo differenziava dal socialismo internazionale: egli guardò con favore all'impresa dell'Eritrea e ai disegni di occupazione di Tripoli, fedele, anche in ciò, al marxismo classico che non concepiva l'avvento del socialismo se non preceduto da un pieno sviluppo della borghesia. «Il proletariato - diceva scherzando - è destinato a succedere alla borghesia; sta bene: ma come farà, in Italia, a succedere ad una borghesia che non esiste, a una borghesia di pezzenti?». Cosi testimonia Croce, il quale, nella «Storia d'Italia», annoterà: «Con quanta ansia seguì e con quanto dolore, le cose italiane in Africa».
Quando il 14 novembre 1897 Labriola lesse nell'Università di Roma il discorso di inaugurazione su «L'università e la libertà della scienza», alla presenza del ministro dell'istruzione E. Gianturco, e il ministro restò punto dal modo di parlare del Labriola «da libero uomo», e il Consiglio accademico si rifiutò a lasciare stampare nell'annuario il discorso del collega se non ne fossero state soppresse alcune frasi, il Croce consigliò al Labriola di ritirare senz'altro il manoscritto, glielo stampò lui, divulgandolo in un migliaio e mezzo di copie. Nell'avvertenza premessavi egli scrisse: «...Sono orgoglioso di presentare al pubblico italiano questo discorso, per sentimento e per pensiero uno dei più elevati che si sieno mai uditi nelle aule dell'Università italiane» («Giornale d'Italia», 10 giugno 1907). In questo plumbeo presente, anche quell'episodio, seppur sepolto nel tempo, torreggia, luminoso faro di etica, ai dotti non indegni di questo nome.
ANTONIO LABRIOLA
Il maestro di Croce
di Sergio Caroli
All'alba del 2 febbraio di cent'anni fa moriva a Roma, all'Ospedale teutonico del Campidoglio, Antonio Labriola. Gli ultimi suoi giorni, anzi l'ultimo suo anno di vita, furono per lui di infinito tormento; perché oltre ai dolori fisici che gli impedirono il normale lavoro - lavoro di insegnante, di scrittore, di lettore inesauribile - egli fu afflitto dalla privazione più orribile per tutti e specialmente per lui: quella di non poter parlare. Il 14 febbraio 1904 Benedetto Croce, sul «Marzocco», ne scolpiva, in sette pregnanti pagine, un ritratto che incanta ad ogni rilettura. «Vent'anni fa - vi si legge - proprio tra gennaio ed il febbraio, conobbi Antonio Labriola, in Roma, nella casa di Silvio Spaventa, dove ogni sera si raccoglieva un piccolo gruppo di amici fedeli: qualche deputato, qualche giornalista, e parecchi professori. Erano i tempi del Depretis. Il salotto dello Spaventa rappresentava quanto di più pessimistico si potesse immaginare. Io che dalla politica non ero allettato e che il giure infastidiva - ero studente di giurisprudenza - stavo tutto orecchi ad ascoltare il Labriola, che la politica mutava in satira amenissima, del diritto faceva la critica, e di ogni cosa discorreva con vena abbondante, con spirito scintillante, con informazione sempre fresca delle novità librarie, specie germaniche, di cui egli era come il bollettino serale». Fu lo stesso Spaventa ad esortar Croce a frequentare le lezioni del Labriola all'Università dov'egli finì per ascoltare solo quelle. «Gli altri insegnanti - scriveva - mi annoiavano somministrandomi definizioni belle e fatte, sullo schema costante: "Fu Platone il quale disse, Aristotile invece sentenziò, Kant opinò" ecc. Non potevo persuadermi come tutti quei pensatori, dalla Grecia in qua, avessero dovuto attendere, per essere "integrati" ed "armonizzati", le litografiche dispense di quei miei professori». Invece «il Labriola si faceva punto d'onore di non dar mai una definizione; entrava subito in medias res; mostrava le difficoltà e gli aspetti varii dei problemi, svolgendo indirizzi antitetici come loro necessità intrinseche; non parlava con tono cattedratico, ma con periodi brevi e pungenti, che di tanto in tanto s'innalzavano ed ampliavano ad impeto ed onda oratoria. Parecchi dei miei compagni lamentavano che quel professore non si lasciasse "riassumere", ma io, nei corridoi dell'università, lo difendevo con ardore: in verità quelle lezioni mettevano in fervore il mio cervello e, secondo il detto di Kant, mi insegnavano non pensieri, ma a pensare». «Così mi venni stringendo d'affetto d'amicizia e di dimestichezza col povero Labriola».
Nato a Cassino il 2 luglio 1843, Labriola aveva cominciato ad insegnare a Napoli nel ginnasio Umberto, ma dopo breve tempo guadagnò per concorso la cattedra di filosofia morale e pedagogia all'università di Roma. Uscito dall'ambito della Destra moderata e conservatrice, nel 1886 divenne democratico e socialista. Hegeliano in gioventù, poi antihegeliano in favore di Herbart (sotto l'influsso del quale scrisse i saggi «Della libertà morale», «Morale e religione», «Dell'insegnamento della storia», «Del concetto di libertà» e «Socrate») ritornò, per impulso di Marx, ad Hegel, dando al materialismo storico, divenuto quasi un dogma presso i socialisti italiani e stranieri, una forma critica. Tale evoluzione non sorprese Croce. «Infatti - ricorda l'allievo - egli mi disse un giorno di esser giunto al socialismo rivoluzionario attraverso la critica dell'idea dello Stato. Quando lo Stato etico, vagheggiato dai pubblicisti tedeschi, gli si dimostrò un'utopia e dura ma sola realtà gli scopersero gl'interessi antagonistici delle classi sociali, si trovò nelle braccia del marxismo».
E, del marxismo, Labriola divenne «il miglior conoscitore che mai vi sia stato in Italia e forse nell'Europa tutta» (glielo riconoscerà, ne «La mia vita», anche quel Trotsky, che, secondo Deutscher, «è il solo storico di genio prodotto dalla scuola marxista di pensiero»). Dominatore della filosofia classica tedesca, Labriola comprese, come nessuno, la genesi di quella dottrina, uscita dalla sinistra hegeliana, che egli signoreggiò anche grazie ai rapporti epistolari col vecchio Engels, l'amico fraterno di Marx e con altri esponenti del socialismo tedesco. «Ma meglio di ogni altra parte del marxismo - osservò Croce - egli approfondì la dottrina storica di esso, il materialismo storico». Di questa concezione fu il primo banditore da una cattedra universitaria, il primo che ne trattasse, «non da dilettante, ma da scienziato, con severità d'intenti», avendo «vivo il sentimento del legame tra storia e vita presente, tra storia e politica». Ma - argomenterà altrove Croce - Labriola «non riuscì mai a superare, per quanti sforzi facesse, l'unilateralità del materialismo storico e il conseguente dualismo che esso apriva tra struttura economica e sovrastruttura ideologica e morale, e che spezzava l'unità della storia».
E il discepolo ricorderà che quando egli ebbe pubblicato i suoi saggi sul marxismo e il Labriola protestò contro le conseguenze negative alle quali era pervenuto, egli rispose al suo maestro: che la colpa, se mai era di lui, Labriola, che aveva iniziato a trattare criticamente di quella dottrina, togliendole il carattere di dogma infallibile che possedeva presso i marxisti tedeschi. Croce, che degli scritti del maestro fu editore, assevera poi che «tutti gli studi sulla metodologia della storia che si son fatti in Italia debbono il primo impulso al Labriola che fu sempre aperto e attento ad ogni moto di idee, irrequieto e insoddisfatto, e rinnovò e rinfrescò di continuo la sua cultura». Di lui riconosce anche la «non piccola efficacia sulle cose politiche italiane negli ultimi decenni, sebbene operasse quasi dietro le quinte o nell'altra scuola che egli teneva ogni giorno al caffè Aragno». «Entrato nel socialismo fu il terrore dei socialisti, specie dei giovani: una frusta letteraria sempre levata, che colpiva implacabile». Un aspetto lo differenziava dal socialismo internazionale: egli guardò con favore all'impresa dell'Eritrea e ai disegni di occupazione di Tripoli, fedele, anche in ciò, al marxismo classico che non concepiva l'avvento del socialismo se non preceduto da un pieno sviluppo della borghesia. «Il proletariato - diceva scherzando - è destinato a succedere alla borghesia; sta bene: ma come farà, in Italia, a succedere ad una borghesia che non esiste, a una borghesia di pezzenti?». Cosi testimonia Croce, il quale, nella «Storia d'Italia», annoterà: «Con quanta ansia seguì e con quanto dolore, le cose italiane in Africa».
Quando il 14 novembre 1897 Labriola lesse nell'Università di Roma il discorso di inaugurazione su «L'università e la libertà della scienza», alla presenza del ministro dell'istruzione E. Gianturco, e il ministro restò punto dal modo di parlare del Labriola «da libero uomo», e il Consiglio accademico si rifiutò a lasciare stampare nell'annuario il discorso del collega se non ne fossero state soppresse alcune frasi, il Croce consigliò al Labriola di ritirare senz'altro il manoscritto, glielo stampò lui, divulgandolo in un migliaio e mezzo di copie. Nell'avvertenza premessavi egli scrisse: «...Sono orgoglioso di presentare al pubblico italiano questo discorso, per sentimento e per pensiero uno dei più elevati che si sieno mai uditi nelle aule dell'Università italiane» («Giornale d'Italia», 10 giugno 1907). In questo plumbeo presente, anche quell'episodio, seppur sepolto nel tempo, torreggia, luminoso faro di etica, ai dotti non indegni di questo nome.
l'evoluzionismo di Stephen J. Gould
Repubblica 31.1.04
SE GOULD DIALOGA CON DARWIN
Tradotto l'ultimo saggio
Una maestosa cattedrale del pensiero scientifico, un vero libro-museo
Quell'avventura imprevedibile che modifica e seleziona gli organismi
"La struttura della teoria dell'evoluzione" del grande paleontologo e zoologo è uscita negli Stati Uniti poco prima della prematura scomparsa dello scienziato
di UMBERTO GALIMBERTI
«La teoria dell´evoluzione è come il Duomo di Milano». La metafora risale al fondatore della teoria evoluzionistica Charles Darwin, che ne discusse in un carteggio del 1862 con il paleontologo scozzese Hugh Falconer. Quest´ultimo, piuttosto dubbioso circa la selezione naturale, dava merito al collega di aver gettato le basi di una teoria potente per spiegare la storia naturale, ma lo avvertiva di tenersi pronto a rimaneggiamenti anche radicali poiché «la struttura sovrastante verrà alterata dai suoi successori, come il Duomo di Milano, dove si passa dal romanico a uno stile architettonico diverso». Darwin, sicuro della solidità dell´impianto complessivo della sua opera, rispose che la sua teoria o sarebbe stata rifiutata in blocco dai creazionisti che l´avrebbero considerata pura spazzatura, robaccia (rubbish), oppure, da chi fosse accettata, sarebbe stata sottoposta soltanto a ritocchi marginali.
Tutt´altro che marginali sono invece i «ritocchi» apportati alla teoria di Darwin ne La struttura della teoria dell´evoluzione, l´ultima grande opera del noto paleontologo e zoologo di Harvard Stephen J. Gould, pubblicata negli Stati Uniti poche settimane prima della sua prematura scomparsa, avvenuta nel maggio 2002.
Gould, ben conosciuto anche in Italia per i suoi saggi di storia naturale editi da Feltrinelli, lavorava a questa enorme architettura teorica (più di 1700 pagine) da almeno vent´anni. Era, come lui stesso dichiarò, «il progetto di una vita», costruito con pazienza e tenacia.
Mentre si faceva apprezzare per le doti di divulgatore e di storico della scienza, un filo teorico ininterrotto di snodava e prendeva forma in questa proposta conclusiva, che oggi, grazie al lavoro di un´équipe di traduttori e di esperti di teoria dell´evoluzione appare in edizione italiana come primo volume di una nuova casa editrice, Codice edizioni, fondata da Vittorio Bo. L´opera, che nell´edizione italiana conta 1732 pagine e costa il prezzo promozionale di 58 euro, è stata curata da Telmo Pievani, docente all´università di Milano di epistemologia evolutiva, che ringrazio perché mi ha molto aiutato nella compilazione di questa recensione.
L´opera di Gould può essere considerata una maestosa cattedrale del pensiero scientifico, un libro-museo della storia dell´evoluzionismo e delle sue controversie. E, come ogni cattedrale che si rispetti, l´opera può essere visitata da ingressi diversi. Alcuni lettori potranno seguire la dotta ricostruzione delle principali tappe del pensiero evoluzionista moderno, affrontata nella prima parte del volume. Altri non mancheranno di apprezzare il serrato e avvincente dialogo che l´autore instaura proprio con Darwin, nel tentativo di esplorare linee teoriche che possano riformulare le prospettive originali della teoria, esaltandone al contempo la vitalità attuale. Estimatori e avversari troveranno dunque in questo libro un compendio delle teorie con le quali Gould ha agitato per decenni le acque delle scienze evoluzioniste.
Gould è ben lontano dal voler negare i fondamenti della teoria darwiniana, a dispetto di talune strumentalizzazioni di marca creazionista del suo pensiero, ma neppure ritiene sufficienti i piccoli «ritocchi» in cui sperava Darwin. La seconda parte del volume vuole essere infatti una «revisione ed estensione» della teoria, non certo una confutazione. Semmai, la scommessa di Gould è quella di introdurre, nella teoria dell´evoluzione, un pluralismo esplicativo, rispetto al riduzionismo darwiniano a un´unica causa del processo evolutivo, che ancora si ritrova, ad esempio, nella sociobiologia e nella psicologia evoluzionista.
Il principio che è alla base della teoria evoluzionista di Darwin potrebbe essere sintetizzato dalla formula: «L´ambiente propone e la selezione dispone». Ciò significa che l´ambiente (che comprende tanto l´ambiente fisico quanto gli altri organismi) agisce sull´organismo che, per conseguire il successo riproduttivo, si adatta a cambiamenti evolutivi o, in caso di insuccesso, si estingue. Per Darwin c´è dunque «un´unica causa» dell´evoluzione, il cui meccanismo è quello del carnefice o del boia che rimuove gli individui inadatti una volta emersi quelli adatti, seguendo processi ancora da identificare.
Per Gould, la storia dell´evoluzione è qualcosa di ben diverso da una lotta fra «geni egoisti» che controllano gli organismi come loro veicoli passivi, al fine di produrre adattamenti progressivamente più perfetti. L´evoluzione è, piuttosto, un´avventura contingente, influenzata da una pletora di fattori eterogenei, non priva di regolarità e di vincoli interni agli organismi, ma pur sempre imprevedibile. Un´avventura che procede a ritmi alterni, nella quale la ridondanza, la flessibilità e la capacità di arrangiarsi hanno generato organismi spesso un po´ imperfetti, ma proprio per questo creativi.
Basti pensare, come ci ricorda Arnold Gehlen, alla plasticità e creatività dell´uomo che, privo di istinti, proprio per questa sua carenza biologica, ha potuto svincolarsi dal suo mondo-ambiente (Um-Welt), a cui è inesorabilmente legato l´animale, e creare un mondo proprio (Welt), perché privo di una codificazione istintuale. Queste cose Gehlen le scrive nella sua opera maggiore L´uomo, edita a suo tempo da Feltrinelli, e oggi, come capita a molti libri fondamentali della nostra cultura, non più in circolazione.
Ma torniamo a Gould che, pur conservando il nucleo della teoria evoluzionista darwiniana, rifiuta il riduzionismo che spiega l´evoluzione col ricorso a una sola causa, per introdurre una pluricausalità gerarchicamente ordinata che, grazie alle recenti scoperte della genetica, va dal gene, alla cellula, all´organismo e alla specie, senza dimenticare i grandi eventi della storia terrestre che producono estinzioni e speciazioni, le alterazioni degli habitat e del clima, le competizioni e cooperazioni fra specie, le variazioni nei ghiacci e negli oceani, i continenti alla deriva e, di tanto in tanto, gli impatti di asteroidi.
In questa trama estesa dell´evoluzione, contrapposta alla nuda semplicità del riduzionismo darwiniano, si nasconde l´ultimo messaggio di Gould. Un messaggio, per chi lo voglia intendere, rivolto anche alle modalità con le quali la specie umana concepisce oggi il proprio ruolo nella biodiversità terrestre e la propria relazione con questo pianeta che, pazientemente, per il momento la ospita. Diciamo «per il momento», perché se la biodiversità è stato il motivo di successo del processo evolutivo, l´uniformità, l´integrazione, l´assimilazione a cui tendono i processi di globalizzazione e di pensiero unico oggi in atto, vanno esattamente nella direzione opposta
SE GOULD DIALOGA CON DARWIN
Tradotto l'ultimo saggio
Una maestosa cattedrale del pensiero scientifico, un vero libro-museo
Quell'avventura imprevedibile che modifica e seleziona gli organismi
"La struttura della teoria dell'evoluzione" del grande paleontologo e zoologo è uscita negli Stati Uniti poco prima della prematura scomparsa dello scienziato
di UMBERTO GALIMBERTI
«La teoria dell´evoluzione è come il Duomo di Milano». La metafora risale al fondatore della teoria evoluzionistica Charles Darwin, che ne discusse in un carteggio del 1862 con il paleontologo scozzese Hugh Falconer. Quest´ultimo, piuttosto dubbioso circa la selezione naturale, dava merito al collega di aver gettato le basi di una teoria potente per spiegare la storia naturale, ma lo avvertiva di tenersi pronto a rimaneggiamenti anche radicali poiché «la struttura sovrastante verrà alterata dai suoi successori, come il Duomo di Milano, dove si passa dal romanico a uno stile architettonico diverso». Darwin, sicuro della solidità dell´impianto complessivo della sua opera, rispose che la sua teoria o sarebbe stata rifiutata in blocco dai creazionisti che l´avrebbero considerata pura spazzatura, robaccia (rubbish), oppure, da chi fosse accettata, sarebbe stata sottoposta soltanto a ritocchi marginali.
Tutt´altro che marginali sono invece i «ritocchi» apportati alla teoria di Darwin ne La struttura della teoria dell´evoluzione, l´ultima grande opera del noto paleontologo e zoologo di Harvard Stephen J. Gould, pubblicata negli Stati Uniti poche settimane prima della sua prematura scomparsa, avvenuta nel maggio 2002.
Gould, ben conosciuto anche in Italia per i suoi saggi di storia naturale editi da Feltrinelli, lavorava a questa enorme architettura teorica (più di 1700 pagine) da almeno vent´anni. Era, come lui stesso dichiarò, «il progetto di una vita», costruito con pazienza e tenacia.
Mentre si faceva apprezzare per le doti di divulgatore e di storico della scienza, un filo teorico ininterrotto di snodava e prendeva forma in questa proposta conclusiva, che oggi, grazie al lavoro di un´équipe di traduttori e di esperti di teoria dell´evoluzione appare in edizione italiana come primo volume di una nuova casa editrice, Codice edizioni, fondata da Vittorio Bo. L´opera, che nell´edizione italiana conta 1732 pagine e costa il prezzo promozionale di 58 euro, è stata curata da Telmo Pievani, docente all´università di Milano di epistemologia evolutiva, che ringrazio perché mi ha molto aiutato nella compilazione di questa recensione.
L´opera di Gould può essere considerata una maestosa cattedrale del pensiero scientifico, un libro-museo della storia dell´evoluzionismo e delle sue controversie. E, come ogni cattedrale che si rispetti, l´opera può essere visitata da ingressi diversi. Alcuni lettori potranno seguire la dotta ricostruzione delle principali tappe del pensiero evoluzionista moderno, affrontata nella prima parte del volume. Altri non mancheranno di apprezzare il serrato e avvincente dialogo che l´autore instaura proprio con Darwin, nel tentativo di esplorare linee teoriche che possano riformulare le prospettive originali della teoria, esaltandone al contempo la vitalità attuale. Estimatori e avversari troveranno dunque in questo libro un compendio delle teorie con le quali Gould ha agitato per decenni le acque delle scienze evoluzioniste.
Gould è ben lontano dal voler negare i fondamenti della teoria darwiniana, a dispetto di talune strumentalizzazioni di marca creazionista del suo pensiero, ma neppure ritiene sufficienti i piccoli «ritocchi» in cui sperava Darwin. La seconda parte del volume vuole essere infatti una «revisione ed estensione» della teoria, non certo una confutazione. Semmai, la scommessa di Gould è quella di introdurre, nella teoria dell´evoluzione, un pluralismo esplicativo, rispetto al riduzionismo darwiniano a un´unica causa del processo evolutivo, che ancora si ritrova, ad esempio, nella sociobiologia e nella psicologia evoluzionista.
Il principio che è alla base della teoria evoluzionista di Darwin potrebbe essere sintetizzato dalla formula: «L´ambiente propone e la selezione dispone». Ciò significa che l´ambiente (che comprende tanto l´ambiente fisico quanto gli altri organismi) agisce sull´organismo che, per conseguire il successo riproduttivo, si adatta a cambiamenti evolutivi o, in caso di insuccesso, si estingue. Per Darwin c´è dunque «un´unica causa» dell´evoluzione, il cui meccanismo è quello del carnefice o del boia che rimuove gli individui inadatti una volta emersi quelli adatti, seguendo processi ancora da identificare.
Per Gould, la storia dell´evoluzione è qualcosa di ben diverso da una lotta fra «geni egoisti» che controllano gli organismi come loro veicoli passivi, al fine di produrre adattamenti progressivamente più perfetti. L´evoluzione è, piuttosto, un´avventura contingente, influenzata da una pletora di fattori eterogenei, non priva di regolarità e di vincoli interni agli organismi, ma pur sempre imprevedibile. Un´avventura che procede a ritmi alterni, nella quale la ridondanza, la flessibilità e la capacità di arrangiarsi hanno generato organismi spesso un po´ imperfetti, ma proprio per questo creativi.
Basti pensare, come ci ricorda Arnold Gehlen, alla plasticità e creatività dell´uomo che, privo di istinti, proprio per questa sua carenza biologica, ha potuto svincolarsi dal suo mondo-ambiente (Um-Welt), a cui è inesorabilmente legato l´animale, e creare un mondo proprio (Welt), perché privo di una codificazione istintuale. Queste cose Gehlen le scrive nella sua opera maggiore L´uomo, edita a suo tempo da Feltrinelli, e oggi, come capita a molti libri fondamentali della nostra cultura, non più in circolazione.
Ma torniamo a Gould che, pur conservando il nucleo della teoria evoluzionista darwiniana, rifiuta il riduzionismo che spiega l´evoluzione col ricorso a una sola causa, per introdurre una pluricausalità gerarchicamente ordinata che, grazie alle recenti scoperte della genetica, va dal gene, alla cellula, all´organismo e alla specie, senza dimenticare i grandi eventi della storia terrestre che producono estinzioni e speciazioni, le alterazioni degli habitat e del clima, le competizioni e cooperazioni fra specie, le variazioni nei ghiacci e negli oceani, i continenti alla deriva e, di tanto in tanto, gli impatti di asteroidi.
In questa trama estesa dell´evoluzione, contrapposta alla nuda semplicità del riduzionismo darwiniano, si nasconde l´ultimo messaggio di Gould. Un messaggio, per chi lo voglia intendere, rivolto anche alle modalità con le quali la specie umana concepisce oggi il proprio ruolo nella biodiversità terrestre e la propria relazione con questo pianeta che, pazientemente, per il momento la ospita. Diciamo «per il momento», perché se la biodiversità è stato il motivo di successo del processo evolutivo, l´uniformità, l´integrazione, l´assimilazione a cui tendono i processi di globalizzazione e di pensiero unico oggi in atto, vanno esattamente nella direzione opposta
Iscriviti a:
Post (Atom)