Europa quotidiano
Perché dopo Picasso si fermò la ricerca di passioni nel nudo
di SIMONA MAGGIORELLI da BOLOGNA
Il Nudo disvelato. La progressiva scoperta del corpo nell’arte dal ‘700 a oggi in un’ambiziosa mostra alla Galleria di arte moderna. Non solo nudo come allegoria di virtù astratte come nella statuaria eroica del neoclassicismo.
Non solo presenza solida dai contorni nitidi, come nel realismo piatto di un Courbet che alla metà dell’Ottocento ancora faceva scandalo con le sue procaci popolane, raccontate in ogni dettaglio. Ma anche, finalmente, come corpo in movimento, a partire da Rodin: come fusione di vissuto interiore e forma, moto di affetti che illumina un’espressione.
E oltre. Arrivando a Cézanne, alle sue Bagnanti, che non sembrano ricalcare alcuna immagine della memoria cosciente, che non sono il ritratto di modelle in posa. Figure di donne e uomini appena accennate nel riverbero della luce d’estate, immagini raccontate attraverso il cilindro, la sfera , il cono, per alludere, forse, a qualcosa di più profondo della visione retinica e razionale. Quasi aprendo la strada alle scoperte del cubismo.
Non a caso sia Matisse che Picasso possedevano una versione delle Bagnanti e lo stesso Matisse ammetterà che quel quadro acquistato da Vollard era stato per lui un irrinunciabile sostegno "nei momenti critici della mia avventura di artista". E in questa sterminata mostra bolognese organizzata dal direttore Peter Weiermair con più di 400 opere, i tre quadri di Cézanne, due edizioni di Bagnanti provenienti dal Musée d’Orsay e una sorprendente Leda dal museo di Wuppertal, insieme a alcune tele di Picasso e di Matisse, rappresentano un punto di attrazione fortissimo, verso il quale precipita tutto il percorso delle sale, cronologicamente ordinate, organizzate per “ismi”, che didatticamente conducono il visitatore dalla perfetta rappresentazione della grazia di Canova e Thorvaldsen, ai nudi statuari di David e Ingres.
E, varcata la soglia dell’Ottocento, dalle descrittive immagini naturalistiche di Courbet alle rassicuranti e ferme bellezze di Renoir, al voyeurismo di Degas e alle rappresentazioni sociali e di costume di Toulouse Lautrec.
E poi su, su, attraverso l’erotismo inquieto e privato dei disegni di Klimt e quello travolgente delle sculture in bronzo e degli acquerelli di Rodin che lasciano trasparire in pochi rapidi tratti improvvise accensioni di intuizione e desiderio, che nel rappresentare il "divenire di corpi in movimento – come notava Simmel – rende sensibile l’interna vitalità delle figure che rappresenta". Ma eccoci al vero punto di svolta e di rottura nella rappresentazione del nudo realizzata – come si diceva a partire da Cézanne – da Picasso, ma anche da Matisse, qui a Bologna rappresentato dall’essenziale e potente Nudo blu di Basilea. Tre opere bastano.
Nella composizione quasi cubista de L’offerta di Wuppertal e nell’acceso colorismo dell’edizione di Madrid del Pittore e la modella Picasso rende chiaro, che nell’era della fotografia, non è più la rappresentazione mimetica ciò che viene richiesto all’artista, ma qualcosa di più intimo e profondo, un vissuto interiore che si può esprimere anche con tratti a tutta prima sommari, che trascurano la meticolosa precisione del disegno, cercando la via di un’astrazione che non perde il rapporto con l’umano, ma lo trasforma in un’immagine più regressiva e profonda degli affetti, delle passioni che l’altro, diverso da sé, suscita. Ma a questo punto del percorso, la mostra bolognese ci mette davanti a un fatto, solleva una domanda sul perché dopo Picasso questa ricerca si sia interrotta.
Già il Futurismo, a dire il vero, deraglia e devia. Weiermair accoglie un monumentale e metallico nudo di Prampolini a documentare il proclama futurista: "Combattiamo contro il nudo in pittura, specie il femminile sinonimo di passività... meglio gli angoli di una tavola, le linee rette di un fiammifero che seni e cosce". Ma uno stop fortissimo viene anche dal surrealismo, da Max Ernst, Man Ray, Dalì con le loro visioni mostruose di arti animali innestati su corpi di donna. Nell’espressionismo di Dix e Grosz qualcosa si sgretola, sull’orlo dei massacri della guerra, nell’orrore della Germania nazista.
Ma c’è forse anche dell’altro. Il nudo diventa mostruoso, immagini femminili deformate, figurine feroci.
Più in là la visione più forte di un tormentato rapporto con la rappresentazione dell’eros e del nudo la rassegna bolognese la offre scandagliando gli ultimi quarant’anni di storia dell’arte. Fra i corpi martoriati della body art: volontà di effrazione violenta, rivendicazione del corpo come bruta materialità plasmabile.
Le visioni angosciate del corpo in putrefazione e in trasformazione mostruosa firmate Bacon. Fissazioni ossessive su immagini di cadaveri in giovani artisti come Boltanski, di teste e arti mozzi nella transavanguardia, la nudità scabra e inerme di uomini capovolti in Baselitz.
Unica scappatoia a questo cimitero delle immagini, appena qualche anno indietro, le figure lucide e razionali di Pistoletto applicate su superfici specchianti e le veneri di Paolini reinmesse nel moderno, come citazione, ma che drammaticamente denunciano una perdita di senso. In un Occidente dominato dal Logos, ragione e religione sembrano andare a braccetto nel negare eros e femminilità.
Un’ipotesi più che drammatica accompagna il finale di questa mostra, lasciandoci con molte domande e poche risposte, con il tarlo di una ricerca ancora da continuare.
La mostra "Il nudo fra ideale e realtà, pittura, scultura e fotografia" resterà aperta fino al 9 maggio.
Europa quotidiano
DA OGGI IL PERUGINO IN TUTTA L’UMBRIA
Il divin pittore che piacque a tutti
Cambiò l’eredità gotica della pittura medievale con la razionalità, la prospettiva, l’ampiezza, teso a realizzare un’immagine pacificante del mondo umano e sovraumano, in una nitidezza cristallina. Anche per questo continuò a piacere e ad essere impresario della sua “produzione”, quando a Roma, a Firenze, a Venezia altri geni della pittura stavano ormai trasferendo il fine dell’opera d’arte dalla godibilità alla problematicità del reale, e annunciavano la maturità del Rinascimento.
di SIMONA MAGGIORELLI da PERUGIA
Dopo le figure quasi incise della pittura gotica, senza movimento, angolose, la pittura di Perugino allarga il respiro verso paesaggi e orizzonti cristallini, figure morbide, addolcite negli sguardi e nei gesti. Dopo le composizioni addensate e ansiose di un medioevo che in un’attardata Umbria ancora per tutta la prima metà del ‘400 continuava a impigliare il talento degli artisti locali, Pietro Vannucci, detto il Perugino, segna un passaggio netto verso un Umanesimo più calmo e sicuro, fatto di proporzioni, armonie prospettiche, figure in primo piano, tratteggiate con un disegno definito ed elegante. Il riscontro dei contemporanei fu immediato.
Dopo secoli tormentati e bui, la pittura di Perugino fu quasi una sorta di dolce calmante.
E se anche non era del tutto vero che fosse "il meglio maestro d’Italia" come scriveva Agostino Chigi in una lettera del 1500, fatto è che "delle opere sue – come riporta il Vasari – si fece mercanzia da molti, che le mandarono in luoghi diversi, innanzi a che venisse la maniera di Michelangelo".
Nato da una famiglia ricca e in vista di Città della Pieve, Perugino, soprattutto, si seppe ben amministrare, andando nella seconda metà degli Sessanta del Quattrocento a scuola a Firenze dal Verrocchio (lo stesso pittore da cui era a bottega un giovanissimo Leonardo), iscrivendosi prestissimo all’accademia di San Luca, la corporazione dei pittori, e viaggiando fra Roma, Venezia, Firenze e Napoli a caccia di commissioni pubbliche e ecclesiastiche. Per un lungo periodo riuscì a tenere contemporaneamente bottega a Perugia e a Firenze, dove ebbe come allievo un giovanissimo Raffaello.
Diventando in questo modo uno dei primi esempi di pittore “imprenditore”nella storia dell’arte italiana. Il risultato: una produzione vastissima di opere oggi conservate non solo in Italia ma anche nei musei di Londra, Parigi, Vienna, sparse fra le maggiori capitali europee e città d’Oltreoceano. Tanto che per ricomporre una buona parte del corpus del Perugino in un unico percorso espositivo, la Soprintendenza e le varie Gallerie pubbliche dell’Umbria hanno dovuto lavorare parecchi anni. Il risultato di questa lunga chiamata a raccolta è visitabile da oggi: sei mostre che aprono in contemporanea, in dodici luoghi diversi dell’Umbria, dalla Porziuncola nella Basilica di Santa Maria degli Angeli a Assisi, a Foligno, da Spello a Panicale, a Perugia. Un articolato itinerario d’arte che diventa anche un invito alla riscoperta di paesi medievali e arroccati, di paesaggi ancora intonsi. Fulcro di questo fascio di proposte che vanno sotto il titolo Perugino il divin pittore e curate da Clara Cutini,Vittoria Garibaldi e Francesco Federico Mancini, la mostra ospitata fino al 18 giugno nella Galleria Nazionale dell’Umbria, da poco riaperta in tutte le sue sale, dopo un restauro durato quasi dieci anni. Affacciato su corso Vannucci che attraversa la città di Perugia, quasi dividendola a metà, c’è Palazzo dei Priori, imponente edificio medievale in travertino. Ai piani alti, si trova la Galleria. Un criterio cronologico ordina le opere. Effetto sobrio, linee essenziali, geometriche, un gioco ottico di chiari e scuri a fare da cornice scenografica. Ma non tutto è noto e ordinato. A scardinare la sensazione del già conosciuto, una serie di opere inaspettate, recuperate dai magazzini e poi una serie continua di capolavori, dal polittico Albani Torlonia, testimonianza del periodo romano e dell’impegno di Perugino nella Cappella Sistina, alla Pala Chigi ricomposta nella sua struttura originale, con i pannelli provenienti dal Metropolitan Museum di New York, a pezzi celebri e mai visti in Italia dal vivo, come il delicato San Sebastiano dell’Ermitage.
Apre la fila l’Adorazione dei magi del 1470, una tela emblematica, che ancora risente delle influenze del periodo fiorentino, della lezione di Piero della Francesca e di Verrocchio nelle solide volumetrie e nel tratto nitido del disegno, ma anche della lezione fiamminga nella cura quasi iperealistica delle vesti e dei particolari. Ma c’è già, qui nei volti,quel velo di pacata malinconia che poi connoterà tutte le Madonne del Perugino. Un tono, misto di dolcezza e di rassegnazione, che è la nota risonante, la cifra più intima e personale del pittore di Città di Castello. La si ritrova già nella bionda presenza femminile che il pittore mette accanto al Cristo di una scura e austera Pietà con San Girolamo e la Maddalena datata 1473: opera della svolta, primo segnale di una maggiore libertà creativa conquistata. E poi nei piccoli dipinti della Nicchia di San Bernardino, una delle opere più discusse del Quattrocento quanto a paternità e attribuzione, ma in cui appare inconfondibile il segno di Perugino nella costruzione dello spazio, nel dare respiro, sullo sfondo, a un paesaggio sfumato e moderno, diversissimo da quelli ancora goticheggianti dei suoi colleghi umbri. Una cifra di morbidezza e una soffusa luce di malinconia sui volti ritratti che si andrà intensificando negli anni. Come raccontano le opere della fase matura del pittore, nella Sala Maggiore della Galleria.
Opere come la Pala di Monteripido del 1504, dove qualcuno rintraccia la mano di un giovane Raffaello o il Polittico di Sant’Agostino, grande macchina d’altare a più facce: i colori non sono più quelli smaltati e contrastanti della fase giovanile, hanno assunto un tono più tenue, più velato, carico di trasparenze. E l’espressione del dolore non eccede mai i confini di un certo pudore. Esempio chiaro di questo posato classicismo peruginesco la monumentale crocifissione della Cappella della Porziuncola ad Assisi, altra importante tappa di questa tentacolare mostra sparsa nel territorio umbro.
La stessa compostezza che connota sia il bambino che la Madonna della Consolazione, uno degli ultimi capolavori di un Perugino che, varcata la soglia del ‘500 e , con suo stupore, si troverà surclassato, messo da parte, dai pittori della cosiddetta nuova maniera. Lui, amareggiato, non capirà il cambiamento in atto. Di fronte al coro di critiche con cui fu accolta a Firenze la pala per l’altare maggiore della chiesa della Santissima Annunziata, il Vasari racconta che il pittore umbro reagì semplicemente dicendo: "Io ho messo in opera le figure altre volte lodate da voi e che vi sono infinitamente piaciute, se ora vi dispiacciono o non le lodate più che ne posso io?".
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
lunedì 8 marzo 2004
gli Etruschi:
la mostra di Viterbo
Repubblica 5.3.04
PER LA PRIMA VOLTA UNA SERIE DI REPERTI CHE GETTANO NUOVA LUCE SULLA LORO STORIA
Viterbo scopre gli etruschi "Mai visti"
di GIUSEPPE M. DELLA FINA
I magazzini dei musei ospitano reperti di eccezionale interesse storico e artistico, tessere di un mosaico più ampio e, a volte, ricostruibile solo ad anni di distanza dalla prima scoperta. L´affermazione può apparire eccessiva, ma non lo è. Una conferma viene dalla mostra "Scavo nello scavo. Gli Etruschi non visti" allestita a Viterbo, all´interno della Fortezza Giulioli, per volontà della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell´Etruria Meridionale e di Confarte (sino al 30 giugno).
Lungo il percorso espositivo si trovano materiali ricuperati in occasioni e tempi diversi grazie a campagne di scavo appositamente programmate o a scoperte casuali, ma non entrati a pieno nel circuito della fruizione pubblica. La loro esposizione consente di ripercorrere su basi nuove la storia dell´Etruria, dal periodo di affermazione della civiltà etrusca alla sua piena romanizzazione, quindi per quasi l´intero primo millennio a.C.
I reperti sono articolati in tre sezioni distinte che rinviano a temi di attualità nel dibattito scientifico: le esperienze architettoniche e i sistemi decorativi dell´Etruria meridionale, i costumi e i rituali funerari del medesimo distretto territoriale e le antichità senza provenienza. Nella prima parte spicca il complesso architettonico del II Tempio dello Scasato a Falerii Veteres (Civita Castellana) e l´oikos riportato alla luce sull´altura di Piazza d´Armi a Veio; nella seconda un´attenzione particolare può essere prestata al corredo di una tomba principesca rinvenuta a Veio e databile tra il 750 e il 725 a.C., o a quello di due monumenti funerari della necropoli della Banditaccia a Cerveteri, o ancora della tomba Bruschi di Tarquinia.
Nell´ultima sezione merita di soffermarsi sui reperti riuniti da Eugene Berman e donati nel 1972 allo Stato Italiano. Berman era un pittore e uno scenografo nato a San Pietroburgo nel 1899 che, dopo un´intensa e fortunata carriera, decise di stabilirsi definitivamente a Roma nel 1956. Grande appassionato di antichità, le aveva acquistate nei molti paesi dove aveva soggiornato e la sua attività l´aveva portato. All´interno della raccolta, ricca anche di opere egiziane, mesoamericane e orientali, un posto particolare occupa l´artigianato artistico etrusco, che sembra averlo interessato in modo particolare. La collezione dall´artista russo dovrebbe trovare presto una collocazione definitiva nelle sale del Museo di Villa Giulia a Roma e c´è davvero da augurarselo.
PER LA PRIMA VOLTA UNA SERIE DI REPERTI CHE GETTANO NUOVA LUCE SULLA LORO STORIA
Viterbo scopre gli etruschi "Mai visti"
di GIUSEPPE M. DELLA FINA
I magazzini dei musei ospitano reperti di eccezionale interesse storico e artistico, tessere di un mosaico più ampio e, a volte, ricostruibile solo ad anni di distanza dalla prima scoperta. L´affermazione può apparire eccessiva, ma non lo è. Una conferma viene dalla mostra "Scavo nello scavo. Gli Etruschi non visti" allestita a Viterbo, all´interno della Fortezza Giulioli, per volontà della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell´Etruria Meridionale e di Confarte (sino al 30 giugno).
Lungo il percorso espositivo si trovano materiali ricuperati in occasioni e tempi diversi grazie a campagne di scavo appositamente programmate o a scoperte casuali, ma non entrati a pieno nel circuito della fruizione pubblica. La loro esposizione consente di ripercorrere su basi nuove la storia dell´Etruria, dal periodo di affermazione della civiltà etrusca alla sua piena romanizzazione, quindi per quasi l´intero primo millennio a.C.
I reperti sono articolati in tre sezioni distinte che rinviano a temi di attualità nel dibattito scientifico: le esperienze architettoniche e i sistemi decorativi dell´Etruria meridionale, i costumi e i rituali funerari del medesimo distretto territoriale e le antichità senza provenienza. Nella prima parte spicca il complesso architettonico del II Tempio dello Scasato a Falerii Veteres (Civita Castellana) e l´oikos riportato alla luce sull´altura di Piazza d´Armi a Veio; nella seconda un´attenzione particolare può essere prestata al corredo di una tomba principesca rinvenuta a Veio e databile tra il 750 e il 725 a.C., o a quello di due monumenti funerari della necropoli della Banditaccia a Cerveteri, o ancora della tomba Bruschi di Tarquinia.
Nell´ultima sezione merita di soffermarsi sui reperti riuniti da Eugene Berman e donati nel 1972 allo Stato Italiano. Berman era un pittore e uno scenografo nato a San Pietroburgo nel 1899 che, dopo un´intensa e fortunata carriera, decise di stabilirsi definitivamente a Roma nel 1956. Grande appassionato di antichità, le aveva acquistate nei molti paesi dove aveva soggiornato e la sua attività l´aveva portato. All´interno della raccolta, ricca anche di opere egiziane, mesoamericane e orientali, un posto particolare occupa l´artigianato artistico etrusco, che sembra averlo interessato in modo particolare. La collezione dall´artista russo dovrebbe trovare presto una collocazione definitiva nelle sale del Museo di Villa Giulia a Roma e c´è davvero da augurarselo.
Cina
Tra i nuovi ricchi di Shanghai in affari con le aziende di Taiwan
Le divisioni ideologiche cancellate dal business
I rapporti tesi tra Cina e l'ex Formosa si stemperano solo quando si parla di affari
E il marketing mette d'accordo gli industriali di Taipei con i comunisti
Mezzo milione di taiwanesi abitano e lavorano a Shanghai e hanno un ruolo chiave nel boom economico che sta vivendo
La Cina è diventata oggi la seconda destinazione di capitali mondiali dopo gli Stati Uniti
di FEDERICO RAMPINI
SHANGHAI - Il ristorante ha una lista dei vini di tutto rispetto ma il mio ospite non la apre neanche, la allontana da sé con fastidio. Si è portato da casa due bottiglie della sua leggendaria cantina che devo assolutamente assaggiare, un Chateau Margaux dell´89 e uno champagne Carneros Reserve Taittinger della Napa Valley californiana. Tony Yeh, presidente della Gourmet Foodstuff Shanghai Company, è un noto perfezionista, se non lo fosse non avrebbe conquistato in pochi anni il quasi-monopolio nei negozi di gastronomia di lusso a Shanghai. Un business in vertiginosa espansione, chi lo avrebbe detto vent´anni fa: sfamare i nouveaux riches. Il ristorante giapponese Shintori dove ci incontriamo per la prima volta a cena - i tempi cambiano ma il rito alimentare rimane un obbligo sociale per frequentare i businessmen cinesi - è affollato da un campione significativo della nuova élite di Shanghai. Ricavato nei magazzini di una fabbrica abbandonata, a due passi dal vecchio quartiere coloniale francese, è il frutto di una ristrutturazione post-moderna che evoca il design di certi loft newyorchesi a Soho e Tribeca. La gastronomia - nouvelle cuisine nipponica - i completi Armani e le costose coiffures del pubblico (età media 35 anni) aumentano lo spaesamento: potremmo essere in un locale esclusivo di Manhattan o San Francisco. Oltre che per la qualità dei suoi vini, Yeh mi colpisce per un´altra ragione. Il suo passaporto. È un cittadino di Taiwan, che a Shanghai ha trovato il nuovo paradiso terrestre del capitalismo. Cerco di sondarlo sulle prossime elezioni-referendum di Taiwan che fanno crescere la tensione con il governo di Pechino, e tra la Cina e gli Stati Uniti. Liquida la mia curiosità con due battute qualunque su «politici corrotti che usano il nazionalismo a fini interni». Non specifica neppure a chi voglia alludere. Ha solo voglia di chiudere rapidamente su questo argomento e parlar d´altro.
Al nostro tavolo c´è un altro tycoon taiwanese che ci ha raggiunti al ristorante su un camioncino blindato scortato da guardie del corpo. La sua fama arriva fino a Las Vegas, dove ha una "linea di credito" sempre aperta - dieci milioni di dollari - nei casinò. È Tsai Eng Meng, fondatore, azionista di maggioranza e presidente della Want Want Holdings, impero alimentare con sedi a Taipei, Singapore e Shanghai. Nella sola Cina continentale lui ha 60 fabbriche alimentari e ventimila dipendenti. Per il suo ultimo investimento locale ha trovato un partner d´eccezione: l´Esercito di Liberazione popolare, cioè le forze armate cinesi, con cui si è messo in società per produrre latte in polvere da fornire a tutte le mense dei soldati. Dice di andare perfettamente d´accordo con i generali, che secondo lui imparano presto i criteri dell´economia di mercato. Tsai Eng Meng padroneggia sulla punta delle dita tutte le arti del marketing occidentale, per i cinesi sa produrre merendine e snack studiati per diversi categorie di consumatori, come una grande multinazionale occidentale cambia i nomi delle sue marche e i messaggi pubblicitari, a seconda che i suoi prodotti siano destinati alle campagne o al ceto medio urbano di Pechino e Shanghai. Osserva con preoccupazione la moda dilagante nelle metropoli di fare la spesa nella grande distribuzione di tipo occidentale: «Gli ipermercati Carrefour mi fanno impazzire, per vendere a loro i miei margini di profitti scompaiono». Ma è un imprenditore che guarda lontano. Si è già infilato in un business del futuro, cliniche e ospedali privati. I medici cinesi, spiega, sono i migliori del mondo, ma la sanità pubblica non può più soddisfare i milioni di ricchi anziani che popolano questo paese. Invecchiamento demografico e crisi del welfare: benvenuti tra noi.
Tony Yeh e Tsai Eng Meng sono due campioni di un fenomeno sorprendente che sta dietro il boom economico di Shanghai, cioè il ruolo chiave di Taiwan. Mezzo milione di taiwanesi abitano e lavorano in questa città, non tutti tycoon miliardari come i miei due commensali, ma comunque portatori di capitali e know how. Gli alti e bassi della tensione politica "nello Stretto", come si suol dire, cioè fra Pechino e Taipei, non hanno importanza nella sfera economica. Il denaro non ha odore, i taiwanesi qui sono accolti a braccia aperte. Capitalisti o manager, finanzieri o ingegneri, molti di questi taiwanesi del resto non fanno che tornare a casa. Shanghai, la culla storica del capitalismo cinese, fu abbandonata da molte famiglie borghesi che fuggirono a Hong Kong e a Taiwan dopo la rivoluzione comunista del 1949. I capitalisti taiwanesi che oggi tornano a fare ricca questa città spesso sono figli o nipoti di quegli emigrati. La Cina oggi è diventata la seconda destinazione di capitali mondiali, dopo gli Stati Uniti, ma i primi a investire nella madrepatria sono i cosiddetti «cinesi etnici», una diaspora di 60 milioni di emigrati ricchi, dal Sudest asiatico all´America, taiwanesi in testa.
L´esempio più clamoroso della fusione tra capitalismo taiwanese e shanghainese - in nome degli affari e a dispetto delle ideologie - è l´azienda Grace Semiconductor che visito nel parco tecnologico di Zhangjiang, a metà strada fra Shanghai e l´aeroporto internazionale di Pudong. Appena tre anni fa a Zhangjiang c´erano solo campi di contadini, ora è denso di capannoni industriali, centri di ricerca e design, sedi di multinazionali. La Grace Semiconductor ha cominciato a produrre solo nel luglio scorso microchip per computer e già cerca alleanze strategiche con colossi come Intel, Ibm; punta a quotarsi alle Borse di Hong Kong e New York; ha raccolto 1,6 miliardi di dollari di capitali. Il suo direttore finanziario, Daniel Wang, è un cinese-californiano, sbarcato a Shanghai direttamente dall´industria hi-tech della Silicon Valley, e affascinato dal suo paese d´origine: «Nella produzione manifatturiera in questo momento nessuno può battere il rapporto qualità-prezzo che offriamo noi cinesi: "We are the best". Dagli Stati Uniti, dal Giappone, dalla Corea, da Taiwan, prima o poi il grosso dell´industria è destinato a spostarsi qui». La radiografia di quest´azienda è illuminante. Il presidente Yeshun Dong è il fiduciario dei due soci-fondatori, tuttora maggioritari, che formano una coppia singolare: uno è Winston Wang, figlio del più grande tycoon di Taiwan; l´altro è figlio di Jiang Zemin, l´ex presidente della Cina che tuttora occupa una carica chiave (dirige la commissione delle Forze armate) e conserva una forte influenza ai vertici del partito comunista. Questo non impedisce alla Grace di aver scelto come sede sociale il paradiso fiscale delle isole Caimane. «È più pratico per ottenere una rapida quotazione alla Borsa di New York» commenta candidamente il presidente.
L´alleanza tra il figlio dell´ex numero uno della gerarchia comunista cinese, e il figlio del più ricco magnate di Taiwan - cioè l´isola che viene difesa con le armi degli Stati Uniti - non stupisce nessuno a Shanghai. Nel clima da febbre dell´oro che eccita questa città tutto è permesso, o quasi. Le famiglie della nomenklatura politica hanno da tempo piazzato le loro pedine sul grande gioco del Monopoli capitalistico. La settimana scorsa aprendo la legislatura a Pechino il primo ministro Wen Jiabao ha usato parole severe contro l´aumento delle diseguaglianze sociali nella Cina di oggi, lo sfruttamento della manodopera immigrata dalle campagne, la latitanza dello sviluppo nelle zone rurali. Wen ha lanciato un piano per riequilibrare la crescita, raffreddando gli eccessi speculativi che arricchiscono Shanghai e la zona costiera. Una parte del problema è dentro il suo stesso partito comunista, che in questo boom ha investito molto: in senso figurato e in senso letterale.
(2 - continua)
Le divisioni ideologiche cancellate dal business
I rapporti tesi tra Cina e l'ex Formosa si stemperano solo quando si parla di affari
E il marketing mette d'accordo gli industriali di Taipei con i comunisti
Mezzo milione di taiwanesi abitano e lavorano a Shanghai e hanno un ruolo chiave nel boom economico che sta vivendo
La Cina è diventata oggi la seconda destinazione di capitali mondiali dopo gli Stati Uniti
di FEDERICO RAMPINI
SHANGHAI - Il ristorante ha una lista dei vini di tutto rispetto ma il mio ospite non la apre neanche, la allontana da sé con fastidio. Si è portato da casa due bottiglie della sua leggendaria cantina che devo assolutamente assaggiare, un Chateau Margaux dell´89 e uno champagne Carneros Reserve Taittinger della Napa Valley californiana. Tony Yeh, presidente della Gourmet Foodstuff Shanghai Company, è un noto perfezionista, se non lo fosse non avrebbe conquistato in pochi anni il quasi-monopolio nei negozi di gastronomia di lusso a Shanghai. Un business in vertiginosa espansione, chi lo avrebbe detto vent´anni fa: sfamare i nouveaux riches. Il ristorante giapponese Shintori dove ci incontriamo per la prima volta a cena - i tempi cambiano ma il rito alimentare rimane un obbligo sociale per frequentare i businessmen cinesi - è affollato da un campione significativo della nuova élite di Shanghai. Ricavato nei magazzini di una fabbrica abbandonata, a due passi dal vecchio quartiere coloniale francese, è il frutto di una ristrutturazione post-moderna che evoca il design di certi loft newyorchesi a Soho e Tribeca. La gastronomia - nouvelle cuisine nipponica - i completi Armani e le costose coiffures del pubblico (età media 35 anni) aumentano lo spaesamento: potremmo essere in un locale esclusivo di Manhattan o San Francisco. Oltre che per la qualità dei suoi vini, Yeh mi colpisce per un´altra ragione. Il suo passaporto. È un cittadino di Taiwan, che a Shanghai ha trovato il nuovo paradiso terrestre del capitalismo. Cerco di sondarlo sulle prossime elezioni-referendum di Taiwan che fanno crescere la tensione con il governo di Pechino, e tra la Cina e gli Stati Uniti. Liquida la mia curiosità con due battute qualunque su «politici corrotti che usano il nazionalismo a fini interni». Non specifica neppure a chi voglia alludere. Ha solo voglia di chiudere rapidamente su questo argomento e parlar d´altro.
Al nostro tavolo c´è un altro tycoon taiwanese che ci ha raggiunti al ristorante su un camioncino blindato scortato da guardie del corpo. La sua fama arriva fino a Las Vegas, dove ha una "linea di credito" sempre aperta - dieci milioni di dollari - nei casinò. È Tsai Eng Meng, fondatore, azionista di maggioranza e presidente della Want Want Holdings, impero alimentare con sedi a Taipei, Singapore e Shanghai. Nella sola Cina continentale lui ha 60 fabbriche alimentari e ventimila dipendenti. Per il suo ultimo investimento locale ha trovato un partner d´eccezione: l´Esercito di Liberazione popolare, cioè le forze armate cinesi, con cui si è messo in società per produrre latte in polvere da fornire a tutte le mense dei soldati. Dice di andare perfettamente d´accordo con i generali, che secondo lui imparano presto i criteri dell´economia di mercato. Tsai Eng Meng padroneggia sulla punta delle dita tutte le arti del marketing occidentale, per i cinesi sa produrre merendine e snack studiati per diversi categorie di consumatori, come una grande multinazionale occidentale cambia i nomi delle sue marche e i messaggi pubblicitari, a seconda che i suoi prodotti siano destinati alle campagne o al ceto medio urbano di Pechino e Shanghai. Osserva con preoccupazione la moda dilagante nelle metropoli di fare la spesa nella grande distribuzione di tipo occidentale: «Gli ipermercati Carrefour mi fanno impazzire, per vendere a loro i miei margini di profitti scompaiono». Ma è un imprenditore che guarda lontano. Si è già infilato in un business del futuro, cliniche e ospedali privati. I medici cinesi, spiega, sono i migliori del mondo, ma la sanità pubblica non può più soddisfare i milioni di ricchi anziani che popolano questo paese. Invecchiamento demografico e crisi del welfare: benvenuti tra noi.
Tony Yeh e Tsai Eng Meng sono due campioni di un fenomeno sorprendente che sta dietro il boom economico di Shanghai, cioè il ruolo chiave di Taiwan. Mezzo milione di taiwanesi abitano e lavorano in questa città, non tutti tycoon miliardari come i miei due commensali, ma comunque portatori di capitali e know how. Gli alti e bassi della tensione politica "nello Stretto", come si suol dire, cioè fra Pechino e Taipei, non hanno importanza nella sfera economica. Il denaro non ha odore, i taiwanesi qui sono accolti a braccia aperte. Capitalisti o manager, finanzieri o ingegneri, molti di questi taiwanesi del resto non fanno che tornare a casa. Shanghai, la culla storica del capitalismo cinese, fu abbandonata da molte famiglie borghesi che fuggirono a Hong Kong e a Taiwan dopo la rivoluzione comunista del 1949. I capitalisti taiwanesi che oggi tornano a fare ricca questa città spesso sono figli o nipoti di quegli emigrati. La Cina oggi è diventata la seconda destinazione di capitali mondiali, dopo gli Stati Uniti, ma i primi a investire nella madrepatria sono i cosiddetti «cinesi etnici», una diaspora di 60 milioni di emigrati ricchi, dal Sudest asiatico all´America, taiwanesi in testa.
L´esempio più clamoroso della fusione tra capitalismo taiwanese e shanghainese - in nome degli affari e a dispetto delle ideologie - è l´azienda Grace Semiconductor che visito nel parco tecnologico di Zhangjiang, a metà strada fra Shanghai e l´aeroporto internazionale di Pudong. Appena tre anni fa a Zhangjiang c´erano solo campi di contadini, ora è denso di capannoni industriali, centri di ricerca e design, sedi di multinazionali. La Grace Semiconductor ha cominciato a produrre solo nel luglio scorso microchip per computer e già cerca alleanze strategiche con colossi come Intel, Ibm; punta a quotarsi alle Borse di Hong Kong e New York; ha raccolto 1,6 miliardi di dollari di capitali. Il suo direttore finanziario, Daniel Wang, è un cinese-californiano, sbarcato a Shanghai direttamente dall´industria hi-tech della Silicon Valley, e affascinato dal suo paese d´origine: «Nella produzione manifatturiera in questo momento nessuno può battere il rapporto qualità-prezzo che offriamo noi cinesi: "We are the best". Dagli Stati Uniti, dal Giappone, dalla Corea, da Taiwan, prima o poi il grosso dell´industria è destinato a spostarsi qui». La radiografia di quest´azienda è illuminante. Il presidente Yeshun Dong è il fiduciario dei due soci-fondatori, tuttora maggioritari, che formano una coppia singolare: uno è Winston Wang, figlio del più grande tycoon di Taiwan; l´altro è figlio di Jiang Zemin, l´ex presidente della Cina che tuttora occupa una carica chiave (dirige la commissione delle Forze armate) e conserva una forte influenza ai vertici del partito comunista. Questo non impedisce alla Grace di aver scelto come sede sociale il paradiso fiscale delle isole Caimane. «È più pratico per ottenere una rapida quotazione alla Borsa di New York» commenta candidamente il presidente.
L´alleanza tra il figlio dell´ex numero uno della gerarchia comunista cinese, e il figlio del più ricco magnate di Taiwan - cioè l´isola che viene difesa con le armi degli Stati Uniti - non stupisce nessuno a Shanghai. Nel clima da febbre dell´oro che eccita questa città tutto è permesso, o quasi. Le famiglie della nomenklatura politica hanno da tempo piazzato le loro pedine sul grande gioco del Monopoli capitalistico. La settimana scorsa aprendo la legislatura a Pechino il primo ministro Wen Jiabao ha usato parole severe contro l´aumento delle diseguaglianze sociali nella Cina di oggi, lo sfruttamento della manodopera immigrata dalle campagne, la latitanza dello sviluppo nelle zone rurali. Wen ha lanciato un piano per riequilibrare la crescita, raffreddando gli eccessi speculativi che arricchiscono Shanghai e la zona costiera. Una parte del problema è dentro il suo stesso partito comunista, che in questo boom ha investito molto: in senso figurato e in senso letterale.
(2 - continua)
Ritalin ai bambini e l'invenzione dell'ADHD
Chi voglia vederlo può collegarsi a questo indirizzo
nuovimondimedia.it
Presto anche in Italia il Ritalin ai bambini affetti da ADHD, la sindrome inventata
di Luciano Gianazza
Il Ritalin, il farmaco-droga che a detta della psichiatria dovrebbe curare l'ADHD (un presunto disturbo dell'apprendimento dovuto a iperattività spesso diagnosticato ai bambini), sarà presto rimesso in vendita anche in Italia. Quello che l'impero farmaceutico, tramite i suoi devoti collaboratori, sta preparando in Italia è un attentato alla salute di milioni di bambini al fine di instaurare un mercato da migliaia di miliardi.
(...)
coerenza delle neuroscienze svizzero-americane:
esiste il libero arbitrio?
Corriere del Ticino 7.3.04
Una settimana di conferenze e dibattiti con, al centro, la società contemporanea
Un cervello tutto da scoprire
Il quesito di sempre – Siamo davvero liberi? – La premessa
Siamo veramente liberi di agire? Siamo sicuri di poter fare certe cose o non farne altre in piena libertà, senza condizionamento alcuno? Una scelta di vita perfettamente lecita, magari un po’ anticonformista o, al contrario, un comportamento dannoso per sé e per gli altri sono il risultato di quella qualità tipicamente umana che definiamo il «libero arbitrio»? È con questa domanda che si apre questa sera la sesta edizione della «Settimana del cervello», i cui appuntamenti saranno seguiti su questa ed altre pagine del giornale: sarà il professor Arnaldo Benini, già Primario neurochirurgo presso la Clinica Schultness di Zurigo, a tenere la conferenza intitolata «Il cervello e la libertà della mente». n In un libro pubblicato nel 1988, intitolato «I filosofi e il cervello», lo scienziato inglese John Young afferma che l’uomo pensa di poter agire liberamente: in realtà, dice, può solo scegliere tra le varie possibilità, i vari programmi che il suo cervello gli consente e che si sono formati nel corso dell’evoluzione umana, selezionando quelli più convenienti per la sopravvivenza della specie e scartando gli altri. Dunque, secondo Young, un vero e proprio libero arbitrio non esiste, anche se le scelte della specie umana si collocano su un piano diverso da quelle più semplificate degli animali. La scelta di iniziare la «Settimana del cervello» con un tema del genere è molto interessante: vorremo solo chiedere agli organizzatori della «Settimana» di far sì che su questo argomento si possa ritornare, in presenza di un pubblico più vasto e anche di altri esperti, magari nel corso delle manifestazioni dedicate alla Coscienza, nel prossimo mese di maggio. La psichiatria – al centro dell’attenzione della «Settimana» di quest’anno – sta rapidamente ampliando le sue conoscenze e si interessa sempre più allo studio del funzionamento del cervello nelle diverse situazioni. Oggi, le neuroscienze utilizzano strumenti sofisticati che permettono di osservare cosa accade nel cervello quando, per esempio, siamo allegri o tristi, quando pensiamo alla persona amata, quando scriviamo o risolviamo un problema o vediamo una scena violenta di un film: la psichiatria utilizza comunemente queste tecniche di «imaging» per la diagnosi dei disturbi mentali e per seguirne il decorso. Nata come scienza vera e propria nel 19° secolo, la psichiatria ha conosciuto un rapidissimo sviluppo nel corso degli ultimi 50, 60 anni con la scoperta dei neurotrasmettitori, quelle sostanze che permettono alle cellule nervose di comunicare tra loro, e di come questa «comunicazione» sia alterata nei vari disturbi mentali. Intorno al 1950, Frank Berger scoprì per caso (stava cercando un efficace antibiotico) il primo farmaco contro l’ansia e nel giro di pochi anni seguirono le scoperte dei farmaci contro la depressione, la schizofrenia, la psicosi: inoltre, la biologia molecolare cerca di scoprire se ci sono cause genetiche delle malattie mentali. Per questo motivo, taluni hanno ipotizzato che i disturbi mentali abbiano solo una causa biologica, che condizioni sociali ed esistenziali dell’individuo non siano d’importanza e che si possa fare a meno delle diagnosi e delle terapie di tipo psicologico e psicoanalitico. Una contrapposizione del genere oggi non ha più senso, come avrà modo di constatare chi parteciperà alla conferenza del giorno 11. Scienza in rapido progresso, la psichiatria si confronta non solo con questioni scientifiche, ma anche con problemi etici rilevanti. È giusto che la psichiatria si faccia carico di ogni disagio sociale ed esistenziale, tossicodipendenze incluse? C’è l’esigenza di una bioetica anche per la psichiatria e le neuroscienze, una Neuroetica?
Una settimana di conferenze e dibattiti con, al centro, la società contemporanea
Un cervello tutto da scoprire
Il quesito di sempre – Siamo davvero liberi? – La premessa
Siamo veramente liberi di agire? Siamo sicuri di poter fare certe cose o non farne altre in piena libertà, senza condizionamento alcuno? Una scelta di vita perfettamente lecita, magari un po’ anticonformista o, al contrario, un comportamento dannoso per sé e per gli altri sono il risultato di quella qualità tipicamente umana che definiamo il «libero arbitrio»? È con questa domanda che si apre questa sera la sesta edizione della «Settimana del cervello», i cui appuntamenti saranno seguiti su questa ed altre pagine del giornale: sarà il professor Arnaldo Benini, già Primario neurochirurgo presso la Clinica Schultness di Zurigo, a tenere la conferenza intitolata «Il cervello e la libertà della mente». n In un libro pubblicato nel 1988, intitolato «I filosofi e il cervello», lo scienziato inglese John Young afferma che l’uomo pensa di poter agire liberamente: in realtà, dice, può solo scegliere tra le varie possibilità, i vari programmi che il suo cervello gli consente e che si sono formati nel corso dell’evoluzione umana, selezionando quelli più convenienti per la sopravvivenza della specie e scartando gli altri. Dunque, secondo Young, un vero e proprio libero arbitrio non esiste, anche se le scelte della specie umana si collocano su un piano diverso da quelle più semplificate degli animali. La scelta di iniziare la «Settimana del cervello» con un tema del genere è molto interessante: vorremo solo chiedere agli organizzatori della «Settimana» di far sì che su questo argomento si possa ritornare, in presenza di un pubblico più vasto e anche di altri esperti, magari nel corso delle manifestazioni dedicate alla Coscienza, nel prossimo mese di maggio. La psichiatria – al centro dell’attenzione della «Settimana» di quest’anno – sta rapidamente ampliando le sue conoscenze e si interessa sempre più allo studio del funzionamento del cervello nelle diverse situazioni. Oggi, le neuroscienze utilizzano strumenti sofisticati che permettono di osservare cosa accade nel cervello quando, per esempio, siamo allegri o tristi, quando pensiamo alla persona amata, quando scriviamo o risolviamo un problema o vediamo una scena violenta di un film: la psichiatria utilizza comunemente queste tecniche di «imaging» per la diagnosi dei disturbi mentali e per seguirne il decorso. Nata come scienza vera e propria nel 19° secolo, la psichiatria ha conosciuto un rapidissimo sviluppo nel corso degli ultimi 50, 60 anni con la scoperta dei neurotrasmettitori, quelle sostanze che permettono alle cellule nervose di comunicare tra loro, e di come questa «comunicazione» sia alterata nei vari disturbi mentali. Intorno al 1950, Frank Berger scoprì per caso (stava cercando un efficace antibiotico) il primo farmaco contro l’ansia e nel giro di pochi anni seguirono le scoperte dei farmaci contro la depressione, la schizofrenia, la psicosi: inoltre, la biologia molecolare cerca di scoprire se ci sono cause genetiche delle malattie mentali. Per questo motivo, taluni hanno ipotizzato che i disturbi mentali abbiano solo una causa biologica, che condizioni sociali ed esistenziali dell’individuo non siano d’importanza e che si possa fare a meno delle diagnosi e delle terapie di tipo psicologico e psicoanalitico. Una contrapposizione del genere oggi non ha più senso, come avrà modo di constatare chi parteciperà alla conferenza del giorno 11. Scienza in rapido progresso, la psichiatria si confronta non solo con questioni scientifiche, ma anche con problemi etici rilevanti. È giusto che la psichiatria si faccia carico di ogni disagio sociale ed esistenziale, tossicodipendenze incluse? C’è l’esigenza di una bioetica anche per la psichiatria e le neuroscienze, una Neuroetica?
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