lunedì 17 marzo 2003

Corriere della Sera 17.3.03
Il celebre direttore inglese e i Wiener hanno registrato in cinque cd i capolavori del compositore
«Beethoven, un dovere per noi musicisti»
Rattle: oggi più che mai è giusto eseguire le Sinfonie, inno alla pace e alla libertà
Giuseppina Manin

VIENNA - «E’ un momento molto difficile per uno come me diviso nel lavoro e negli affetti tra Londra e Berlino. Come tutti sono molto preoccupato. Penso però che proprio adesso sia giusto più che mai eseguire Beethoven, il suo è un inno alla pace e alla libertà. E’ un dovere per tutti noi musicisti». Sir Simon Rattle risponde così a chi gli chiede che cosa pensa di Tony Blair. La domanda coglie d’improvviso il direttore d’orchestra, «suddito» di Sua Maestà Britannica, promosso baronetto per meriti artistici, ma da settembre di casa in Germania, alla guida dei Berliner Philhamoniker. Due Paesi della stessa Europa oggi lontanissimi sul problema della guerra.
Di passaggio a Vienna, dove ha presentato a una platea internazionale di addetti ai lavori l’edizione completa delle Sinfonie di Beethoven registrate in 5 cd per la Emi insieme con i Wiener Philharmoniker, il 48enne riccioluto maestro inglese racconta con passione questa sua ultima avventura musicale.
Dunque, le Sinfonie di Beethoven...
«Quando me l’hanno proposto, ho detto: siete pazzi? Un altro album Beethoven? Naturalmente però, come ogni direttore, anch’io sognavo di inciderle. Anche per cogliere quel vento di novità che circola in Europa da qualche anno. L’aver detto sì, inoltre, mi ha dato l’opportunità di lavorare con questi meravigliosi orchestrali che considero la mia famiglia».
Veramente risulta che lei si sia appena sposato altrove, da settembre tiene famiglia alla Philharmonie di Berlino...
«Certo, la mia vera casa è lì. Ma anche con Vienna i legami restano stretti. Il mio lungo viaggio nelle Sinfonie è cominciato nel ’96 e si è concluso lo scorso maggio. Sette anni in compagnia di Beethoven stabiliscono legami profondi tra un direttore e gli strumentisti».
Che differenze tra il suono dei Wiener e quello dei Berliner?
«Le stesse che ci sono tra l’Austria e la Germania. Ufficialmente parlano la stessa lingua, ma all’orecchio risultano molto diverse. Inoltre, tra i Berliner siedono molte belle orchestrali, il che non guasta. Scherzi a parte, al di là delle famiglie musicali, la mia vera sta a Birmingham, dove mia moglie Candice ha scelto di tener casa. Appena posso torno da lei e anche dalla mia vecchia orchestra, con cui continuo a collaborare. La mia vita ormai è tutta un viaggio, adesso per 10 anni il punto fermo sarà Berlino. In futuro? Chi lo sa».
Certo, affrontare monumenti come le Nove Sinfonie deve dare i brividi. Il timore è che tutto sia già stato detto.
«In questi anni di lavoro, di studio, mi è tornata spesso in mente una frase di Samuel Beckett: "Ogni volta che provi a far qualcosa sbagli, provaci ancora, sbaglierai meno". L’ho sperimentato sulla mia pelle: quando pensi di aver capito tutto, non hai capito niente. Il segreto sta nel cercare. Il suono giusto esce dalla pratica, dal quotidiano stringere i denti tutti insieme. E osare. Anche quando le idee sembrano venire da Marte o da Giove. Beethoven rivela sempre mondi diversi, bisogna lasciar parlare lo spirito dello spartito».
E come parla lo spartito?
«Quando mi siedo nella mia stanza a studiare, ogni tanto succede che le indicazioni della partitura coincidano magicamente con gli stessi tempi che ho in testa io. Pensi di aver trovato, ma non è così. Prendiamo la Terza , l’ Eroica . Ci sono dei passaggi così forti che i dettami del metronomo non bastano più. Allora devi avere il coraggio di buttarti, di lasciarti trascinare da quei flutti. Beethoven ti spinge a seguire la sua musica con la musica, non con il metronomo».
Dopo Vienna?
«Birmigham, Berlino, Salisburgo. In Italia verrò a dicembre, il 19 al Lingotto di Torino con i Berliner. Sarà la mia prima volta nel vostro Paese. Questo è un anno di prime volte, a Salisburgo debutterò come direttore del Festival di Pasqua. Ancora con Beethoven, Fidelio (prossimamente nel catalogo Emi, ndr ). Altro inno alla libertà e alla giustizia. Speriamo che per quella data lo si possa eseguire con la gioia nel cuore».
Il Mattino di Padova, lunedì 17 marzo 2003
Un autoritratto di Schönberg. Le sue opere sono in mostra a Torino
Una selezione di opere del musicista-pittore in mostra alla Galleria d'Arte Moderna di Torino
Schönberg, sguardi e visioni
I ritratti del compositore che inventò la dodecafonia
di Virginia Baradel

Fu nel corso degli anni Novanta che il mondo della cultura si accorse che esisteva anche uno Schonberg pittore: il grande compositore che inventò la dodecafonia non era affatto un pittore dilettante. Non fu, infatti, una sorpresa il fatto che dipingesse ma destò interesse la consistenza di questa produzione e la considerazione in cui egli stesso la teneva negli anni che vanno dal 1906 al 1912. Addirittura ci fu un momento in cui pensò di affermarsi come pittore e di promuoversi anche sul mercato, fosse anche nelle vesti di ritrattista. In realtà ciò non accadde e la sua pittura rimase un episodio circoscritto assai importante non solo per i risultati ottenuti ma anche perché riuscì ad assorbire l'eccesso di investigazione spirituale, le tensioni, i brividi dell'accanimento introspettivo, proprio di quegli anni, lasciando una soggettività più libera e dissodata alla ricerca musicale.
Tale divaricazione era ben percepita da Kandinsky il quale da un lato era ammirato e catturato dall'assonanza tra la ricerca musicale di Schönberg e la sua arte astratta, dall'altro cercava di trovare un modo per valorizzare anche la pittura del musicista ponendo l'accento su un carattere di fisiologica inadeguatezza della pittura a esprimere temi di per sé insondabili. Egli infatti la definì "pittura del soltanto" intendendo per esso quell'aspetto di inquieta difettosità implicita nel tentativo di esteriorizzare l'"occhio interiore" poggiato sulla "bocca dell'anima". Sono gli anni in cui l'artista russo scrive "Lo spirituale nell'arte" e la dimensione della ricerca oltre il visibile e il sensibile affratella in un unico orizzonte ermetico la nascente arte astratta e la disposizione simbolista-espressionista.
La stagione di Schönberg pittore durò pochi anni e produsse un numero limitato di opere che appartengono in massima parte agli eredi. Sino al 1998 la collezione di oltre 160 opere era conservata all'Istituto Arnold Schönberg di Los Angeles. A quella data essa è stata trasferita a Vienna nel nuovo Centro che porta il nome del musicista e dunque da allora la figura di Schönberg pittore è stata approfondita sia per quel che riguarda la sua singolarità che il contesto in cui si è manifestata. Ora una selezione di dipinti, disegni e bozzetti di scena è in mostra alla Galleria Civica d'Arte Moderna e Contemporanea di Torino (sino al 16 marzo) nell'ambito del programma "Sintonie" che vede in scena musica, arti figurative, cinema e teatro in una combinazione pluriennale che arriverà sino all'appuntamento olimpico del 2006. Da gennaio a marzo di quest'anno la concertazione si muove intorno alle figure di Beethoven e Schönberg e la mostra si è inaugurata con l'esecuzione all'Auditorium Giovanni Agnelli del Lingotto della Kammersynphonie n02 op.38 eseguita dalla Mahler Chamber Orchestra diretta da Daniel Harding.
Dunque la pittura del compositore viennese si accorda ad una catena di eventi che ruotano intorno alla musica - "Sintonie" nasce da un'idea di Claudio Abbado - anche se non è più tempo di orientare la riflessione cercando rimandi tra la sua musica e la sua pittura, bensì di leggere questa avventura come capitolo a sé. E' evidente che negli occhi sbarrati degli autoritratti e dei ritratti di Schönberg si registra l'eco di un sisma che agita il profondo, l'abisso interiore dove trovano luogo non solo l'inconscio (dirompente novità freudiana) ma anche quegli stati remoti e misteriosi frequentati dalla letteratura simbolista e dalla Teosofia.
Il clima era propizio a questi affondi irrazionali che trovano una via di sofferta e originale evidenza nel solco tra la Secessione e l'Espressionismo, più esattamente nell'esperienza del Blaue Reiter intrisa programmaticamente di spiritualismo. Sulla strada di Schönberg pittore contarono certo Kokoschka e Gerstl non meno di Van Gogh, Munch e Kubin. Contò molto anche Kandinsky ma più come interlocutore che venerava il compositore che come collega e critico. Questo dell'approvazione da parte degli altri artisti fu un terreno scosceso che fece penare e arrabbiare il musicista. Gli stessi artisti del Cavaliere Azzurro, con i quali Schönberg espose in occasione della prima esposizione del gruppo, erano perplessi e Macke non risparmiò strali sarcastici. Cosa c'era che non andava? L'eccesso di rovello introspettivo, l'urgenza emotiva non governata da una sicura padronanza espressiva. La ricerca dell'essenziale, pur professata e condivisa con lo stesso Kandinsky, non riguardava tanto i mezzi linguistici quanto l'enucleazione del centro ribollente di un "io" che abitava i piani sotterranei della coscienza. Dunque un investimento di significato recondito rischiava di sovraccaricare una dotazione espressiva che non sembrava in grado di sopportarne il peso.
Gli autoritratti e i ritratti di Schönberg si guardano, infatti, più rapiti per la testimonianza che ammirati per la prova d'arte; mentre le cosiddette "Visioni" sono molto più interessanti e riescono a riverberare il mistero che si annida alla radice dell'uomo con i mezzi di una pittura povera, volutamente larvale, certamente incline al Simbolismo. Il tema delle "Visioni" è lo "Sguardo" che rivela mondi indicibili e non negoziabili dalla mente. Al confronto con questi sguardi visionari, con queste pupille dilatate come fuochi non più regolabili e cerchiate da una veggente insonnia, l'occhio-satellite di Odilon Redon sembra piuttosto appartenere ad una preziosa e surreale fantascienza. E' certamente a questa altezza, tra le pieghe forse ancora avviluppate e non mai del tutto dispiegate di un inquieto spiritualismo che l'inflessibile autoanalisi di Schönberg trova modo di manifestarsi e perciò stesso, in qualche modo, di placarsi.

domenica 16 marzo 2003

Modigliani

Corriere della Sera 16.3.03
LE SUE PAROLE FERMA CONVINZIONE DELLA SUPERIORITÀ DELL’ARTE MA ANCHE PENSIERI INCOERENTI, DA PERSONALITÀ SCHIZOFRENICA
«Non parlatemi dei cubisti: cercano i mezzi, non la vita che li utilizza»
Francesca Basso

Sicuro del proprio valore e con un’alta concezione dell’arte. Fin da ragazzo Amedeo Modigliani, dall’aria un po’ sdegnosa e dalle maniere fredde, sapeva cosa voleva. Riflessivo e intellettuale, nel 1901, appena diciassettenne, scrive all’amico Oscar Ghiglia a proposito degli artisti: «Noi (scusa il noi) abbiamo dei diritti diversi dagli altri, perché abbiamo dei bisogni diversi che ci mettono al di sopra - bisogna dirlo e crederlo - della loro morale. Il tuo dovere è di non consumarti mai nel sacrificio, il tuo dovere reale è di salvare il tuo sogno». L’arte viene prima di ogni cosa, come dimostra il lavoro di ricerca delle sue parole realizzato in questi anni da Marc Restellini. Continua Modigliani: «L’uomo che dalla sua energia non sa continuamente sprigionare nuovi desideri e quasi nuovi individui destinati per affermarsi sempre ad abbattere tutto quello che è di vecchio e di putrido restato, non è un uomo, è un borghese, uno speziale, quel che vuoi. Abituati a mettere i tuoi bisogni estetici al di sopra dei doveri degli uomini». Fin qui, niente di nuovo. Gli artisti da sempre hanno rivendicato la propria eccezionalità. Ma Modigliani, come sottolineava il medico-amico Paul Alexandre, «possedeva già, radicata in sé, la certezza del proprio valore. Sapeva di essere un iniziatore, non un epigono». Perché Modì sentiva che la sua arte veicolava un messaggio. «Stiamo costruendo un mondo nuovo utilizzando forme e colori - disse una volta l’artista al pittore Léopold Survage - ma è il pensiero il padrone di questo mondo nuovo». Per Restellini ci troviamo di fronte non a un pittore maledetto come ce lo ha tramandato la tradizione ma a un intellettuale «metafisico-spirituale». E il titolo dell’esposizione, che è ripreso da un messaggio che l’artista scrisse il 6 maggio 1913 ad Alexandre - «La felicità è un angelo dal volto severo. Il resuscitato» - punta l’accento proprio su questo aspetto.
Non solo, per Restellini, Modigliani aveva una personalità che presentava cenni di schizofrenia, messi in evidenza dalla sua introspezione malsana, dal rapporto inadeguato con il mondo esterno e dal suo senso di superiorità sugli altri. Il suo comportamento sconsiderato, dal rifiuto di eventuali lavori che gli avrebbero garantito la sopravvivenza all’apparente sicumera, ne sarebbe una prova così come la frase un po’ incoerente riportata in un album di disegni del 1907: «Ciò che cerco non è il reale né l’irreale, ma l’Inconscio, il mistero della Spontaneità della Razza» (dove non è chiara la seconda parte, in cui egli conia il neologismo francese Instinctivité e non si comprende se si riferisca al genere umano o alla razza ebraica).
La ricerca artistica di Modigliani aveva l’unico scopo, secondo Restellini, di creare la figura ideale, quella che permette l’introspezione più profonda attraverso una fisionomia anonima e inespressiva. Scriveva il pittore livornese: «È l’essere umano che mi interessa. Il volto è la suprema creazione della natura. Me ne servo senza sosta».
E proprio lo studio della figura lo ha legato alla ricerca estetica dell’avanguardia parigina, che egli tuttavia non frequentò. Anche la sua fase cubista fu, in realtà, «cubisteggiante». Lo si evince dalle stesse parole dell’artista all’amico Survage: «Non parlarmi dei cubisti; cercano soltanto i mezzi senza preoccuparsi della vita che li utilizza. Il genio deve penetrarla immediatamente».
«L’uomo sprigioni nuovi desideri dalla sua energia. Sennò è un borghese»


Corriere della Sera 16.3.03
Amava le donne e sapeva scorgere il loro destino
di Ulderico Munzi

L a personalità di Modigliani ha suggestionato per il senso sfuggente, e magico insieme, attribuito a ogni tratto: fisico, biografico, poetico. Anna Achmatova, che arriva a Parigi in viaggio di nozze nel 1910, scrive di lui: «Aveva la testa di Antinoo e gli occhi dalle scintille d’oro» (un’enfasi lirica che si insinua fra altre e contrastanti iconografie, che evocano il dandy, ma anche la dolente spettralità del «seduttore consumato dall’alcol e dalle droghe»). Anche la sua biografia sfuma, a volte, nell’incertezza (la data di nascita, l’inserimento nella grande avventura artistica di Montparnasse). Se poi ci si addentra nel discorso conoscitivo-ideativo (i dipinti, le sculture, i disegni su carta) il rapporto di causa ed effetto ci appare come un prisma enigmatico. Penso che ciò sia dovuto ad un’arcana identità che collega alcuni geni visionari che hanno subito una morte precoce più o meno alla stessa età. Modigliani, scomparso a 36 anni, come il Parmigianino, come Raffaello (o, in letteratura, se spostiamo, non di molto, in avanti la data, D. H. Lawrence). Cos’hanno in comune questi artisti, oltre a una prodigiosa produzione, quasi la vita abbia voluto compensare la sua brevità? Hanno, prima ancora di un’arte espressiva privilegiata, l’intima arte del presentimento. Da qui deriva, fortissimo, il loro mistero. Presentimento di ciò che il tempo riserva. E qui potremmo citare Borges quando, rovesciando il metodo di Plotino, comincia col ricordare le oscurità inerenti al tempo: mistero metafisico, naturale, che deve precedere l’eternità, la quale è figlia degli uomini. Soffermiamoci sugli spunti più semplici, ad esempio sulla singolarità delle figure femminili dipinte da Modigliani: quei colli lunghi, e le teste oblunghe, e la loro sensualità incisiva e perplessa, che sembra offrire se stessa e, insieme, provare timore per il proprio futuro. Figurativamente, le forme sono desunte dall’arte africana, che suggestionò il pittore. Ma, andando oltre, si può sostenere che Modigliani (come il Parmigianino, Raffaello, ecc.) sapeva vedere, con un potere medianico, al di là dell’apparenza delle sue donne, addirittura nel loro destino. Pensiamo a una delle donne più amate: Jeanne Hébuterne. Le sue foto ci mostrano una carnagione scura e un naso largo; nel ritratto del pittore, invece, la figura è pallida e col naso affilato. Modigliani sembra cogliere l’intima corruzione dei tessuti, delle cellule. Jeanne, incinta del secondo figlio e prossima al parto, si getta da un quinto piano il 26 gennaio 1920, appena un giorno dopo la morte dell’artista. Una fatalità sconvolgente cade su altre due donne molto amate da Modigliani. Simone Thirioux, che nel ’17 ebbe un figlio dal pittore, muore di tubercolosi nei primi anni Venti. Una terza amante, Beatrice Hastings, si suiciderà a Londra. La femminilità «dai colli lunghi» ha dunque l’inebriante languore della dolcezza del vivere amoroso e, al tempo stesso, l’amaro languore della fine. L’arte del presentimento corrisponde alle parole sibilline di Leonardo ricordate da Freud: «È piena d’infinite ragioni che non furono mai in isperienza». Ma furono, eccome, nella percezione medianica. Con la perentorietà del colpo d’occhio in cui si rovescia l’inconscio. I capolavori di Modigliani nascono da un’aggregazione di passato, presente e avvenire. E il ricordo va alle notti in cui Modigliani posava una candela accesa sopra ogni sua scultura per ottenerne l’effetto di un tempio primitivo. Non sotto l’effetto dell’hashish, come dice la leggenda. Ma per quella possessione di mistero che proiettava l’artista in una dimensione del tempo totalmente estranea al tempo oggettivo della logica.
Come Raffaello e Parmigianino, l’artista livornese possedeva la rara arte del presentimento: da qui deriva il suo mistero

Corriere della Sera 16.3.03
VITA D’ARTISTA I BAR, GLI AMORI, L’INDIGENZA: MODIGLIANI SI IMMERSE NELLA BOHÈME PARIGINA
A Montmartre, tra amici e fantasmi
Ulderico Munzi

Dopo una notte di pioggia la Montmartre dei tempi di Modigliani respirava a pieni polmoni. Dall’alto del Sacré-Coeur, Parigi era come distesa sotto lo sguardo del pittore che vi era arrivato nel 1906: un vestito di velluto, una camicia di tela bianca, un foulard rosso intorno al collo, una scatola di colori e pennelli e, nelle tasche, la Divina Commedia di Dante e Così parlò Zarathustra di Nietzsche. Parigi era la sublime accademia del mondo dell’arte. E a Montmartre, che era uno dei suoi tanti «villaggi», abitavano, fianco a fianco, la bohème di scrittori e poeti e la bohème dei pittori. La città della diplomazia e degli affari, la capitale della Terza Repubblica, era come una dimensione diversa, estranea e talvolta ostile.
Lo sguardo del giovane pittore toscano poteva soffermarsi su un rutilante Picasso, che un giorno gli doveva manifestare la sua amicizia, su Van Dongen, Duchamp, Metzinger, Picabia, Severini e Bucci che si dividevano un atelier della rue Ballu. E poi capitava di vedere Renoir che conservava sempre il suo indirizzo nella rue Caulaincourt e anche Degas che stava nella rue de Laval.
Fu Anselmo Bucci che, passando davanti al piccolo negozio della poetessa inglese Laura Wylda, scoprì Modigliani: «Chi ha disegnato - chiese - quei tre volti femminili esangui e allucinati?». E qualche tempo dopo, diventati amici, Amedeo e Anselmo trovavano rifugio dal freddo in fondo al Café Vachette del Quartiere Latino, dove disegnavano e ascoltavano le prime orchestre jazz. Si diceva: «A Montmartre l’uomo non è un artista, ma un’opera d’arte». Lo studio di Modì, come lo chiamavano i francesi (e che profetica assonanza con la parola francese maudit che significa maledetto), si trovava nella rue Lepic. Piccolissimo. Si scorgeva una serra piena di fiori. Assieme a Severini si ritrovavano al Lapin Agile e il vino li portava verso lidi che solo pittori e poeti possono conoscere. Ai due italiani si unì un poeta, Max Jacob, che amava l’occultismo e che portò Picasso al Lapin Agile. Max e Amedeo avevano strane affinità anche perché percepivano, disse Picasso, il soffio dei fantasmi.
Fu Elvira, una modella dalle labbra sensuali e dagli occhi neri, figlia di un marinaio spagnolo e di una prostituta, che iniziò Modì alla droga. L’arte e l’indigenza, il bene e il male, nella Parigi di allora erano così intrecciati da confondersi in una specie di odissea. Modigliani non aveva più un soldo, moriva di fame, si trascinava nelle strade, mentre Montmartre continuava ad accogliere nomi sconosciuti all’arte ufficiale come Braque e Utrillo. Amedeo si legò d’amicizia soprattutto con quest’ultimo, lo inteneriva perché i bambini lo prendevano a sassate, come racconta nella biografia di Modigliani lo storico e critico d’arte Christian Parisot.
E dopo la droga venne l’assenzio. Il pittore ne aveva bisogno per calarsi nell’abisso della propria anima. E assieme a Utrillo si aggirava cantando nella notte di Montmartre. Nel 1910 Montparnasse cominciò ad attirare gli artisti, addio Lapin Agile: La Rotonde e Le Dôme divennero i loro ritrovi. S’apre il sipario sui grandi amori di Modigliani. Ecco che cede al fascino della poetessa russa Anna Gorenko, meglio conosciuta come Anna Achmatova. Sono i giorni d’un luogo magico chiamato La Ruche, l’alveare dell’arte, dove quegli uomini che non sapeva d’essere meravigliosi aspettavano che Dio provvedesse ai loro bisogni. Amedeo incontrò Cendrars, Chagall, Zadkine. Modì e Zadkine andavano a turno a chiedere l’elemosina e le donne danzavano nude nella casa di Van Dongen.
Ma per Modigliani l’esistenza era sempre sull’orlo del precipizio. Una sera, a La Rotonde, Ardengo Soffici lo vide avanzare declamando versi e vendendo disegni. Il suo volto era torturato e violento. Nel 1914 il legame con la scrittrice Béatrice Hastings sembrò aprire una speranza. Amedeo le recitava La Vita Nova e tutti dissero che s’era avviato verso una buona strada. Béatrice lo abbandonò nel 1917. E così Modì tornò al suo lento suicidio con l’alcol e la droga. Forse non aveva più voglia di vivere, la sua esistenza era un alternarsi mentale di luce e di buio. C’era un «tarlo», una specie di squilibrio mentale, che aveva tormentato per generazioni diversi membri della sua famiglia.
Ormai gironzolava nei cimiteri recitando I Canti di Maldoror di Lautréamont. La morte, sotto forma di tubercolosi, aveva fretta di possederlo. E lui, inconsciamente, voleva raggiungerla. Nessuno lo aveva veramente capito, tranne Jeanne Hébuterne, ultima compagna, con la quale, si disse, aveva stretto un patto: se muoio, devi morire con me.
Nella casa al numero 8 della rue de la Grande Chaumière, affittata per la coppia dal gallerista Zborowski, che cominciava a vendere all’estero i quadri di Amedeo, c’era fino a pochi anni fa una targa con scritto Atelier Modigliani. La scala era stretta e ripida, il luogo squallido. Nelle ore estreme Modigliani fu trovato su una panchina. Era senza cappotto, sotto una pioggia gelida. Delirava: «Sto aspettando una nave che mi porterà in un paese miracoloso». Fu portato a casa dove Jeanne, per riscaldarsi, aveva bruciato tutta la legna che aveva potuto trovare, persino le sedie.
Il pittore era in coma. Spirò il 24 gennaio 1920 in un ospedale dei poveri della rue Jacob che oggi non esiste più. Fu trasportato in processione al cimitero Père-Lachaise, divisione 96. C’erano Picasso, Soutine, Léger, Lipchitz, Severini, Ortiz de Zarate, Derain, Vlaminck Foujita, Utrillo, Jacob, Salmon. Nevicava. Un rabbino lesse la preghiera. E l’indomani Jeanne, incinta al nono mese, si buttò dalla finestra.
Con Severini frequentava il Lapin Agile, dove conobbe Picasso e trovò affinità esoteriche col poeta Max Jacob. L’incontro con la modella Elvira che lo iniziò alla droga. Affezionato a Utrillo che veniva preso a sassate dai bambini. Poi l’esodo nei locali di Montparnasse. Per l’amante Beatrice declamava Dante.
Corriere della Sera 16.3.03
ANCHE NEI RIFORMATORI Psicosi e depressione per la maggioranza dei giovani

La prestigiosa rivista Archivies of General Psychiatry ha appena pubblicato un altro studio degli psichiatri dell'Università di Chicago su 1829 reclusi con età fra 10 e 18 anni. E' risultato che le malattie mentali affliggono anche chi sta in riformatorio, costituendo un grosso problema per il sistema giudiziario e, a fine pena, per i servizi d'igiene mentale della sanità pubblica: una «bomba a tempo» (come l'ha chiamata ai microfoni della Bbc l'ispettore generale delle carceri britanniche sir David Ramsbotham), che va disinnescata finché questi giovani possono essere curati e seguiti. Senza contare i cosiddetti disturbi della condotta, pressoché scontati negli ospiti dei riformatori: quasi tre quarti delle ragazze e due terzi dei ragazzi presentano disturbi psichici. Metà sono dediti all'abuso di sostanze (alcol o droghe) e più del 40% presenta un disturbo da comportamento distruttivo. Assai comuni sono anche le turbe dell'umore: oltre il 20% delle ragazze soffre di depressione maggiore e, particolarmente nelle giovani bianche non ispaniche, i disturbi mentali in generale crescono con l'aumentare dell'età, specialmente dopo i 13 anni.
Secondo uno studio pubblicato a novembre sul British Journal of Psichiatry , il disturbo più comune fra i detenuti è la psicosi, soprattutto fra 16 e 20 anni e dopo i 40, in particolare fra chi è rimasto per un po' senza casa. A rischio di psicosi sono anche i detenuti che hanno cominciato ad abusare di amfetamine, cannabis e cocaina prima dei 16 anni, mentre gli eroinomani sembrano, inaspettatamente, esserne protetti.

sabato 15 marzo 2003

L'Espresso online 13.3.03
Neurologia
Ma che bello lo stress
Anche quando è eccessivo, e quindi pericoloso, può essere ridotto e reso positivo. È la tesi di Bruce McEwen, luminare Usa
Emma Trenti Paroli

Stress maledetto, ti fa ammalare, combattilo con yoga e rilassamento, ritorna alla campagna. Lo stress è tutto nella testa, più ti preoccupi e più diventi stressato. Lo stress premia i vincenti, è la chiave del successo. Ma insomma: cosa diavolo è lo stress? Negli ultimi anni non è stato sempre facile dare un senso alle informazioni che venivano a più riprese e incessantemente da medici e psicologi. Occorreva mettere ordine, e ci ha pensato il noto neuroendocrinologo Bruce McEwen della Rockefeller University di New York con un nuovo libro uscito negli Stati Uniti dal titolo: "La fine dello stress come lo intendevamo" in cui McEwen traccia una teoria dello stress che tiene conto di tutti gli studi importanti effettuati negli ultimi vent'anni dal suo gruppo e da altri ricercatori.
Il quadro finale supera anche le promesse del titolo, perché offre finalmente una base inattaccabile alla medicina psicosomatica, cioè agli effetti della mente sulla salute. Questi, secondo McEwen, sono molto più pervasivi e insidiosi di quanto abbiamo mai immaginato, ma una volta identificati, anche possibili da controllare con strategie che abbiamo tutti a portata di mano.
Alla ricerca della stabilità
Bruce McEwen definisce allostasi, cioè stabilità mantenuta mediante il cambiamento, la reazione del nostro organismo a un evento stressante, sottolineando quanto essa sia positiva e necessaria. Con una serie di risposte mediate da messaggeri chimici, cioè ormoni e neurotrasmettitori, il corpo riesce infatti ad adattarsi subito a una sfida esterna e a sopravvivere. Quando l'uomo primitivo doveva difendersi dall'assalto di un animale feroce, o quando oggi dobbiamo sterzare improvvisamente per evitare un incidente stradale, si mettono in moto il cervello, che percepisce una situazione insolita o pericolosa, il sistema endocrino (in primo luogo le ghiandole surrenali) che va a stimolare altri organi come il fegato e il sistema immunitario. Questi messaggi d'allarme vengono diffusi in tutto l'organismo in primo luogo dai più noti ormoni dello stress, adrenalina e cortisolo. «L'allostasi che si verifica in situazioni di urgenza è la cosiddetta risposta "combatti o fuggi", perché portata agli estremi ci prepara proprio per questo, garantendo il massimo apporto di energia alle parti che ne hanno più bisogno», spiega il nurologo americano. Il respiro si fa più frequente per aumentare l'apporto di ossigeno e anche il battito cardiaco accelera per portare più sangue ai muscoli delle gambe, i vasi sanguigni della pelle si contraggono per ridurre il rischio di emorragia in caso di ferita (ecco perché si ha la sensazione che si rizzino i peli), si liberano le riserve di zuccheri per massimizzare l'apporto di energia. Anche le risposte immunitarie si mettono in movimento, preparandosi a intervenire in caso di ferita. Se però la situazione stressante si protrae, la risposta immunitaria invece si deprime a favore degli organi che hanno più bisogno di carburante, cuore e polmoni. E qui si comincia a vedere come l'allostasi possa diventare negativa.
Da protezione a distruzione
Quando le funzioni dell'allostasi non si accendono e spengono al momento giusto o si ripetono troppo di frequente, questo sistema di protezione si rivolta contro l'organismo e avviene ciò che McEwen chiama "sovraccarico allostatico", cioè il danno da stress. Spiega il neuroendocrinologo: «I vasi sanguigni possono essere danneggiati da un'accelerazione cardiaca e un'espansione che succede troppo di frequente, diventando così più soggetti all'accumulo di placca arteriosclerotica». E continua aggiungendo che quando si alterano i normali cicli del cortisolo, il metabolismo produce più grasso che si deposita intorno all'addome e che rende più soggetti alle malattie cardiovascolari. Un eccesso di ormoni dello stress, attraverso meccanismi ancora non completamente chiariti, può anche causare resistenza all'insulina (cioè diabete di tipo II), e accumulo di lipidi e trigliceridi nel sangue, così come una graduale perdita di minerali che indeboliscono le ossa (ed è l'osteoporosi). A lungo termine, questi medesimi squilibri ormonali possono anche danneggiare il cervello, nell'ippocampo, causando disturbi della memoria e invecchiamento precoce. Per quanto riguarda le difese immunitarie, in generale lo stress acuto tende ad aumentarle, mentre lo stress cronico tende a sopprimerle, rendendoci più soggetti alle infezioni come raffreddori e altre malattie respiratorie. In situazioni di stress cronico si liberano nell'organismo troppe citokine, quelle cellule immunitarie responsabili delle infiammazioni di cui è noto il collegamento con le malattie cardiovascolari, l'ictus, la depressione, e di cui si sospetta il ruolo nella sindrome da fatica cronica e nella fibromialgia. In certe persone, invece, lo stress non danneggia il sistema immunitario, ma lo può mandare in tilt, scatenando reazioni allergiche, attacchi d'asma, malattie autoimmunitarie come l'artrite reumatoide, il morbo di Crohn, la sclerosi multipla. Se è noto da tempo che lo stress tende a peggiorare questi disturbi autoimmunitari, oggi si stanno accumulando le prove che può anche essere tra le loro cause principali.
Stili di vita e di rischio
McEwen non si limita però a presentare i devastanti effetti dello stress sulla salute e i molti fattori personali di rischio, ma spiega perché non dobbiamo rassegnarci al ruolo di vittime. «Il sovraccarico allostastico spesso è causato, o reso molto peggiore da come si reagisce alle situazioni stressanti, ingerendo troppi grassi o zuccheri, passando le serate in ufficio o davanti alla televisione, riducendo le ore necessarie di sonno, evitando l'esercizio fisico o esagerando con il fumo e l'alcol», spiega il neuroendocrinologo. Le abitudini di vita malsane, infatti, hanno conseguenze sull'organismo molto simili agli effetti dello stress, e quindi li peggiorano. Un pasto ricco di grassi non solo fa ingrassare e aumenta il colesterolo, ma iperstimola il sistema nervoso simpatico e fa aumentare il cortisolo. Ecco perché è particolarmente sbagliato abbuffarsi la sera (chi non l'ha fatto, dopo una giornata pesante?), quando invece i livelli di cortisolo dovrebbero diminuire, per favorire il sonno e sincronizzare i ritmi sonno-veglia.
La stessa mancanza di sonno mima gli effetti dello stress, perché aumenta l'attività del sistema nervoso linfatico e danneggia le funzioni regolatrici del sistema vagale (in seguito a uno stress, infatti, chi è stanco tende a reagire con sbalzi più elevati di pressione sanguigna che possono causare l'infarto). Sia la nicotina, sia l'alcol, stimolando l'emissione di alcuni ormoni, possono rendere una persona molto più reattiva agli stimoli dello stress. Ecco perché dieta, esercizio fisico regolare, sonno adeguato, astinenza da fumo e alcol (o almeno moderazione), cioè i ben noti comandamenti di una vita sana, sono anche i più semplici ed efficaci strumenti di difesa contro lo stress.
Si può fare un check-up dello stress? McEwen sostiene di sì, suggerendo vari indici di sovraccarico allostatico: la quantità di grasso accumulato intorno alla vita; i livelli notturni di cortisolo e adrenalina nelle urine; la pressione sanguigna, sistolica e diastolica; le citokine presenti nel sangue (indice di infiammazioni); la variabilità del battito cardiaco (quando la variabilità è bassa, il sistema cardiovascolare è più vulnerabile e tende ad accumulare più placca sanguigna). Una volta determinata la presenza di alti indici fisiologici di stress, il primo passo da compiere è adottare uno stile di vita più sano. Ma non è tutto: «Vale la pena di prendere in considerazione psicoterapia e psicofarmaci per ridurre depressione, ansietà e ostilità che giocano un ruolo importante nel trasformare l'allostasi in sovraccarico allostatico», suggerisce McEwen. E lancia una provocazione: forse domani l'ideale medico di famiglia sarà uno psicologo e non più un internista o generalista.
La Stampa Tuttolibri 15/3/2003
Per la filosofia del `900 la bussola ermeneutica in un mare di correnti
La storia del secolo di Fornero e Tassinari mette al centro Nietzsche e Heidegger, ripercorre marxismo e scienze sociali teologia e bioetica, non fa scelte militanti

IN un'opera di grande rigore e chiarezza espositiva Fornero e Tassinari si sono assunti l'immenso onere di esporre i lineamenti del pensiero novecentesco. E l'inizio è in qualche modo una sorpresa. Può stupire infatti che una storia della filosofia del Novecento incominci con Friedrich Nietzsche, sia pure inteso come una sorta di vestibolo e di spartiacque a cavallo dei secoli. Ma si tratta in realtà di un passo del tutto giustificato: la destinazione e l'efficacia del pensiero di Nietzsche appartengono quasi per intero al Novecento, secolo che egli ebbe appena il tempo di scorgere dalle tenebre della follia. Ma non si tratta solo di questo: l'andamento del pensiero di Nietzsche infatti consente fra l'altro di trovare per così dire un ancoraggio nel grande caos del secolo appena passato. Esso induce infatti ad accordarsi - non senza che ciò possa sollevare perplessità e obiezioni comunque feconde - circa la cifra comune del pensiero novecentesco, che potrebbe racchiudersi (anche se i due autori non lo dicono esplicitamente) nell'ermeneutica. Che cosa fa infatti il superuomo nietzschiano, se non vivere in modo ermeneutico, sostituendo al vincolo dell'oggettività (venuta meno dopo il nichilismo) la vertigine dell'interpretazione? Incominciare con Nietzsche significa dunque anche scegliere una chiave di lettura del Novecento che rechi al proprio centro il segno dell'interpretazione, senza con ciò nulla togliere all'autonomia delle singole prospettive che in questo secolo vengono successivamente a proporsi. A questo proposito, non è difficile intendere che affiora nel lavoro di Fornero e Tassinari il debito nei confronti di un modello interpretativo derivato dalla Storia della filosofia di Nicola Abbagnano, secondo il quale ogni autore detiene, nel quadro dello sviluppo del pensiero, una propria peculiare autonomia. Si tratta tuttavia di un modello che, nonostante il suo vasto e anche giustificato successo, suscita ora alcune perplessità: da questo punto di vista infatti non sembra risultare chiaramente se la storia della filosofia sia una storia liberale (e in questo senso una storia libera, in cui ogni individuo può esprimere al meglio il proprio sé pensante), oppure una storia dell'arbitrarietà, una vicenda nella quale ognuno dice ciò che vuole, in ultima analisi insomma una vicenda umana ed espressiva che - non si capisce bene come - ha tuttavia a che fare con un'altra vicenda: quella della verità. E' questo il motivo, ritengo, per cui i due autori di Le filosofie del Novecento sono intervenuti assai opportunamente su questo schema storiografico. A ragione, cioè, questo libro accantona lo schema rigidamente monografico nell'illustrare lo sviluppo del pensiero, optando per un quadro più complesso e ampiamente condivisibile, dove al semplice succedersi delle singole figure si sostituisce quello delle correnti filosofiche. Tale scelta si rivela da ultimo felice, poiché rende possibile compendiare, per così dire, necessità e libertà. Giacché, ovviamente, se gli individui si suppongono liberi, non si può invece dire la stessa cosa dei pensieri, i quali non saranno obbligati, ma certamente condizionati dalla rete concettuale comune che è sottintesa al loro sviluppo e al loro assetto. E' proprio dunque questo approccio, innanzitutto tematico e solo secondariamente monografico, a salvaguardare il rigore del pensiero filosofico senza pregiudicare l'autonomia delle diverse prospettive. Per riprendere una metafora del grande studioso tedesco Dieter Henrich, nel consultare questo ricchissimo volume viene allora in mente l'idea che sia necessario guardare alla storia del pensiero, più che come a uno sviluppo continuo secondo un modello diacronico, come a una costellazione derivante dall'esplosione d'una supernova. E proprio come una costellazione che si espande intorno ad alcuni punti di riferimento centrali è costruito infatti il libro. Alcune filosofie vi fanno, per così dire, da elementi strutturali. Oltre a Nietzsche, Heidegger (cui sono dedicati addirittura due diversi capitoli), costituisce per esempio un autore di significato assolutamente centrale. Ma un notevole peso storico viene attribuito anche al marxismo. Decisamente meritevole è poi il fatto che un ampio spazio venga attribuito al pensiero teologico, sia di area protestante sia di area cattolica - scelta lodevole, in particolare nell'ambito di una cultura come la nostra che ha per lo più teso a fare della riflessione teologica quasi un «affare privato» dei credenti, e non un patrimonio semantico e metaforico che appartiene alla cultura in generale indipendentemente dalle scelte religiose dei singoli. Con ciò, si può aggiungere che anche il testo di Fornero e Tassinari, che sembrerebbe volersi tenere equidistante nei confronti delle scelte militanti prese in considerazione, in realtà e inevitabilmente è partecipe del travaglio concettuale che espone e illustra. Infatti per quanto il panorama offerto sia esaustivo e per quanto ampia sia la considerazione fornita per esempio alle scienze sociali e all'epistemologia, risulta piuttosto evidente almeno una (a mio avviso legittima) propensione per la tradizione continentale rispetto a quella analitica anglosassone. Nella grande diatriba tra analitici e continentali che ha agitato il secolo XX, questo libro sembra cioè prendere infine posizione per il secondo dei due partiti, inducendoci a pensare che il primo tende a confluire nuovamente nel main stream della tradizione maggiore dopo essersene distaccato a partire dall'insegnamento di Ludwig Wittgenstein. Ciò però non fa che confermare un assunto che testimonia della vitalità della tradizione filosofica: i concetti della metafisica possono essere ancora messi utilmente a frutto anche nel confronto con contesti rinnovati. Lo attesta da ultimo anche il ricco capitolo dedicato a «Etica e bioetica», laddove s'affaccia energicamente, per esempio, il venerando rigore del pensiero aristotelico.
Giovanni Fornero, Salvatore Tassinari, Le filosofie del Novecento, Bruno Mondatori, pp.1588, € 50
La Stampa Tuttolibri 15/3/2003
Scienza e tecnica, il mezzo è un fine
UNA «VOLONTÀ DI POTENZA» PER CUI IL FARE PREDOMINA SUL CONOSCERE, L´UTILITÀ CONTA PIÙ DELL´ETICA, LA POLITICA È SVUOTATA DI SENSO: LE ANALISI DI BOURDIEU E SEVERINO
Lelio Demichelis

SCIENTIA est potentia, diceva Francesco Bacone partecipando, nel Seicento alla fondazione della nuova scienza dei tempi moderni. Una scienza diversa da quella degli antichi. Chi la possiede ha potere, chi la usa cresce in potere.
Ma qual è il rapporto delle nostre società con la scienza? Le riconosciamo questo "potere", oppure crediamo ancora che serva solo a "svelare" il mondo, a "cercare" la verità delle cose? E oggi è davvero libera la scienza - o non è forse piegata in larga misura a logiche di profitto per pochi, piuttosto che a logiche disinteressate di bene collettivo? Ci può essere ricerca libera e libera scienza se cresce il connubio tra scienza e impresa? La scienza moderna si propone infatti come obiettivo non tanto la "conoscenza" ma il "fare", l'utilità (l'utilitarismo) dell'applicazione scientifica. Sostituendosi a Dio, ma anche assecondandone (come scritto in Genesi) il progetto di dominazione sulla natura. Come Bacone - e l'utopia di un mondo in costante progresso, dominato dalla scienza e dalla conquista tecnologica del mondo naturale. Senza limiti la scienza, senza etica, perché la scienza oggi spesso (sempre più?) sembra ripudiare l'etica e la responsabilità, viste non come valori ma solo come violazioni della propria libertà.
La scienza, certo. E la tecnica? Cosa le unisce e cosa le divide? Due libri, apparentemente lontani tra loro, portano a riflettere su queste due realtà - scienza e tecnica appunto - in cui siamo immersi quotidianamente ma sulle quali sempre meno riflettiamo.
Di Pierre Bourdieu - filosofo di formazione e sociologo d'elezione, uno dei maggiori e più influenti intellettuali francesi contemporanei, morto circa un anno fa - Il mestiere di scienziato è l'ultima opera pubblicata in vita dall'autore e raccoglie i materiali dell'ultimo corso tenuto da Bourdieu al Collège de France. Un libro di sociologia della scienza, un confronto con i vari indirizzi che in materia si sono dispiegati negli ultimi decenni. Una scienza - secondo Bourdieu - che aveva conquistato una autonomia forte «nei confronti del potere religioso, politico, economico e, in parte almeno, nei confronti delle burocrazie dello Stato», ma che oggi vede questa autonomia molto indebolita, ormai sottomessa «agli interessi economici e alle seduzioni mediatiche» della società contemporanea. Scienza o piuttosto tecnica? Dove risiede oggi l'essenza (la potenza) del potere? Sono ancora le ideologie, le fedi, o che altro a definire regole e obiettivi delle nostre società? O non è piuttosto la tecnica a pre-dominare su tutto e su tutti, organizzando le società secondo la sua inesauribile e incontenibile "volontà di potenza"? Una volontà che però fatichiamo a comprendere e a riconoscere, educati come siamo a rimuoverla? Scienza, economia, religione, politica, servendosi della tecnica come di un "mezzo", non si accorgono che essa è diventata ormai un "fine", il "fine" di se stessa e di tutto ciò che crede di usarla come un semplice "mezzo". Tutto "funziona" in nome della tecnica e grazie alla tecnica. Scienza, economia (tecnica come innovazione), religione (tecniche mediatiche), politica (marketing e ideologia): usano la tecnica (credono, si illudono di usare la tecnica) per fini di potere, ma in realtà ne accrescono costantemente il potere (ne sono usati), perché non sono loro che definiscono obiettivi e strategie ma è la tecnica, ormai autoreferenziale, a dire strategie e a dettare modelli di comportamento. La scienza era potenza, oggi lo è soprattutto la tecnica (di cui la scienza è divenuta la "guida" e la premessa), autentico pre-potere che usa e sub-ordina a sé ogni altro potere. Ecco allora un'altra magistrale lezione di Emanuele Severino - tra i massimi filosofi italiani, docente di Filosofia teoretica a Venezia - in Tecnica e architettura, opera in cui (per volere e intelligenza soprattutto dell'Istituto nazionale di Architettura - SezioneTrentino), si prova a pensare l'architettura (ma non solo, l'opera è vivamente consigliata a tutti coloro che vogliono capire come è cambiato il mondo) nell'età del trionfo unilaterale della tecnica, ricorrendo appunto all'aiuto della filosofia - di un filosofo come Severino, autore di opere fondamentali sul problema della tecnica. Progetto encomiabile e coraggioso. Perché appunto la tecnica non è più un "mezzo" per fare - come erroneamente crede anche l'architettura - ma un "fine" uno "scopo". Per cui, ad esempio, scrive Severino, non è più «la volontà capitalistica di incrementare il profitto a servirsi della tecnica, ma è la tecnica a servirsi di questa volontà per incrementare all'infinito la propria potenza». E' l'uomo, quindi, a farsi mezzo «con cui è fatta la volontà della tecnica». Un rovesciamento tra mezzi e fini che contagia e corrompe ogni cosa, facendo trionfare il nichilismo di noi Occidente, rendendoci insensibili, ciechi di fronte alla logica di questa "volontà di potenza". Come uscirne? Come riconoscere allora e combattere questa "volontà di potenza" della tecnica che ci svuota di ogni "senso"?
Pierre Bourdieu, Il mestiere di scienziato, Feltrinelli, pp. 147,€ 20
Emanuele Severino Tecnica e architettura, Cortina, pp. 125, € 8,50

La CEI sulle neuroscienze

Avvenire Agorà 15.3.03
Neuroscienze, è l'anima che fa paura
Andrea Lavazza

E se Christof Koch credesse nell'esistenza dell'anima? Si potrebbe chiederglielo via e-mail: il suo indirizzo è bene in evidenza all'inizio dell'articolo, scritto con Francis Crick, che tanto scalpore ha fatto in Gran Bretagna e, di rimbalzo, in Italia. Il punto è che molti degli intervenuti al dibattito - «la scienza ha dimostrato che l'anima non c'è?» -, il breve testo pubblicato sul numero 2 di «Nature Neuroscience» (pp.119-126) non l'hanno nemmeno visto. Eppure si trova anche su Internet, sebbene a pagamento. Si sarebbe altrimenti appurato che la parola «Soul» non compare mai. E non si trova nemmeno «Mind» (mente). La parola chiave è invece «Consciousness» (coscienza, consapevolezza). E nulla nell'argomentazione ha carattere apodittico. Anzi, si precisa che si tratta di un «framework for consciousness», cioè «non una dettagliata ipotesi, ma un punto di vista per aggredire un problema scientifico, che spesso suggerisce ipotesi verificabili». Lo scopo è riorganizzare una serie di acquisizioni già note in una «struttura» coerente alla ricerca dei correlati neurali della coscienza. Ovvero, quelle aree del cervello il cui funzionamento dà vita alle esperienze fenomeniche (i «qualia»); o, ancora più semplicemente, alla «sensazione» di rosso quando si guarda una mela. Alla fine dei loro dieci punti l'anziano premio Nobel Crick e il giovane brillantissimo tedesco Koch sono ben lungi dal gridare «eureka». Indicano, tra mille forse e potrebbe, un percorso di ricerca per il futuro. Niente di rivoluzionario, quindi, per le neuroscienze, né per gli stessi autori. Certo si può dissentire dall'approccio di Crick e Koch, i quali sono inclini a un riduzionismo ben diffuso nella disciplina. All'anima, come detto, nessun accenno. E giustamente. Per definizione essa sta al di fuori della scienza e sarebbe assurdo quanto scorretto cercare di dimostrarne per via sperimentale l'assenza come pure l'esistenza. Forse ha paura dell'anima chi dall'inizio ha distorto la notizia, al punto da arruolare i due ignari e innocenti studiosi in una surreale crociata.
Il Messaggero 15.3.03
L'isteria secondo Juliet Mitchell
Donatella Trotta

«L’isteria? Non è affatto scomparsa dal mondo occidentale del ventesimo secolo; piuttosto, questo mondo manifesta un’isteria nascosta. Non necessariamente femminile, bensì maschile», dice Juliet Mitchell riportando subito un fenomeno classico, definito «utero vagabondo» nell’antica Grecia, «seduzione del diavolo» nel Medioevo e «soffocamento della madre» nel XVII secolo, all’attualità. Un presente minato dalle guerre, percorso da ingenti movimenti migratori, costellato di catastrofi naturali, attentati e violenza, sessuale e morale, dove l’isteria prende secondo Mitchell altri nomi: trauma, attacchi di panico, anoressia, disturbi della personalità. Con una possibile via d’uscita: «La valorizzazione della relazione di fratellanza, biologica ma anche sociale. Un modello, uno sguardo di lateralità omesso nelle teorie delle scienze sociali, psicologiche e politiche, completamente dominate da un paradigma verticale, secondo lo schema discendente o ascendente madre/padre-figlio, o figlio-genitori».
Juliet Mitchell è la grande madre del femminismo psicoanalitico contemporaneo in ambito anglosassone: colei che negli anni ’70, riabilitando l’opera freudiana, ha segnato il passaggio del movimento di liberazione della donna verso una teoria della differenza di genere. Neozelandese di origine, psicoanalista della British Psycho-Analytical Society e dell’Ipa, docente di psicoanalisi e studi di genere e società all’università di Cambridge, dove dirige il dipartimento di Scienze politiche e sociali, è una donna solare e comunicativa che ha firmato testi di culto come La condizione della donna, Psicoanalisi e femminismo, La rivoluzione più lunga. È di passaggio per Napoli in compagnia del marito antropologo, perché dopo la rivisitazione riveduta e corretta dell’isteria nel suo ultimo libro Mad Men and Medusas. Reclaiming Hysteria (2000), di imminente uscita in traduzione italiana per Raffaello Cortina editore, il prossimo ottobre la studiosa pubblicherà in Inghilterra un nuovo saggio, Fratelli. Sesso, violenza e genere, le cui conclusioni sono state anticipate ieri in un incontro presso l’Istituto per gli Studi filosofici, promosso dallo psichiatra e psicoanalista freudiano Franco Scalzone, con la collaborazione della collega Gemma Zontini.
«Quando i soldati della prima guerra mondiale hanno iniziato a soffrire di sintomi isterici - racconta Mitchell -, dimostrando l’esistenza di un’isteria maschile già individuata da Charcot a Parigi a metà Ottocento e ribadita da Freud nel 1886, la diagnosi isterica scompare, e nelle attuali diagnosi non esiste più». Usando studi sui soldati, ma anche la storia di Don Giovanni, Mitchell svela così la storia segreta dell’uomo isterico, liberando le donne da un gravoso sterotipo. «Ma la pratica clinica e la teoria psicoanalitica disattendono l’importanza dei fratelli e delle sorelle nello sviluppo di questa sintomatologia, una presenza relazionale responsabile anche della genesi del genere, ben oltre il complesso edipico», aggiunge. In ambito creativo, letterario o cinematografico, invece, la relazione di fratellanza ha descrizioni convincenti: «Penso al film di Visconti ”Rocco e i suoi fratelli” - spiega Mitchell - che antropomorfizza, per usare un concetto di Visconti, un punto di transizione tra una società basata su codici di socialità noti (il clan dei fratelli in Sicilia) ad un’altra da acquisire: la cultura individualistica della famiglia mononucleare a Milano».
Di più. Esiste anche un nesso significativo tra aumento della follia e aumento dell’emigrazione per ragioni di lavoro, studiato dall’antropologa con competenze psicoanalitiche Ann Parson: «Ma anche nel suo confronto tra la schizofrenia di emigranti italiani in una clinica di Boston e la stessa patologia in un ospedale napoletano manca in Parson la chiave fondamentale di lettura della fratellanza», osserva Mitchell. E cosa pensa della distruzione in atto della relazione materna, minacciata tra l’altro dalle biotecnologie, come ha di recente denunciato Luisa Muraro? La maternità non è forse la vera questione irrisolta della condizione femminile? «Le biotecnologie non sono le sole responsabili di questa situazione: basti pensare che anche nell’Africa subsahariana e in India la natalità è inversamente proporzionale al reddito da lavoro femminile». Condivide il Contrattacco alle donne analizzato da Susan Faludi? «La storia del femminismo è sempre stata storia dell’antifemminismo. In un saggio che ho curato nel ’96, Chi ha paura del femminismo?, si indaga proprio questo antagonismo interno al movimento stesso delle donne: basti pensare alle posizioni di Camille Paglia. Oggi è difficile trovare delle giovani che dichiarino di essere femministe. Ma tutte credono nella parità». E come vede allora le nuove frontiere del cyberfemminismo, con la ridefinizione del genere e dell’identità? «Già prima delle nuove tecnologie esistevano generi di transizione: basti pensare alla mitologia indiana, o all’antica Grecia coi suoi satiri e le Menadi. Oggi c’è in giro molta sessualità, che è cosa diversa dalla riproduzione, a dispetto della realtà virtuale comunque legata a due genitori, quindi alla differenza di genere anche nel caso di figli in provetta».
il manifesto 15.3.03
La melanconia e la sua maschera perversa
ALBERTO LUCHETTI

Nessun legame sembrerebbe unire melanconia e perversione, l'inibizione di ogni piacere dalla ricerca compulsiva di una fonte di godimento. Eppure, entrambe queste patologie rivelano una difficoltà di amare: nella melanconia è in gioco il ritiro di ogni investimento libidico, nella perversione sembra realizzarsi una forma erotica dell'odio. L'altro è comunque relegato a una dimensione impersonale, disanimata e fuori dal tempo. Se il perverso allontana la realtà perché troppo angosciosa, il melanconico soffre per una realtà che non lo contempla. Il risultato è comunque un ingabbiamento di se stessi, che corrisponde alla percezione di qualcosa di morto dentro di sé
L'accostamento tra melanconia e perversione - tema della giornata di studio organizzata dall'Associazione «Squiggle» e introdotta da Valdimiro Pellicanò, che riunisce oggi a Pisa numerosi esponenti della Società psicoanalitica italiana - può meravigliare, a meno che non si assumano i due termini in senso molto lato, se se ne considerano le abituali descrizioni psicopatologiche. «La melanconia», scriveva Freud, che finì col ritenerla una nevrosi narcisistica, «è psichicamente caratterizzata da un profondo e doloroso scoramento, da un venir meno dell'interesse per il mondo esterno, dalla perdita della capacità di amare, dall'inibizione di fronte a qualsiasi attività e da un avvilimento del sentimento di sé che si esprime in autorimproveri e autoingiurie e culmina nell'attesa delirante di una punizione». Non diversamente, anche l'attuale nosografia psichiatrica, che considera la melanconia come possibile complicazione di un episodio depressivo, ne individua le manifestazioni salienti in un'indifferenza per gli stimoli fino a quel momento piacevoli, in un marcato rallentamento motorio e in una destrutturazione della temporalità nella quale il passato occlude il presente e preclude un futuro, in disturbi dell'alimentazione e del sonno, in sentimenti di colpa e di svalutazione di sé eccessivi e inappropriati, in idee di morte o suicidarie. Cosa potrebbe essere più lontano da questa condizione melanconica se non l'attiva e talvolta compulsiva e impulsiva ricerca del piacere da parte di un perverso? Laddove si intenda, appunto, la perversione in senso stretto, ossia come l'insieme di comportamenti sessuali contraddistinti da anomalie nel raggiungimento del piacere, deviato rispetto a una qualsiasi norma, così come rispetto alle finalità biologiche. Un piacere che è legato alla variazione dell'oggetto sessuale e delle modalità del rapporto, ma soprattutto è rigidamente vincolato e subordinato ad alcune condizioni estrinseche particolari, che possono andare dal feticismo al travestitismo, dal voyeurismo all'esibizionismo, al sadismo, al masochismo: atteggiamenti che realizzano concretamente alcune scene fondamentali intorno a cui è organizzata la vita fantasmatica della persona. Già a un primo sguardo, tuttavia, alcune pratiche perverse rivelano una difficoltà ad amare analoga a quella del melanconico, se non addirittura una forma erotica dell'odio, come ha sostenuto Robert Stoller nel suo Perversion: The erotic form of hatred (Pantheon Books, New York, 1975). Ma l'accostamento tra melanconia e perversione appare altrettanto sorprendente se si pensa al divario che separa la monotonia iconografica della prima dalla poliedricità e variabilità delle rappresentazioni delle attività e degli scenari perversi, refrattari a ogni tentativo di repertoriarli esaustivamente. La melanconia è tradizionalmente rappresentata - prima e dopo la celebre incisione di Dürer - nelle vesti di una donna immobile, seduta e in qualche caso dormiente, con la testa reclinata appoggiata a una mano talvolta chiusa a pugno, dal volto indifferente o cupo e rabbioso, e dallo sguardo fisso davanti a sé, ma incurante di ciò che le sta intorno, assorta in pensieri e fantasmi, sospesa tra riflessione, dolore e smarrita disperazione. Mentre le perversioni sono affidate a rappresentazioni cangianti ed estremamente varie, sia nella letteratura classica come nei molteplici riferimenti di cui abbondano racconti e film d'oggi. E questo nonostante la ripetitività, fin nei minuti particolari, degli scenari prediletti dai personaggi - tanto eterosessuali che omosessuali - nella loro ricerca imperativa e spasmodica di forme di eccitamento e di piacere che non tollerano deviazioni e dilazioni. Benché abbiano spesso il sapore di una combinatoria di elementi fondamentali, queste variazioni riflettono la singolarità della vita fantasmatica dell'essere umano che, a partire dalla «perversione polimorfa» (come la definì Freud) della sessualità infantile e pulsionale, sempre si organizza in una drammaturgia idiosincrasica, talvolta particolarmente elaborata. Del resto, proprio per la difficoltà di stabilire tanto una norma quanto i confini con la patologia, c'è chi - come Joyce McDougall (in Eros. Le deviazioni del desiderio, Cortina, 1997) - preferisce parlare di «neosessualità», cioè di una reinvenzione (obbligata) dell'atto e delle relazioni sessuali, limitando il termine perversione solo ai rapporti imposti a un partner non consenziente. In realtà, mentre a tutta prima il rapporto tra melanconia e perversione sembrerebbe dover essere più di opposizione che di congiunzione, un secondo sguardo rivela una più complessa articolazione, alla quale sembrano alludere i titoli delle relazioni che Patrizia Cupelloni, Anna Nicolò e Lucio Russo terranno oggi a Pisa.
Per cercare di evidenziare alcuni snodi possiamo partire proprio dalla famosa incisione di Dürer che, come indicano Klibansky, Panofsky e Saxl nel loro celebre saggio su Saturno e la melanconia (Einaudi), costituisce un vero e proprio «autoritratto spirituale» del pittore. Nel solco della teoria di Marsilio Ficino, Dürer infatti unisce pittoricamente nel personaggio centrale due figure, la Geometria e la Melanconia, la raffigurazione dell'ars geometrica con quella di un homo melanconicus, «l'una che incarna l'ideale allegorizzato di una facoltà mentale creativa, l'altra che è l'immagine terrificante di una condizione di spirito distruttiva», elevando la figura allegorica della Melanconia al livello di un simbolo che combina l'esercizio intellettuale con la capacità di sofferenza dell'anima umana. Certo, la scelta della Geometria tra le sette arti liberali, come indicano i tre studiosi, dipende dal fatto che per il pittore essa era la base di ogni scienza e filosofia, nonché dal legame che la tradizione aveva stabilito tra essa e Saturno, il pianeta che nelle convinzioni dell'epoca poteva favorire sia il sapere che la follia. Tuttavia la Geometria è scienza della misura, arte del misurare: mostrando come le potenzialità creative dell'essere umano attingano alla stessa fonte dell'impotenza e dello sgomento di fronte alla vanità della vita, Dürer sembra segnalare questa comune sorgente nella sua natura di «animale misurante», perché parlante. Proprio la misura è un aspetto centrale sia nella melanconia che nella perversione. Mentre quest'ultima è intrinsecamente sovversiva - poiché tenta di spostare il limite di ogni norma, poiché essa è negazione (ma per ciò stesso anche riaffermazione) di ogni misura e dunque di ogni differenza nell'ambito della sessualità - la melanconia assume come propria misura un ideale assoluto, una dismisura rispetto alla quale può identificarsi soltanto con il niente: «Io non sono niente» è infatti l'emblema del discorso melanconico. Perciò Freud affermava che nella melanconia la coscienza del soggetto è accaparrata dall'ideale, che parla in nome di Io: potremmo anzi dire che Io può essere e parlare solo lasciandosi irrigidire ed esautorare da questo ideale, che con la sua ombra lo riduce a un niente; al tempo stesso, però, resta sempre sull'orlo dell'angoscia che si scatenerebbe dall'incrinarsi di questa fragile e alienante cornice identificatoria.
Sia melanconia che perversione finiscono dunque con il denunciare l'illusione dell'identità: di quella sessuale e sessuata, quando è in gioco la perversione, di quella derivata dall'abbaglio di ogni ego, dall'evanescenza di ogni discorso, dalla vanità di ogni attività quando è in gioco la melanconia. Dietro l'insistente inibizione melanconica e la compulsiva disinibizione perversa affiorano così angosce di frammentazione, di smembramento, di perdita dei confini del proprio corpo, di inesistenza o di irrealtà, fino a quell'angoscia di castrazione che sembra già svolgere una funzione contenitiva e organizzativa. Angosce che il melanconico può tentare di allontanare solo chiedendo all'altro di incarnare quell'ideale tirannico che lo abita, mentre il perverso le rifugge ricercando attivamente un sentimento di esistenza, vitalità e stabilità nell'eccitamento che unicamente i suoi scenari, rigidi e ripetitivi, possono assicurargli. In entrambi i casi, l'altro resta fondamentalmente in una dimensione impersonale e disanimata, nonché al di fuori del fluire del tempo.
Di qui anche il particolare rapporto con la realtà esterna - quella delle relazioni umane con tutte le significazioni e gli affetti che le animano: nella perversione il rapporto con la realtà è mantenuto solo parzialmente, disconoscendo ciò che può suscitare angoscia, ma a prezzo di «una lacerazione che non si cicatrizzerà mai più e che anzi si approfondirà col passare del tempo [...] nucleo di una scissione dell'Io», come notava Freud rendendosi conto di come l'Io sia sfaldabile e quanto sia precaria e limitata quella sua funzione sintetica che sembrava quasi essergli connaturata, e che peraltro gli impone rimozioni più o meno radicali. Per di più questo disconoscimento del perverso, sempre incerto e di scarsa tenuta, deve necessariamente accompagnarsi a un esasperato controllo della realtà e dell'altro, ricercando disperatamente nella ripetizione dell'identico l'esclusione di ogni esperienza nuova o creativa.
Il distoglimento dalla realtà proprio della perversione, nella melanconia diventa distoglimento della realtà: il soggetto melanconico non rinnega la percezione di ciò che è inaccettabile per lui, ma rinnega la possibilità che quella realtà, in toto, lo riguardi, lo interessi. Sì, la realtà esiste, può anche essere piacevole e interessante, ma non per lui, che ne è perciò ancora più indegno. In entrambi i casi, il risultato è un ingabbiamento di se stessi che sconfina nell'immobilità, più o meno parziale. Una immobilità che, peraltro, è quella tipica - più in generale - dell'affetto depressivo e che corrisponde a qualcosa di morto dentro di sé: il melanconico lo nasconde mimandolo nel niente con cui si identifica, mentre il perverso lo confonde nell'apparente vitalità delle intense sensazioni che le sue condotte sessuali devono procurargli.
L'esistenza di questo vuoto e di questa morte (o questi morti) interni ci porta a un altro punto di articolazione tra melanconia e perversione: in entrambi i casi domina la difficoltà o l'impossibilità di separarsi da persone e rapporti vitali, di elaborare - come suol dirsi - il lutto per la loro perdita, vissuta come una insostenibile mutilazione di se stessi. Che questo valga per la melanconia, lo si sa, è uno degli apporti fondamentali di Freud quando ne ha evidenziato le somiglianze e le differenze rispetto al lutto («nel lutto non compare il disturbo del sentimento di sé»), facendo risalire questa impossibilità alle modalità narcisistiche e ambivalenti della relazione che legava il melanconico a ciò che ha perso, ossia alla essenziale funzione di mantenimento della coerenza, stabilità, continuità, integrità dell'Io che essa svolgeva e alla coesistenza in essa di atteggiamenti e sentimenti opposti, soprattutto amore e odio. Perciò la sua perdita impone all'Io del melanconico di incorporare l'oggetto perduto - non potendo né investirlo né disinvestirlo - per mantenerlo dentro di sé in una sorta di limbo: né morto né vivo in attesa di poter infine sciogliere questo legame narcisistico per allacciarlo con un altro. Ma ciò fa sì che l'odio e la distruttività scatenati ed esasperati dalla perdita e dai rischi che ne derivano ricadano pesantemente sull'Io, che ha incluso in sé l'altro perduto.
L'intollerabilità della perdita e l'impossibilità del lutto valgono anche per il soggetto perverso, che poiché ha bisogno di regolamentare e parcellizzare rigidamente la sua intimità con l'altro, ricerca una situazione impersonale con un complice che, per quanto idoleggiato, nell'amore fisico viene comunque privato della sua autonomia, soggetto a controllo, reso inerte e inanimato, perché nell'anonimia e nell'equivalenza del partner è negata a priori la possibilità di una separazione, ciò che consente di stabilizzare il fragile senso di sé. Quando si confondono gli individui, quando si negano generi e generazioni, quando si mescolano oggetti, zone e fonti del piacere si resta nell'indifferenziato e in un registro fusionale, dove non c'è spazio per una separazione né per la distruttività che ne conseguirebbe.
C'è tuttavia un altro profondo legame tra melanconia e perversione. Dopo la scoperta dell'inconscio e della rimozione, è in particolare attraverso melanconia e perversione che Freud scopre come l'Io stesso (già ormai ridotto ad essere solo una parte dell'apparato psichico, anche se cerca di spacciarsi per la sua totalità) sia «pieno di strappi e fenditure», che costituiscono potenziali linee di sfaldatura, come per un cristallo. Eppure proprio a questa scindibilità è legata la possibilità di essere e soggettivarsi (grazie al linguaggio), che per l'Io equivale poi alla possibilità, per usare ancora parole freudiane, di poter «prendere come oggetto sé medesimo, trattarsi come altri oggetti, osservarsi, criticarsi e fare di sé stesso Dio sa quante altre cose ancora», peraltro cose talvolta terribili ed orribili.
Effettivamente con Melencolia I, al di là della sovradeterminazione e della stratificazione dei simboli e delle allegorie, Dürer ha avuto l'audacia, come scrivono Klibansky, Panofsky e Saxl, di sollevare «la pesantezza animale di un temperamento triste, terrestre» all'altezza di una tragedia tipicamente umana, sottolineata dal confronto del dolore consapevole di chi lotta con i tormenti del pensiero, con la sofferenza inconsapevole del cane e la felice innocenza del putto affaccendato in una attività senza pensiero. Ma tutto ciò perché Dürer intende la melanconia come cifra e prezzo di una biologica artificialità della natura umana che, a paragone dell'animale e dell'infans, con la misura introdotta dal linguaggio crea lo smisurato, il sessuale che può svuotare, vanificare l'umano stesso. Di questo vuoto e questo smisurato, la perversione sembra poter essere - come nota Manuela Fraire nel suo saggio Travestitismo: un abito della melanconia - la maschera o l'abito, talvolta fin troppo trasparenti.

venerdì 14 marzo 2003

Galileo Scaffale 14.3.03
Totale assenza di comunicazione
Francesca Garofoli

Claudio Morici
Matti slegati
Stampa Alternativa, 2003
pp. 126, euro 6,20

Nel 1975 erano "Matti da slegare". Oggi sono "Matti slegati". In mezzo, tra il film documentario di Marco Bellocchio e il romanzo di Claudio Morici, 25 anni di riforma psichiatrica. Cosa è veramente cambiato con l'attuazione della legge 180, promossa da Franco Basaglia nel 1978? Sono ancora molte le questioni rimaste irrisolte e già si parla di un'ulteriore riforma, proposta dall'On. Alessandro Cè della Lega Nord e dall'On. Maria Burani Procaccini di Forza Italia, attualmente all'esame della Commissione Parlamentare. Nella teoria, dopo aver chiuso l'ultimo manicomio, nel giugno 2000, li si vorrebbe riaprire sotto il falso nome di "presidi residenziali". Nei fatti, le antiche strutture di prigionia sono state solo sostituite con dei mini-manicomi, chiamati case famiglia, comunità alloggio e Cta. Così, dalla casa manicomiale di Colorno, nei pressi di Parma, ritratta da Bellocchio, ci spostiamo nella comunità alloggio, alle porte di Roma, descritta da Claudio Morici. Niente sbarre alle finestre, per questa prigione moderna, ma manca ancora l'integrazione del malato psichiatrico a cui mirava la riforma Basaglia. Fuori da questo ameno eremo psichiatrico c'è solo il deserto: "Intorno alla Comunità non c'è niente. D'estate questo niente va in fiamme e bisogna chiamare i pompieri. È l'evento più avvincente della stagione" (p.5).
L'autore - che vanta un'esperienza pluriennale di assistenza psicologica ai malati mentali - ha scelto la via del romanzo, invece del saggio, per denunciare le lacune di un sistema che ha solo sostituito alla coercizione del malato la sua ghettizzazione. Sullo sfondo i guasti di una riforma che ha dato vita a forme improprie e illecite di assistenzialismo: cartelle-fantasma, pazienti-inesistenti, tangenti e finanziamenti dirottati a ben altro scopo da quello destinatogli. È lo spunto per costruire un giallo, lungo cui si muove, con un ritmo onirico e folle, la vita di tutti i giorni di una comunità alloggio. Andrea, il protagonista, non ha amici, mangia surgelati, colleziona video porno e s'improvvisa, da infermiere, agente segreto. Che differenza c'è tra la sua lucida consapevolezza e la follia dei suoi pazienti? Mentre Andrea scrive un libro-denuncia, il paranoico Crisantemo scrive lettere-denuncia al Papa. La differenza tra i due è data solo da quell'esile margine che si chiama realtà. E alla fine di tutto, forse, non resta neanche quello. Lo stile, rapido e fulminante come un piano-sequenza cinematografico, spiazza il lettore con inaspettate incursioni nel delirio. L'unica certezza a cui appellarsi è quella che separa il dentro dal fuori: tra i due mondi, c'è solo il silenzio, la totale assenza di comunicazione. E dal virtuale della follia al virtuale telematico, sul sito www.mattislegati.com è possibile trovare un inusuale accompagnamento alla lettura.
UN NUOVO CAPITOLO DEL MISTERO DEI DUE OMICIDI SENZA MOVENTE A PADOVA
Profeta: ho ucciso per ordine di una voce
La confessione del serial killer, oggi il processo d´Appello
La Stampa14/3/2003

MILANO UNA brava persona con una bomba atomica nella testa». Non sono le metafore che mancano all´avvocato vicentino Cesare Dal Maso, difensore di Michele Profeta, il serial killer padovano condannato all´ergastolo per due omicidi senza movente. Oggi a Venezia inizia il processo d´appello. C´è solo una cosa da stabilire, che di prove contro Profeta ce ne sono anche troppe. C´è da stabilire se Michele Profeta era capace di intendere e di volere e allora vanno bene l´ergastolo e la cella singola nel carcere di Voghera. Oppure se non lo era, c´è l´altra strada, quella che porta di filato al manicomio giudiziario. «Non c´è nient´altro nei miei motivi d´appello, solo questa richiesta di sottoporre il mio cliente a una perizia psichiatrica», spiega il legale, 19 pagine a computer che porterà oggi nell´aula bunker di Venezia. Diciannove pagine e due allegati. Il primo è una specie di confessione scritta di suo pugno da Michele Profeta. Due lettere inviate al suo difensore per posta, un altro messaggio consegnato a mano, alcuni fogli, fitti di una calligrafia minuta e dei suoi deliri. Dove Michele Profeta scrive: «Ho ucciso, me lo ordinò una voce amica. Mi ha costretto a farlo. Dovevo sacrificare due vittime innocenti. Una al Dio del bene l´altra al Dio del male». La voce amica sarebbe quella di una lontana parente, di una zia rimasta in Sicilia - «Zia Antonietta, l´unica che mi abbia mai aiutato», scrive lui dal carcere - dove Profeta è nato 55 anni fa. Ma la «confessione» non finisce qui. Scrive ancora in un altro foglio: «Mi sentivo un sacerdote, credevo di essere nelle mani di Dio e invece ero nelle mani del maligno». Sono quelle «voci» che lo portano ad uccidere, a sparare nel mucchio con la vecchia Ivery and Johnson che gli trovano a casa, prova provata del duplice omicidio, del tassista Pierpaolo Lissandron ammazzato in centro a Padova il 29 gennaio del 2001 e quello dell´immobiliarista Walter Boscolo, proiettili in testa anche per lui pochi giorni dopo, il 10 febbraio. Nei suoi scritti Michele Profeta ricostruisce i due omicidi nei dettagli. Prima quello del tassista: «Quando sentii la voce della mia madrina trasalii, non me lo aspettavo... La voce mi disse che quella era la vittima sacrificale per il Dio del bene e dovevo colpirla alla testa per non farla soffrire. Ho ubbidito e subito dopo l´ho scrollato, era morto». Poi quello dell´immobiliarista, anche lui scelto a caso, dopo una telefonata a un´agenzia in cui Profeta chiede di poter vedere un appartamento: «La voce mi disse nuovamente che era lui e che questa volta sarebbe stato sacrificato al Dio del male. Anche questa volta è stato come se fossi al di fuori e mi oservassi in uno specchio. Ho avuto la sensazione, quando mi sono allontanato, che la mia immagine fossa rimasta ferma nello specchio». Il Bene e il male. Zia Antonietta. Gli omicidi come unica possibilità di salvezza dopo una vita balorda, due convivenze con due donne che non sapevano l´una dell´altra, il lavoro di immobiliarista finito a rotoli, la prima volta per colpa di una cooperativa di tassisti ai quali non aveva pagato la pubblicità, la seconda per la sua incapacità. O follia. Che prima di ammazzare, prima di fare volantinaggi porta a porta, prima di quelle lettere al Questore di Milano in cui chiedeva 12 miliardi per non uccidere più, la vita di Michele Profeta era già un calcolo di probabilità. Lo scrive lui stesso: «Andavo al casinò di Venezia, studiavo la roulette per cercare di prevedere se sarebbe uscito il rosso o il nero. Alla fine mi ero ridotto a complicati calcoli sulla sequenza delle targhe delle auto che mi passavano davanti». Solo le «voci», lo avrebbero salvato. La voce della sua «madrina»: «Mi diceva di pensare ai sacrifici che nell´antichità si facevano per ingraziarsi gli Dei, mi diceva di pensare al sacrificio di Gesù...». Un delirio mistico. Coltivato anche in cella a Voghera, dove la sua unica compagnia è la Sacra Bibbia. Visto che gli altri detenuti gli stanno alla larga. E una volta che lui si era avvicinato a Renato Vallanzasca, stesso carcere, stessa sezione ma ovviamente altra cella, il Renè della Comasina gli aveva sibilato: «Ma che vuoi?». Che in carcere lo sanno tutti che Michele Profeta non è a posto con la testa. Lo aveva capito anche il professor Vittorino Andreoli, lo psichiatra della difesa al primo processo: «Siamo di fronte a gravi disturbi della personalità». Diagnosi confermata, per ora solo sugli scritti, dal professor Giovan Battista Traverso, il nuovo consulente della difesa: «Un grave disturbo connotato da forti tratti di tipo borderline, narcisistico e paranoideo, patologia che può ben aver esposto il soggetto, dotato sì di un ego ipertrofico e grandioso, ma di un ego certamente immaturo e fragile che in condizioni di elevato stress lo hanno portato ad uno stato di vero e proprio scompenso con conseguente deragliamento psicotico commisto a tematiche di tipo mistico e religioso». Un quadro più che sufficiente per il legale, per chiedere una perizia psichiatrica e l´assoluzione per impunibilità di Michele Profeta, il serial killer di Padova che questa mattina per la prima volta sarà in aula a Venezia. Pronto a chiedere la parola e cercare di spiegare quello che ha già scritto al suo avvocato: «Sono stato io ad ammazzare due volte. Sono state quelle voci che sentivo nella mia testa, ad ordinarmelo. E io lo facevo, dopo una vita di pace e di rassegnazione, sia fatta la volontà di Dio».

IL SOLE 24 ORE DOMENICA 9.3.03
Roberta De Monticelli - Una fenomenologia della persona che rivaluta l'esperienza immediata
Passioni ed emozioni in presa diretta
di Francesca Rigotti

Si può cominciare a inquadrare questo lavoro di Roberta De Monticelli nella recente ripresa del dibattito su passione e ragione, emozioni e razionalità, vita affettiva e conoscenza. Dopo che per secoli gli dei minori degli affetti e dei sentimenti sono stati contrapposti agli dei maggiori della ragione e della logica nonché associati, i primi, alla soggettività, all’oscurità, al corpo (e al femminile) e i secondi all’oggettività, alla chiarezza, alla mente (e al maschile), si comincia oggi infatti a mettere in dubbio la validità di questa antitesi e a chiedersi se passioni e affetti non possano presentare carattere razionale e cognitivo (cfr. Il Domenicale del 4 luglio 1999, Filosofia ed emozioni, a cura di Tito Magri; e del 12 marzo 2000 per Jon Elster, Alchemies of the Mind. Rationality and emotions e Sensazioni forti. Emozioni, razionalità e dipendenza; del 9 luglio 2000 per J. Elster, Ulysses Unbound).
Ma lasciare questo libro nella cornice della discussione sul peso delle passioni e dei sentimenti nella scelta razionale sarebbe riduttivo e fuorviante. In realtà la “teoria del sentire” elaborata da Roberta De Monticelli Ë una teoria degli affetti con una connotazione forte e precisa, che vuol essere parte di una personologia, non solo, ma che tende a una teoria della conoscenza morale d’impostazione non-kantiana. L’etica del sentire respinge infatti il postulato per cui il dovere appartiene a una sfera disgiunta dal sapere e dalla conoscenza. Eppure si dichiara universalista. Come?
Individuando nel rispetto il sentimento fondatore della coscienza morale. Solo partendo dal rispetto dovuto a ogni persona come tale in quanto portatrice di dignità, dal rispetto come, scrive l’A. “soglia dell’etica”, sarà possibile sviluppare una nozione di ordine del cuore personale concreto, fondante norme universalmente obbliganti.
L’arduo percorso Ë tutto condotto all’interno dell’approccio fenomenologico, che De Monticelli illustra con l’immagine del filosofo che guarda il mondo “con occhi spalancati”, stupito della presenza delle cose e innamorato della loro verità. Viene qui adottato e presentato con toni ricchi di pathos il metodo “candido e rigoroso” di rivalutazione dell’esperienza immediata, dell’intuizione e della conoscenza diretta proprio di questa tradizione filosofica. Della fenomenologia De Monticelli cerca in ogni caso di interpretare lo spirito piuttosto che la lettera, limitando riferimenti e citazioni e non parlando della storia e dei testi, per andare direttamente alle “cose stesse”. Ma chi ha scritto un testo del genere, obietterei, non avrebbe potuto farlo a digiuno di storia e di testi. Nè lo si potrebbe leggere senza un buon armamentario di testi e di storia. Come si potrebbe parlare del rispetto nei termini in cui se ne fa senza aver letto Rousseau, Kant ed Hegel e molti altri?… comunque proprio il modo della conoscenza diretta caratteristico dell’analisi fenomenologica di cui ha bisogno, secondo l’A., lo studio delle emozioni e della vita affettiva, perchè non possiamo accontentarci di un livello modesto di definizione o discriminazione concettuale e descrittiva relativamente al mondo dell’etica. Su questo punto non possiamo non concordare, come non possiamo non fare nostre le parole anche molto dure rivolte dalla filosofa alle menti che oggi governano la politica, il mondo e i suoi conflitti, di fatto eticamente analfabete. Tanto più quando si presentano onestamente, credendo di essere nel giusto perchÈ rispondono a un’altrui volontà di male. E mentre calpestano le differenze tra il giusto e l’ingiusto affilano le armi, mentre noi ci stringiamo sgomenti ad Hans Jonas quando dice
Roberta De Monticelli, , Garzanti, Milano 2003, pagg. 316, 17,00.

SOLE 24 ORE DOMENICA 09-03-2003
Psiche - La rivista degli psicoanalisti dedica un numero ai processi della creatività scientifica e artistica Teoremi dell’immaginario Poincarè e Fermi vedevano in anticipo le soluzioni dei problemi matematici. E Einstein parlava di "varietà caotica" dell’esperienza e di una che culmina in un sistema di assiomi
di Umberto Bottazzini

Secondo Schopenhauer era il segno del genio. La capacità di cogliere la verità prima di averne la conferma. Einstein parlava della sensazione di "avere qualcosa tra le punte delle dita". Una "consonanza anticipatoria con la natura", l’ha chiamata il fisico danese Christian Oersted. Un’intuizione innata che guida lo scienziato nell’attimo della scoperta "senza alcuna premonizione, senza un ragionamento conscio precedente", come disse una volta Fermi raccontando come era giunto alla scoperta delle reazioni nucleari provocate da neutroni lenti, che gli valse il Nobel. Una folgorazione improvvisa come quella che colse Poincarè mentre metteva piede sul predellino di un omnibus per un gita in campagna, e gli rivelò i legami profondi tra la teoria delle funzioni che stava da tempo studiando e la geometria non euclidea. Si tratta di un’abilità particolare che non figura tra gli strumenti dell’apprendistato della ricerca, non si insegna e non si apprende. Un ingrediente essenziale della ricerca, sul quale tuttavia regna in generale un imbarazzato silenzio nelle pubblicazioni delle scoperte scientifiche, osserva Gerald Holton, nel saggio di apertura di questo fascicolo di "Psiche" dedicato alle Figure della mente, del quale pubblichiamo un breve stralcio.
Queste ultime, dice Lorena Preta nell’editoriale, "possono essere immagini, intuizioni, schemi di rappresentazione", forme composite che "fungono da organizzatori dell’esperienza conoscitiva". Costituiscono i nostri oggetti di osservazione e gli strumenti attraverso il quali osservare. Le riconosciamo nel processo della scoperta scientifica e nella produzione artistica.
Come pensa uno scienziato quando fa scienza? Chiese una volta Maurice Solvine al suo vecchio amico Einstein.
Nella lettera di risposta Einstein illustrava con uno schizzo come ai suoi occhi stavano i rapporti tra l’esperienza empirica, l’intuizione e il ragionamento deduttivo. "Le esperienze ci sono date" cominciava Einstein tracciando una linea, i cui punti rappresentano la "totalità dei fatti empirici", un "labirinto di impressioni", una "varietà caotica" dalla quale si alza una linea curva, una "mossa costruttiva a tentoni" che culmina in un sistema di assiomi che, da "un punto di vista psicologico", si basano sulle esperienze sensoriali immediate. Non c’è comunque un percorso logico che va da queste ultime agli assiomi, osservava Einstein, "ma solamente un collegamento intuitivo sempre soggetto a revoca". Dagli assiomi, cosÏ enunciati sulla base di “ispirazione”, “ipotesi” e congetture, seguono le deduzioni che si possono ottenere, queste sÏ, con gli usuali processi logici, e confrontare poi con i dati di osservazione. Per Einstein, commenta Holton, lo scienziato, lo studioso o l’artista "al fine di fuggire dal caos presente nel mondo dell’esperienza, erige un’immagine semplificata e lucida del mondo, trasponendovi il centro di gravità della sua vita emotiva".
Anche nelle associazioni di idee proprie del pensiero matematico astratto, osserva Paolo Zellini, si riconosce qualcosa di analogo alle "rappresentazioni finalizzate" di cui parlava Freud. "Nei processi psichici che accompagnano i nostri giudizi scientifici ricorrono tuttavia alcuni tipi di immagini e di costruzioni di figure che non hanno carattere soggettivo e cangiante, e che sembrano piuttosto rimandare a regole stabili e imprescindibili, senza le quali lo stesso pensiero astratto non esisterebbe neppure. Molte teorie matematiche hanno origine da quelle immagini e usano concetti e formule analitiche che ne sono, in senso molto chiaro ed evidente, l’espressione o l’estensione algebrica". Come avviene per alcuni algoritmi fondamentali che portano con sè "una virtù esplicativa e una capacità di orientare il pensiero in contesti diversissimi" e hanno origine in immagini o schemi elementari che fanno parte di quel bagaglio di idee, regole e costruzioni a cui si ricorre automaticamente, prima ancora di qualsiasi atto di riflessione consapevole".
I processi mentali (inconsci) che connettono sistemi concettuali ed esperienze sensoriali, il modo in cui le intuizioni si affacciano alla coscienza, le articolazioni della vita inconscia e di quella cosciente di cui si trova traccia nel racconto di scienziati e artisti, questi sono i temi del percorso proposto da Lorena Preta a storici della scienza, filosofi, psicoanalisti e artisti. Il fascicolo, che comprende inoltre interviste ad André Green e Luca Ronconi (auguri per i suoi 70 anni!) e le divertite e divertenti note di diario dei giorni del Nobel del neurobiologo Paul Greengard, Ë una lettura quanto mai appropriata in vista della Brain Awareness Week 2003, che si inaugura domani e prevede una serie di iniziative in diverse città italiane (il programma si trova per esempio nel sito http://users.unimi.it/sins/SINS_EDAB/ BAW2003.html).
"Figure della mente", "Psiche. Rivista di cultura psicoanalitica", 2 (2002), pagg. 142, 21,00.

Repubblica Salute giovedi 13 Marzo 2003
Schizofrenia
nuovo farmaco per la cura

ROMA Si chiama aripiprazolo. E’ un antipsicotico di ultima generazione che coniuga l’efficacia clinica con un’eccellente tollerabilità; riduce al minimo i sintomi extrapiramidali, gli effetti della sedazione, e non provoca aumento di peso. I risultati degli studi clinici sull’aripiprazolo, molecola di ultima generazione per la cura della schizofrenia, sono stati recentemente presentati, a Roma, all’VIII Congresso della Società Italiana di Psicopatologia.
Ottenuto dall’FDA il via libera alla vendita negli Usa, dopo uno studio su oltre 1600 pazienti, l’aripiprazolo è ora al vaglio dell’EMEA, l’agenzia europea per la valutazione dei farmaci. Anche l’Italia ha contribuito allo sviluppo clinico del nuovo farmaco e sta partecipando a nuove sperimentazioni: oltre 20 centri e più di cento pazienti hanno già avuto accesso al farmaco ed altri studi sono in corso.

il manifesto 13.3.03
Integralisti nei secoli
Sono passati tre secoli dalla Guerra dei trent'anni e all'improvviso la religione torna a essere protagonista della lotta politica mondiale. Causa di stragi, e non solo nell'ambito della cosiddetta «guerra al terrorismo». Ma spesso i fondamentalismi più estremi sono solo l'«effetto specchio» della laicità occidentale
MARCO D'ERAMO

Ecosì nell'anno 1424 dell'Egira e 2003 dopo Cristo, capita che la guerra santa sia invocata in nome di Allah e che un impero bombardi in nome della cristiana provvidenza. Nelle piazze di Baghdad, rivolte alla Mecca, le folle irachene s'inchinano in preghiera, aspettando la guerra; mentre a Washington, nelle quiete stanze della Casa Bianca, i sagaci strateghi statunitensi rinsaldano la loro fede nel dio degli eserciti leggendo ogni giorno i versetti della Bibbia. Non ultimo paradosso della situazione attuale è che - dall'11 settembre 2001 - a combattere l'integralismo wahabita di Osama bin Laden è il fondamentalismo texano di George W. Bush. Cento anni fa il grande sociologo tedesco Max Weber aveva profetizzato che il `900 sarebbe stato il secolo del disincantarsi del mondo, per il razionalizzarsi della conoscenza (tramite la scienza), della vita economica (tramite il capitalismo privato) e della struttura sociale (tramite la burocrazia statale). Allora sembrava che per la società moderna il pericolo fosse il razionalismo ateo e materialista.
E invece, all'alba del XXI secolo, molte sette religiose hanno (ognuna) più affiliati di tutti i partiti del movimento operaio messi insieme. Se i mullah integralisti invocano apertamente la Jihad, solo l'ipocrisia impedisce ai vari John Ashcroft e Silvio Berlusconi di bandire la Santa Crociata (lasciano questo compito a quell'invasata di Oriana Fallaci). In compenso, «Dio benedice l'America nella lotta contro l'asse del male».
Inaspettatamente - almeno a un primo sguardo -, dopo più di tre secoli, la religione si ripresenta così come protagonista della lotta politica mondiale. Fanno venire i brividi i trenta anni previsti dal vicepresidente Dick Cheney per la «guerra al terrorismo»: scoppiata come scontro di religione nel 1618, la Guerra dei Trent'anni fu il conflitto in proporzione più sanguinoso della storia (vi morì addirittura la metà della popolazione tedesca).
Impensabile un secolo fa, la religione riemerge come causa di stragi non solo nella cosiddetta «guerra al terrorismo», ma anche in altri scacchieri del mondo. Nelle Molucche (Indonesia) sono pogrom religiosi a causare roghi e distruzioni tra islamici e cristiani. Nel Gujarat sono i fondamentalisti hindu che scatenano la caccia al musulmano provocando migliaia di morti.
Un'occhiata superficiale può farci leggere quest'irrompere della religione nella sfera pubblica come una regressione, come un ritorno al passato: il premoderno che fa valere i suoi diritti sul moderno. In fondo, ci viene detto, la società borghese non aveva fatto altro che confinare nell'intimità e nell'ambito privato le convinzioni metafisiche, le fedi, e persino le superstizioni: confinare la trascendenza nel privato era il prezzo per far regnare la tolleranza nell'immanente.
Ma proprio il paragone con la Guerra dei Trent'anni ci toglie la consolatoria illusione che i fondamentalismi siano puro rigurgito delle «plebi rurali» (così si esprimeva l'antropologo Ernesto De Martino), siano esse di fellahin niloti o di cow-boys del Rio Grande.
Perché se fu il secolo del fondamentalismo cristiano, il Seicento segnò anche la nascita del capitalismo moderno, della democrazia parlamentare (la rivoluzione puritana di Cromwell) e - per quel che ci riguarda - dell'impero americano: non erano infatti altro che un gruppo di fanatici integralisti i Pellegrini «padri fondatori» che nel 1620 sbarcarono a Cape Cod dal Mayflower.
La dimensione integralista fa parte del moderno allo stesso titolo del capitalismo, e insieme a esso: un paese cattolico come l'Italia non ha mai capito davvero bene cosa intendesse dire Max Weber quando affermava che lo spirito del capitalismo è incarnato nell'etica protestante (e viceversa). Contro quel che diceva Benjamin Barber, il nostro mondo è caratterizzato non da Jihad contro McDonald's (questo il titolo del suo libro), ma dalla McJihad, da una forma di fondamentalismo globalizzato, integrato nel capitalismo mondiale (Osama bin Laden è il rampollo di una dinastia capitalista saudita).
Ritenere che l'integralismo è un riaffiorare del passato nel presente, è perciò solo un pregiudizio su cui pesa anche un'immagine ingenua della tecnologia e del razionalismo scientifico. Si dà per assodato che i prodotti del pensiero razionalista siano necessariamente veicoli di razionalità. Ora, è vero che la macchina a vapore rappresenta la più bella realizzazione della termodinamica, che la tv è una meravigliosa applicazione delle equazioni elettromagnetiche di Maxwell e che Internet è l'esito di una catena logica che dalle algebre di Boole, attraverso la macchina di Turing, ci ha portato alla civiltà dei computer e dell'informatica.
Ma è anche vero che nell'800 furono i vaporetti a consentire ai musulmani giavanesi di fare in massa il pellegrinaggio alla Mecca e di mandare i loro rampolli a frequentare le scuole coraniche arabe: il risultato dei vaporetti (trionfo del razionalismo tecnologico industriale) fu il sorgere di un inedito integralismo musulmano a Giava: d'altronde il fenomeno si è replicato nella diffusione nel Terzo mondo delle sette protestanti Usa, chiamate appunto i cargo cults.
Dal canto suo, la tv non solo è il maggiore veicolo propagandistico dei telepredicatori americani, ma la sera ci ammanisce gli oroscopi. Quanto a Internet, le maglie della rete connettono sette sataniche e culti strampalati. Insomma, i prodotti tecnologici del razionalismo occidentale sono diventati veicoli di superstizioni, credenze integraliste, irrazionalismi. I prodotti del razionalismo sono cassa di risonanza dell'irrazionale.
Vi è infine l'«effetto specchio» della laicità. In India non c'era mai stato un fondamentalismo hindu prima dell'arrivo degli inglesi: solo guardandosi nello specchio inglese che rinviava loro la propria immagine riflessa, gli hindi hanno potuto costruire un proprio integralismo. È frequentando la laicità occidentale che i giovani studenti algerini di facoltà scientifiche hanno raffinato l'idea di una «modernità islamica». Gilles Keppel sostiene qualcosa di simile, quando in All'Ovest di Allah (trad. it. Sellerio), fa vedere come l'attuale integralismo islamico sia un frutto maturato in un viaggio di andata e ritorno in Occidente: gli immigrati musulmani vengono a contatto con un'esperienza religiosa puritana/calvinista, comunitaria; e quindi riplasmano in senso puritano/comunitario il proprio islamismo, ed è questo integralismo riveduto e corretto («riformato») che viene poi riportato nelle terre originarie dell'Islam.
Il riemergere della religione sulla scena pubblica rappresenta perciò non una sorpresa, ma una tappa di un lungo processo. Schematicamente, si può affermare che gli anni '60 rappresentarono nello stesso tempo il culmine del «disincanto» e l'inizio del rovesciamento: da un lato l'apogeo delle socialdemocrazie nordiche come apice della società secolare e il Concilio Vaticano II come massimo sforzo di «laicizzazione della Chiesa»; dall'altro la Nation of Islam di Malcolm X e la teologia della liberazione come componenti religiose dell'emancipazione. Non si può dimenticare che l'eroe sessantottino Malcolm X è stato il primo «integralista islamico postmoderno» e che il Cristo di Camillo Torres impugnava il mitra.
Ma la vera inversione di tendenza avviene alla fine degli anni `70 ed è simultanea in tutte e tre le religioni del Verbo: per quanto riguarda il cristianesimo, a Roma sale sul soglio pontificio Karol Woytjla, un integralista polacco fautore dell'Opus Dei, mentre a Washington s'installa Ronald Reagan, portavoce della «moral majority» (gli integralisti protestanti) che dichiarerà guerra «all'impero del male»; nel mondo ebraico, in Israele tramonta definitivamente l'egemonia culturale del laicismo laburista, soppiantato dal Likud e dal peso crescente dei partiti religiosi; e nell'Islam scoppia in Iran la rivoluzione khomeinista, mentre esplode in Egitto il fenomeno dei Fratelli Musulmani.
Insomma, alla fine degli anni `70 i fondamentalisti prendono simultaneamente il potere in Vaticano, alla Casa bianca, a Gerusalemme e a Teheran. E negli anni `80 la Casa bianca finanzia gli integralisti musulmani che combattono in Afghanistan contro i sovietici, e consente alla dinastia di El Saud di far piovere dollari su tutti i fanatici dell'Islam, dall'Algeria all'Indonesia (e poi alla Bosnia, alla Cecenia).
Da quanto precede è però chiaro che, pur se è riemersa come protagonista nella lotta politica mondiale, la religione è ben lungi dal costituirne il movente e l'obiettivo principale. Essa costituisce la forma che assume il conflitto, l'armatura di cui esso si avvolge, lo strumento di propaganda che usa, ma non certo il movente né l'obiettivo principale. Proprio perché si può essere fondamentalisti e capitalisti, possiamo scommettere che Bush pensa sì di essere lo strumento della volontà divina nel rimettere in ordine il mondo, ma solo perché - e solo se - Dio sembra avere una particolare predilezione per l'impero americano e per i dividendi delle corporations Usa.
Può sembrare superfluo ricordarlo, ma un famoso saggio del `600 (scritto dopo la Guerra dei Trent'anni) attribuito alla scuola spinoziana (o addirittura allo stesso Baruch Spinoza), Il trattato dei tre impostori (e cioè Mosè, Gesù e Maometto) enumera i modi in cui «i legislatori e i politici si sono serviti della religione». La prima maniera, «che è anche la più comune e più usata, è stata quella di dare a intendere ai popoli di essere ispirati direttamente dagli dei per poter imporre più facilmente quello che volevano fosse eseguito»; un'altra maniera «si basa su voci false, rivelazioni e profezie che si spargono di proposito per spaventare, sbigottire, fiaccare il popolo, oppure renderlo ardito e coraggioso, secondo le esigenze...». C'è ancora un'altra maniera, molto più rapida e più sicura, «che consiste nell'avere al proprio seguito predicatori e nel servirsi di buoni parlatori» (oggi bisognerebbe aggiornare l'immagine con i professionisti dei media).
Ma la maniera, che più ci riguarda da vicino e che irresistibilmente ci ricorda il giovane Bush, è certo l'ultima evocata dal Trattato dei tre impostori: «l'invenzione che è sempre stata più in uso, e quella praticata con più astuzia, consentiva d'intraprendere col pretesto della religione, ciò che nessun altro pretesto avrebbe potuto rendere valido e legittimo».

giovedì 13 marzo 2003

La Repubblica 13.3.03
GIOVEDÌ, 13 MARZO 2003
Edizione di Milano Pagina IX
L´INTERVENTO
Un compromesso tra pessimismo e orgoglio
La psichiatria da salvare

Il recente articolo di Franco La Spina e la risposta del dottor Mencacci sulla psichiatria ci hanno lasciato l´impressione che nè la visione senza speranza del primo né quella orgogliosamente ottimistica del secondo corrispondano alla reale complessità e problematicità dell´attuale fase di sviluppo della psichiatria, in particolare a Milano. In entrambi gli interventi viene infatti trascurato che gli psicologi, gli educatori, gli infermieri e gli assistenti sociali - insieme agli psichiatri - debbono tuttora essere tutti considerati parte essenziale di uno strumento di lavoro irrinunciabile, l´équipe multiprofessionale, che corrisponde ad un necessario approccio multidimensionale e integrato alla complessità biopsicosociale della sofferenza mentale.
Ci sembra dalle loro parole che, nell´azione di tutela della salute mentale, la posizione centrale non sia più occupata dall´équipe, bensì dallo psichiatra. Crediamo che si stia così realizzando una progressiva psichiatrizzazione del vasto campo della salute mentale, dove lo psichiatra si confronta sempre più spesso solo con se stesso e, con difficoltà, solo con gli interlocutori “esterni” (le associazioni di famigliari ecc.).
La monocultura psichiatrica, lasciata a se stessa, è esposta, anche secondo gli psichiatri più avvertiti, al rischio che prevalgano approcci ancora più ristretti(ad esempio quelli biologici), che indicano nel farmaco, più o meno ben proposto al paziente, come l´intervento di elezione, rispetto al quale il resto dell´attività è puramente accessorio.
Non solo. A quest´approccio riduttivo, che rinuncia alla possibilità di una presa in carico effettiva e globale del paziente in relazione a tutti gli aspetti compromessi della sua esistenza, corrisponde, il ricorso sempre più diffuso – e costoso - al ricovero in strutture residenziali che, a sua volta, porta alla separazione definitiva del paziente dalla sua rete di rapporti sociali e familiari. Riteniamo pertanto che questa pratica della psichiatria vada interrotta e corretta. Occorre attuare un profondo ripensamento nel campo della assistenza alla sofferenza mentale, sulla base di una ri-valorizzazione delle diverse componenti professionali presenti, attraverso un lavoro centrato più sui progetti che responsabilizzino le figure più idonee a condurli e meno sulle singole strutture (che si stanno ormai ipertrofizzando e irrigidendo).
Roberto Bergonzi (Ordine degli psicologi), Franco Merlini (Associazione unitaria psicologi italiani), Riccardo Telleschi (Società italiana di psicologia clinica e psicoterapia)