lunedì 7 marzo 2005

psicofarmaci per i bambini
torna il Ritalin

Repubblica 7.3.05
La medicina prima considerata "sostanza stupefacente" riammessa sui banconi per l'espandersi dell'Attention Deficit Hiperactivity Disorder
Bimbi iperattivi, il Ritalin torna nelle farmacie italiane
In rete si organizza la protesta dei genitori
di DAVIDE VARI

QUANDO parlate con vostro figlio sembra che non vi ascolti? Non è ordinato ed è sbadato o smemorato nelle sue attività quotidiane? Si lascia distrarre facilmente e non finisce i compiti assegnati? Se avete risposto affermativamente a tutte queste domande non è da escludere che vostro figlio, almeno secondo il DSM-IV (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), sia affetto da ADHD (Attention Deficit Hiperactivity Disorder), più comunemente nota come sindrome da iperattività.
Una patologia che, secondo le statistiche del ministero della Salute, colpirebbe il 4% della popolazione in età pediatrica. Sul sito dell'Aifa www. aifa. it/dsm_genitori. htm (Associazione Italiana Famiglie ADHD) è possibile effettuare il test integrale e scoprire, direttamente on-line, se il vostro bambino è un potenziale "iperattivo" oppure no. Proprio per rispondere a questa presunta emergenza sociale il Ritalin (metilfenidato idrocloride) sta per ritornare nelle farmacie italiane.
Già sotto accusa negli Stati Uniti dove, secondo molti addetti ai lavori, avrebbe generato 6 milioni di giovanissimi dipendenti, ora il Ritalin è stato sdoganato anche in Italia passando dalla fascia delle sostanze classificate come stupefacenti (nella stessa tabella della cocaina, anfetamina, oppiacei e barbiturici) a quella degli psicofarmaci prescrivibili dal medico.
Il metilfenidato, di cui è composto il Ritalin, è infatti uno stimolante centrale e come tale appartiene ai farmaci d'abuso ed è incluso nella Tabella I degli stupefacenti. La sua commercializzazione venne sospesa in Italia nel 1989 ma, vista "l'elevata incidenza dell'ADHD in età pre-adolescenziale - recita una nota del ministero della Salute - la Commissione unica del farmaco ha invitato la casa farmaceutica Novartis, attuale titolare del Ritalin, a presentare richiesta per la registrazione del farmaco e la sua commercializzazione in Italia".
Il dottor Claudio Ajmone, psicologo e psicoterapeuta, presidente dell'Oism (Osservatorio Italiano Salute Mentale) al riguardo non ha dubbi: considera il Ritalin alla stregua di una sostanza stupefacente ed afferma che "i bambini vengono drogati per risolvere problemi che andrebbero superati in termini pedagogici." Anche il professor Luigi Cancrini, noto psichiatra delle tossicodipendenze, è molto proccupato circa le possibili conseguenze di un abuso del Ritalin: "siamo certi che tutti questi bambini di otto anni a cui diamo il Ritalin, a 16 anni non lo prendano per loro conto e non diventino tossicomani?".
Ma ci sono anche sostenitori del Ritalin sia tra i genitori che tra gli psichiatri. Molti sono infatti convinti che il farmaco migliori decisamente la qualità della vita delle famiglie coinvolte, pur riconoscendo la presenza di alcuni effetti secondari. In questo senso una pubblicazione del Canadian Journal of Psychiatry dell'ottobre del 1999 ha rilevato gravi effeti psicotici dovuti all'assunzione di questo farmaco: un'indagine codotta su 192 bambini diagnosticati ADHD ha mostrato infatti che il 9% dei bambini curati con Ritalin ha evidenziato sintomi psicotici che sono spariti all'interruzione del trattamento.
Nel frattempo moltissimi neuropsichiatri infantili, pedagogisti e psicoligi italiani si schierano contro quella che definiscono "la medicina sedativa della vivacità fisica e intelletuale dei bambini" e scelgono Internet per creare veri e propri comitati di protesta e controinfomarmazione. Su tutti il blog di ProvinciAbile (http://www. provinciabile. it/blogabile). Un sito dedicato ai diversamente abili che ha lanciato la "Campagna No! Al Ritalin" e che da giorni è invaso da decine di messaggi di genitori ed operatori che si dicono indignati per la scelta del ministero della Salute di reintrodurre il Ritalin tra le medicine prescrivibili.
La gran parte dei partecipanti si dice preoccupata del fatto che "bambini vivaci possano essere scambiati per malati." Anche la promotrice della campagna, l'assessore della Provincia di Roma Tiziana Biolghini si dice costernata dalla decisione di reintrodurre il Ritalin: "Vogliono trasformare la sana vivacità dei bambini in malattia".
Una tesi sostenuta anche dal Dr. D. McGuinness, che da anni combatte la prescrizione dello psicofarmaco negli Stati Uniti e che senza mezzi termini, sostiene che l'ADHD è nient'altro che un'invenzione: "Abbiamo inventato una malattia, le abbiamo dato l'approvazione medica, e ora dobbiamo sconfessarla". Anche l'APA, l'American Psychological Association, dichiara che "non vi sono test diagnostici affidabili ed oggettivi". Nel frattempo, proprio grazie ad Internet si organizzano i primi sit-in. Il primo dei quali domenica 20 Marzo a Roma, un girotondo intorno al Colosseo.

Achille Bonito Oliva
Munch, in mostra al Vittoriano di Roma

Repubblica 7.3.05
L'Urlo contro una società che mortifica l'individuo
Le asimmetrie dell'emozione trovano nel linguaggio dell'arte i segni naturali
L'artista adotta l'enfasi espressiva come strategia contro la realtà del suo tempo
Alla cultura positivista l'artista contrappone la cultura della psicoanalisi e dell'introspezione
Dal 10 marzo a Roma la rassegna dedicata al grande pittore norvegese
ACHILLE BONITO OLIVA
Apre il 10 marzo a Roma nel complesso del Vittoriano una mostra dedicata al grande pittore norvegese Edvard Munch (fino al 19 giungo). Dal catalogo dell'esposizione, che ha per titolo "Munch 1863-1944", edito da Skira, pubblichiamo uno stralcio del saggio di L'accesa manualità dell'arte alla fine del XIX secolo, la curiosità per le arti minori e le culture primitive sono la risposta a un contesto avviato sempre più verso la riproduzione meccanica non soltanto dell'immagine ma anche del comportamento standardizzato dell'uomo.
All'impersonalità entusiasta dell'impressionismo avevano già dato risposta Van Gogh e Gauguin: a questi artisti, oltre che a Toulouse-Lautrec, si aggancia il lavoro di Edvard Munch (1863-1944), e poi degli Espressionisti, che riporta sulle motivazioni del soggetto la sostanza morale del bisogno creativo.
Un bisogno accentuato dall'urgenza di ripristinare una lacerata centralità dell'individuo mortificata dallo sviluppo dell'industrializzazione e dall'abnorme crescita della città, agglomerato artificiale rispondente soltanto a motivazioni produttive ed economiche. La città è il teatro della messa in posa sociale dell'uomo che indossa le maschere della convenienza e dell'ipocrisia, dell'affettazione e della repressione.
Verso l'abnormità di questa realtà l'artista si sente minore sul piano della quantità sociale che invece accetta supinamente il grado negativo dell'esistenza, maggiore sul piano della qualità morale in quanto capace di ripristinare le ragioni del soggetto seppure ferito e dissociato per un paradossale eccesso di consapevolezza e di sensibilità. Per far questo l'artista adotta una strategia particolare, quella dell'enfasi espressiva capace di dilatare al massimo la presenza del soggetto: l'urlo munchiano (virtualmente pronto alla riproduzione modulare anche nelle affiche del XXI secolo) contro il silenzio supino della società e il mistero dell'universo che accoglie nello stesso tempo l'innocenza maligna della natura e le contraddizioni della storia, la melanconia dell'adolescenza già minacciata dall'ombra sospetta di un futuro incombente. La perplessità della figura ricorda Degas. In ogni caso l'urlo resta l'emblema iconografico che conferma la sentenza di Schopenhauer: «Il mondo stesso è il Giudizio Universale».
Una sorta di procedimento di irradiazione narcisistica esasperata dal soggetto sull'oggetto, sull'opera realizzata, presiede la creazione, una regressione allo stadio elementare dell'infanzia, anche a quella dell'umanità rappresentata dalle culture primitive, che permette l'uso e il piacere di una manualità che riduce ogni complessità a uno stadio essenziale. Ma tutto questo non è il frutto di un atteggiamento artefatto, ma è la conseguenza di una condizione sentimentale che non permette alternative se non quella di un'espressione artistica, capace di produrre riparazione.
In tal modo Munch ristabilisce un'attenzione del mondo su di sé, che altrimenti non ci sarebbe. La naturalezza del soggetto viene ristabilita mediante il recupero di un linguaggio, quello dell'arte, capace di rappresentare la posizione asimmetrica dell'uomo fuori da ogni verosimiglianza. Una salda coscienza metalinguistica presiede la sua arte, consapevole della specificità dell'esperienza creativa che adotta tecniche che certamente non sono quelle della vita. Anche l'enfasi diventa dunque il travestimento necessario per ingrandire le istanze e i bisogni di totalità che la realtà tende a negare.
Infatti la concezione dello spazio, pittorico o grafico, è sempre saldamente bidimensionale, sbarrata a ogni tentazione di rappresentazione naturalistica. L'alterazione enfatica del segno rispetta la conformazione di uno spazio che non cerca l'illusione della duplicazione delle cose. Lo spazio è introspettivo e come tale non ha bisogno di altra profondità che non sia quella bidimensionale della tela o del foglio. Le asimmetrie dell'emozione e della nostalgia trovano nella lingua dell'arte i segni naturali della propria messa in scena.
Qui messa in scena non significa mistificazione o alterazione, semmai passaggio sotto una lente di ingrandimento capace di evidenziare motivi di profondità che nessun altro mezzo di riproduzione è capace di fare. Ai mezzi riproduttivi di una società frutto di cultura positivista, Munch contrappone quelli tradizionali dell'arte che riafferma la propria centralità che il momento storico tende a negare. Paradossalmente, sotto l'uso regressivo dell'enfasi espressiva, cova una grande consapevolezza culturale che porta a un intreccio con le scienze umane, la psicanalisi e l'antropologia, culturale, seppure realizzato spesso per sintonia e istinto verso il teatro: Ibsen e Strindberg per i quali realizza manifesti per le loro piece teatrali.
L'arte diventa la fondazione di un modello liberatorio che ripara le ferite ed esalta i motivi proliferanti della profondità della psiche, strutturata sugli stessi principi organici della natura; nello stesso tempo ripara anche violenze e soprusi della storia che ha emarginato culture come quelle primitive, colpevoli di essere portatrici di differenza. L'etnologia e l'antropologia si sviluppano infatti anche sotto l'effetto di questo senso di colpa della cultura occidentale. L'arte compie un giro a trecentosessanta gradi su tutta la storia della creatività e accoglie nel proprio bagaglio il linguaggio animistico dell'arte primitiva.

Fausto Bertinotti l'altra sera è rimasto basito davanti alla tv, alla notizia della morte di Nicola Calipari «ma vi rendete conto di cos'ha fatto quest'uomo?» diceva ai suoi, «talvolta ci portiamo dentro pregiudizi e dubbi, e invece sono persone di cui dobbiamo avere grande rispetto, dalle quali dobbiamo imparare» (dal Corriere della Sera)

Fausto Bertinotti nelle conclusioni al congresso di Rifondazione avverte: «Il governo di essere almeno all'altezza di Sigonella dando una dimostrazione di dignità nei confronti di una alleato soverchiante come gli Usa». Indicando la via maestra, la soluzione che non può essere che quella del ritiro immediato delle nostre truppe che è «un atto di salute pubblica, di igiene reale e politica» pur nella consapevolezza che la «exit strategy» più complessiva dall’Iraq non potrà essere che «graduale». (dall'Unità)

L'Unità 7 Marzo 2005
Bertinotti rieletto: porterò Rc al governo
Resta la spaccatura, al segretario il 62 per cento. «Contro di me attacchi violenti e volgari»
Simone Collini
Il leader ha ottenuto dalle assise una percentuale superiore di 3 punti a quella conquistata nel corso della campagna congressuale
«È una sciocchezza dirci governisti. E qui si parla spesso come se solo qualcuno di noi fosse comunista. Ma qui siamo tutti comunisti e comuniste»
IL CONGRESSO di Rifondazione comunista
VENEZIA. In rotta con una grossa fetta di partito, ma in rotta verso il governo. Fausto Bertinotti ce l’ha fatta. Né semplice accordo elettorale né desistenza come nel ‘96, alle prossime politiche Rifondazione comunista andrà insieme alle altre forze dell’Unione e poi, in caso di vittoria, entrerà nel governo guidato da Romano Prodi. Il sesto congresso del partito si chiude con l’approvazione della linea politica impressa negli ultimi mesi dal leader del Prc e con Bertinotti rieletto segretario con il 62% dei voti, quasi tre punti percentuali in più rispetto ai consensi che aveva incassato la mozione di cui era primo firmatario. La spaccatura con le minoranze interne rimane tutta, e del resto nella relazione conclusiva Bertinotti non fa niente per ricomporla, anzi.
Il suo è un intervento tutto all’attacco, in cui condanna la «violenza di linguaggio» e le «volgarità» che hanno attraversato alcune fasi del dibattito congressuale, e in cui a un certo punto la voce si fa urlo nel microfono: «Governista a chi? C’è qualcuno che si ricorda chi l’ha fatta la rottura con il governo Prodi?». Ma non è solo questa l’accusa delle minoranze che non gli va giù: «Qui si parla spesso come se solo qualcuno di noi fosse comunista. Ma qui siamo tutti comunisti e comuniste». C’era bisogno di dirlo? Evidentemente sì. E la riprova è nel fatto che soltanto i delegati della maggioranza applaudono questi passaggi della relazione. Gli altri se ne stanno con le braccia incrociate, scuotendo la testa, rimanendo in silenzio anche quando alla fine dell’intervento risuonano nel palazzo del Cinema del Lido di Venezia l’Internazionale, Bella Ciao, Bandiera Rossa, tanta poca è la voglia di unirsi alla festa per il segretario. Né l’umore delle minoranze migliora di molto quando la maggioranza, un po’ a sorpresa, si dice disponibile a nominare la propria quota di membri della direzione soltanto dopo le elezioni regionali, accogliendo così la richiesta che era stata avanzata dalle opposizioni (che alla fine potrebbero però decidere di non entrare comunque nell’organismo).
Bertinotti però non sembra minimamente preoccupato di quello che definisce lo «scontro frontale voluto dalle minoranze». Non vuole «marginalizzarle», spiega, e anzi riconosce loro «il diritto di organizzarsi». Ma se lo fa è perché è convinto di non avere molto da temere: un po’ perché ha messo al riparo da sorprese l’accordo con l’Unione attraverso una segreteria tutta di maggioranza, un esecutivo che garantisce «maggiore operatività» e un vincolo di mandato per i parlamentari; un po’ perché sa che al di là delle intenzioni espresse ultimamente, tra i trotzkisti di Ferrando, quelli di Bellotti, i più moderati trotzkisti di Malabarba (al quale Bertinotti ha chiesto di rimanere capogruppo al Senato) e i leninisti di Grassi le distanze politiche sono tali da non consentire un accordo che vada al di là del semplice «no alla svolta governista».
Per questo si è deciso a non concedere nessuna apertura e a fare una relazione di due ore il cui obiettivo non è quello di convincere, ma semmai quello di rispondere colpo su colpo alle accuse. «È una sciocchezza dirci governisti, è semplicemente insensato». Se Rifondazione andrà al governo, dice con uno dei diversi riferimenti che fa a Nenni, non è perché voglia «entrare nella stanza dei bottoni», ma perché «di fronte a una destra in crisi, di fronte a una borghesia allo sbando, bisogna assumersi le proprie responsabilità: abbiamo il compito di costruire l’alternativa di società». Ribadisce che lui non farà il ministro, ma che ci saranno ministri del Prc, perché non è più possibile interpretare la parte dei «parenti poveri». Rifondazione, dice Bertinotti in una delle poche frasi tendenti più a dare un’assicurazione che a pungolare i suoi (perché «stare fermi è la morte della politica»), non disperderà la sua identità nell’abbraccio dell’Unione e manterrà anzi una sua netta autonomia: «Il partito non deve identificarsi con il governo. Se ci fosse un governo Prodi e se ci fosse uno sciopero io lo considererei un elemento dinamico della società italiana». Per questo cita l’esempio del Brasile, «dove la ministra dell’ambiente ha scioperato contro il governo Lula, una cosa buona».
Una scena che si ripete sempre uguale per due ore: i suoi che applaudono praticamente ogni passaggio, quelli delle minoranze che rimangono silenziosi. Solo all’inizio la platea si fa sentire compatta, quando parlando dell’uccisione di Nicola Calipari Bertinotti grida al microfono «non siamo servi degli Stati Uniti, vogliamo la verità». Già qualcuno se lo perde per strada, invece, quando torna sull’adesione di Pietro Ingrao al Prc, raccontando: «Quando mi ha comunicato che avrebbe aderito a Rifondazione, mi ha detto: “Fausto, sarò un compagno disciplinato”. Ma io gli dico: Pietro, continua a disobbedire». Poi entra nel vivo della discussione, e la spaccatura si fa chiaramente visibile. Suscitando entusiasmo in alcuni e diffidenza in altri quando assicura che «non abbiamo nessun interesse a regalare il governo ai padroni», o quando dice: «Noi ci battiamo contro la legge Bossi-Fini, ma non per tornare alla Turco-Napolitano». Per due ore parla inforcando e sfilando gli occhiali, sbattendo la mano sugli appunti che ha davanti, prima togliendosi la giacca, poi allentando il nodo della cravatta.
Alla fine si ripete la scena del giorno di apertura, col segretario sul palco e i delegati in platea a cantare col pugno alzato. Con due differenze, però. La prima: dopo la relazione finale, quelli rimasti seduti e che non si uniscono al coro si notano molto di più. La seconda: il primo giorno i congressisti avevano intonato l’Internazionale, ieri è stata aggiunta una canzone mai sentita nei precedenti tre giorni di congresso, Bandiera Rossa. Forse per dare più risalto alla frase con cui Bertinotti ha chiuso la sua ultima relazione congressuale da segretario: «Domani, se qualcuno si ricorda di me, potrà dire: è un comunista».

L'Unità 7 Marzo 2005
Il comunista di governo
DALL’INVIATO
Pasquale Cascella

VENEZIA Governista no, che nessuno si permetta di definire così Fausto Bertinotti. Per lui è un insulto, un’infamia, un affronto imperdonabile: «Governista a chi? C’è qualcuno che ancora si ricorda la rottura con il governo Prodi? Chi l’ha fatta?», replica indignato all’«insensata accusa» della minoranza, dall’alto della torre congressuale concepita tutta a sua misura e immagine. Come dimenticare? È stato proprio lui, il segretario del libero partito della Rifondazione comunista, ad assumersi la tremenda responsabilità di far cadere il primo governo di centrosinistra all’avvio della democrazia dell’alternanza. Ora è lì, coerentemente, a rivendicarne il merito. Ma anche il suo opposto, ovvero che «bisogna assumersi le proprie responsabilità» nell’alleanza che si candida a dare al paese un governo alternativo a Silvio Berlusconi: «Fino in fondo». Una incoerenza, per il 40% dei delegati. Al contrario, per il segretario riconfermato a maggioranza è l’apice della costanza politica: «Io, noi siamo stati e saremo sempre dalla parte degli operai, ma non abbiamo alcuna intenzione di regalare per sempre il governo ai padroni».
Ma sì, merita Bertinotti la definizione che rivendica a futura memoria: «Comunista». Beninteso, nel senso dell’idealità da proclamare, più che della storia o, se si vuole, delle tradizione da osservare. Vero è che spaccia l’adesione di Pietro Ingrao a Rifondazione alla stregua di una riedizione, nella logica dell’«unità e competizione» a sinistra con i Ds, dello storico scontro dell’allora dirigente del Pci con Giorgio Amendola all’XI congresso. Ma è anche vero che Ingrao e Amendola hanno interpretato diversamente la stessa visione dell’evoluzione democratica del Pci e, più in generale, della sinistra italiana. Dei cui traumi lo stesso Bertinotti pure porta i segni, anche se le sue radici affondano nel vecchio Psi, quello del primo Pietro Nenni rivoluzionario. Fors’anche massimalista. Non è a caso che proprio alla «lezione» nenniana della fatidica (e non trovata, a palazzo Chigi) «stanza dei bottoni» si richiama per evitare che la «svolta» (infine proclamata) non passi per, come dire, ministeriale. Persino quel voler essere chiamato «comunista» fa il verso al Nenni che voleva essere ricordato come «socialista». Peccato, perché se la citazione fosse stata corretta, e non adottata e adattata, avrebbe potuto dare un senso più pregnante alla revisione fattuale a cui pure Bertinotti giunge.
Rifondazione socialista, perché no? No, evidentemente per un residuo ideologico: lo stesso che spinge il segretario a rendere pan per focaccia all’«aggressione, rozzezza e volgarità» che ritiene aver subito dall’opposizione interna, fin quasi ad indicare alla componente dell’«Ernesto», che aveva osato ospitare a una propria autonoma iniziativa qualche emissario di Armando Cossutta, la porta d’uscita dal partito. No, magari per un sussulto inconscio, se è vero che nello stesso Psi d’antan la cultura socialdemocratica e riformista era considerata alla stregua del tradimento. Prova ne sia quel congresso del Psi a Venezia del ‘57 che proprio Bertinotti ha richiamato, a mo’ di metafora per l’appuntamento congressuale di Rifondazione, in cui Nenni fu sconfitto anche per aver cominciato a Pralognan, con il socialdemocratico Giuseppe Saragat, la marcia di avvicinamento al governo. Quarantotto anni dopo, evita l’analoga sorte, il segretario di Rifondazione. Ma non ricorda ai delegati che la rivincita di Nenni, due anni dopo a Napoli, portò tanto al primo centro-sinistra (allora rigorosamente con il trattino) quanto all’ennesima scissione, quella del Psiup, in cui egli stesso ha militato, dell’ala poi definita «carrista» per via dell’avallo ai carri armati sovietici che soffocarono la primavera di Praga. Insomma, proprio dal «vecchio saggio» (non citato, ma era sempre Nenni) che avvertiva come ci sia «sempre qualcuno più puro di te che ti vuole epurare», Bertinotti può ben ricavare il «diritto di parola» nell’«inchiesta» evocata dal pensiero di Mao. Il segretario pensa di «cavarsela» rassicurando il partito che non sarà il Nenni che subì, nel tempo, il logoramento delle riforme di strutture che avrebbero dovuto segnare la soluzione di continuità con il centrismo. Ma resta debitore, anzitutto con se stesso, della risposta alla domanda sul come evitare che Rifondazione ricada nello stesso errore compiuto nel 1998. C’è una sorta di presunzione politica, prima ancora che intellettuale (vista la citazione di Rosa Luxembourg: «Ci sono sconfitte che valgono più di cento vittorie proclamate dal Comitato centrale), nell’evocare il «negoziato» con Prodi sulle 35 ore senza, se non addirittura contro, il sindacato, addirittura ad addebitare alle confederazioni di non aver proclamato a suo tempo uno sciopero contro Prodi evidentemente a sostegno dei suoi altrimenti fragili paletti. È con piroette dialettiche come queste, quando non arriva addirittura ad addebitare agli alleati ripudiati al tempo il cedimento al «pensiero unico dominante» («Da Clinton a D’Alema») che Bertinotti spiega la «mossa del cavallo» della conversione al governo: «Non ha senso rimanere all’angolo con la propria bandiera». Giusto. Del resto, molte delle acquisizioni ieri professate, dal rapporto che non sia «tra servi e signori» con gli Usa (sul modello di Craxi a Sigonella) al «ritiro per forza graduale dalla guerra», al disconoscimento dei sequestratori di Giuliana Sgrena come «resistenti» e quant’altro, se pure rincorse da sinistra (e, qui e là, ammantate di demagogia) giungono all’approccio della responsabilità condivisa nell’Unione di centrosinistra. Resta da capire perché Bertinotti non le qualifichi politicamente per quel che sono. E non ingaggi su questo piano la battaglia politica con i diversi pezzi della minoranza sull’identità di Rifondazione. O, forse, qualcosa dice quel lapsus sul «governo d’opposizione». Poi corretto «d’alternativa». È l’ultima sfida per Bertinotti, proprio per il Bertinotti «comunista», quello di riconoscersi nella sinistra di governo. Con vincolo di mandato.

un libro
«i padri e le madri» di Aldo Naouri
«uomini e donne, due specie diverse»

La Stampa 7 Marzo 2005
di Raffaella Silipo

FATE come volete, tanto non andrà mai bene». Persino lui, Sigmund Freud, non aveva poi troppa fiducia nella possibilità di diventare un buon genitore. E Aldo Naouri, pediatra e psicologo assai noto in Francia e autore di molti libri sul tema dell’infanzia, sa bene che non esiste una formula per rendere felice ogni famiglia. A dispetto del titolo, il suo I padri e le madri (Einaudi) non è affatto un manuale di puericultura: è piuttosto uno spietato ritratto della società moderna, asservita allo «strapotere della madre» e insieme un’invocazione agli uomini perchè riprendano il loro ruolo: non quello di «mammi», che troppo spesso cercano di assumere, ma quello di maschi e di padri. Nella convinzione non solo che stiamo allevando una generazione di figli gravemente disturbata, ma che questo sbilanciamento di ruoli sia alla radice di conflitti profondi tra culture, primo fra tutte tra Occidente e Islam.
Non stupisce insomma che il libro, alla sua uscita, abbia fatto assai discutere in Francia scatenando polemiche a non finire. La tesi di base - argomentata in un lungo excursus storico e antropologico - è radicale: gli uomini e le donne sono proprio due specie diverse, «profondamente estranee l’una all’altra». A dividerle alla radice sarebbe la diversa percezione del Tempo e della Morte: ineluttabile e fonte di profonda angoscia per l’uomo, combattuta con viscerale testardaggine dalla donna, grazie alla straordinaria risorsa della gravidanza, che le dà una sensazione di controllo sulla vita e sulla morte. Secondo Naouri siamo a una tappa decisiva di questo scontro «così lungo e così duro, che da tempi immemorabili oppone uomini e donne». Questa tappa attesta la vittoria del modello femminile, almeno nella società Occidentale: è la donna a esercitare il dominio sui figli, ma non solo. È il modello «materno» a vincere, inteso come modello volto alla negazione del tempo, alla soddisfazione immediata dei bisogni, alla seduttività, alla «campagna elettorale permanente» dei genitori nei confronti dei figli, dei governanti nei confronti delle popolazioni, delle imprese nei confronti dei consumatori. C’è secondo Naouri una «carenza di dimensione adulta nella nostra società» che privilegia l’istante e l’effimero (qui Naouri usa un gioco di parole impossibile da rendere in italiano. In francese la parola «éphémère» - effimero - risulta omofona alla parola «effet mère» - effetto madre), a scapito della durata e del lungo termine, della normatività del principio maschile.
La donna offre piacere, certezza, sollievo dall’angoscia di morte, l’uomo offre dubbi e regole. Ci vogliono entrambi, dice Naouri, perchè la specie umana sopravviva, ma oggi c’è solo un polo, anche perchè gli uomini cercano in tutti i modi di uniformarsi al modello femminile, che percepiscono come vincente, trasformandosi in «mammi» seduttivi verso la prole, provvisti di biberon e pannolini, moltiplicando così l’effetto materno.
«Le madri sono potentissime - spiega Naouri - eppure la malattia più grave che possa colpire un essere umano è di essere straboccante di una madre del genere». La tendenza materna infatti è controllare il figlio, farlo sentire al centro di ogni interesse, mantenerlo dipendente: «Se stai attaccato a me hai la vita, se ti stacchi c’è la morte» è il messaggio delle madri di sempre, quelle preistoriche e quelle moderne e in carriera. «Ricolmo di attenzioni e premure, il bambino cresce ignaro dello scorrere del tempo e dipendente dal piacere - spiega Naouri - sarà sempre tentato di prendere la strada più facile, di approfittare di ogni occasione, mancherà di ambizione e di dinamismo».
Non solo, continua Naouri, avventurandosi in un’analisi dello scontro tra civiltà: questo modello materno-consumistico-Occidentale, straordinariamente seducente, travalica i confini della nostra società sconvolgendo, per esempio, il mondo arabo-musulmano. «In che modo gli uomini musulmani potrebbero accettare scelte che mettono in discussione il loro stato di “abou”, di padri proprietari dei propri figli? Attaccati alla netta gerarchia da sempre vigente tanto nei rapporti tra genitori che in quelli tra sessi, vivono questa esportazione, sottilmente persuasiva, come un vero e proprio tipo di conversione... Hanno nutrito il loro rancore, coordinato le loro forze e reclutato un numero sufficiente di fanatici kamikaze per lanciarsi in una nuova crociata».
Cosa può fare di fronte a questa radicalizzazione l’uomo «disorientato, furente, smarrito? Ognuno inventa la sua soluzione, a fronte di una compagna diventata detestabile e spaventosa». Secondo Naouri è inutile combattere le donne sul loro terreno. «Non combatto lo strapotere delle madri, al contrario lo celebro. Non esiste infatti una simmetria nei rapporti di padre e madre con il bambino. Come si può mettere su uno stesso piano un’esperienza così significativa qual è quella vissuta dalla madre e dal bambino durante la gravidanza e quella che vive l’uomo, anche se il desiderio di mettere al mondo un bambino ha fatto parte integrante del suo amore per una donna?» La comunicazione tra padre e bambino, secondo lui, passa sempre necessariamente attraverso la madre. Al padre resta una sola possibilità: «Deve riprendere il suo ruolo, non quello delle sit-com e dei luoghi comuni. Deve essere, invece, un individuo che si interpone fra la madre e il bambino», che porta il figlio fuori dall’abbraccio protettivo, gli mostra la realtà, il tempo, la morte alla fine del cammino.
Il compito, va detto, è ingrato. Come convincere un bambino, ma anche un adulto, ad abbandonare il principio di piacere? Secondo Naouri, avere successo con il bambino è impensabile. L’unica possibilita è che l’uomo riesca a distogliere almeno un poco l’attenzione della donna nei confronti del figlio: che il bambino «scorga da sopra la spalla della mamma, un uomo. E che quest’uomo interessi terribilmente a sua madre». In questo modo il bambino imparerà, fin dai primi mesi di vita, la frustrazione. Sperimenterà, insieme alla sazietà e al piacere, anche il bisogno e il desiderio: «Così non avremo più gli odierni bambini-tiranno o abominevoli adolescenti che non hanno risolto fin dall'infanzia un problema, quello che si possono vivere momenti senza piacere e non per questo si muore».
Combattere l’amore con l’amore, è la ricetta di Naouri: l’amore viscerale che lega madre e figlio a quello altrettanto viscerale che lega e oppone uomo e donna: «Mi è successo di stilare più di una ricetta in cui l'indicazione era “Fate l'amore. Siate una coppia, sarete dei genitori migliori”». D’altronde ci vuole pure un incentivo, ad abbandonare (educare, ci ricorda Naouri, vuol dire letteralmente «condurre fuori da») l’utero materno, se è vero che «tutti siamo andati a ritroso nella vita, tenendo gli occhi puntati sul nostro luogo d’origine e provando paura a voltargli la schiena, come ci inciterebbe a fare nostro padre, tanto ci fa orrore quello che vedremmo al termine del cammino, se guardassimo dritto davanti a noi».

La Stampa 7 Marzo 2005
LA DIVERSITA’ FRA I SESSI COMPORTA RADICALI DIFFERENZE NELL’ORGANIZZAZIONE PSICHICA DEGLI ESSERI
Uomini e donne, due specie diverse
di Aldo Naouri

STAREI forse affermando che l’essere femminile è un individuo umanamente differente dall’essere maschile, con un’organizzazione psichica fino a questo punto, e così profondamente, diversa? Ma come sostenere ciò che, formulato in questi termini, può sembrare un’aberrazione, con il rischio di lasciar intendere che gli uomini e le donne appartengono a due specie diverse? A meno che si tratti solo, dopo tutto, delle conseguenze, insospettabili, e quanto spesso negate, di una diversità fra i sessi la cui misura non è mai stata presa in considerazione e che farebbe degli uomini e delle donne due specie nettamente differenziate ? Perché no?
Non stento a immaginare quali veementi reazioni possa suscitare il mio discorso, e già mi vedo accusato di negare alle donne la capacità o la possibilità di condurre un’impresa o fare carriere che gli uomini hanno sempre considerato di loro esclusiva competenza. Non soltanto respingo in anticipo una tale imputazione, ma tengo a precisare il mio pensiero aggiungendo che, anche le donne con un potenziale che niente può, né deve, limitare in nessun modo, anche queste donne, come tutte le altre, sebbene in grado di sentire, concepire e gestire il tempo, di controllarlo e di servirsene senza il minimo problema apparente, conservano e conserveranno sempre nei suoi confronti, qualunque cosa facciano o faranno, un vissuto specifico e una relazione totalmente diversa da quella degli uomini.
Il rapporto con l’angoscia di morte, a mio avviso, ne è una testimonianza. Sono convinto che le donne ne siano infinitamente meno oppresse degli uomini. Attenzione! Non sto dicendo che ne siano completamente prive. Penso solo che non ne siano sopraffatte nella stessa misura. La pressione di questa angoscia, cioè, in loro è senz’altro relativamente bassa, meno soggetta a variazioni e soprattutto infinitamente meno soggetta ad ampie variazioni. Infatti, le donne, dato che la sottospecie cui appartengono lo vive da decine di milioni di anni, sanno ciò che gli uomini non sanno e che non possono sapere del loro specifico modo di porsi in rapporto al tempo. Sanno anche, nella maniera più profondamente intima e meno comunicabile che ci sia, che la loro vita non finisce con la morte fisica, ma che continua nei figli portati nel proprio corpo, messi al mondo attraverso questo stesso corpo e a cui ne hanno dato un altro, che di loro recherà sempre una traccia incancellabile. Sanno di non essere mai state né autarchiche né sole né isolate. Sanno che la loro saggezza intrinseca le ha indotte a non investire solo su se stesse, ma a dedicare anche agli altri le proprie energie...
Questa mamma è una madre umana, una madre umana abbandonata alla gioia inesauribile che le assicurano la certezza della sua funzione e il suo statuto in una società che ha adottato, senza limiti e senza contropoteri, tutti i valori di cui sarebbe portatrice. E’ una madre umana in quanto il suo comportamento si iscrive nella sorda lotta che oppone i due sessi dai tempi più remoti, la sorda lotta, ad armi diverse e impari, che le donne combattono da sempre contro l’uomo, quell’uomo che le ha forzate con la Legge della specie, della quale esse non hanno accettato né i termini, né le disposizioni che avrebbero dovuto portarle ad ammettere l’ineluttabilità della morte, quell’uomo che continua a reprimerle tanto, e di cui esse così spesso si dolgono di non poter fare a meno per accedere a quella condizione di madre che le ha rese, da sempre, tanto potenti...

Galimberti come Giobbe?
e Repubblica dal 14.3 allegherà al giornale tanti testi sacri...

Repubblica 7.3.05
Stasera all´Eliseo sarà protagonista di "La parola contesa"
La filosofia torna a teatro Galimberti parla del corpo
In poche settimane è diventato un appuntamento tra i più attesi del panorama culturale romano. Torna questa sera, alle 18.30 al teatro Eliseo, la rassegna "La parola contesa", gli incontri sul filo epistemologico che separa scienza e filosofia condotti da Massimiliano Finazzer Flory e promossi da Enel e Eliseo Culture. Il protagonista di questo quarto appuntamento è il corpo, «non solo carne ma anche "mezzo" pubblico, fonte estetica e oggetto di ricerca scientifica». Ne parlerà Umberto Galimberti, docente di Filosofia all'Università Ca' Foscari di Venezia, saggista ed editorialista di Repubblica. Saranno proiettate immagini del film Accattone di Pasolini e Carla Chiarelli interpreterà brani di Sartre, Barthes e Artaud. Ingresso libero a esaurimento posti.
Il bene e il male attraverso il mistero
Filosofia e scienza sono edifici concettuali di cui le società si servono
Il compito delle religioni è dare delle regole e offrire dei simboli con i quali riconoscersi
Le domande che un uomo può farsi intorno alla vita trovano la loro origine in qualcosa che ci trascende
Un discorso che abbraccia la storia stessa dell'umanità e che ha al centro Dio e il modo in cui il mondo l'ha vissuto

Umberto Galimberti

Se la ragione è un sistema di regole che gli uomini si sono dati per poter convivere, la religione custodisce quello sfondo pre-razionale che gli uomini abitano più profondamente e più intimamente di quanto non si adattino alla convenzione razionale. Per questo occorre lasciar cadere quella grossolana distinzione che separa credenti da non credenti. Gli uni e gli altri abitano infatti quelle metafore di base che la religione, prima della filosofia e prima della scienza, ha indicato segnalando la separazione tra sacro e profano, tra spazio dell'uomo e spazio trascendente l'umano, tra tempo della vita e tempo che precede e oltrepassa la vita.
"Sacro" è parola indoeuropea che significa "separato". La sacralità, quindi, non è una condizione spirituale o morale, ma una qualità che inerisce a ciò che ha relazione e contatto con potenze che l´uomo, non potendo dominare, avverte come superiori a sé, e come tali attribuibili a una dimensione, in seguito denominata "divina", pensata comunque come "separata" e "altra" rispetto al mondo umano.
Dal sacro l'uomo tende a tenersi lontano, come sempre accade di fronte a ciò che si teme, e al tempo stesso ne è attratto come lo si può essere nei confronti dell'origine da cui un giorno ci si è emancipati.
Questo rapporto ambivalente è l'essenza di ogni religione che, come vuole la parola, recinge, tenendola in sé raccolta (re-legere), l'area del sacro, in modo da garantirne ad un tempo la separazione e il contatto, che restano comunque regolati da pratiche rituali capaci da un lato di evitare l'espansione incontrollata del sacro e dall'altro la sua inaccessibilità. Sembra che tutto ciò sia stato presentito dall'umanità prima di temere o di invocare qualsiasi divinità. Dio, infatti, nella religione, è arrivato con molto ritardo.
Al contatto con il mondo sacro sono preposte persone consacrate e separate dal resto della comunità (i sacerdoti), spazi separati dagli altri in quanto carichi di potere (sorgenti, alberi, monti e poi templi, sinagoghe, chiese, moschee), tempi separati dagli altri e nominati festivi che delimitano i periodi sacri da quelli profani dove, fuori dal tempio (fanum), si svolge la vita di ogni giorno scandita dal lavoro e dai divieti (i tabù) da cui traggono origine le regole e le trasgressioni.
Al regno del sacro non appartengono solo le creature soprannaturali, Dio, gli dei, mostri di ogni tipo, i morti, ma anche la natura per quel tanto che è estranea alla cultura, quindi gli istinti, le pulsioni, le passioni, le malattie, da cui non a caso hanno preso avvio le prime riflessioni di Freud.
Oltre alla lettura religiosa, del sacro si danno infatti anche interpretazioni antropologiche e psicologiche, perché il sacro non è solo "esterno" all'uomo, ma anche "interno" ad esso, come suo fondo inconscio, da cui un giorno la coscienza si è emancipata e resa autonoma, senza peraltro sopprimere lo sfondo enigmatico e buio della sua origine.
Da questa origine la coscienza ancora dipende sia per la genesi delle sue ideazioni, sia per la minaccia mai scongiurata di esserne di nuovo risucchiata in quelle forme che l´odierna "patologia", in cui si è risolta l'antica "mitologia", chiama follia.
A conoscere questa follia non sono tanto la psicologia, la psicoanalisi o la psichiatria, la religione che, delimitando e circoscrivendo l'area del sacro, e tenendola a un tempo "separata" dalla comunità degli uomini e "accessibile" attraverso ritualità codificate, ha posto le condizioni perché gli uomini potessero edificare il cosmo della ragione, il solo che essi possono abitare, senza rimuovere l'abisso del caos, la terribile apertura verso la fonte opaca e buia che chiama in causa il fondamento stesso della razionalità. Perché è da quel mondo che vengono le parole che poi la ragione ordina in modo non oracolare e non enigmatico.
Qui non si tratta di rimuovere il sacro e la sua ambivalenza. L'umanità non ha mai pensato che questa rimozione fosse possibile perché, vedendosi sola fuori da esso, doveva credersi da questo generata. Così hanno sempre parlato le religioni, e qui il loro discorso non è sospetto perché è venuto prima dell'"astuzia della ragione".
Proteggendo la comunità dal sacro, le religioni hanno sempre saputo che una separazione troppo grande è pericolosa quanto una fusione completa, perché può concludersi solo con un ritorno in forza della violenza del sacro, da cui non siamo mai totalmente separati.
Se il sacro si allontana troppo si rischia di dimenticare le regole che gli uomini hanno appreso per proteggersi, e allora il sacro irrompe e la sua violenza produce il dissolvimento della comunità o, in chiave psicologica, della personalità.
Il sacro, infatti, come dimostrano gli esiti tragici a cui spesso conduce il conflitto tra le fedi, è un regime di massima violenza suicida e omicida, dove si giocano espressioni di rifiuto radicale della normalità esistente, processi simbolici di rinascita e di trasformazione, eventi di morte, e dove in gioco sono quelle situazioni-limite intorno a cui da sempre si raccolgono quei regolatori del sacro che in tutte le culture si chiamano "sacerdoti", da tempo provvisti di quelle metafore di base in cui l'umanità riconosce se stessa, quando la follia della mente disorienta l'anima e sottrae, al tranquillo incedere della ragione, ogni forza persuasiva.
Nel recinto del sacro, che gli antichi avevano cura di delimitare perché ciò che lì si manifesta è palese contraddizione, entusiasmo fuori misura, dolore sordo e muto, avvengono "sacrifici" (di cui la transustanziazione cristiana del pane e del vino in carne e sangue di Cristo è l'ultima traccia), in quella trasfigurazione di tutti i segni e di tutte le parole che le religioni con i loro simboli hanno saputo codificare.
Da sempre, infatti, le religioni sono state le grandi regolatrici del sacro, perché hanno saputo incontrare l'uomo presso il tempio, presso l'animale sacrificato, nell´orgia dionisiaca, nel mistero eleusino, alle pendici del Golgota, nelle arene lorde di sangue e brandelli di carne, e, in tempi più evoluti, nell'angoscia segreta che attanaglia l'uomo, incerto sulla sua origine e sul suo destino.
Non ci si angoscia, infatti, per questo o per quello, ma per il nulla che ci precede e che ci attende. Ed essendoci il nulla all'ingresso e all'uscita della nostra vita, insopprimibile sorge la domanda che chiede il senso del nostro esistere. Un esistere per nulla o per Dio?
Ma qui siamo già nel repertorio delle risposte, delle argomentazioni, delle conversioni, delle disperazioni. Io vorrei trovare l'essenza della religione prima di queste domande e risposte, vorrei trovarla là dove si dà il terreno da cui è possibile sentire e pensare.
Filosofia e scienza sono edifici concettuali, ma è possibile edificare concettualmente solo se un terreno di metafore e di simboli ci ospita. Questo terreno è scavato dalla religione che segnala cos'è l'alto e cos'è il basso, la destra e la sinistra. Convoca il cielo e la terra, dispone a destra il bene, a sinistra il male. Prevede che la disperazione dell'uomo, che tende il suo urlo, anche sommesso, al di là dell'esistenza, abbia un ascolto. E chiama questo ascolto Dio. Ignoto Tu che supplisce l'indifferenza della terra e delle macchinazioni che si compiono sulla terra.
Sembra infatti che il dialogo tra gli uomini sia insoddisfacente, che gli spazi di silenzio e di incomprensione, al di là della buona volontà e delle buone intenzioni, esigano una comprensione superiore. Sembra che la solitudine del cuore sia così abissale da non essere raggiunta davvero da nessuna voce umana. Sembra che l'intensità della passione non trovi corrispondenza nell'amore e nell'odio che gli uomini possono vicendevolmente scambiarsi.
Sembra che la solitudine non possa neppure costituirsi, e tantomeno un dialogo interiore, se l'altra parte non ha un volto sovrumano. Sembra che la metafora dell'inconscio sia troppo povera per contenere quel patire che solo nei simboli religiosi trova l'altezza della sua iconografia.
Sembra che le vette della mente non sappiano perché si protendano verso il cielo, se il cielo è vuoto. E neppure sanno se questa terra è la nostra definitiva dimora, o è l'esilio che invoca quel ritorno che le religioni prefigurano come corrispondenza immaginifica dell'anima.
Eppure anche il nostro linguaggio che formula questi interrogativi forse non avrebbe trovato le sue parole se la religione non gli avesse dato i simboli che, come cascate, le hanno generate una dopo l'altra. Ma col vincolo che nessuna parola avrebbe avuto senso se si fosse staccata dal simbolo che l'aveva generata.
Parole staccate, parole perdute per l'Evento. Ecco che cos'è la religione: l'Evento. Un andamento silenzioso e gravido di senso, capace anche di negarsi per far accadere tutta la storia. Assentandosi Dio, accadde il mondo. Ma anche all'assenza bisogna essere grati.
Per questo non bisogna vociare all'interno della religione o fuori dalla religione. Non bisogna far chiasso in nome di Dio o contro Dio. Il rumore del mondo non deve invadere, col grido dell'affermazione o del diniego, l'origine silenziosa da cui sono scaturite tutte le parole.
A partire da questa atmosfera, che non è atto di fede ma di riconoscimento, si possono incominciare a leggi i testi sacri che Repubblica, a partire da lunedì 14 marzo, metterà opportunamente in edicola, affinché a tutti sia concessa la possibilità di conoscere, oltre alla propria religione, anche quella degli altri, favorendo in questo modo, invece della guerra, il dialogo e la reciproca comprensione.