martedì 16 marzo 2004

intervista a Marco Bellocchio

GAZZETTA DI PARMA 15.3.04
INTERVISTA—Venerdì sera la «prima» al Municipale di Piacenza
Rigoletto di Bellocchio
C'è anche un nuovo film: «Il regista dei matrimoni»
di Maurizio Schiaretti


Non era un progetto coltivato per chissà quanti anni e finalmente realizzato, anzi in passato quando aveva ricevuto delle proposte simili le aveva cortesemente rifiutate. Ma a Gianni Baratta e alla Fondazione Toscanini, non ha proprio saputo dire di no ed ora, a 64 anni, sta vivendo con un pizzico di trepidazione le ore della vigilia del debutto: venerdì sera (repliche il 21 e 23 marzo) al Municipale di Piacenza infatti andrà in scena Rigoletto diretto da Gunter Neuhold e con regia di Marco Bellocchio.

«Quando mi avevano chiesto di curare la regia di un'opera di Wagner ho detto di no - ricorda il regista piacentino - Non me la sono sentita, è un autore che non conosco bene. Per la verità la mia cultura nel campo lirico è piuttosto lacunosa, ma Verdi è Verdi e le arie di Rigoletto, come Caro nome e Tutte le feste al tempio le sentivo canticchiare da mia madre quand'ero bambino».

Quest'opera gli piace perché «equilibrata» e ha trovato particolarmente eccitante l'esperienza anche perché gli ha consentito di trascorrere qualche settimana a Piacenza, la sua città natale che aveva lasciato quasi mezzo secolo fa.

«Fino a 15 anni ho vissuto a Piacenza, poi sono andato a studiare a Lodi, dai padri barnabiti, e dopo la maturità a Londra. Per fare cinema mi sono stabilito a Roma, dove abito tuttora, e quando torno dalle mie parti non mi fermo mai in città, vado direttamente a Bobbio. E' stato piacevole e curioso ritrovare i luoghi dell'infanzia, anche se sono molto cambiati. Una volta Piacenza era chiusa dentro le sue mura, poi ha cominciato a espandersi all'esterno ed è cambiato anche il modo di vivere. Era una città provinciale, per molti mesi quasi nascosta tra le nebbie padane e nella quale si respirava un clima politico molto teso. Una vita tranquilla, famiglia, scuola e chiesa - non dovevo nemmeno attraversare la strada per completare il percorso - ma minacciata da un pericolo che sembrava farsi ogni giorno più minaccioso, quello dei comunisti che, secondo la propaganda, avrebbero portato via tutto, case, terreni, denaro e avrebbero costretto ad abiurare la fede. Ma ciò non impediva ai giovanotti nei bar di parlare di donne, di vantarsi delle loro conquiste. Io non ho fatto in tempo a partecipare a queste chiacchierate ma ne ricordo l'eco e rileggendo il libretto di Rigoletto mi sono reso conto che le atmosfere di Piave e Verdi sono molto simili a quelle del dopoguerra».

Come, come? Vuoi dire che vedremo un Rigoletto anni '50?

«Ma sì, non c'è una gran differenza tra la corte del Duca di Mantova e la protervia dei ricchi, dei possidenti che erano circondati da impiegati-cortigiani, da piccolo borghesi costretti a fare i buffoni per sopravvivere: ho cercato di costruire un ponte tra quelle due epoche, di mettere a confronto due generazioni di vitelloni. Così, ad esempio, la festa non sarà a corte ma in un albergo di lusso, l'ultima sera di carnevale».

Quel che dici fa crescere e dilatare la curiosità perché rare sono state finora le tue incursioni al di fuori dell'amato e conosciuto terreno del cinema...

«E' la mia prima volta nella lirica mentre ho diretto due spettacoli teatrali, Simone d'Atene con Salvo Randone e Macbeth con Michele Placido, che ricordo sempre con piacere e nei quali, come in questo caso, ho cercato di dare tutto me stesso, di fare le cose nel miglior modo possibile».

Hai avuto difficoltà a lavorare in sintonia con il direttore d'orchestra?

«No, assolutamente. Sono due compiti diversi, dai confini precisi. Io sapevo dove mi sarei dovuto fermare e comunque con Neuhold non ci sono stati problemi: è sempre la partitura a stabilire le regole dell'allestimento».

E con i cantanti? Hai lavorato sulla gestualità, sui movimenti?

«Sì, abbastanza. E devo dire che ho trovato professionisti molto seri, preparati e disponibili: Alberto Gazale è Rigoletto, Gladys Rossi è Gilda e David Miller è il duca di Mantova. Hanno anche il fisico del ruolo e mi dicono che le voci siano molto belle. Mi sarebbe piaciuto lavorare anche più a fondo con loro, battuta per battuta insieme all'orchestra, ma...».

Ma?

«... Ma tre settimane sono troppo poche. Per un film cerco di averne sempre almeno dieci».

A proposito di cinema. Dopo Rigoletto tornerai a Roma?

«Sì, ho un lavoro che mi aspetta, un soggetto di cui ho già scritto diverse versioni. Dovrebbe intitolarsi Il regista dei matrimoni, e racconta di un regista importante che abbandona le riprese dei Promessi sposi e scappa al sud dove conosce uno che i matrimoni li filma per professione. Alla fine, incaricato da un possidente di girare il matrimonio della figlia, il regista manderà a monte le nozze...».

E si ti invitassero a un festival, ci andresti?

«Mah… non so, Certo la delusione di Venezia è stata grande anche se Buongiorno, notte è andato bene nelle sale e ora sta avendo successo in Francia e negli Stati Uniti. Comunque la decisione non potrebbe essere solo mia, un film non appartiene solo al regista. Vedremo...».

Domenica 14 Marzo 2004, 16:47
Raidue: ''Premio Rodolfo Valentino''


Roma, 14 mar. (Adnkronos) - La XXIX edizione del ''Valentino d'Oro'', premio patrocinato dal Presidente della Repubblica, dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, dalla Regione Puglia e dalla Citta' di Lecce, tornato nella terra d'origine dopo venti anni trascorsi a Los Angeles, New York, Rio de Janeiro, Roma e in altre Capitali europee ha premiato, al teatro Politeama di Lecce nel corso di una serata di gala condotta da Paola Perego, spalleggiata dai simpatici Lillo e Greg, in onda domani alle 23.20, i protagonisti dell'ultima stagione cinematografica. I premi sono andati a: Pupi Avati per ''Il Cuore Altrove''; Marco Bellocchio per ''Buongiorno notte''; Carlo Verdone per ''Ma che colpa abbiamo noi''; Christian De Sica, attore dal talento poliedrico e dalla naturale simpatia; Alessio Boni, autentica rivelazione grazie all'interpretazione de ''La meglio gioventu'''; Stefania Rocca, interprete sensibile di ''Prima dammi un bacio'', Vanessa Incontrada, giovane attrice gia' salita alla ribalta cinematografica internazionale. (Sin/Gs/Adnkronos)

Forza Italia e la psichiatria
(non sanno neanche quello che si dicono)

Vita 15.3.04
Psichiatria: il ministro Sirchia difende la 180
Lo ha fatto sabato scorso, a Trieste, spiegando il suo sostegno alla legge e la necessità di attuarla compiutamente, non di modificarla
di Benedetta Verrini


(...) Il ministro della Salute, Girolamo Sichia [di Forza Italia.Ndr], è intervenuto sabato scorso a Trieste, "a sostegno incondizionato della legge 180" spiega una nota della coop sociale Itaca (www.itaca.coopsoc.it). "Una presa di posizione netta ed autorevole quella del ministro" dicono a Itaca, che potrebbe rivelarsi decisiva nei confronti delle proposte di riforma della legge Basaglia, portate avanti a partire dal 2001 in particolar modo dall'on. Burani Procaccini[anch'essa di Forza Italia.Ndr].
"La legge 180 sulla salute mentale, la cosiddetta 'legge Basaglia', ha dato globalmente buoni risultati -ha dichiarato il ministro Sirchia -. Non si tratta tanto di cambiarla, quanto di dar seguito a quel dettato. La legge 180 è stata in parte inattuata. Se ha un difetto, non è tanto nell'impianto, quanto nella sua realizzazione. La parte domiciliare, la parte di prevenzione della patologia conclamata, tutta la riabilitazione territoriale, la rieducazione sono state applicate in maniera disuniforme: meglio in alcune Regioni, male in altre. Quindi lo sforzo che va fatto, è in quella direzione, non tanto nel senso di cambiare la legge che, con piccole modifiche, mi sembra possa andar bene ancora oggi".
Una legge "in parte inattuata" come la maggior parte delle associazioni di familiari e psichiatri italiani dicono da anni. Se uno sforzo va fatto non deve essere "nel senso di cambiare la legge" 180, "quanto nella sua realizzazione". La Basaglia -sottolinea il ministro Sirchia- "mi sembra possa andar bene ancora oggi".

Paul Klee a Roma

una segnalazione di Marco Pizzarelli

GRANDI EVENTI CULTURALI:
TUTTO KLEE AL VITTORIANO


(un repertorio di immagini delle opere dell'artista può essere visto a questo indirizzo)

ROMA. Si è aperta sabato 13 al Vittoriano la mostra dedicata a Paul Klee, e continuerà fino al 27 giugno. Da oltre vent'anni Roma non dedicava un'antologica a Klee, tra i grandi maestri del Novecento: ora sarà possibile ammirare 200 opere che ripercorrono l'intera attività dell'artista, dalle grandi tele alle 'miniature' multicolori, dai lavori di grafica ai disegni a china su carta. La mostra, nata sotto l'Alto Patronato del Presidente della Repubblica e promossa dal Comune, si avvale di un prestigioso comitato scientifico di cui fanno parte i curatori Hans Christoph von Tavel (direttore dell'Istituto Svizzero di Cultura di Roma) e Claudio Strinati, sovrintendente al Polo Museale Romano. "L'arte è l'immagine allegorica della creazione", affermava Paul Klee. Il pittore elvetico, nato nel 1879, fu insolitamente prolifico: solo nel 1939, anno che precede la morte, realizzò 1200 opere. Klee è ricerca per eccellenza e la mostra ne ripercorre le tappe in sette sezioni: gli esordi (le "Invenzioni" del 1903 - 1905); il lavoro sui colori ispirato dal viaggio in Tunisia del 1914; la fase classica de "Il Cavaliere Azzurro"; infine gli ultimi anni, le settanta opere del periodo pre-bellico su cui morte e disfacimento proiettano le loro ombre.

La mostra è aperta da lunedì a giovedì, ore 9.30 - 19.30; venerdì e sabato fino alle 23.30, domenica fino alle 20.30.
Il biglietto costa intero 9 euro, ridotto 6,50 euro.
Per maggiori informazioni, 06-6780664.

«La ricerca dell'identità»
secondo Vittorio Sgarbi e Sigmund Freud...

Gazzetta del Sud 16.3.04
DA TIZIANO A DE CHIRICO
Esposizione curata da Vittorio Sgarbi, al polo culturale Sant'Agostino di Ascoli Piceno
dal 4 aprile al 27 giugno
«La ricerca dell'identità», cinque secoli di ritratti
di Franco Geraci


«La ricerca dell' identità, da Tiziano a de Chirico» è il titolo di una mostra curata da Vittorio Sgarbi, in programma al polo culturale Sant'Agostino di Ascoli Piceno dal 4 aprile al 27 giugno. Si tratta – riferisce il critico – di un'evoluzione delle rassegne precedenti di Cagliari e di Palermo ed è il tentativo di esaminare nell'arte il momento in cui le figure ritratte non sono solo un'immagine, ma svelano uno scandaglio interiore e l'anima nel volto, con un riferimento all'analisi della psiche studiata da Freud a inizio Novecento. Nella mostra, affinché l'indagine assuma un significato storico, lo spaccato temporale si allarga a cinque secoli e quindi non soltanto agli anni che corrispondono alle ricerche del padre della psicanalisi. l'esposizione si incentra su opere e artisti italiani dal '500 ad oggi. L'analisi si svolge attraverso la ritrattistica, intesa non come produzione di immagine anche ufficiale, ma come ritratto psicologico. Nello specifico delle opere, si sottolineano aggiunte di grande rilievo, con lavori di Leandro Bassano, Pier Leone Ghezzi, Augusto Mussini, Osvaldo Licini, che completano il panorama della già ricca esposizione di Tiziano, Jacopino del Conte, Passerotti, Carracci, Ribera, Preti, Voet, Mola, Fra Galgario, Solimena, Pitocchetto. Il Novecento, secolo di Freud, il periodo dove la proiezione di incubi e sogni, l'interpretazione di ansie ed inquietudini, mostrano la condizione dell'uomo nella metafora dell'assenza degli spazi vuoti e desolati, è rappresentato anche da lavori di Boccioni, De Chirico, Viani, Sironi, Scipione, Guttuso, Ligabue, Pirandello. O anche da artisti non molto conosciuti, ma comunque da scoprire, come Micaelles, Villani, Buratti, ed altri inclini alla visione esistenziale come Gnoli, Ferroni, Music, Sughi, Guarienti, Fioravanti. L'organizzazione della mostra è di Tekne, il coordinamento generale di Gilberto Algranti. La rassegna è corredata da un catalogo edito da Skira.

Cina

Repubblica 16.3.04
La Shanghai di oggi ricorda l'euforia speculativa che la California conobbe alla fine degli Anni Novanta
Cina, nel futuro della finanza il mistero della Grande Borsa
"Gli investitori accorrono da tutto il mondo per comprare il miracolo cinese"
Tante però le analogie con la febbre della New Economy: "Per un affare, cento mine"
di FEDERICO RAMPINI


SHANGHAI - La camera 1624 dell´Hilton di Shanghai ha lo stesso ospite da tredici anni. L´avvocato d´affari Norman Givant di Berkeley vi posò la valigia per soggiornare pochi mesi e non l´ha più lasciata. Givant è un pioniere nell´assistere le imprese occidentali che investono in Cina. Arrivò quando il leader comunista Deng Xiaoping rilanciava Shanghai: il centro dell´esperimento capitalista che doveva salvare la Cina dall´isolamento internazionale dopo la Piazza Tienanmen. Da allora, divenuto socio di uno dei più grandi studi legali americani, Givant è stato travolto dal successo al punto da non avere tempo di cercar casa («con i soldi che gli ho dato - brontola - dovrei possedere tutto l´Hilton»). E´ la persona giusta per affrontare una questione delicata: il profumo di bolla speculativa che aleggia su questa città, e ricorda l´euforìa finanziaria che vedemmo nascere in California alla fine degli anni 90.
«Tutti gli investitori del mondo accorrono per comprare un pezzo del miracolo cinese prima che sia tardi - osserva l´avvocato californiano - ma un quarto delle aziende quotate a Shanghai sono in perdita. Non è una Borsa dove metterei i miei risparmi. Il finanziere americano Warren Buffett, che di solito non sbaglia, sei mesi fa ha comprato azioni della China Petrochemicals e per ora ci ha solo perso. George Soros sostiene che il mondo è troppo esposto in investimenti cinesi. Se mi guardo attorno, per ogni opportunità d´oro vedo cento mine vaganti». Le analogie con la febbre della New Economy sono palpabili. La più grande società cinese che ha fatto il suo ingresso in Borsa negli ultimi mesi - una compagnia assicurativa - ha ricevuto prenotazioni 130 volte superiori ai titoli in vendita. Tre siti Internet quotati al Nasdaq hanno triplicato il loro valore negli ultimi dodici mesi e sono tutti cinesi: Sina.com, Sohu.com e NetEase.com. Drogato dagli acquisti dei cinesi d´oltremare che tornano a comprar case nella madrepatria, il prezzo del metro quadro a Shanghai vola. Per calmare la speculazione immobiliare la banca centrale annuncia un nuovo limite sul credito: d´ora in avanti i palazzinari potranno farsi prestare dalle banche «solo»...il 70% del capitale investito.
Victor G.H. Ho, avvocato d´affari del China Practice Group, non è meno severo del suo concorrente americano. «Noi cinesi siamo speculatori nati - dice - e il nostro mercato è poco trasparente. In passato la maggior parte delle aziende che approdavano alla quotazione in Borsa lo facevano non perché erano le più sane ma perché erano a corto di soldi e avevano gli appoggi politici. Lo Stato privatizza ciò che non rende, usa la Borsa come un sostituto delle tasse. Il mercato funziona se ispira fiducia e la fiducia si costruisce con le regole. Qui un arbitro imparziale non esiste, i giudici sono spesso militari in pensione, inesperti o peggio».
Al numero 315 della strada Zhong Shan sono ricevuto da Zhang Wei, una specie di Cuccia cinese che fa e disfa la geografia di questo capitalismo nascente. Gestisce una merchant bank dalle strategie arcane - come la vecchia Mediobanca - che al tempo stesso è una sorta di Gepi, la holding di Stato in cui i nostri governi democristiani infilavano aziende pubbliche decotte. Questa cosa si chiama Shanghai United Assets and Equity Exchange. Fuori dalla porta di Zhang Wei c´è la fila dei manager di multinazionali straniere che vogliono comprarsi pezzi dell´industria cinese in dismissione. «Ho chiuso un affare con la francese Alcatel - dice - le abbiamo venduto il 51% della Shanghai Bell, l´azienda telefonica municipale, socio di minoranza resta il governo locale». Gli investitori stranieri, quando comprano aziende pubbliche inefficienti, per ristrutturarle arrivano a offrire 5.000 dollari di buonuscita ad ogni lavoratore: una fortuna.
Tante volte nella storia la Cina è stata l´oggetto del desiderio del capitalismo occidentale. L´ultima infatuazione risale a 12 anni fa: allora nasceva una «bolla» cinese il cui ricordo è annebbiato da quel che è accaduto dopo, la crisi asiatica del ?97 e la febbre della New Economy. 9 ottobre 1992: la Brilliance China Automotive - una holding con sede alle Bermuda proprietaria di un´azienda di Stato per la produzione di minibus - faceva il suo ingresso a Wall Street. L´indomani le sue azioni andavano talmente a ruba che il volume di scambi era secondo solo alla Ford. Febbraio 1993, un´altra casa automobilistica cinese veniva collocata a Hong Kong: la domanda delle sue azioni era 657 volte l´offerta.
Nella bolla cinese dei primi anni 90 molti stranieri hanno lasciato le penne, ma stavolta la posta in gioco è più importante. La stabilità politica del paese dipende dalla crescita. Il premier Wen avverte i rischi di surriscaldamento dell´economia, ma il pericolo più immediato è un altro: se si guasta il giocattolo di Shanghai, questa macchina che ha garantito una crescita del Pil del 9% all´anno, come reagirà la middle class che assapora un benessere di tipo occidentale? 200 milioni di consumatori medioalti, i privilegiati delle metropoli costiere, sono la prima constituency su cui poggia la nuova legittimità dei leader e del loro esperimento liberista. Una recessione sarebbe più dura per gli 800 milioni di contadini, ma è il ceto medio di Shanghai, quello che legge inglese e naviga su Internet, che rischia di cercare sfogo nel «cattivo esempio» di Hong Kong, nelle sue manifestazioni di protesta e nella sua sete di democrazia.
La febbre finanziaria genera crisi improvvise, tuttavia questo boom poggia su un´economia reale più robusta di un decennio fa. Lo testimonia l´impazzimento mondiale del trasporto marittimo, i porti congestionati e gli armatori a corto di navi per l´impennata (+35% in un anno) del traffico di merci dalla Cina e per la Cina. Lo dimostra lo spessore del mercato interno: un televisore per ogni famiglia cinese, un frigo e una lavatrice in quattro case su cinque, un Dvd e un condizionatore d´aria nel 50% delle famiglie, il 20% col personal computer, 70 milioni navigano online, 200 milioni hanno cable-tv e telefonino. «La bolla può scoppiare e si possono perdere tanti soldi - conclude Ho - ma questo ormai è il paese dove gli investitori occidentali saranno condannati a ritornare sempre».
(3 - FINE)

gli esordi di Ungaretti

La Stampa Tuttolibri 13.3.04
L’ufficiale sul Carso scoprì Ungaretti
di Gianpiero Chirico


INIZIA sul Carso messo a ferro e fuoco, l'avventura dell'uomo di penna naufragato nel «porto sepolto»; l'amicizia tra un poeta da scoprire e un generale pigmalione si apre su un'età, quella della Grande Guerra del 1915-’18, che segna la nascita alla poesia di Ungaretti, soldato di trincea, assegnato al fronte, nella brigata Brescia, 19° reggimento, compagnia comandata dal tenente Francesco Giangreco, siciliano. Giangreco è un ufficiale inflessibile e un uomo incline alla cultura: sin dal primo momento capisce che quel giovane è diverso dagli altri. Tutto inizia quando un suo sottoufficiale ritiene opportuno riferire su alcuni episodi che si ripetono con una certa frequenza. Racconta di un soldato assente e assorto che più di una volta ha attirato le schioppettate austriache a causa della sua mania di accendere un fiammifero o una lampada tascabile per annotare misteriose parole su fogli di carta. La storia la racconta Antonio Brancaforte, già docente di filosofia all'Università di Catania, (IBN), che ha raccolto la testimonianza del generale Giangreco, suo suocero, prima che morisse. Il tenente Giangreco incuriosito dal foglio matricolare del ventisettenne soldato dalle origini italo-egiziane e formazione francese, lo fa chiamare e ne rileva l'intelligenza: il fante Ungaretti parla di «impulsi incoercibili a fissare immagini affioranti da oscure profondità». Ungaretti rischia la corte marziale e la fucilazione: i commilitoni del poeta lo credono una spia per l'atteggiamento, per il suo silenzio, per la sua diversità. Il tenente decide di non farlo processare per spionaggio, così come segnalato dai subalterni. E' l'inizio di un'amicizia e di uno scambio di idee. Il tenente ha trovato un interlocutore, anche se non capisce la poesia rivoluzionaria dell'allora sconosciuto Ungaretti, il quale ha solo pubblicato qualche lirica sulla rivista fiorentina Lacerba, spregiudicata e combattiva, che sulla testata riporta un verso programmatico di Cecco d'Ascoli: «Qui non si canta al mondo delle rane».
Giangreco prende anche la decisione di toglierlo dalla trincea e lo assegna ai servizi nelle retrovie, dove può svolgere solo mansioni d'ufficio. Questo non impedisce, comunque, ad Ungaretti di partecipare, quando è proprio necessario, ad azioni di guerra, ma gli concede il tempo per coltivare i propri interessi.
Il giovane può adesso accendere tutte le luci che vuole e scrivere lontano dalla trincea. Senza rendersene conto l'ufficiale aveva predisposto quelle condizioni ottimali per favorire la nascita di un poeta. Giangreco confidò anche di essere stato il primo ad ascoltare la stesura di «Stasera». Al fronte, nelle gelide notti del Carso, Ungaretti leggeva e il tenente ascoltava: «Balaustra di brezza per appoggiare la mia malinconia stasera», una versione che sarebbe diventata altrimenti: «Balaustra di brezza per appoggiare stasera la mia malinconia». I versi ascoltati dal tenente vengono pubblicati in una plaquette di ottanta copie a cura di un altro amico letterato e militare per caso, Ettore Serra, dal titolo emblematico di Il porto sepolto del 1916: fu lo stesso Giangreco a far incontrare i due.
Ungaretti ha conosciuto diversi scrittori che lo hanno educato al gusto per l'avanguardia, come Mallarmé, Laforgue, Apollinaire, Fort, Léger, Soffici, Papini, Prezzolini, Braque e Serra. Ma è Giangreco, sconosciuto ufficiale di fanteria, silenziosa figura di amico, a incoraggiare il poeta: semplicemente levandogli la baionetta e mettendogli nelle mani la penna. Ha capito forse prima di tutti qual è la natura che anima l'uomo Ungaretti. Che infischiandosene della guerra e delle fucilate, sentiva di dover accendere fiammiferi per «, come scriverà nella Vita d'uomo edita da Mondadori nel 1974. Quale influenza ebbe il Giangreco su Ungaretti? La risposta è nelle stesse confessioni di Ungaretti. «Sono nato poeta in trincea». In guerra dice di «aver trovato il linguaggio: poche parole piene di significato che dessero la mia situazione di quel momento. Quest'uomo solo in mezzo ad altri uomini soli, in un paese nudo, terribile, di pietra, e che sentivano, tutti questi uomini, ciascuno singolarmente la propria fragilità». Del carteggio Giangreco-Ungaretti non rimangono che due lettere; una del 1942, l'altra del 1963. La prima è una risposta a una lettera di facilitazioni per la nomina a membro della Reale Accademia d'Italia. La seconda è invece lo stanco rifiuto del poeta all'invito di recarsi nuovamente sul Carso. Forse senza quell'uomo il poeta avrebbe avuto maggiori probabilità di morire nella roulette della guerra.

il cervello dei primati e nuove scoperte archeologiche in Perù
da Le Scienze (ed.it. dello "Scientific American")

Le Scienze da "Scientific American" 13.03.2004
Il cervello dei primati
La corteccia frontale è la sede del ragionamento


In uno studio sui cervelli dei primati, alcuni ricercatori del California Institute of Technology di Pasadena hanno scoperto che tutti i primati, dall'uomo alle scimmie, possiedono una corteccia frontale insolitamente larga se confrontata alle dimensioni generali del cervello. Si tratta della parte del cervello usata dagli esseri umani per il pensiero superiore e il ragionamento. "Più il cervello di un primate è grande, - spiega Eliot Bush, uno degli autori dello studio - più la corteccia frontale sarà sproporzionata".
Pur non spiegando veramente cosa separi gli uomini dagli altri animali, la ricerca suggerisce però che quello che rende uomini e scimmie differenti dagli altri mammiferi è insito nel loro patrimonio comune di primati. Un confronto con i carnivori, l'ordine che include leoni, tigri e cani, mostra che questi ultimi non possiedono una corteccia frontale ugualmente grande. Ciò spiegherebbe perché un piccolo gatto domestico di due chili è intelligente tanto quanto un leone di quaranta chili.
Secondo Bush, però, i risultati pubblicati sulla rivista "Proceedings of the National Academy of Sciences" non confermano le teorie secondo cui il comportamento umano dipenda in parte da una corteccia frontale eccessivamente grande rispetto al resto del cervello. Quello che conta, infatti, non è la proporzione fra questa regione e il cervello, ma le sue dimensioni. I lemuri e altri piccoli primati hanno una proporzione maggiore ma un cervello più piccolo, e dunque anche una corteccia frontale piccola, mentre gli uomini e le scimmie più grandi hanno un cervello più grande e, anche se la proporzione è meno elevata, la corteccia frontale finisce con essere molto grande.

Le Scienze da "Scientific American"
Nuove mummie Inca in Perù
L'area fa parte di uno dei maggiori siti funebri dell'emisfero occidentale


Dozzine di mummie risalenti a più di 500 anni fa sono state scoperte lungo il percorso di una futura autostrada nei dintorni di Lima, la capitale del Peru, nei pressi di un antico cimitero Inca. Gli archeologi hanno dissepolto 26 involucri sepolcrali, ciascuno contenente una o più mummie di adulti e bambini, che risalgono al periodo compreso fra il 1472 e il 1532. Nel 1533, gli Inca vennero sconfitti dai conquistatori spagnoli.
"Quest'area - ha dichiarato all'agenzia Reuters l'archeologo Guillermo Cock, esperto di culture andine e incaricato dalla municipalità di Lima di perlustrare la regione alla ricerca di artefatti prima di cominciare la costruzione della strada - fa parte del cimitero di Puruchuco-Huaquerones, il più grande cimitero Inca del Perù e uno dei maggiori dell'emisfero occidentale". Gli archeologi non conoscono ancora il numero esatto di mummie del sito, in quanto molti involucri non sono ancora stati aperti e altri sono tuttora parzialmente sepolti. Alcuni erano già rotti e mostrano teschi e mummie ricurve con tessuti legati al corpo e offerte nelle mani.
Secondo gli esperti, vi sono evidenti segni di rituali precedenti le sepolture. Ci sono infatti resti di mais, fagioli, foglie di coca e vasi. Le autorità hanno dichiarato che, nonostante la scoperta, la costruzione della strada proseguirà come previsto.

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