mercoledì 2 febbraio 2005

parade

marketpress.info
GLI SCIENZIATI BRITANNICI SCOPRONO COME RENDERE LE CELLULE OCULARI SENSIBILI ALLA LUCE


Bruxelles, 2 febbraio 2005 - Un team di ricercatori dell'Imperial College di Londra e dell'università di Manchester ha scoperto come rendere le cellule oculari sensibili alla luce, aprendo così la strada a una possibile cura di alcune forme di cecità. Gli scienziati hanno scoperto che attivare il gene melanopsina nelle cellule che normalmente non lo utilizzano le si rende sensibili alla luce e in grado di generare segnali biologici. 'È da sottolineare che basta attivare un solo gene per creare un fotorecettore funzionale', ha detto Mark Hankins, dell'Imperial College di Londra. 'Secondo la descrizione classica, l'occhio contiene solo due sistemi sensibili alla luce, bastoncelli e coni. Ma negli ultimi anni si è sempre più propensi ad ammettere che abbia un terzo sistema, che usa la melanopsina, rimasto nascosto durante decenni di ricerche scientifiche', aggiunge Rob Lucas, dell'università di Manchester. La visione dipende dalla capacità dei bastoncelli e dei coni presenti nella retina d'interpretare i livelli di luce. La cecità spesso è dovuta a una malattia della retina che ne distrugge i recettori. Lavorando sui topi, il team ha constatato che le cellule in cui veniva attivato un gene di melanopsina agivano come fotorecettori. 'La scoperta potrebbe offrire agli scienziati lo spunto per curare la perdita della visione', ha spiegato Lucas. Fare in modo che le cellule dell'occhio reagiscano alla luce non è una cura per la cecità, ma i ricercatori stanno lavorando con gl'ingegneri medici su protesi retiniche che aiuteranno i pazienti con alterazioni della vista a vedere più chiaramente. I geni melanopsina potrebbero inoltre essere inseriti nelle cellule intatte delle retine malate, trasformandole in fotorecettori funzionali. Anche se è molto improbabile che possa in futuro permettere di recuperare completamente la vista, la scoperta permetterà però probabilmente di ristabilire la percezione in bianco e nero. Gli esperti ritengono che la scoperta consentirà di approfondire le conoscenze del sonno, dell'insonnia, della depressione e dei disturbi affettivi stagionali.

ilmattino.it
2 febbraio 2005
GLI INCONTRI DI AVERSADONNA
Ipnosi e conoscenza, la parola all’esperto


Aversa. Venerdì alle 17, presso la sala consiliare del Comune di Aversa, l'associazione culturale Aversadonna in collaborazione con l'assessorato alla Cultura presenta per l'edizione 2005 di «Incontro con l'autore» la conferenza di Angelo Bona su «Oltre il confine, l'Amore: l'ipnosi regressiva e l'apprendimento del sé». La serata sarà introdotta dalla presidente di Aversadonna, Nunzia Orabona. L’autore, proporrà alcune storie tratte dal suo ultimo lavoro, «L'amore oltre la vita: l'ipnosi regressiva e il segreto della reincarnazione». Il testo è una sorta di libro-terapia in cui vengono analizzati i casi di alcuni pazienti malati d'amore. Secondo Angelo Bona, attraverso l'ipnosi si rivivono, grazie alla memoria, i ricordi del periodo prenatale e di vite passate e questo ci può aiutare a capire noi stessi e soprattutto cosa significa amare. Per lo scrittore, medico anestesista e psicoterapeuta, il nostro spirito è in grado di apprendere, dai tanti percorsi che compie, la legge universale dell'amore. La parola amore può significare tante cose, può essere sinonimo di felicità, scoperta e piacere, ma può essere accostata anche al dolore e al tradimento. L'amore ci porta a fare i conti con la nostra anima e Bona ci aiuta ad entrare in contatto con la vera essenza di noi stessi per poter capire l'amore e capire la nostra personalità. Non sono molte le persone che conoscono questo tipo di psicoterapia che «conduce il paziente indietro nel tempo - spiega Bona - grazie ad essa è possibile recuperare ricordi dimenticati o contenuti profondi assopiti nell'inconscio dell'attuale vita o, come io sostengo, a favorire l'affioramento di memorie prenatali di vite precedenti».

ladige.it
2 febbraio 2005
Etica e malattia mentale:
la riflessione in psichiatria


Cosa c'entra la bioetica con la malattia mentale? E quali sono i problemi che l´etica impone alla pratica psichiatrica? Sono solo alcune delle domande che la dottoressa Lucia Galvagni, ricercatrice di bioetica, proporrà all'attenzione del pubblico nella conferenza alle 20.30 alla Sala della Tromba nel capoluogo.
Si tratta del secondo appuntamento degli incontri dal titolo «Salute mentale, empowerment e cittadinanza attiva» organizzati da Comune di Trento, Azienda Sanitaria provinciale, associazioni del Mutuo Aiuto e la Panchina.
Galvagni: il termine "etica" viene spesso associato alle questioni di cronaca più stretta. Che c´entra con la malattia mentale?
In effetti, sui giornali e in televisione le questioni che hanno più risalto sono quelle che noi chiamiamo dell´ "etica di frontiera", che riguardano spesso una scelta pubblica, che va fatta dalla comunità nel senso allargato e che richiede una decisione politica di avvallo. Si tratta dei temi della fecondazione assistita, delle cellule staminali, o questioni che tutti i giorni le persone che operano nella sanità e nella pratica clinica si trovano ad affrontare».
E nella malattia mentale?
«La malattia mentale è particolare, si accompagna a fasi acute e a momenti meno difficili. Se in tutti gli altri ambiti il paziente è sempre più sollecitato a dare il suo parere ed il suo consenso alle cure, nell´ambito della psichiatria la questione si fa delicata».
In quali termini?
«Nello stato più grave della malattia mentale, la persona non è in grado di fornire il proprio parere su una terapia o su un controllo. Le questioni etiche, qui, non sono teoriche, ma diventano pratiche, e riguardano il se, il quando, il come intervenire».
L'intervento può essere violento...
«Possiamo pensarle come forme di violenza, o diversamente come forzature per riportare il soggetto all´unità di sé stesso. Certi bioeticisti parlano di "violenza diabolica" e "violenza simbolica". Se la violenza è volta a riportare il paziente ad avere coscienza, ci pare legittima. E il punto di vista è duplice: da chi la riceve, e dall´operatore».
Quindi una violenza che è sempre legittima?
«Il tentativo è quello di trovare nuove forme di accompagnamento, di cura meno puntuale e non solo nei momenti acuti. Magari educando all´autonomia. Cercare quindi di aiutare le persone malate a prendere coscienza dei propri limiti. A pensare: "mi sento strano, mi sta per succedere qualcosa". Non è un'utopia, ma una sfida, e il lavoro nelle comunità va in questo senso».
Con quali risultati?
«Ad esempio prendendosi cura del malato non solo per la sua mente, ma anche per il suo essere un corpo. Con l'attenzione all'interiorità, ad uno spazio che deve restare personale».

clicmedicina.it
1 febbraio 2005
Calo della libido primo sintomo sentinella dell’ipogonadismo


L’ipogonadismo, o carenza di testosterone, colpisce in media il 6% degli uomini adulti. La vaghezza di alcuni sintomi, come l’astenia e la depressione, rende spesso difficile la diagnosi. Le ultime ricerche si sono concentrate dunque su quelli sessuali e, in particolare, sul calo del desiderio, che è risultato il sintomo sentinella più importante. Secondo uno studio dell’Unità di Andrologia di Firenze su 1300 adulti, un paziente su tre (30% dei casi), che si rivolge al medico per problemi di disfunzione sessuale risulta affetto da ipogonadismo.
“Dal nostro studio - spiega il professor Mario Maggi, Ordinario di Endocrinologia dell’Università di Firenze – la frequenza di ipogonadismo tra i pazienti con disturbi sessuali risulta 5 volte maggiore rispetto alla popolazione adulta generale. Il dato è particolarmente importante per la diagnosi. Spesso, infatti, i pazienti non riconoscono gli altri sintomi e si rivolgono al medico solo in presenza di problemi nella vita sessuale”. Ma quali possono dipendere dall’ipogonadismo? “La ridotta presenza di desiderio e la conseguente riduzione dell’attività sessuale – continua Maggi –. L’azione del testosterone riguarda infatti la libido, poiché questo ormone ha la funzione di correlare il desiderio con l’atto vero e proprio, innescando l’inizio e la fine dell’erezione.”
Un’ulteriore conferma arriva dai dati relativi a circa 20.000 uomini, visitati nella Settimana della Prevenzione Andrologica dal 2001 al 2003, patrocinata dalla SIA, Società Italiana di Andrologia. “Mediamente oltre il 20% dei pazienti osservati lamenta un calo della libido: in questi casi è probabile che vi sia una diminuzione del testosterone. – spiega il professor Vincenzo Gentile, presidente SIA – Una valutazione dei livelli di testosterone circolante dovrebbe dunque considerarsi un test di routine.”
L’ipogonadismo è anche strettamente correlato all’avanzare dell’età, che comporta un calo fisiologico dell’1-2% della produzione di testosterone ogni anno. “Quando questo calo è importante può dare origine ai sintomi dell’ipogonadismo: in questo caso si parla di PADAM, Partial Androgen Deficiency of Aging Male – commenta il professor Giorgio Valenti, Ordinario di Geriatria dell’Università di Parma e presidente di ISSAM Italia (Sezione italiana di ISSAM, la Società internazionale che studia l’invecchiamento maschile) - Dopo i 50 anni i sintomi vanno ricercati oltre che nella sfera sessuale anche in quella psichica (calo di concentrazione e di memorizzazione e alterazioni del tono dell'umore) e in quella somatica (astenia, turbe del ritmo del sonno). In base alla gravità dei sintomi e dei livelli ematici di testosterone i pazienti con PADAM possono essere selezionati per il trattamento.”
L’ipogonadismo, se non trattato, può dare origine a complicanze importanti: astenia, depressione e problemi cognitivi, osteoporosi, anemia, aumento della massa grassa e diminuzione di quella muscolare.
La corretta diagnosi risulta molto importante per una cura tempestiva, possibile oggi grazie a terapie sempre più tollerate e efficaci. Recentemente anche in Italia è stato introdotto il testosterone in gel, la formulazione di più facile applicazione e che permette di ripristinare i livelli fisiologici del testosterone.
“Dagli studi la formulazione in gel risulta essere quella più adeguata al trattamento. L’ormone contenuto nel gel, infatti, viene assorbito nella cute e rilasciato lentamente in modo da determinare livelli costanti di ormone nel sangue nelle 24 ore.” – commenta il professor Vincenzo Mirone, Ordinario di Urologia, Direttore Scuola di Specializzazione in Urologia, Università Federico II di Napoli e presidente ESAU, European Society of Andrological Urology -. Diversi studi hanno evidenziato l’efficacia di questa terapia. Contrariamente alle iniezioni e ai cerotti, il gel ha permesso di raggiungere livelli ottimali di testosterone già alla prima applicazione e di mantenerli anche nelle terapie a lungo termine. I pazienti hanno mostrato un miglioramento della funzione sessuale intesa come aumento della libido e della performance sessuale e un miglioramento dell’umore e stato di benessere. A lungo termine la terapia può inoltre migliorare la distribuzione della massa grassa e magra corporea e la densità minerale ossea. Rispetto alle vecchie cure, il gel evita inoltre gli effetti collaterali delle applicazioni, come il dolore delle iniezioni, le irritazioni cutanee dei cerotti e soprattutto le oscillazioni dei livelli di testosterone nel sangue.
Il testosterone è il più attivo e importante ormone maschile e permette il normale sviluppo dell’apparato genitale e, in generale, del fisico dell’uomo. È prodotto dalle cellule di Leydig del testicolo in quantità media di 5-7 milligrammi al giorno. Il livello circolante di testosterone normale nel maschio adulto è di circa 12 – 40 nmoli/l.
Sono ipogonadici i pazienti con livelli di testosterone inferiori a 7 nmoli/l e dunque da trattare. Nel caso i pazienti abbiano livelli inferiori a 12 nmoli/l, si parla si ipogonadismo lieve, e la presenza di sintomi può far decidere per il trattamento.

«Imparare a vedere»

La Stampa TuttoScienze 2.2.05
Wiesel, premio Nobel: così si impara a vedere
di Lamberto Maffei, della Scuola Normale Superiore, Pisa


DOMANI pomeriggio Torsten Wiesel, premio Nobel della medicina nel 1981, sarà a Torino, ospite di «GiovedìScienza», per parlare dell’affascinante tema «Imparare a vedere» (teatro Colosseo, via Madama Cristina 71, ore 17,45, ingresso libero, informazioni tel. 011- 839.4913). Wiesel è un grande scienziato, ma anche un grande uomo, di saggezza e moralità ammirabili. La sua conferenza affronterà un problema tra il filosofico e lo scientifico che da sempre appassiona l’uomo. Molti pensatori del passato sono intervenuti su questo problema domandandosi se l’esperienza sia maestra nello sviluppo delle funzioni cerebrali e in particolare della visione. Voltaire con una modernità impressionante scrisse: «Si impara a vedere così come si impara a parlare e a leggere». La ricerca moderna ci conferma che Voltaire aveva una parte di ragione. Ovviamente l’importanza dei geni nella formazione e nello sviluppo del cervello visivo è fondamentale e molta della grammatica nella lettura delle immagini retiniche è già pronta alla nascita, ma certamente non tutto. L’esperienza interviene, affina risposte fisiologiche, cambia la morfologia cerebrale e rende operanti, nel senso di utili, quando non indispensabili alla vita, funzioni che altrimenti sarebbero rimaste ad uno stato di lavoro primitivo. Ma, come dice Alice nel paese delle meraviglie, cominciamo la storia «from the very beginning». Le prime straordinarie dimostrazioni dell’importanza dell’esperienza nello sviluppo della visione venne dalle osservazioni sui pazienti operati di cataratta congenita. Una volta, fino a una trentina di anni fa, questi pazienti venivano operati in età tardiva per evitare i pericoli dell’anestesia. Oggi i bambini con cataratta congenita vengono operati nei primi sei mesi di vita con recupero completo della visione. I pazienti del passato, dopo l’operazione, cioè dopo l’asportazione del cristallino opacizzato, non avevano nessuna visione distinta. Nei primi giorni distinguevano solo la luce dal buio, masse confuse delle forme e i colori. A titolo di aneddoto, tra molti simili, ma che di per sé descrive in maniera drammatica i risultati, riporto le parole di uno dei primi pazienti operati di cataratta da Messner nel 1777. Questa persona quando poté vedere per la prima volta il suo operatore esclamò: «Terribile! Ma è veramente questa la forma di un essere umano?». Con il trascorrere di mesi e anni la visione dei pazienti operati migliora, arrivando a individuare dapprima le forme geometriche più semplici e poi via via altre forme più complesse, ma resta sempre confusa e mai arriva ad una visione soddisfacente. Si ricorda il caso di pazienti che, operati da adulti, rifiutano la visione come fonte di informazione preferendo l’utilizzo di altri sensi, l’uso dei quali è stato affinato durante la deprivazione della vista. Non è raro che persone che riacquistano la visione da adulti caschino in uno stato di depressione che in alcuni casi può portare al suicidio. Rimane un problema sostanziale da discutere, e cioè se dobbiamo imparare a vedere ogni cosa per poi riconoscerla o se piuttosto dobbiamo acquisire regole generali che poi ci guidano nella lettura visiva del mondo. Per quello che possiamo sapere dalle ricerche sugli animali, sembra più verosimile per molti insiemi di forme, la seconda ipotesi. Un esperienza anche breve del mondo, per alcuni mammiferi riducibile a pochi giorni, sostenuta in un periodo più o meno lungo a seconda degli animali, dopo la nascita, può far partire i meccanismi di sviluppo di un adeguata, normale funzione visiva. Si discute fra neurofisiologi su funzione permissiva e funzione istruttiva dell’esperienza. Nella prima si annoverano quei fenomeni che innescano processi importanti per lo sviluppo dei meccanismi nervosi del sistema visivo; nella seconda quelli che istruiscono un determinato circuito cerebrale alla visione di una determinata forma o insieme di forme. Si crede quindi che, almeno per molti circuiti nervosi, l’esperienza non funzioni da maestra - o non solo da maestra - ma piuttosto da evento necessario e sufficiente per permettere il normale sviluppo. L’esperienza ha il ruolo di un cancello che si apre, permettendo la visione del giardino del mondo. Se il cancello rimane chiuso durante il cosiddetto periodo critico, che è il periodo postatale in cui l’animale, uomo compreso, è più sensibile al mondo esterno, i neuroni della corteccia visiva rimangono ad un livello immaturo di funzione. Il gruppo di ricerca in neurobiologia della Scuola Normale sta attualmente studiando negli animali, con risultati che hanno avuto risonanza internazionale, se sia possibile riaprire le possibilità plastiche del sistema nervoso e in particolare del sistema visivo nell’età adulta, ripristinando la funzione visiva persa per mancanza di esperienza durante l’infanzia. Nelle scienze della vita la ricerca apre solo spiragli di verità, ma resta sempre tantissimo da conoscere e soprattutto da capire. Risultati della ricerca e domande più ambiziose si susseguono per la soluzione dello stesso problema. Sarà interessante ascoltare ciò che Torsten Wiesel ha da dire su «imparare a vedere».

un'intervista
il nuovo libro di Emanuele Severino
e il rancore del Gazzettino

Gazzetta del Sud 2.2.05
La fecondazione eterologa al centro del nuovo libro di Emanuele Severino
I problemi della coscienza religiosa
Meglio nascere, o rimanere per sempre nel nulla?
Mariella Radaelli


Meglio nascere, magari con la fecondazione eterologa, o rimanere per sempre nel nulla? Meglio venire al mondo seppur con una serie di disagi, o non aver mai avuto la possibilità di assaggiare l'esistenza, anche quando velenosa? Con «gli occhi della filosofia», Emanuele Severino affronta questa e altre problematiche del nostro tempo guidato da quel salvatore alternativo che è la tecnica (tra le altre, anche l'uso delle cellule staminali tratte dagli embrioni per scopi terapeutici, garantire la sopravvivenza dei malati) nel nuovo libro, «Nascere. E altri problemi della coscienza religiosa» (Rizzoli). Un volume venato di ironia, anche per un pubblico di non specialisti, in cui il pensiero di Severino ci rigetta nella melma della nostra terra abitata dalla follia, che chiede di esserne liberata, dopo aver mostrato il suo volto consumato. Per tensione verso «la Non-follia», «l'apparire dell'eternità di ogni ente». «Il tramonto della Follia – scrive il filosofo – è l'inevitabile che consiste nel superamento di ogni contraddizione». Allora ecco il manifestarsi della «Gioia», l'«essere autentico dell'uomo».
Professor Severino, è stato detto che lei è favorevole all'eliminazione degli embrioni. «Nemmeno per sogno. Indico soltanto i paradossi che seguono dalla convinzione di coloro che credono di difendere la vita umana».
Può farci qualche esempio?
«Quel grande cristiano che era Soren Kierkegaard sosteneva che “non c'è cristianesimo senza celibato”. “Ma con un principio simile non riuscirai ad avere nessun cristiano!”. “E che mi importa?”, risponde nel “Diario” (1854). A chi gli replica che se invece si terrà unito cristianesimo e matrimonio “si riusciranno ad avere cristiani a milioni”, risponde ancora: “E anche questo a me che importa?”. Ma, a parte la superiore ironia di queste pagine, dove l'“andate e moltiplicatevi” è visto come un “problema di monta equina”, vorrei osservare che – per i cattolici che considerano l'embrione come soggetto giuridico, cioè persona e quindi portatore degli stessi diritti degli adulti – la monta equina o artificialmente assistita e potenziata è una questione tutt'altro che trascurabile».
E con questo dove vuole arrivare?
«In base alle premesse di quei cattolici (non alle mie!), si deve dire, infatti, che il maggior “diritto”, per un uomo che ha la possibilità di esistere, è la possibilità di entrare nel Regno dei Cieli. Ma se gli embrioni – che, in base alle premesse di quei cattolici, sono forniti di tutti i diritti essenziali degli adulti – non sono fatti nascere, ne seguirà che sarà loro impedito di entrare in quel Regno. Parlo anche di quelli che non nasceranno in seguito alle proibizioni relative alla fecondazione assistita. Saranno privati di un “diritto” che è infinitamente maggiore di quelli giuridici: il diritto di avere la possibilità di godere della vita eterna».
Che fare, allora, per non privarli di quel loro supremo diritto?
«Sembra proprio che si debba fare l'opposto di quel che diceva Kierkegaard: naturalmente o artificialmente li si deve far nascere e a milioni, a centinaia e a migliaia di milioni, a rigore, la prima e fondamentale occupazione dei credenti non dovrebbe essere altra che questa grandiosa “monta” naturale e artificiale che non conduce quasi mai alla nascita di uomini, che lascia morire gli embrioni a miliardi. Anche se queste moltitudini verranno tutte sterminate, tuttavia, essendo ancora incapaci di fare del male, saranno pressoché certe di guadagnarsi il Regno dei Cieli».
Ma in questo modo sarà perpetrata la più folle ed esecranda strage degli innocenti?
«Ma è proprio così malvagia e folle questa strage, se apre agli innocenti il Regno dei Cieli? E poi, quale sarebbe l'alternativa? Non farli nascere, trattenerli sempre nel nulla, impedir loro per sempre di aver la possibilità o addirittura la certezza di andare in cielo! E questo non è un delitto infinitamente maggiore dell'omicidio perpetrato da chi toglie agli embrioni la vita terrena per dar loro quella eterna? Ma, si ribatterà, in questo modo le porte del cielo si aprirebbero per gli embrioni, ma non per i loro assassini. E questo, sì, è un bel problema che però scaturisce dalle premesse che sono accettate dagli amici poco affidabili degli embrioni. La “difesa della vita umana” va condotta in modo radicalmente diverso da quello praticato da ogni forma di umanesimo religioso o laico».
Lo scorso dicembre, un suo articolo sul Corriere dedicato all'embrione aveva suscitato polemiche nel mondo filocattolico...
«Eppure due nostri maggiori studiosi del pensiero aristotelico, Giovanni Reale ed Enrico Berti, sono d'accordo con me nell'affermare che l'embrione è un uomo in potenza e si trovano in contrasto con quell'impropria affermazione dei cattolici per la quale l'embrione è un uomo in atto. Il costrutto “metafisico” di potenza è assurdo e contraddittorio. Certamente, almeno per ora, Berti e Reale, non possono far propria la mia affermazione dell'assurdità del concetto di potenza».
Ma chi può con certezza dire che cos'è l'uomo?
«Ma la scienza, naturalmente! Nemmeno i cattolici ne dubitano. La Chiesa fa dipendere le proprie verità dogmatiche al sapere scientifico, che è ipotetico, quindi revisionabile. La scienza ha rinunciato da tempo a mostrare la verità del mondo, la verità in senso forte».

Il Gazzettino di Venezia 2.2.05
POLEMICHE
Il "corpo a corpo" di Severino con la religione
S.F.


Era il 1969 quando il grande filosofo Emanuele Severino approdò all'Università di Venezia, per insegnare Filosofia teoretica, assieme a Teoretica e Sociologia. Aveva appena dovuto lasciare la Cattolica di Milano, in seguito al Processo con cui il Sant'Uffizio aveva dichiarato l'essenziale incompatibilità fra i suoi scritti e la rivelazione cristiana.
E in tutto questo tempo il grande pensatore non ha mai smesso di occuparsi attivamente proprio delle tematiche religiose, nonostante altri durissimi attacchi, come quello arrivato nel 1996 dall'autorevole teologo pontificio Elmar Salmann, il quale lo definì "pericoloso" e "campione del nulla" in un libro dal titolo che era tutto un programma: Contro Severino. Incanto e incubo del credere(Piemme). Ma Severino non ha... perso il vizio, nonostante nel frattempo - finito fuori ruolo a Ca' Foscari (ha 75 anni) - abbia preso a insegnare anche all'Università San Raffaele di Milano, l'ateneo presieduto da Massimo Cacciari ma fortemente voluto da un sacerdote molto noto e discusso, come don Verzè. Anche il suo ultimo libro, "Nascere" (Ed. Rizzoli, € 20), che ha per sottotitolo proprio "E altri problemi della coscienza religiosa", non mancherà di far discutere, visti i temi che tratta proprio alla vigilia del confronto referendario sulla fecondazione, che si preannuncia capace di sollevare vecchie barriere fra laici e credenti.
La sua tesi è nota, ed è stata ribadita anche di recente in vari interventi pubblici: «L'embrione è uomo in potenza, non in atto, per cui non è ancora un uomo nel senso autentico del termine. Ma chi può dirci con certezza chi è l'uomo? Solo la scienza, e anche i cattolici ne sono convinti». E a questo assunto ne fa seguire altri, decidamente sarcastici: «Se il maggior diritto è l'accesso al regno dei cieli, bisognerebbe produrre embrioni a miliardi, per poi sterminarli e garantire così loro il paradiso».
E gli altri capitoli non sono da meno, nell'evidenziare con una scrittura accattivante ma un argomentare serrato, le contraddizioni logiche della Chiesa di fronte alla scienza, alla democrazia, al capitalismo, alla libertà di insegnamento. Sottolineando però, nel contempo, una radicale sfiducia nel destino liberatorio della Tecnica, diventata al contrario il Despota che ha preso il posto di Dio come padrone del mondo e del tempo.E anche su questo aspetto del pensiero di Severino non mancano i contrasti: come quello che ha opposto, l'altra sera alla tre giorni culturale milanese promossa dalla Telecom, lo stesso filosofo al "padrone di casa", Marco Tronchetti Provera. Il presidente di Telecom ha infatti risposto alla riflessione di Severino sul pericolo che la Tecnica diventi non più lo strumento, ma lo scopo delle manifestazioni del pensiero, che «la Tecnica è lo strumento che fa sì che tutti possano scegliere e farsi una opinione, sta a noi poi preservare i valori per decidere e vigilare affinché si impongano dei limiti». Serrata anche la discussione sull'evoluzione del capitalismo, nel quale il filosofo, che ha ricordato di non aver mai seguito i dettami del pensiero marxista, ha ravvisato una attitudine a mantenere una penuria di beni, per ragioni di mercato. Mentre Tronchetti ha replicato che le attuali tecnologie offrano invece un surplus di offerta a chiunque.

sinistra
Bertinotti intervistato dopo le elezioni in Iraq
poi, il congresso ds ed altro...

Repubblica 2.2.05
IL COLLOQUIO
Senza archiviare la richiesta di ritiro immediato, il leader di Rifondazione considera un "fatto nuovo" l'appello all'Onu
Bertinotti, asse con il Professore "Così è sulla linea di noi pacifisti"
A Rutelli: La Margherita votò con noi per il rientro. Se ora ci ripensa, è un problema suo
A Casini Tra il governo e l'opposizione c'è il fossato della guerra. Non voglio pasticci
di GOFFREDO DE MARCHIS


ROMA - La prospettiva del ritiro immediato resta in piedi: «È con la pratica dell'obbiettivo che si anticipa il risultato». Ma adesso può stare sullo sfondo, in secondo piano. Fausto Bertinotti infatti ancora una volta salda l'intesa con Romano Prodi, sta bene attento a non scavare un solco tra la federazione dell'Ulivo e l'intera alleanza di centrosinistra. Non sfascia, semmai cerca di tirare la coperta della politica estera più a sinistra. Il leader di Prc accoglie le parole del Professore sull'Iraq del dopo-elezioni come un «fatto nuovo, importante, una posizione che s'iscrive nelle battaglie delle forze pacifiste. E che fa bene al Paese e alla Gad». Giusto il riferimento all'Onu, giusto pensare al rientro delle truppe. Viene apprezzata soprattutto la conferma del giudizio sulla guerra: «Sbagliata», dice il leader dell'Alleanza.
È il passaggio chiave della dichiarazione di Prodi, grazie al quale regge l'unità dell'Alleanza democratica. Viene così respinto, secondo Bertinotti, il tentativo di disegnare una politica estera dei riformisti diversa da quella della sinistra radicale. E si esclude qualsiasi ipotesi di maggioranze trasversali in Parlamento sull'Iraq del dopo-voto. «Se la destra rinuncia alla guerra, se offre un segno chiaro di discontinuità, se dice che il conflitto è stato sbagliato, se capisce che accanto alla prova di democrazia, in Iraq c'è la contraddizione dei bombardamenti, dei morti, delle stragi...». Il segretario di Rifondazione fa l'elenco delle «condizioni» impossibili. L'augurio di Pier Ferdinando Casini rischia di rimanere tale. Ma la replica di Bertinotti al presidente della Camera è anche un messaggio agli alleati del centrosinistra, in particolare alla Margherita. «Dobbiamo ricordarci che tra il governo e l'opposizione c'è il fossato della guerra. Le convergenze in Parlamento sarebbero un pasticcio. Per me non solo non sono pensabili, non sono nemmeno auspicabili».
Questo momento dunque non assomiglia affatto ai giorni drammatici del rapimento delle due Simone, nessuna strategia bipartisan è realizzabile sulla guerra in Iraq, neanche dopo il voto di domenica. Si può invece «discutere, avviare una riflessione complessa, non lanciare anatemi» come sta facendo Dl in queste ore, anche con Francesco Rutelli che in un'intervista al Giornale ha detto: «Mi chiedo se chi nella Gad parla di elezioni truffa diceva le stesse cose quando le organizzava Saddam». Il presidente della Margherita arriva ad ipotizzare una svolta netta della posizione della Gad: basta parlare di ritiro, nessuno scandalo se come per il Kosovo si formano maggioranze trasversali più ampie. Parole che Bertinotti ha letto come l'ennesimo attacco a Rifondazione. «La Margherita ha votato per il ritiro delle truppe - spiega Bertinotti - . Tutte le opposizioni hanno firmato quel documento. Se qualcuno ora mena scandalo per la posizione che lui stesso ha assunto, beh, è un suo problema. Io dico solo questo: piegare quello che è successo in Iraq alle vicende italiane secondo me è poco esaltante. È un gioco a rimpiattino che ha perfino qualche aspetto di meschinità. Di fronte alla tragedia della guerra e a un popolo che si aggrappa alla possibilità di votare in condizioni proibitive, dovrebbe aprirsi una riflessione più complessa di quella del tipo "ha vinto questo, ha vinto quell'altro". Così si commenta una partita di calcio, non una situazione drammatica».
L'analisi di Bertinotti sul voto di domenica è che «le elezioni non danno luogo alla democrazia», che «è una malattia dell'Occidente confondere i mezzi con i fini», che «accanto alla forza della foto delle donne in fila per votare bisogna ricordarsi le immagini dei bombardamenti, delle stragi, dei morti». «È con queste contraddizioni che dobbiamo fare i conti, è la fuoruscita da questi problemi il vero obbiettivo». Dice che «in tutto il mondo nelle elezioni democratiche la cosa importante è il risultato. In Iraq invece diventa importante la partecipazione e nessuno si chiede qual è stato l'esito della votazione. Questo sottolinea che le elezioni non sono la soluzione di una questione gigantesca». Ecco, per Bertinotti il centrosinistra dovrebbe riflettere su questi temi. Lui non ha paura delle divisioni in Parlamento. «Sulla guerra l'opposizione si è spaccata molte volte, ma tante altre volte è stata unita spinta soprattutto dallo straordinario movimento per la pace italiano che è stato il più grande del mondo. Adesso dovrebbero spiegarci perché si deve cambiare. Si può discutere anche di una nuova mozione parlamentare nuovo, che prenda le mosse dal ritiro delle truppe che hanno fatto la guerra e dal coinvolgimento dell'Onu. Ma lanciare anatemi non è la strada giusta».

Il Gazzettino di Venezia 2.2.05
Rifondazione, al Lido le assise nazionali


Inizia a delinearsi il risultato dei congressi dei circoli di Rifondazione Comunista, in vista delle assise nazionali convocate per il 3-6 marzo al Lido di Venezia. Al momento si sono espressi il 41,6 per cento degli iscritti ai 2000 circoli del partito.
I dati diffusi dall'area dell'Ernesto danno in largo vantaggio la prima mozione (quella di Fausto Bertinotti), che al momento può contare sul 57,3 per cento di consensi, contro 26,8 della seconda mozione (quella, appunto, dell'Ernesto che ha come primi firmatari Claudio Grassi e Giovanni Pesce). Le altre tre mozioni hanno ottenuto rispettivamente il 6,6, il 7,5 e l'1,8.
In totale, quindi, l'area dell'opposizione interna, anche se molto frammentata, ha un alto consenso, poco meno del 43 per cento.
Forse porprio per tenere a freno l'opposizione interna, Bertinotti spinge sulla sua candidatura alle primarie della Gad in laternativa a Romano Prodi. «Ci sono degli inviti che non sono ricevibili» ha risposto il leader di Rifondazione comunista a chi gli chiedeva se il congresso dei Democratici di sinistra dovesse rivolgergli esplicitamente la richiesta di non candidarsi alle primarie.

Liberazione 2.2.05
La sfida dei Ds: il primato a sinistra
di Rina Gagliardi


Un congresso - se possiamo parafrasare i celebri versi di Elizabeth Barrett Browning dedicati alla rosa - è, in fondo, nient'altro che «un congresso, un congresso e un congresso». Ovvero, un evento politico largamente predeterminato, che conclude un lungo percorso più o meno accidentato e ne formalizza gli esiti con la dovuta solennità. Non sfugge a queste regole ovvie il terzo Congresso nazionale dei Ds, che inizia domani a Roma: dove, all'apparenza, tutto è già noto. Noto è il nome del nuovo segretario, Piero Fassino, che si avvia, dopo tre anni ad una riconferma quasi plebiscitaria. Nota, più o meno, è la fisionomia del nuovo gruppo dirigente - e con esso la riconferma, al di là del ruolo formale ricoperto, del «peso specifico» di due personalità politiche quali Massimo D'Alema e Walter Veltroni. Nota, infine, è anche la linea politica: il varo della futura «Federazione riformista», cuore e motore della Gad (o come si chiamerà), l'investitura di Romano Prodi alla guida della coalizione che sfiderà Berlusconi (prima nelle regionali e poi nelle prossime elezioni politiche), insomma la proposta, confortata da molti positivi segnali, dell'avvio di una nuova fase di governo dell'Italia. Tutto dunque scontato? Nella misura sommariamente detta, sì - e difficilmente il palazzo della Lottomatica ci riserverà sorprese o suspence. Ma, da un altro punto di vista, questo Congresso è in fondo tutto da scrivere.
In questi ultimi anni, il maggior partito della sinistra moderata si è sostanzialmente caratterizzato per la collocazione dichiarata e, talora, praticata: una ricerca quasi ossessiva di "centralità". La Quercia, insomma, come collante effettivo dell'opposizione, sia in virtù della sua vocazione mediatrice - o mediana - sia come effetto "naturale" dei rapporti di forza esistenti: se Fassino ha incarnato soprattutto il primo lato, nutrito anche e soprattutto di lavoro e presenza indefessa, D'Alema è apparso (anche e proprio in questi giorni) come il peculiare rappresentante del secondo (il più legato alla vicenda storica della sinistra italiana, e ad una vecchia arroganza dura a morire, anche a quindici anni di distanza dalla Bolognina).
La Quercia, alla fin fine, come l'unico partito strutturato, dotato di legami ed insediamenti di massa, nonchè di un consenso elettorale a doppia cifra: e che dunque legittima, su questa base concreta, le sue aspirazioni a guidare (in altre epoche si sarebbe detto: ad egemonizzare) il processo che dovrebbe portare il Paese, nell'arco di una quindicina di mesi, a liberarsi del centrodestra.
Ora, non saremo noi a negare la legittimità politica di queste aspirazioni, più o meno dichiarate. E tuttavia, appunto, qui il Congresso dovrebbe proprio incominciare. E, se è lecito dirlo, in qualche modo stupirci - sorprenderci o smentirci. Giacchè tutti gli (irrisolti) nodi dell'identità riformista possono esser sciolti in due direzioni tra di loro sostanzialmente diverse.
La prima strada corrisponde alla tentazione più facile: esalta, cioè, quella vocazione iperpolitica, o ipertattica, in base alla quale i Democratici di sinistra sono "centrali" ma non entrano quasi mai davvero nel merito dei grandi (e dei medi) problemi. Una scelta che finisce, fatalmente o inconsapevolmente, a farli assomigliare alla vecchia Dc: alla sua parte migliore, se volete, comunque ad una forza politica molto eclettica, che tiene insieme soggettività e visioni del mondo molto lontane (dal pacifismo al filobushismo, per dire) e costruisce a vista, ogni volta che è necessario, una "sintesi" giocoforza molto provvisoria. Oppure, produce, ogni volta che può, soluzioni tipiche dell'autonomia del Politico. Non capita di avvertirle anche nella conaca recente? Di fronte al pericolo di esser schiacciati tra le identità più nette sia di Prodi (in quanto leader) sia della Margherita (a destra) sia di Rifondazione comunista (a sinistra), i Ds propongono (fanno balenare) la "vicepremiership" dell'esecutivo Prodi e, magari, una composizione del futuro governo di centrosinistra molto squilibrata a loro vantaggio. Ecco un esempio concreto di scorciatoia politicistica, che potrebbe funzionare (forse) dal punto di vista della distribuzione dei poteri, ma non farebbe avanzare di un millimetro la questione di fondo: al servizio di quali riforme, di quali interessi, di quale blocco sociale, si pone il conclamato "riformismo" del presente.
L'altra strada - ce ne rendiamo conto - è più difficile. Implica la volontà di un vero bilancio critico dell'ultimo decennio, tanto è (quasi) trascorso da quel primo "congresso tematico" che si caratterizzò per l'adesione della Quercia all'orizzonte del mercato e del neoliberismo, ed ebbe il suo clou nello scontro frontale tra Massimo D'Alema e Sergio Cofferati: non ha detto più volte lo stesso presidente diessino che questa adesione è stata sostanzialmente "acritica"? E richiede quasi altrettanta volontà di imprimere all'attuale scolorita identità riformista un vero e proprio contenuto riformatore.
Va da sè che la differenza è tutto fuorchè nominalistica. Si tratta di scelte effettive e significative - sulla pace, il modello di sviluppo, il ruolo dell'Europa, i diritti politici e sociali. Al fondo, si tratta di decidere non solo con quali "poteri forti" stipulare un'alleanza - per esempio, la Confindustria non berlusconiana di Luca di Montezemolo - ma con quale funzione di "comando" della politica, e nella direzione di quale blocco di interessi da costruire. Fin qui, il riformismo - non solo quello di Rutelli, ma del gruppo dirigente diessino - è apparso subalterno proprio a questa logica tradizionale. Ma se i Ds provassero invece a cimentarsi con questa possibilità di esercizio effettivo di un primato? Se volessero diventare il partito-guida della sinistra che vuol cambiare? Come si diceva una volta: se fossero rose, fiorirebbero...

Intanto Lella Bertinotti, a proposito di Bob Marley, dichiara a La Stampa:

Fausto Bertinotti ha mutuato un amore familiare. Dice Lella, la moglie. «Fausto è un appassionato di reggae perché lo ha imparato da nostro figlio Duccio che ha un gruppo a Roma “One Love”, un negozio a San Lorenzo e uno in Giamaica tutto dedicato a Marley. Per me no, come mamma avrei preferito mio figlio noioso, con un lavoro sicuro, con la riga da una parte e gli occhiali». Invece Fausto ne è felice, Duccio gli ha aperto un universo: «Marley ha accompagnato l’ingresso di una generazione nel mondo. La musica di una terra e di un popolo che ha saputo parlare il linguaggio universale della liberazione, esplorando radici profonde e costruendo miti. Per questo il cantante profetico continua a vivere nel nostro tempo».

l'onesto Sirchia...

Corriere della Sera 2.2.05
L’inchiesta di Milano. Dopo il suicidio del primario Mercuriali la Immucor collabora: consulenze pagate a 90 dottori
Azienda Usa di farmaci: soldi a Sirchia
Multinazionale consegna ai pm fotocopie di assegni spediti in Svizzera nel 1998. Il ministro: nessun pagamento


MILANO - Come esempio degli effetti della globalizzazione, non è male: una legge americana (la Serbane-Oxley sul falso in bilancio, terrore delle società quotate di Wall Street) spinge negli Stati una multinazionale farmaceutica a consegnare ai magistrati la fotocopia di alcuni assegni, con i quali la propria divisione in Germania nel 1998-1999 effettuò 4 pagamenti in Svizzera intestati a un luminare della medicina in Italia, il professor Girolamo Sirchia, oggi ministro della Salute e all’epoca primario del Centro trasfusionale del Policlinico e assessore alle Politiche sociali del Comune di Milano nella giunta del sindaco Albertini. E tutto questo giro del mondo, per paradosso, fa capolino dietro un micro-atto d’indagine: l’acquisizione ieri al Policlinico di tutti i contratti tra l’ospedale e l’Immucor Inc., primo atto con il quale ora la Procura vuole verificare se i pagamenti abbiano o no anche un qualche rilievo penale.

la sindrome di Peter Pan

L'Eco di Bergamo
Favola, realtà e sindrome


IL SUO NOME richiama un personaggio delle favole, eppure è proprio la favola, o meglio la capacità di sognare e di fantasticare, l'unico rimedio che permette di guarire dalla malattia che lo psicologo americano Day Kiley ha definito nel 1983 la «sindrome di Peter Pan»: l'incapacità a lasciare il mondo dell'infanzia per entrare in quello della vita adulta, il rifiuto di assumersi le proprie responsabilità, di istituire un rapporto equilibrato con gli altri e con se stessi, gestendo al meglio il limite che separa la dimensione privata da quella collettiva della propria esistenza.
È QUESTO IL MESSAGGIO che possiamo trarre da un interessante saggio di François Ladame, «Gli eterni adolescenti» (Salani, 199 pagine, 13 euro), nel quale lo psichiatra e psicanalista svizzero, specialista dell'adolescenza e docente di Psichiatria all'Università di Ginevra, trenta di individuare le origini di una vera e propria «pandemia» del nostro tempo: l'incapacità di divenire adulti. Una malattia, quella associata al celebre personaggio creato da James Matthew Barrie, che a prima vista può sembrare di poco conto, tutt'al più un sintomo di spensieratezza e di allegria, ma che in realtà può provocare gravi problemi a chi ne è affetto, impedendogli di trovare un posto nella società, di sentirsi a suo agio in compagnia degli altri senza per questo perdere il senso della propria identità.
«IDENTITÀ»: è questa la parola chiave per comprendere questo malessere. Esso, nota infatti Ladame, nasce dal mancato compimento di quel processo di formazione dell'identità che ha inizio nella prima infanzia e si conclude con la fine dell'adolescenza. Una volta la costruzione dell'identità, conditio sine qua non per poter raggiungere un sano equilibrio tra la dimensione collettiva e quella individuale dell'esistenza, era favorita da una serie di «riti di passaggio», che sancivano agli occhi del singolo e della comunità l'ingresso nell'età adulta. Ma oggi questi riti sono scomparsi, e i giovani possono prolungare senza limiti la propria adolescenza e i quarantenni continuare a domandarsi indefinitamente chi sono.
DA PSICANALISTA QUAL È, Ladame chiama in causa le teorie freudiane sullo sviluppo della sessualità e il complesso di Edipo, con ragionamenti complessi dai quali si evince che tutti gli eterni adolescenti in realtà non sono riusciti a consumare il parricidio simbolico che avrebbe permesso loro di distaccarsi dai genitori e dall'ideale di onnipotenza che questi impersonano.

Iraq
un voto democratico?

L'Unità 2.2.05
«Un voto senza osservatori, non è democrazia»
Giulietto Chiesa: assenti gli standard minimi per garantire corrette elezioni. Una parte dell’Iraq non ha votato
di Umberto De Giovannangeli


ROMA «Queste elezioni non sono state fatte per dare la democrazia al popolo iracheno ma per trovare una forma in cui apparisse legittimata la presenza straniera in Iraq. Se di trionfo si deve parlare, non è della democrazia ma della propaganda americana». A sostenerlo è Giulietto Chiesa, giornalista ed europarlamentare, uno dei pochi testimoni diretti internazionali delle elezioni del 30 gennaio. Le sue considerazioni sono anche il frutto di questa esperienza sul campo.
Lei ha seguito le elezioni irachene a Nassiriya e Bassora. Alla luce della sua esperienza si può parlare, come da più parti è stato fatto, delle elezioni irachene come di un trionfo senza ombre della democrazia contro il terrore?
«Questa è una sciocchezza clamorosa, tutta propagandistica che era del resto largamente prevedibile alla luce di come era stato preparato il tutto...».
Vale a dire?
«Tutto è stato preparato come una grande operazione propagandistica che, bisogna riconoscerlo, è riuscita perfettamente: se dovessi dare un titolo a queste elezioni, direi che questa è una vittoria americana. Trionfo della democrazia? Bisogna solo ridere di fronte ad affermazioni del genere. Io ho guardato queste elezioni a bordo di una macchina blindata che era preceduta e seguita da altre due macchine blindate con otto guardie del corpo armate fino ai denti. Questo è il modo come io, parlamentare europeo, ho potuto guardare queste elezioni. E questo già dice tutto. Per capire meglio la “democraticità” di queste elezioni, rispetto agli standard minimi internazionali, occorre fare un passo indietro...».
A quando?
«Ottobre 2004, quando mandai una lettera al presidente del Parlamento europeo Borrel chiedendo assieme ad altri europarlamentari, tra i quali Lilli Gruber e Michele Santoro, che venisse inviata una delegazione a Baghdad e in altre città irachene per capire come stavano le cose. La risposta mi è arrivata con grande ritardo, e non da Borrel ma dalla conferenza dei capigruppo: tutti i capigruppo si sono riuniti, hanno esaminato la situazione e mi hanno risposto che non era possibile inviare in Iraq alcuna delegazione di osservatori perché non esistevano, cito testualmente, “le condizioni minime di sicurezza per una operazione del genere”. L’Osce fa la stessa identica cosa, tace e non manda osservatori. E lo stesso fanno le Nazioni Unite. L’unica operazione tentata dal Canada, non si sa su incarico di chi, è stata di indire, il 19 e 20 dicembre a Ottawa, una riunione alla quale erano stati invitati 20 Paesi e alla quale hanno partecipato solo 7 Paesi, i rappresentanti dei quali si sono riuniti sotto la presidenza del capo della commissione elettorale canadese e hanno concluso, anche loro, che non era possibile mandare nessuna delegazione di osservatori in Iraq stabilendo formalmente che ci sarebbe stato un gruppo di “analisti”, non di osservatori, piazzato ad Amman. Secondo i criteri adottati fino a questo momento da tutta la Comunità internazionale, le elezioni irachene non hanno osservatori quindi non sono da ritenere valide».
Qualcuno però potrebbe replicare che la maggioranza degli iracheni a votare, sfidando i terroristi, c’è andata.
«Io non sono mica contrario alla democrazia...La maggioranza degli iracheni ha usato l’opportunità che gli era stata data, ognuno per fare il proprio gioco. Quando si parla del popolo iracheno si dice una cosa che non esiste in questo momento. Si deve dire, ed è il quadro esatto della situazione, che gli sciiti del Sud, che sono stati sempre maggioranza ma che non hanno mai avuto la guida del Paese, hanno colto l’occasione per fare il loro gioco; i curdi del Nord, esattamente la stessa cosa, hanno scelto l’occasione per fare il loro gioco. I sunniti sono rimasti schiacciati in mezzo agli uni e agli altri e non hanno votato. Cinque milioni di persone in Iraq non sono andate a votare e in un Paese come questo una cosa del genere è assolutamente centrale perché se non va a votare una etnìa intera non si può dire che questa è una soluzione democratica. E non lo è in nessun caso. Noi non sappiamo ancora il risultato elettorale; non sappiamo chi controlla questi voti; non sappiamo come verrà gestita la legittima aspirazione degli iracheni a fare da sé. Ma queste elezioni sono state organizzate non perché gli iracheni facessero da sé ma perché l’occupazione militare americana, britannica e italiana venisse legittimata da un voto popolare. In questo senso l’operazione propagandistica ha funzionato».
Il presidente del Consiglio Berlusconi, e non solo lui, vede nella partecipazione al voto in Iraq la conferma della giustezza della presenza militare italiana in Iraq. A Canossa, aggiunge, dovrebbero andare coloro che si opposero a questa presenza.
«Rispondo che occorre fare il conto dei morti. Cè stata una guerra, sono morte decine di migliaia di persone, in stragrande maggioranza civili, l’Iraq è uscito distrutto completamente; non si vorrà mica sostenere che una tornata elettorale, fatta in queste condizioni, sancisce e chiude il caso. Tutta questa è retorica propagandistica della peggior specie, anche perché questa campagna elettorale ha un significato completamente diverso per gli iracheni del Sud e del Nord, ciascuno ha fatto il proprio gioco. Quattro giochi diversi: gli occidentali aggressori dell’Iraq; gli sciiti; i curdi; il resto del Paese che continua a combattere. Dipingere questo come un trionfo democratico, un “trionfo” organizzato militarmente dall’Occidente, significa infliggere agli iracheni la più grande delle offese. Io sono stato, sia pure “blindato” nei seggi di Nassiriya e Bassora e ho visto che questa gente, sostenitori di Al Sistani perché sono gli sciiti ad aver votato in massa, voleva esprimere il suo punto di vista e ho sentito dire che la gente voleva non essere occupata. E questo che ho sentito dire dappertutto. Adesso vediamo come verrà gestito questo risultato. Chi ha votato vuole che gli sciiti contino e nei colloqui molto interessanti che ho avuto con esponenti di primo piano dell’attuale governo ho registrato una forte preoccupazione. Il problema che oggi abbiamo, mi hanno detto apertamente, è di ridurre le pretese di Al Sistani. E cercheranno di farlo con un’alleanza tra curdi e laici, che includa i comunisti iracheni, impedendo così ad Al Sistani di avere la maggioranza e il controllo del potere in questa fase di transizione. Va peraltro ricordato che il presidente e i due vicepresidenti potranno prendere decisioni solo all’unanimità, e quindi Al Sistani o il suo rappresentante si troveranno chiusi in una morsa di altri due, uno dei quali sarà sicuramente curdo e l’altro sicuramente Allawi, cioè americano. Da qui a dicembre si dovrà lavorare per redigere una nuova Costituzione in una situazione in cui tutto il mondo sciita starà con gli occhi ultra-aperti per vedere se è stato truffato. E così il cerchio si chiude: l’Iraq del dopo-voto resta nei fatti in mano ai padroni di ieri: gli Stati Uniti».

ricerche americane
a che età è l'età della ragione, e quindi si può essere condannati a morte?

ANSA.it
CERVELLO: SCATTA SOLO A 25 ANNI L'ETÀ DELLA RAGIONE
di Cristiano Del Riccio


WASHINGTON - L'alta incidenza di incidenti stradali tra i giovani al volante trova una spiegazione scientifica: l'area del cervello "specializzata" nella prudenza matura pienamente solo a 25 anni. Una ricerca condotta da scienziati del National Institutes Health (NIH) di Washington mostra infatti che la corteccia pre-frontale, l'area del cervello che inibisce il comportamento imprudente, non matura a 18 anni, come si era finora creduto, ma solo a 25 anni.
La ricerca, guidata dallo psichiatra pediatrico Jay Giedd, ha mostrato inoltre che la maturazione avviene in molti casi prima nelle donne (con un anticipo di un anno o due sui maschi).
Lo studio fornisce una spiegazione scientifica al grande numero di incidenti stradali con giovani al volante, una situazione tenuta ben presente dalle compagnie di assicurazione che impongono premi maggiori ai guidatori sotto i 25 anni. I dati mostrano che per i teen-agers al volante le probabilità di avere un incidente stradale sono quattro volte maggiori dei guidatori più' maturi. E le probabilità di restare uccisi in un incidente automobilistico sono tre volte maggiori rispetto ai piloti più "anziani". Poiché i giovani guidatori hanno riflessi migliori, secondo i ricercatori, la spiegazione di queste cifre può essere trovata nel comportamento più imprudente dei giovani.
La ricerca guidata da Giedd, durata tredici anni, ha esaminato a intervalli di due anni circa duemila persone, in età iniziale tra i 4 e i 26 anni, con esami di risonanza magnetica al cervello. «I cervelli dei teen-ager sono semplicemente "in costruzione"», sottolinea il ricercatore.
Un'altra conclusione dello studio è che i comportamenti dei giovani sono più imprudenti quando sono in compagnia di coetanei. I ricercatori hanno chiesto a volontari divisi in tre gruppi di età (dai 13 ai 16 anni, dai 18 ai 22 anni, dai 24 anni in su) di portare due coetanei. I volontari sono quindi stati sottoposti a simulazioni di guida al computer. I test hanno mostrato che i guidatori dei primi due gruppi di età si lanciavano in comportamenti molto più imprudenti quando in compagnia dei coetanei.
Lo studio, secondo Giedd, mostra anche per quale motivo i giovani hanno una tendenza maggiore, quando sono in gruppo, a bere alcolici, sperimentare droghe o rendersi protagonisti di comportamenti criminali. Lo spostamento scientifico dai 18 ai 25 anni della "età della ragione" mostra che molte delle decisioni importanti prese nella vita - dalla carriera scolastica a quella professionale, dal matrimonio al servizio militare - sono adottate quando il ciclo di maturazione cerebrale non è ancora completo.
Proprio nelle prossime settimane la Corte Suprema degli Stati Uniti dovrà decidere a partire da quale età i criminali giovanili potranno essere condannati a morte: lo studio dei ricercatori del NIH potrebbe diventare un elemento di riflessione per i giudici.(ANSA).