SULLA STAMPA DI LUNEDI 29 AGOSTO:
La Stampa 29.8.16
Ospedali, scuole e caserme. Gli edifici che dovevano resistere
Considerati di “interesse strategico” e con criteri antisismici Ora la priorità dei magistrati è scoprire chi ha violato le norme
di Francesco Grignetti
Le procure sono al lavoro per scoprire quali edifici pubblici sono crollati perché costruiti in violazione delle norme esistenti. L’inchiesta parte dalla scuola di Amatrice e si dirige ora verso caserme, ospedali e altri edifici «strategici» che hanno avuto la stessa sorte. La priorità per i magistrati è scoprire chi ha costruito violando le leggi, chi non ha sorvegliato sui lavori, chi ha garantito autorizzazioni irregolari e chi ha coperto tali reati. L’inchiesta sarà complicata: i vigili del fuoco hanno già segnalato che è inagibile un edificio su due, percentuale che lascia senza parole, e una serie di «crolli anomali».
Ecco l’elenco degli edifici pubblici sui quali lavorano i magistrati tra Amatrice, Accumoli e Arquata del Tronto. Si parte dalle tre stazioni dei carabinieri: sono inagibili, più o meno gravemente lesionate, e i militari si sono trasferiti nei container, dove hanno innalzato stemma e bandiera. I tre municipi risultano altrettanto lesionati, con il sovrappiù che ciò comporta perché le carte comunali, dall’anagrafe all’ufficio urbanistico, sono irraggiungibili. Ci hanno pensato i vigili del fuoco a portarne via il più possibile, facendo una catena umana dalle stanze pericolanti ai loro furgoni. Non accade solo nell’epicentro del sisma, peraltro. Nel Comune di Montereale, che confina con Amatrice sul versante abruzzese della montagna, il sindaco Massimiliano Giorgi spiega che la vecchia sede era già stata abbandonata dopo il sisma del 2009, ma ora è diventata inagibile pure la sede provvisoria. Dovranno trovare un sostituto del sostituto. Nel frattempo vanno nella palestra comunale.
Anche i forestali
Né stanno meglio le stazioni del Corpo Forestale: sia ad Arquata, che a Amatrice, che nella vicina Montegallo (Ascoli Piceno) è stato necessario attivare dei comandi mobili. Da quelle parti la Forestale è importante perché, salvo che in piena estate, l’economia è silvestre e pastorale. L’ospedale di Amatrice, a sua volta, è diviso tra una parte nuova che ospita il Pronto soccorso, con lesioni che a prima vista non sembrano drammatiche, e una parte vecchia, un antico monastero, dove invece i calcinacci sono volati copiosi, dentro e fuori. È quasi un miracolo che i quindici degenti si siano salvati. E poi c’è la storia delle scuole. L’edificio che raccoglie elementari e medie, proprietà del Comune di Amatrice, è venuta giù nonostante i lavori di miglioramento del 2012. È normale? Apparentemente, no. Però, c’è un però. I lavori a quella scuola, infatti, finanziati dalla Regione per 500mila euro e dalla Provincia di Rieti per altri 170mila, a dispetto delle parole, non dovevano affatto garantire la tenuta contro un terremoto (che i tecnici definiscono «adeguamento sismico»), ma «raggiungere un valore minimo nel rapporto capacità/domanda» (ovvero il «miglioramento sismico»). Per di più, come il sindaco Pirozzi ha tenuto a rimarcare nelle sue interviste, l’istituto è un edificio liberty e perciò vincolato dalle Belle Arti. Significa, a norma di ordinanze di Protezione civile, che gli obblighi del «miglioramento sismico» sono ancor più all’acqua di rose, pari al 20% della capacità che si richiede per un «adeguamento sismico». Il sindaco Pirozzi ha anche spiegato che i pilastri erano stati rinforzati e fasciati con fibra di carbonio.
Ora spetterà ai periti della procura di Rieti esaminare i lavori effettuati ad Amatrice, come anche alla chiesa e al campanile di Accumoli. Certo è che il Genio civile approvò i lavori alla scuola comunale e invece impose la chiusura del vecchio liceo scientifico, di proprietà della provincia, perché assolutamente inadeguato. Il liceo si trasferì in una nuova sede, brutta quanto si vuole, ma solida, che in questi giorni è il quartier generale dei soccorritori. Superò l’esame, ed è rimasto in piedi con lesioni in fondo modeste, anche l’istituto alberghiero.
L’elenco del 2009
Dopo il sisma del 2009, infatti, il Genio civile fece un lungo elenco di 200 edifici pubblici danneggiati nella provincia di Rieti, in una situazione peraltro già compromessa dal terremoto di Umbria e Marche del 1997. Peccato però che il governo Berlusconi non ritenne di inserire la provincia nell’area del «cratere», quella ufficialmente danneggiata. Agli amministratori locali non restò che ricorrere alla Regione. Furono stanziati diversi milioni di euro e la provincia di Rieti, la Curia, e la Sovrintendenza divennero soggetti attuatori per lavori di «miglioramento statico». Era già stata istituita dopo il 1997 una commissione di specialisti, presieduta dal professor Alberto Cherubini, illustre ingegnere strutturalista, consulente del Cnr, dell’Enea, della Protezione civile e del ministero dei Beni culturali, che avrebbe dovuto convalidare i progetti. Fu esteso il loro mandato. E ora la procura non potrà non sentire tutti quanti.
Corriere 29.8.16
«In Giappone un sisma di questa forza non avrebbe quasi provocato crolli»
di Paolo Salom
L’ingegner Murosaki: temo che in Italia manchi una vera cultura della prevenzione
Imparare dai giapponesi a salvare vite umane e patrimonio culturale (ed edilizio) nazionale. Il Sol Levante è quasi agli antipodi. Ma condivide con l’Italia la fragilità delle faglie che «sostengono» città e villaggi. Anzi, l’Arcipelago nipponico, affacciandosi sull’intersezione tra la placca asiatica e quella del Pacifico, all’interno della cosiddetta «cintura di fuoco», è soggetto a eventi quasi giornalieri, talvolta con una forza distruttiva spaventosa: basti pensare al terremoto-tsunami dell’11 marzo 2011, nono grado della scala Richter e oltre 15 mila morti. «Eppure — dice al Corriere il professor Yoshiteru Murosaki, 73 anni, ingegnere, docente emerito all’Università di Kobe, ordinario alla Kwansei Gakuin e direttore dell’Istituto per la prevenzione dei disastri — in quell’occasione la maggior parte delle vittime fu causata dall’onda di marea, non dai crolli. Questo perché da una parte, escluse le grandi città, nelle province molte case hanno strutture in legno, quindi più elastiche. E poi perché l’esperienza ci ha portato a costruire rispettando severi criteri antisismici».
A suo avviso che tipo di terremoto ha colpito il Centro Italia?
«In questo caso, non siamo in presenza di un terremoto dei più potenti, ovvero di un terremoto tettonico originatosi lungo i margini di placca. Questi terremoti, che si producono in seguito allo sfregamento di due placche contigue, sono quelli che rilasciano le maggiori quantità di energia, e quindi causano anche i maggiori disastri. Il terremoto che si è verificato in Italia è stato invece determinato dai movimenti di masse magmatiche in profondità, è quello che i sismologi giapponesi definiscono chokka jishin (terremoto localizzato) o nairiku jishin (terremoto interno). Questi terremoti, meno frequenti dei primi, hanno un’origine superficiale, un raggio dell’epicentro più limitato e una potenza inferiore».
Eppure i danni sono stati ingenti, così come le vittime...
«Nonostante la potenza limitata, si sono avute forti scosse superficiali, del sesto grado della scala Richter: può essere dovuto al fatto che l’epicentro fosse situato in prossimità della crosta terrestre. Una seconda ragione si potrebbe individuare nella presenza di un sottosuolo soffice. Nei terremoti superficiali si determina un’area circoscritta di scosse particolarmente forti».
In Giappone avrebbe causato gli stessi danni?
«In presenza di onde sismiche del sesto grado Richter, è molto raro, sia in Giappone sia in Italia, che si verifichino danni agli edifici così ingenti come in questo caso. Lesioni di questa portata possono essere attribuite solo alla mancanza nelle costruzioni di adeguate strutture antisismiche. Normalmente, in Giappone, un terremoto di questa magnitudo e con vibrazioni di questo tipo non produce le vittime che ha prodotto il terremoto dei giorni scorsi nell’Italia centrale. Può essere che a fare la differenza sia la struttura in legno degli edifici rispetto a quella in mattoni. Certo, succede anche in Giappone che con terremoti tra il quinto e il sesto grado, cioè della stessa magnitudo di questo, si verifichino danni agli edifici e crolli, ma sono casi rari».
Dal 1995, quando un sisma provocò nella sua città, Kobe, oltre seimila morti, molte cose sono cambiate. Città come Tokyo, Kyoto, Osaka, dove svettano migliaia di grattacieli costruiti con criteri all’avanguardia — rinforzi, contrappesi, tiranti — sembrano in grado di resistere alle scosse più potenti. Cosa dobbiamo fare in Italia a livello di prevenzione?
«Il Giappone ha un’antica dimestichezza con questo fenomeno. L’alta frequenza con cui da sempre nel nostro arcipelago si verificano terremoti di proporzioni enormi ci ha reso previdenti. Qui da noi, lo studio di misure antisismiche con cui mettere in sicurezza gli edifici storici e in generale i beni culturali del Paese progredisce costantemente. Ho l’impressione che in Italia, in confronto, una vera cultura della prevenzione a livello del cittadino comune sia ancora piuttosto carente. Certo, il vostro Paese ha un patrimonio edilizio molto più antico del nostro, e dunque non è agevole adattarlo alle necessità del presente. Però è indispensabile che le autorità, a ogni livello, vigilino perché le regole antisismiche siano rispettate rigorosamente: è questa l’unica strada per salvare, un domani, il maggior numero di vite umane. E anche di edifici».
Repubblica 29.8.16
Renzo Piano racconta l’incontro col premier:“Nel progetto incentivi e sgravi ma anche l’aiuto dei migliori esperti mondiali”
“Serve un cantiere lungo due generazioni. Così ricostruiremo la spina dorsale d’Italia”
intervista di Federico Rampini
NEW YORK. «Il presidente del Consiglio mi ha chiamato all’ultimo momento, venendomi a trovare voleva discutere con me sulla ricostruzione. Non mi ha dato un incarico, non era questo lo scopo. Anche se, come senatore a vita, oltre ad occuparmi di periferie potrei dare un contributo sul dopo-terremoto. Da me Matteo Renzi voleva dei consigli, una visione, un aiuto per un grande progetto. Gli ho detto: ci vuole un cantiere che impegni due generazioni. E con un respiro internazionale, contributi dal mondo intero ». Renzo Piano mi parla al telefono da Genova, poco dopo l’incontro alla sua Fondazione con il premier. Spiega che questa volta l’emergenza va inserita subito in una visione lunga, che rimedi ai terribili errori d’imprevidenza che hanno causato troppe tragedie.
Quali suggerimenti ha dato lei al premier per l’immediato, gli interventi urgenti?
«Per i sopravvissuti che hanno perso le case bisogna operare con cantieri leggeri, che non allontanino le persone dai luoghi dove abitavano. Non tendopoli ma edifici leggeri, vicinissimi, che si potranno smontare e riciclare in seguito. Abbiamo parlato di una visione non-partisan, che possa essere condivisa da tutti a prescindere dagli orientamenti politici. E di una visione internazionale, che ispiri un disegno di lunga portata. L’emergenza come primo tassello strettamente inserito in un progetto di lungo termine».
Quanto vasto il progetto? E di che durata parliamo?
«Parliamo di tutta la dorsale degli Appennini, la spina dorsale dell’Italia da Nord a Sud. Parliamo di un intervento progettato su 50 anni e su due generazioni. Parliamo di contributi internazionali anche perché la straordinaria bellezza dell’Italia non appartiene solo a noi, è un patrimonio dell’umanità. Abbiamo ereditato una natura meravigliosa, generazioni di nostri antenati dall’Antica Roma all’Umanesimo l’hanno addomesticata, ingentilita, noi a volte siamo stati crudelmente inadeguati».
Un editoriale del New York Times promuove la nostra protezione civile ma ci accusa di imprevidenza imperdonabile nella prevenzione, “tragica impreparazione in uno dei paesi più sismici del mondo”. Tra gli ostacoli alla ricostruzioni ne elenca tre: mancanza di risorse, corruzione, leggi troppo complicate.
«Sono giudizi che purtroppo ci tocca sentire dal mondo intero, le stesse cose vengono dette in queste ore dai tedeschi o dagli inglesi. Si aggiungono alla sofferenza che provo per le tante vite sacrificate, per le famiglie distrutte. Voglio per smentire subito almeno un luogo comune, quello sulla mancanza di risorse. No, le risorse ci sono eccome. È evidente che il Patto di Stabilità europeo consente flessibilità straordinarie per calamità atroci come questa, quando sono in ballo le vite umane, la sicurezza nazionale”.
Nel concreto, di che cosa avete parlato con Renzi sul versante economico?
«Ovviamente si deve agire subito, con urgenza massima, per mettere a norma antisismica gli edifici pubblici. Ma la stragrande maggioranza sono privati. E non puoi costringere i privati se non hanno le risorse. Qui però si sa come intervenire: incentivi, sgravi fiscali, come già fatto nel campo energetico. Bisogna anche sapere intervenire nei passaggi generazionali, quando la casa dei nonni passa in eredità, e una nuova generazione può essere più motivata a fare lavori di ristrutturazione. Deve entrare in modo permanente nelle leggi del paese, l’obbligo di rendere antisismici gli edifici in cui viviamo, così come è obbligatorio per un’automobile avere i freni che funzionano. Sul lato economico, non dimentichiamo poi che tutti i soldi spesi sono investimenti che generano ricchezza: oltre a salvare le vite umane danno lavoro a tante imprese, spesso micro-imprese, talvolta addirittura cantieri di auto-produzione familiare ».
In quanto alle tecnologie da utilizzare, la sua personale esperienza in questo campo è ormai antica. Lei ha progettato e costruito edifici in alcune delle zone più sismiche del pianeta, dalla California al Giappone.
«È da 40 anni che mi occupo di questi temi. L’architettura e l’ingegneria degli edifici hanno seguito un questo campo un’evoluzione notevole, con delle analogie sorprendenti con la medicina. Quando parlo di cantieri leggeri, il primo che usai fu 40 anni fa ad Otranto. L’uso della diagnostica – un termine preso proprio dalla medicina – ci consente di risparmiare e al tempo stesso raggiungere la massima efficacia, senza infierire crudelmente sugli abitanti. La termografia consente di conoscere lo stato di salute dei muri, come di un corpo vivente, senza interventi invasivi. Questo permette di rendere gli edifici più sicuri, preservando i centri storici, rispettando l’attaccamento alle case antiche, quel fortissimo rapporto affettivo che fa parte della nostra storia, della nostra natura umana, della nostra identità».
Corriere 29.8.16
Quei 15 miliardi da trovare per rispettare i patti con la Ue
di Federico Fubini
Quando questo governo pubblicò il suo primo programma economico nell’aprile di due anni fa, tutti capirono subito che era un atto di fiducia in se stesso e nelle risorse del Paese. Il debito pubblico era indicato in calo dal 132% del reddito nazionale (Pil) dell’anno prima al 125% nel 2017, grazie a una ripresa graduale dopo la Grande recessione e a una moderata attenzione ai conti dello Stato. Del resto dalla Commissione Ue al Fondo monetario internazionale, gran parte degli osservatori dall’estero in quel momento la pensavano in modo simile sulla crescita che avrebbe potuto accelerare in Italia.
Da allora sono passati poco più di due anni, ma il debito pubblico sembra avviato a livelli di circa 150 miliardi di euro superiori a quanto servirebbe per realizzare le speranze del 2014. Quasi con certezza nel 2016 e potenzialmente anche nel 2017, il debito dello Stato potrebbe crescere rispetto alle dimensioni dell’economia, fino ad avvicinarsi al 135%. Quell’evento segnerebbe un decennio di sua crescita ininterrotta, come non accadeva dal crepuscolo della Prima Repubblica con i governi di Giulio Andreotti e Bettino Craxi.
È su questo sfondo che Palazzo Chigi e il ministero dell’Economia lavorano alla legge di Stabilità più difficile da quando Matteo Renzi si è insediato. Il presidente del Consiglio per primo sa che una procedura del Fiscal compact sui conti dell’Italia non è affatto inevitabile, ma si presenta sempre più come una reale possibilità. Se ci si dovesse arrivare, si osserva, la speranza è che succeda dopo il referendum costituzionale che Renzi — in questo momento — pensa di tenere verso fine novembre.
Non sarà un percorso facile. Per rispettare gli impegni scritti presi con la Commissione Ue tre mesi fa, al governo per ora potrebbero mancare fra 13 e 15 miliardi di euro e nel frattempo la ripresa italiana si sta dimostrando ancora una volta una delusione. L’obiettivo concordato con Bruxelles sarebbe un calo del deficit all’1,8% del Pil l’anno prossimo. Certo, i giochi non sono ancora fatti e la situazione resta fluida: la legge di Stabilità verrà varata solo a metà ottobre, e gli ultimi tre governi in Italia hanno dimostrato un controllo sui saldi — prima di pagare gli interessi sul debito — pari a quello della Germania. Ma se si confermassero gli equilibri finanziari e le politiche attuali, l’anno prossimo il deficit potrebbe salire per la prima volta dal 2012 e arrivare al 2,6 o 2,7%.
Il paradosso apparente è che questi rischi si presentino ora che è in cantiere la legge di Stabilità più cauta da quando Renzi governa. Oltre al taglio al 24% all’aliquota dell’Imposta sul reddito delle società (Ires), già coperta in bilancio con tre miliardi, la manovra prevede quattro capitoli. Il primo riguarda l’assistenza, costa circa due miliardi e include un «bonus» per le pensioni più basse e le misure per l’Ape, l’anticipo pensionistico previsto grazie ad accordi con banche e assicurazioni; l’impegno di mezzo miliardo per le famiglie più povere per ora sembra rinviato al 2018 per mancanza di risorse.
Il secondo capitolo mira a rafforzare l’istruzione, con 300 o 400 milioni di incentivi per il diritto allo studio, i ricercatori e le istituzioni educative. Si lavora poi a un terzo pilastro del bilancio a sostegno della competitività d’impresa. Qui ricade un forte aumento delle soglie di reddito a cui si applicano gli sgravi fiscali sui premi di produttività (costo: 250 milioni) e la conferma del super ammortamento al 140%, ossia la deduzione fiscale maggiorata per le aziende che investono (costo: 800 milioni); si aggiungono poi 100 o 200 milioni di misure più piccole, come certe spalmature fiscali delle perdite d’impresa. Servirà poi almeno un altro miliardo e mezzo per impegni già presi: il bonus da 80 euro alle forze di polizia, certi trasferimento sociali, le missioni delle forze italiane all’estero, gli aumenti per gli statali.
In totale queste misure previste nella prossima legge di Stabilità aumentano il deficit di poco meno di 5,5 miliardi. Nel frattempo si lavora ad azioni che riducano il disavanzo per sei o sette miliardi di euro: tre da un’ulteriore revisione della spesa pubblica, uno dalla razionalizzazione dell’Ace (gli incentivi fiscali al rafforzamento patrimoniale d’impresa lanciati nel 2012), ancora un miliardo una tantum dalla riapertura al rimpatrio dei capitali nascosti al fisco con la «voluntary disclosure», quindi interventi ad hoc sui tabacchi o radiofrequenze.
Tutte misure limitate. Eppure rischiano di mancare fino a 15 miliardi per centrare un deficit all’1,8%, perché esse si sovrappongono a tutto il resto: il governo eliminerà l’aumento previsto di Iva e accise da 15 miliardi da anni previsto per legge, ma per ora restano da coprire 8 di questi 15 miliardi di mancate entrate. In più, l’accordo con Bruxelles prevede un’ulteriore stretta da 1,6 miliardi e nel frattempo la crescita quest’anno si fermerà ancora una volta sotto l’1%; la ripresa molto inferiore al previsto fa sì che potrebbero servire altri quattro miliardi per mantenere gli impegni sul deficit del 2017 e per controllare il debito.
Proprio qui, in fondo, è il problema. Il grafico in pagina mostra che l’intera strategia dell’Italia si sia basata dall’inizio su previsioni di ripresa (condivise a suo tempo da Ue e Fmi) che non si sono mai realizzate. La crescita media annua nell’ultimo ventennio è di appena lo 0,5%, dunque impostare ripetutamente i bilanci sull’ipotesi di un dinamismo doppio o triplo dell’economia significa semplicemente privilegiare la speranza sull’esperienza. Il governo però ci contava, anche perché per questo obiettivo ha già speso circa trenta miliardi: dieci per un «bonus» alle famiglie che però ha fatto aumentare i consumi metà di quanto era stato stimato; quattro per cancellare la tassa sulla prima casa, eppure i valori immobiliari continuano a calare; fra i 15 e i 20 miliardi per forti sgravi ai nuovi contratti permanenti, i quali tuttavia oggi risultano persino al di sotto dei minimi del 2014 (appena il 21% del totale).
Senza queste forti spese, il quadro su consumi, immobili e lavoro sarebbe stato ancora peggiore. Certo esse hanno bloccato il bilancio senza potenziare il motore dell’economia. Renzi, nella legge di Stabilità, deve ripartire da qui.
Il Sole 29.8.16
Da Roma a Bruxelles le strettoie della manovra
di Dino Pesole
qui
Repubblica 29.8.16
I bersaniani pronti a un documento per il No
Il deputato Zoggia guida un fronte di venti parlamentari contrari alla riforma
Dovrebbe uscire negli stessi giorni della convention di D’Alema, che riunisce lo schieramento anti-renziano nel centrosinistra
di E. La.
CATANIA. I bersaniani preparano un documento per il No al referendum. Un’iniziativa ancora in cantiere, alla quale lavorano però già da diversi giorni dirigenti del Pd molto vicini all’ex segretario, fra cui il deputato Davide Zoggia. Con lui, fra gli altri, un rappresentante della sinistra dem come il siracusano Giuseppe Zappulla, anche lui legato a Bersani, che ammette che il lavoro è in fase avanzata: «Stiamo mettendo su carta le ragioni che porteranno un nutrito gruppo di esponenti della sinistra del partito a pronunciarsi per il no al referendum costituzionale». Il documento dovrebbe essere pronto entro la prima metà di settembre e potrebbe essere lanciato nei giorni immediatamente successivi al 5 settembre, data in cui Massimo D’Alema, a Roma, farà decollare i “comitati del centrosinistra per il No”. E il senso politico dell’ultima iniziativa di dissenso nei confronti della linea ufficiale del Pd è evidente: se D’Alema si è spinto avanti, schierandosi apertamente per il No, finora Bersani e la sinistra dem sono rimasti più prudenti. Nel colloquio con Repubblica, pubblicato sabato, l’ex segretario non aveva preannunciato la sua posizione sul quesito referendario ma aveva legato la sua decisione finale a una modifica della legge elettorale, dell’Italuicum, per evitare una «deriva autoritaria» del sistema.
In molti, dalle parti del Nazareno, credono brutalmente che Bersani cerchi solo un alibi per votare alla fine No, sapendo che in Senato difficilmente si troverebbe una maggioranza per cambiare l’Italicum. Di certo, se il leader emiliano non firmerà il documento in via di elaborazione che boccia la riforma costituzionale, ci saranno molti dei suoi a farlo. Dando corpo in modo esplicito a un dissenso della sinistra nei confronti della segreteria di Matteo Renzi. Il dado è tratto?
Il documento per il no, in questo momento sotto forma di bozza, è in ogni caso un nuovo elemento sul tavolo dei dibattiti che animano la lunga vigilia del referendum. Ora è lì, a disposizione di quelli che l’ex premier D’Alema chiama i «non allineati del Pd», in attesa che anche attraverso i confronti nelle feste dell’Unità vadano delineandosi le posizioni. L’obiettivo dei promotori dell’iniziativa è quella di riunire almeno venti parlamentari del Pd. Fra gli altri parlamentari pronti a firmarlo c’è anche l’ex presidente della Regione Siciliana Angelo Capodicasa, che si è espresso pubblicamente per il no al referendum. «Siamo convinti di poter pescare non solo nell’ambito della sinistra ma anche nella maggioranza del partito dove non tutti sono convinti della linea ufficiale del Pd», ancora Zappulla. Dell’iniziativa, ieri, si è cominciato a parlare anche a margine delle manifestazioni della prima giornata della festa nazionale dell’Unità. Contribuendo a riaccendere la battaglia referendaria che si era arrestata nella settimana del terremoto.
Repubblica 29.8.16
I danni collaterali della legge
di Chiara Saraceno
LA TRAGEDIA di questi giorni, con il suo corredo di ricerca delle responsabilità, non per il terremoto, ma per le sue conseguenze evitabili in termini di distruzione e di morte, ci mette di fronte alle troppe semplificazioni con cui si è affrontata e si affronta tuttora, in vista del referendum, la riforma costituzionale, da parte sia di chi è a favore sia di chi è contro. Una delle “ragioni forti” avanzate dai sostenitori della riforma è che, superando il bicameralismo perfetto, si sveltirebbe il processo legislativo, rendendo più efficienti ed efficaci i processi decisionali. Purtroppo le cose non stanno così. Qualsiasi siano i limiti del bicameralismo perfetto (e ci sono), il processo legislativo in Italia non è rallentato principalmente dalla necessità del doppio passaggio, ma da leggi scritte male, che richiedono “interpretazioni autentiche”, o che individuano male (per superficialità del legislatore, scarsa conoscenza dei fenomeni, cattivo uso delle informazioni) i propri obiettivi e perciò, inevitabilmente, li mancano. Si potrebbero fare diversi esempi in molti settori.
Il caso degli incentivi per l’adeguamento antisismico nelle zone a rischio è, ahimè, esemplare. Da un lato, ci si è affidati alla capacità e volontà dei comuni di informare e incoraggiare i propri abitanti circa questa possibilità, come se la sicurezza fosse un optional affidato esclusivamente all’iniziativa e predilezione privata, non parte di un bene comune di cui tutti siamo responsabili nelle nostre azioni. Mentre un comune può decidere, in nome del decoro urbano, sul colore delle facciate e delle persiane e se e dove si può appendere il bucato, o anche di mettere le valvole per misurare il calore erogato, non può imporre a un cittadino, a un condominio, di mettere a norma antisismica la sua abitazione, tantomeno controllare se lo ha fatto. Abbiamo visto come in uno dei comuni distrutti pochissimi avessero fatto richiesta dell’incentivo (e quei pochi sono stati beffati dall’incompetenza di un impiegato). Dall’altro lato, la legge che destina gli incentivi a chi abita nelle zone antisismiche esclude la detrazione del 65 per cento del costo di adeguamento antisismico per le seconde case. Ma nei piccoli centri spesso le seconde case sono la grande maggioranza (il 70 per cento secondo alcune stime), anche se sono divenute tali nel passaggio generazionale.
Lo abbiamo visto e sentito in questi giorni, apprendendo come molti dei paesi distrutti triplicassero ogni estate i propri abitanti, con chi tornava per le vacanze nella casa che era stata dei genitori o dei nonni, quando non si trattava di nipoti in visita dai nonni in attesa che ricomincino le scuole. Il ridotto numero di richieste per gli incentivi può essere in parte dovuto a questa esclusione, che di fatto ha considerato le seconde case un “non rischio” non solo per i loro proprietari, ma anche per i loro vicini.
Un altro esempio, sempre di drammatica attualità dato che riguarda come e da chi sono fatti i lavori, è la riforma degli appalti, cruciale per evitare costruzioni ex novo, o ristrutturazioni, fatte male per negligenza o delinquenza, come sembra sia avvenuto anche in edifici pubblici dei paesi coinvolti. Come si è ricordato su questo giornale, il decreto legislativo 50 è stato sì pubblicato il 19 aprile 2016 sulla Gazzetta Ufficiale. Ma, nonostante si tratti già di un testo molto ponderoso, rimane un testo di fatto “vuoto”, perché mancano del tutto gli innumerevoli decreti di attuazione. È un fenomeno purtroppo ben noto nel processo legislativo italiano, dove molte leggi rimangono inapplicate non per dolo, ma per mancanza dei regolamenti necessari.
Più che ai guai del bicameralismo siamo di fronte ad un modo di legiferare bizantino, che rimanda sempre ad un altro passaggio, mentre nei vuoti si incuneano la negligenza, l’arroccamento difensivo della burocrazia (meglio non fare per non incorrere in sanzioni), quando non il malaffare. Sono questioni che non riguardano, ovviamente, la Costituzione e la riforma costituzionale. Anche se i “danni collaterali”, le distruzioni e le morti evitabili con una maggiore cura dell’ambiente e delle infrastrutture, con una più diffusa e capillare assunzione di responsabilità, hanno leso i principi costituzionali del diritto alla vita e alla sicurezza. Sono questioni che riguardano, appunto, il processo legislativo.
Mettere tutta l’attenzione sulla riforma costituzionale, come se lì si annidassero tutti i problemi o tutte le soluzioni, rischia di eludere quello che, a mio modesto parere, è il problema centrale del processo legislativo italiano, che andrebbe profondamente ripensato.
Repubblica 29.8.16
La mossa di Berlusconi “Meglio Renzi dei 5Stelle se perde dovrò aiutarlo”
Asse Parisi-Confalonieri per tendere la mano al premier
Salvini: “Dentro Forza Italia vedo nostalgia di inciucio”
di Tommaso Ciriaco
ROMA. A volte, è vero, Silvio Berlusconi cova vendetta: «Renzi mi ha voltato le spalle, è un traditore». Ma sempre più spesso prevale ormai il calcolo politico e aziendale: «Se vince il No al referendum, potremmo permettergli di andare avanti. Soprattutto se la minoranza del Partito democratico dovesse abbandonarlo. Per questo ho chiesto a Parisi di scendere in campo per me». Ecco il dilemma del Cavaliere, la via stretta per riportare Forza Italia di nuovo in pista. È il progetto a cui lavorano da tempo Gianni Letta e Fedele Confalonieri, ed è un piano condiviso anche dalla primogenita Marina. Prevede che in caso di bocciatura della riforma costituzionale il leader di Arcore tenda la mano al premier, strappandolo alle sabbie mobili del Pd. «E d’altra parte - ripete Berlusconi ai suoi - se vince Di Maio rischiamo tutti. Quello è bravo, in tv funziona, ma si vede che è cattivo». Che molto si stia muovendo è chiaro anche a Matteo Salvini. E infatti: «Quando sento parlare di unità nazionale o di larghe intese, mi puzza di Monti. E poi Parisi, che dialoga con Verdini e Alfano... il bene del Paese non c’entra niente. Berlusconi lo sostiene? Spero di no, ma certo nel suo partito vedo nostalgici dell’inciucio».
Di tempo per ragionare di scenari e strategie Berlusconi ne ha avuto parecchio, ultimamente. Agosto in Sardegna, blindato a villa Certosa. Zero apparizioni pubbliche che hanno alimentato dubbi sui progressi della riabilitazione dopo l’operazione al cuore. Neanche una sillaba fino al comunicato dell’altro ieri, nonostante il terremoto del 24 agosto. Fino, appunto, alla promessa di sostenere i provvedimenti del governo per superare l’emergenza del sisma. Mano tesa a Renzi, anche se in questo caso la scelta è dovuta, inevitabile.
La missione “salva Renzi” è anche un effetto collaterale dell’arruolamento di Parisi. Il manager ha bisogno di tempo per farsi conoscere e rimettere in sesto il centrodestra. Le urne a breve finirebbero invece per danneggiarlo, e pure Berlusconi non ha fretta e pensa alla riabilitazione. Chi guida l’impero economico del leader, poi, continua a suggerire prudenza, perché di tutto hanno bisogno le aziende fuorché di un’era a cinquestelle. Né è un caso che a Parisi sia stato garantito informalmente per l’autunno il massimo spazio sui canali Mediaset. «La verità è che i poteri forti e le grandi testate tifano tutti per lui - attacca Renato Brunetta - perché pensano che sia la quinta colonna di Renzi. Ma per noi la condizione per aprire una nuova fase dopo il referendum è che il premier vada via».
Proprio il capogruppo alla Camera lavora anche in vacanza agli stati generali del centrodestra. «A settembre, con Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia. E Parisi? «La sua è l’iniziativa di un consigliere comunale». La verità è che Brunetta dice pubblicamente quel che pensa anche l’asse del Nord di Giovanni Toti e Paolo Romani. E a settembre andrà in scena un’anomala conta degli amici e dei nemici di Parisi. Basterà guardare presenze e assenze alle convention. Quella del city manager, naturalmente. Ma anche quella di Maurizio Gasparri, che a Giovinazzo ospiterà l’intero stato maggiore. Senza Parisi - «ma solo perché è un incontro di FI» - e senza dubbi: «Noi siamo anti Nazareno e anti Renzi». Antonio Tajani, invece, prepara a Fiuggi un mega raduno. Assai “moderato”. Aperto alle associazioni imprenditoriali. E con il manager: «Ma guardi che noi siamo contro questa riforma». Il vicepresidente dell’Europarlamento ricorda i timori delle cancellerie continentali in caso di vittoria del No, e non a caso spiega: «Anche se il referendum non passa, non crolla il mondo. Si aprirà una nuova stagione di riforme. Con o senza Renzi? Quello è un problema suo, noi pensiamo all’Italia, a una nuova legge elettorale, alla riforma della giustizia...».
Lo scontro interno si preannuncia durissimo. Berlusconi sceglierà il cammino più conveniente, che per adesso ha il volto di Parisi. Se Renzi avrà bisogno di aiuto, il soccorso “azzurro” a un nuovo governo potrebbe arrivare sotto forma di astensione, non partecipazione al voto o anche di appoggio esterno. «E invece sa cosa succederà? Che con il No Renzi sarà costretto a lasciare - ragiona Brunetta -Come con Brexit, quando un popolo si esprime con un voto nessuno lo può fermare».
La Stampa 29.8.16
Tra ricorsi, ritardi e bocciature la scuola al via senza un prof su sei
Il meccanismo della “chiamata diretta” non riempie le cattedre
Un docente su due respinto al Concorsone, pioggia di cause sui trasferimenti
di Nadia Ferrigo
Per i dirigenti scolastici le vacanze sono già finite da un pezzo, e gran parte dei professori è impegnata tra le carte bollate dei ricorsi, gli scatoloni per il trasloco e la seconda prova del Concorsone. Uno su due è stato bocciato agli scritti, e mancano ancora gli orali. Il tutto si dovrebbe concludere entro il 15 settembre, ma ora l’unica certezza è che alla prima campanella mancheranno all’appello insegnanti e supplenti. Stessa solfa per il personale scolastico, e in alcune Regioni non bastano i presidi: in Emilia Romagna un istituto su quattro è ancora senza. Secondo le prime stime, almeno 90mila posti sui 600mila di ruolo saranno assegnati a supplenti. Ma come - e soprattutto quando - verranno nominati?
Docenti «a chiamata diretta»
A sentire i presidi italiani, l’attesa della prima campanella somiglia più a un album di figurine. Italiano? Ce l’ho. Matematica e inglese? Dovrebbe. Informatica? Manca. I tempi sono strettissimi. Secondo il calendario scolastico, il primo giorno di scuola è in tutta Italia tra il 12 e il 15 settembre. Alcuni istituti però hanno deciso di anticipare: molti studenti entreranno in classe una settimana prima. Con la riforma della Buona Scuola, i dirigenti scolastici hanno la possibilità della «chiamata diretta» dei docenti. Una volta individuati i ruoli vacanti, con un avviso i dirigenti scolastici possono cercare gli insegnanti secondo loro più adatti. In alcuni casi c’è stato il tempo di fare anche un colloquio, in altri no. Secondo le tabelle del Miur, per le «secondarie di II grado», cioè istituti tecnici e licei, la scadenza per la pubblicazioni degli avvisi delle scuole era il 18 agosto, mentre gli insegnanti interessati potevano condividere i loro curriculum sulla piattaforma «Istanze On Line» dal 16 al 19. La fase di competenza delle scuole si è chiusa lo scorso 26 agosto. Ai selezionati con questo meccanismo andrà un incarico triennale.
Il Concorsone dei ricorsi
La chiamata diretta non è però sufficiente per riempire tutte le cattedre. E chi manca, da dove si pesca? Dal Concorsone. Altra nota dolente. Le assunzioni previste per quest’anno erano 32mila, metà dalle graduatorie, metà per i vincitori del concorso. A oggi oltre 300 commissioni su 800 non hanno completato la correzione degli scritti. Secondo l’analisi della rivista «Tuttoscuola», tra i 71.488 candidati già esaminati, solo 32.036 sono stati promossi. Più della metà non ce l’ha fatta. In Lombardia gli ammessi all’orale sono circa il 30 per cento, in Toscana il 45 per cento, in Piemonte più del 50 per cento. Le regioni migliori? Marche, Umbria, Basilicata e Friuli Venezia Giulia. Alle bocciature, come da copione, seguono i ricorsi. Alcuni sono già stati respinti, ma è troppo presto per sapere come ancora finire: d’altra parte, non ci sono ancora tutte le correzioni.
Da Sud a Nord
E i professori ripescati dalle graduatorie? Peggio mi sento. Solo in Campania le liti in corso tra insegnanti che non si vogliono trasferire e il Ministero sono 4mila. Orientarsi tra la giungla di graduatorie è complicato, ma quest’anno c’è di mezzo l’algoritmo, cioè il meccanismo usato per assegnare i docenti alle scuole. La procedura, in quattro fasi, ha coinvolto 100mila persone. Più della metà, sono professori del Sud Italia che si dovranno trasferire a Nord. Senza tenere conto di età, anni di servizio e situazione familiare. Sempre secondo i dati di «Tuttoscuola», nella scuola primaria sono stati trasferiti in una regione diversa dalla propria circa il 65 per cento degli insegnanti, il 54 per cento per le secondarie di primo grado e il 44 per cento per il secondo grado. «Per i primi giorni a Roma ho preso un albergo - racconta Silvana Rosaria Di Paola, 64 anni, insegnante di educazione artistica a Palermo e provincia da quasi trenta, sempre precaria -. Lo scorso anno mi è stato assegnato un tutor per un anno di prova, superato con i complimenti della preside. Tutto inutile». Il primo settembre ci sono i consigli dei docenti, ma ancora non è saggio prendere casa: manca l’«ambito», altro criterio nell’assegnazione delle cattedre. La prof Di Paola ha accettato, anche se a malincuore, di cambiare città, ma ancora non sa in quale - o forse, in quali - scuole insegnerà. Per decidere questo e qualche altro migliaio di casi, c’è ancora una settimana di tempo.
La Stampa 29.8.16
Il concorso che non crea buoni prof
di Andrea Gavosto
Direttore Fondazione Agnelli
Anche quest’anno la scuola inizierà con migliaia di cattedre vacanti, trasferimenti dei docenti ancora da completare, supplenti da assegnare all’ultimo minuto. Così è in gran parte d’Italia, con Torino e il Piemonte – come ci ha riferito questo giornale – messi peggio di altri.
«Com’è possibile?», si chiederanno le famiglie. La riforma della Buona Scuola non aveva stabilizzato 90.000 docenti precari l’anno scorso e previsto altri 63.000 posti di ruolo con il concorso nazionale iniziato in primavera? Non si era detto, spesso enfaticamente: basta con le cattedre prive di titolare, basta con gli oltre 100.000 supplenti annuali, che ogni anno abbandonano volenti o nolenti i loro allievi, basta con le assunzioni che non passano da una seria verifica delle competenze dei nuovi docenti?
Le cose non sono andate proprio così. Nel primo anno della Buona Scuola le supplenze sono sostanzialmente rimaste le stesse del passato e a settembre saranno ancora tantissime; il trasferimento di alcune migliaia di docenti di ruolo da Sud a Nord incontra forti resistenze, come le feroci polemiche di quest’estate ci hanno mostrato; i ricorsi giudiziari da dirimere sono innumerevoli. Per quanto riguarda il concorso, è già certo che poco più di 500 delle oltre 800 classi di concorso (e solo metà dei candidati) completeranno le prove entro la data prevista del 15 settembre: fra le 20 e le 30mila cattedre rimarranno quindi quest’anno senza vincitori, soprattutto nella scuola primaria e dell’infanzia, e dovranno essere coperte da supplenti.
Ma forse la notizia più sorprendente è l’elevato numero di bocciature al concorso. Sappiamo, infatti, che il 55% dei 71.000 candidati di cui già è noto l’esito degli scritti (in tutto sono 175.000) non è stato ammesso all’orale: in pratica, uno su due non avrebbe le competenze per insegnare. E questo nonostante il concorso sia riservato agli abilitati, docenti di cui, in altre parole, in passato erano stati accertati i requisiti minimi per entrare in aula. I bocciati agli scritti lamentano un eccesso di severità, una disparità nei criteri di valutazione (è possibile, molte commissioni sono state composte all’ultimo momento, dopo i rifiuti dei commissari selezionati per l’esiguità dei compensi e l’impegno agostano) e un’iniquità di trattamento rispetto ai colleghi messi in ruolo l’anno scorso. Su questo ultimo punto hanno sicuramente ragione. Come abbiamo spesso lamentato, i precari delle Graduatorie ad esaurimento sono stati assunti senza alcuna verifica delle competenze: in molti casi, erano persone che avevano insegnato saltuariamente o addirittura non insegnavano da anni. Se oltre la metà dei candidati al concorso – in genere più giovani, molti di fresca abilitazione – non è stata ammessa all’orale, possiamo solo immaginare che cosa sarebbe successo se anche i docenti dello scorso anno fossero stati sottoposti a verifica. Di sicuro, allora non è stato fatto un buon servizio alla qualità della scuola italiana.
In definitiva, questo concorso sancisce in via definitiva l’inefficacia dei vari sistemi di abilitazione che si sono susseguiti negli anni. Se così tanti non riescono a superare l’esame, viene il sospetto che molti - anche se non tutti - dei percorsi di abilitazione offerti dalle università siano stati poco più di un modo per spillare soldi ai docenti. La Buona Scuola prevede che in futuro l’abilitazione all’insegnamento si ottenga dopo un percorso molto lungo e largamente teorico, condotto, come in passato, soprattutto dagli atenei. A differenza delle più efficaci esperienze europee, la necessaria pratica didattica verrebbe svolta solo dopo l’abilitazione. Insomma, sono autorizzato ad andare in aula, ma non mi è stato insegnato come si fa. Le premesse non sono delle migliori.
La Stampa 29.8.16
Conservatori, un’eccellenza italiana al tramonto
Ottantuno istituti e una riforma rimasta incompiuta dal 1999. Penalizzati i corsi di strumento. L’impietoso confronto con l’estero
di Sandro Cappelletto
È tutto semplice e logico: non esistono graduatorie, viene indetta una selezione internazionale sulla base dei profili professionali e artistici, il candidato prescelto deve dimostrare di essere in grado di insegnare di fronte ad una commissione che assiste e giudica una lezione su argomenti comunicati al docente 24 ore prima.
Questa è la procedura con cui sono stato scelto nel 2013 dal Royal College of Music di Londra. In Italia, oggi, è impensabile. Purtroppo». Comincia con la testimonianza di Gabriele Ragghianti, contrabassista, docente all’Istituto Boccherini di Lucca, la sua città, e in uno dei più celebri college musicali del mondo, l’inchiesta de «La Stampa» su stato di salute e prospettive dei Conservatori italiani.
In attesa dei regolamenti
I più recenti dati del ministero dell’Istruzione, università e ricerca (Miur) fotografano 49.458 studenti e 7829 docenti. 81 sono le sedi autorizzate a rilasciare diplomi, divise tra 59 Conservatori statali e 22 istituti accreditati. Hanno il compito di insegnare la pratica strumentale, il canto, la composizione. Un mestiere e un’arte insieme, dove tecnica, talento, qualche volta genio, devono trovare un arduo punto di sintesi, che Riccardo Muti definisce così: «Insegnare musica è un lavoro inafferrabile. Bisogna cercare di individuare l’infinito che c’è dietro ai segni scritti, alle note. La musica, come dice Dante nel Paradiso, è rapimento, non comprensione». Da 17 anni i nostri Conservatori sono in attesa: è il 1999 quando viene varata l’ultima riforma, che segue la precedente del 1930, nata già vecchia e autarchica, soprattutto per quanto riguarda i programmi di studio. Ma dal 1999 devono ancora essere emanati i «regolamenti attuativi» che stabiliranno le nuove regole: formare i professionisti di domani, come vorrebbe l’inquadramento dei Conservatori nel comparto dell’Alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica del Ministero dell’Istruzione, oppure alfabetizzare una popolazione studentesca alla quale sono offerte pochissime alternative, tra un’oretta di musica alla media inferiore e – dove esistono – i blandi Licei musicali? Curare la base della piramide, o il vertice? Esigere rigore o tollerare la mediocrità? Il Ministero aveva promesso il testo definitivo entro lo scorso luglio, ma ancora non se ne ha traccia.
Sulla carta, tutti e 81 sono eguali. Non è vero, ma – per non scontentare le corporazioni e i loro equilibri – si continua a far finta di credere che lo siano. E’ un’anomalia senza eguali al mondo: in tutte le altre nazioni, le istituzioni che davvero formano i musicisti si contano sulle dita di una sola mano. «Dopo tutti questi anni, non ho ancora capito cosa siamo. Abbiamo la testa nell’Università, ma le gambe nel sistema dell’istruzione secondaria. Viviamo una fase delicatissima, è più che urgente un riordino, ma la politica non decide», dice Paolo Troncon, lunga esperienza come direttore di Conservatorio, stimato presidente della Conferenza Nazionale dei Direttori di Conservatorio. «Lo spirito della riforma era quello di portare il sistema scolastico italiano al livello dei paesi stranieri, con un’offerta formativa completa. La riforma, però, non è stato completata. L’ha impedito una visione politica incerta e qualche difesa corporativa», concorda Marco Zuccarini, direttore d’orchestra, oggi direttore del Conservatorio di Torino. E precisa: «Il sistema educativo deve essere visto nella sua complessità: vasta diffusione della cultura musicale, ma anche difesa di quella “minoranza silenziosa” che ha il talento per fare questo mestiere, che è un mestiere artigianale, di bottega, nel quale un ragazzo, quando giunge dopo il triennio alla fase conclusiva degli studi, il biennio, deve dedicarsi totalmente alla disciplina che ha scelto. E’ questo il momento magico e per viverlo bene ci vuole tempo, dedizione, non si possono inseguire mille materie».
Come nelle Università, anche nei Conservatori vige il sistema dei crediti, che ha dato origine a gravi storture, penalizzando, in termini di orario, i corsi principali di strumento e l’insegnamento frontale. Oggi un allievo, per completare il suo monte crediti, può scegliere tra corsi di ear training, espressione corporea, controllo della respirazione, lingua straniera, storiografia musicale, tecniche dell’ufficio stampa, contrattualistica dello spettacolo, management delle istituzioni concertistiche. Ma quando vai a fare un’audizione o partecipi a un concorso, la giuria ti chiede solo una cosa: suonare bene, meglio degli altri. Domenico Turi, pugliese, 29 anni, diplomato in pianoforte, ora alla soglia del diploma in composizione e già compositore in carriera, ha le idee chiare: «Non si può considerare un Conservatorio come un’Università, non ci si può iscrivere a 18 anni e pensare di poter seriamente iniziare a studiare musica a quell’età! Io ho cominciato da bambino al piccolo Conservatorio di Monopoli ed ero iscritto anche alla scuola media annessa, che oggi non esiste più. I Conservatori devono formare musicisti e non dare a molti l’illusione di saper strimpellare. Poi è compito del Paese creare posti di lavoro, incentivare all’ascolto, formare orchestre e non demolirle».
Crollo dell’occupazione
Le orchestre, in Italia, si chiudono più spesso di quanto non si aprano e i posti di lavoro nel settore diminuiscono, come si vede dall’affollamento alle audizioni: 100 domande per un posto di violino di fila alla Scala. I dati relativi all’occupazione non sono confortanti: come certifica un’indagine di Alma Laurea soltanto il 53% dei diplomati del sistema dell’Alta formazione artistica trova un impiego; di questi, il 37% ne cerca uno diverso, più stabile e meglio retribuito. La scuola è ancora il principale datore di lavoro: assorbe, tra contratti a tempo determinato e indeterminato, il 30% dei diplomati.
Una delle ipotesi al vaglio del Ministro Stefania Giannini, del sottosegretario Davide Faraone e del capo dipartimento Marco Mancini, che più da vicino segue la questione, è quella di selezionare alcuni, pochi, Conservatori «superiori», rendendo più selettivo l’ingresso. «Difficile far accettare a un corpo insegnante reclutato su basi “egualitarie” di differenziarsi in Superiori e “Inferiori”, meno che mai se i Superiori dovessero essere tali solo perché dislocati nei Conservatori delle principali città, dove comunque c’è molta spazzatura», riflette Matteo D’Amico, compositore e docente al Conservatorio romano di Santa Cecilia. Su questo punto insiste anche Maria Clara Monetti, pianista, docente a Torino, spesso invitata in giurie internazionali: «Meritocrazia: all’estero si deve meritare una cattedra mostrando ogni due anni la propria attività artistica e i risultati di quella didattica. Qui, siamo legati a vita ad un incarico». Concorda Ragghianti: «La scelta di un insegnante diventa strategica per il successo della scuola, che ha tutto l’interesse ad avere insegnanti di massimo prestigio». Riferendosi alla recente decisione del Ministero di riconoscere all’Accademia pianistica di Imola la possibilità di rilasciare titoli, Paolo Troncon commenta caustico: «Mi sta bene che Imola sia riconosciuta, lo merita. Ma allora io devo poter competere ad armi pari, chiamare al mio Conservatorio i docenti che meritano davvero. Ma questo non avviene, la gara è truccata in partenza.
Reclutamento in tilt
Con la riforma del 1999, il legislatore aveva previsto che venisse ridefinito il sistema di reclutamento, ma non è accaduto. Continuiamo a navigare tra precariato, legge 104 (assistenza ai familiari malati), numero di figli a carico, mille punteggi estranei ad ogni criterio di qualità artistica. «Quando un nostro docente va in pensione- continua Troncon- non siamo liberi di scegliere il successore, dobbiamo pescare, sperando che vada bene, da graduatorie di concorsi vecchi anche di 20 anni e coprire esattamente quella cattedra rimasta vacante: flauto se è flauto, chitarra se è chitarra, anche se avrei magari bisogno di un insegnante di violino in più» Lo stipendio netto varia dai 1500 ai 2500 euro netti al mese. 324 sono le ore di lezione all’anno, divise tra 250 di insegnamento frontale e 74 a «disposizione». Le ore si possono accorpare in due giorni a settimana, oppure in tre giorni ogni due settimane. Molti allievi si lamentano per la mancanza di continuità nel rapporto con il docente.A Matteo D’Amico sta a cuore soprattutto un’altra questione: «L’indispensabile precocità nello studio dello strumento a livello professionale, che non può essere garantita da una struttura didattica dove l’allievo entra dopo l’esame di Maturità. E’ una presa in giro: questo sistema, con questi tempi, non potrà mai più formare strumentisti professionisti al passo con la concorrenza mondiale». Un tempo esistevano i corsi pre-accademici, rivolti proprio agli allievi più giovani, ma adesso «è stato fatto divieto di ammettere nuovi iscritti a questi corsi che d’ora in poi dovranno essere tenuti da istituti esterni in convenzione con i Conservatori. Questo porterà da un lato al fiorire dell’istruzione musicale privata, dall’altro ad uno scadimento di livello di quella pubblica».
Il nodo dei programmi
Tante ombre, ma anche qualche luce. Dario Oliveri, oggi docente universitario e direttore artistico degli Amici della musica di Palermo, ricorda quando, all’inizio degli anni Novanta, appena diplomato in chitarra, insegnava al Conservatorio di Trapani. «E’ passato un quarto di secolo e la situazione è senz’altro migliorata: allora, ci si fermava con i programmi all’inizio del Novecento, considerato un periodo trasgressivo. Non si studiavano la musica antica, la contemporanea, il jazz, la musica elettronica: tutte discipline che oggi si insegnano e molti docenti sono più responsabili, anche riguardo la necessità di rapportarsi alle istituzioni musicali del territorio».
Anche Zuccarini sottolinea, tenacemente, gli aspetti positivi: «Molti Conservatori hanno una propria orchestra, possiamo, nei limiti di bilancio, invitare dei docenti per delle masterclass, i nostri diplomati spesso lavorano nelle migliori orchestre internazionali. Cerchiamo la qualità, nonostante i ritardi, i lacci e i lacciuoli imposti dalla politica che non decide».
Il Fatto 29.8.16
Burkini sì, burkini no
I foulard colorati e belli di mia madre, sempre intonati ai vestiti
di Enrico Fierro
Burkini sì, burkini no. Un discussione tutta e solo leghista. Il partito armata Brancaleone di Salvini ha pochi voti e ancora meno idee, quindi va bene scimmiottare i francesi e agitare lo spettro del terrorismo finanche dietro un castigatissimo costume da bagno. Qui al Sud di burkini sulle spiagge non se ne sono visti. Tanga minuscoli quanto un francobollo sì, monokini pure, insomma ognuno sulle sabbie joniche o sugli scogli del Tirreno ha potuto liberamente mostrarsi. Al meglio o al peggio, dipende solo dalle diete e dagli esercizi invernali in palestra. Se si fosse presentata una donna in burkini non sarebbe stata oggetto di scherno o di allarmati commenti, l’avrebbero semplicemente considerata, e accettata, come parte del paesaggio estivo. Perché in queste latitudini la tolleranza è un sentimento antico, qui nel corso dei millenni se ne sono viste di tutti i colori. Letteralmente. E anche da queste parti si è usato il velo.
RICORDO I FOULARD colorati e belli di mia madre. Sempre intonati col colore dei vestiti. Li metteva ogni volta che usciva. Ricordo lo scialle delle donne in lutto. Era nero, perché nero è il cuore e nera deve essere la veste, dicevano. Copriva il capo e il dolore. Ricordo gli sguardi severi del monaco guardiano nei santuari dedicati alle madonne alla vista di visitatrici scollacciate e col capo scoperto. E i cartelli, ancora oggi visibili e attivi, “si consiglia di coprirsi le gambe e di entrare in chiesa con un abbigliamento rispettoso del luogo sacro”. Forse la libertà di tutti sta anche nel rispetto delle tradizioni, delle abitudini, delle regole. Le nostre e quelle degli altri. Non saranno chiappe, panze e tette mostrate al vento, o corpi coperti che si bagnano in mare a mettere in crisi il mondo. Il resto lasciamolo ai disperati ayatollah leghisti.
Repubblica 29.8.16
“La morte di Regeni doveva sembrare un incidente Lo decise Al Sisi”
Parla Omar Affi, agente dei servizi egiziani “Il ministro dell’Interno sapeva tutto”
di Giuliano Foschini
«QUANDO Al Sisi ha saputo della morte di Giulio ha convocato il ministro degli Esteri e le alte gerarchie miliari e hanno deciso di dire che Regeni era morto in un incidente d’auto». È il cuore della testimonianza di Omar Afifi in onda oggi nella prima puntata del programma Presa Diretta di Riccardo Iacona dedicata al caso Regeni. Al centro dell’intervista di Giulia Bosetti, l’uomo dei servizi egiziani che — come già ricostruito da Repubblica — aveva accusato il governo di Al Sisi dell’assassinio con un esposto anonimo arrivato in procura a Roma.
«Ho lavorato per 20 anni al Dipartimento investigativo criminale del ministero dell’Interno », dice Afifi. «Ma dopo aver assistito alle torture fatte dagli apparati di sicurezza ho deciso di andarmene». Afifi racconta però di avere ancora fonti. Che gli avrebbero raccontato cosa è accaduto a Giulio. «È stato arrestato il 25 gennaio da poliziotti in borghese che sospettavano che fosse una spia straniera e volevano sapere per chi lavorava. È stato poi portato al commissariato di Giza — continua nell’intervista che andrà oggi in onda — dove hanno cercato di ottenere da lui delle informazioni ». L’ordine dell’arresto sarebbe partito dal «Dipartimento investigativo, diretto da Mohammed Sharawy e Khaled Shalabi», quest’ultimo poi a capo dell’inchiesta sull’omicidio di Giulio. Lo stesso che parlerà nell’immediatezza dei fatti di un omicidio stradale.
«Sicuramente — dice però Afifi — il ministro dell’Interno era a conoscenza di tutto, perché nessuno può fare nulla che non sia stato ordinato dal Ministro ». L’ex militare parla di una tortura in tre fasi, entrando anche nei particolari, raccontandone però alcuni che non combaciano con quanto accertato dall’autopsia disposta dalla procura di Roma.
«Quando Al Sisi ha saputo della morte di Giulio, ha convocato il ministro degli Esteri e le alte gerarchie miliari e hanno deciso di dire che Regeni era morto in un incidente d’auto». La procura di Roma ha però sulla sua scrivania da qualche mese un’altra ricostruzione rispetto a quella di Afifi — in qualche modo speculare, ma più precisa in alcuni dettagli e che offre una diversa ricostruzione della guerra interna tra gli apparati, recapitata da un anonimo assai informato alla nostra ambasciata a Berna. Repubblica ne ha verificato l’attendibilità e i genitori hanno chiesto che arrivino riscontri ma dal Cairo, a oggi, si sono rifiutati di offrire elementi utili.
«Purtroppo — ha ripetuto Paola, la mamma di Giulio — abbiamo avuto troppi depistaggi. A Bruxelles ho parlato con davanti funzionari dell’ambasciata egiziana che avevano il ghigno — aggiunge Paola — Ecco perché chiedo al nostro governo che il nuovo ambasciatore Cantini non scenda al Cairo. Non dobbiamo dare questa immagine distensiva, perché è prioritario l’atteggiamento reale dell’Egitto nell’aiutarci a trovare la verità per Giulio. Stiamo aspettando tante risposte dall’Egitto, quindi mandare adesso l’ambasciatore, potrebbe essere male interpretato. Noi pensiamo serva una pressione molto forte. Non sentiamo nessuno del governo dal sette luglio: noi vogliamo fare un appello alla coerenza!». Il riferimento è al caso del senatore di Ala, Lucio Barani, che in Egitto ha detto di sapere che «Renzi sa dell’innocenza del governo egiziano ». «Chi sono i veri interlocutori, addetti o autorizzati a parlare con l’Egitto? Che sia chiaro perché la comunicazione è una cosa importante».
La Stampa 29.8.16
Raid turchi contro i curdi
È strage di civili
di Giordano Stabile
Agguati con missili anti-tank, bombardamenti con artiglieria e aviazione, colonne di carri armati che si dirigono sempre più a Sud. L’operazione Scudo sull’Eufrate entra nella sua fase cruciale e lo scontro è ora fra i ribelli arabi sostenuti dalle forze armate turche e i guerriglieri curdi dello Ypg. Il fronte nel Nord della Siria assomiglia sempre più a quello nel Sud della Turchia, dove l’esercito di Ankara fronteggia la guerriglia del Pkk curdo.
Che i due conflitti siano intrecciati lo spiega lo stesso Recep Tayyip Erdogan. A Gaziantep, straziata una settimana fa da un kamikaze dell’Isis, il presidente turco dichiara solennemente che combatterà «con la medesima determinazione» lo Stato islamico e le milizie curde dello Ypg. «Noi - ha spiegato - non accetteremo alcuna attività terroristica alla nostra frontiera o vicino a essa».
Per questo colonne di carri M60 e di blindati anfibi Acv-15 si sono spinti a una quindicina di chilometri a Sud del posto di frontiera di Jarabulus, conquistato senza combattere quattro giorni fa. Gli jihadisti si sono infatti ritirati molto più a Sud-Ovest, attorno alla città di Al-Bab. Ma nei villaggi vicino alla frontiera e lungo la riva destra dell’Eufrate ci sono i guerriglieri dello Ypg, che non intendono retrocedere.
Sabato pomeriggio hanno preso di mira i tank che avanzavano sul terreno collinoso vicino ad Al-Amarneh. Due missili teleguidati hanno centrato almeno un mezzo blindato, ucciso un soldato, ferito altri due. La reazione è arrivata ieri mattina. Colpi di artiglieria e, secondo attivisti dell’opposizione siriana, anche raid aerei hanno colpito duramente i villaggi di Jeb al-Koussa e Al-Amarneh. L’esercito turco sostiene di aver ucciso «25 miliziani curdi», ma l’Osservatorio siriano per i diritti umani parla di «almeno 40 morti e 75 feriti fra i civili».
L’ennesimo massacro di innocenti in un nuovo fronte della guerra civile siriana, che però vede per la prima volta le forze armate ufficiali di un Paese straniero impegnate sul terreno senza essere invitate. Un precedente che potrebbe fare scuola. Dopo i raid, i ribelli della formazione Faylaq al-Sham, la Legione siriana di ispirazione salafita, hanno catturato «nove villaggi» a Sud di Jarabulus e fatto decine di prigionieri fra i guerriglieri dello Ypg. Gli insorti li hanno mostrati, presi a calci e umiliati, in video e fotografie.
Il Fatto 29.8.16
Cosa vuole Erdogan
Siria, chi pagherà il prezzo dell’ingresso della Turchia
L’obiettivo di Ankara è evitare che i curdi che combattono contro il dittatore Assad riescano a creare una propria enclave in quel che resta del Paese
E anche il governo Usa è pronto a mollare i combattenti anti-Isis
di Julien Barnes-Dacey
qui
Repubblica 29.8.16
L’Is è in fuga da Sirte ma è pronta la battaglia per il controllo dei pozzi
La città non è ancora presa: 29 morti tra i governativi Duro confronto con le milizie filo-Egitto nell’Est
di Vincenzo Nigro
IN LIBIA sta durando più del previsto la battaglia finale di Sirte contro lo Stato islamico. Sta costando troppe vite umane questo assalto delle milizie di Tripoli e Misurata agli ultimi quartieri controllati dai terroristi neri. Soltanto ieri sono morti altri 27 soldati della coalizione che lavora per conto del governo di Tripoli. I 30 giorni concessi da Barack Obama alle sue forze armate per chiudere i conti con l’Is scadono domani, per cui queste ultime ore sicuramente vedranno una accelerazione degli attacchi americani, anche se una proroga è sempre nei poteri del presidente americano. Il problema è capire se l’offensiva di Tripoli e Misurata abbia disperso i combattenti stranieri dell’Is, ma abbia anche coalizzato quei pezzi di tribù gheddafiane ed ex uomini degli apparati del colonnello che a Sirte per 4 anni avevano trovato rifugio dopo la rivoluzione del 2011.
HAFTAR VERSO I POZZI
In ogni caso, a meno di soprese clamorose (ma allora i bombardamenti americani sarebbero molto più pesanti), presto il governo del premier Serraj dovrebbe avere il controllo totale della città, e avviare operazioni di ricerca dei gruppi di terroristi fuggiti verso il Sud, in particolare verso i confini con Niger e Algeria. Nel frattempo, come sempre, il caos libico cambia, e assume nuova forma. Il vero pericolo adesso viene dal confronto con l’Est. Nelle ultime settimane, proprio mentre Misurata conclude la battaglia di Sirte, la milizia del generale filo-egiziano Khalifa Haftar ha pensato bene di avanzare in Cirenaica verso i pozzi della “mezzaluna petrolifera”. La settimana scorsa una colonna di blindati è arrivata a Zueitina, un villaggio a 10 chilometri dal ter- minale petrolifero che ha lo stesso nome ed è presidiato dalla milizia di Ibrahim Jadran, il capo della Guardie Petrolifere. Jadran per tre anni è stato alleato del generale ex gheddafiano, ma mesi fa quando ha capito che la milizia del generale era pronta a scalzarlo, è passato con Tripoli. In cambio di recente le sue guardie hanno ricevuto “arretrati di stipendio” pari a 40 milioni di dollari, con un accordo che è stato benedetto perfino dalle Nazioni Unite.
LA VERA SFIDA È PER IL PETROLIO?
A questo punto dunque, mentre dovrebbe chiudersi la battaglia di Sirte contro l’Is, nella regione dei pozzi petroliferi potrebbe scatenarsi una nuova fase della guerra civile, con Tripoli, Misurata e le città loro alleate pronte alla guerra contro Haftar e il suo grande alleato, l’Egitto del generale Sisi. L’Egitto nei giorni scorsi ha suggerito al presidente del parlamento di Tobruk, Agila Saleh, una mossa politica che va in parallelo con le azioni militari di Haftar. Il parlamento (che secondo gli accordi Onu è l’unico ancora legale) ha sfiduciato i ministri del governo Serraj, una compagine che il presidente del Consiglio presidenziale aveva presentato ma che da mesi non era stata votata da Tobruk. Il Consiglio presidenziale di 9 membri rimane in sella ed è perfettamente legale, visto che invece ha ricevuto il voto di fiducia; ma i ministeri in questi mesi sono rimasti semi-paralizzati, e soprattutto Tobruk continua la sua azione di sabotaggio politico e militare contro il governo di Tripoli appoggiato dalle Nazioni Unite. «La verità è che ormai abbiamo capito che l’Egitto non ha nessuna intenzione di rinunciare ai suoi piani di conquista della Cirenaica», dice un importante deputato di Misurata, «quando andiamo a incontrare gli egiziani sono pieni di complimenti per tutti noi, dicono che appoggiano una Libia unita e pacificata: ma in verità lavorano per ritagliarsi una fetta di territorio in Cirenaica, guarda caso quella con i pozzi petroliferi».
CIRENAICA MILITARIZZATA
Il generale filo-egiziano risponde però con un piano che sicuramente è stato approvato dal Cairo: sta di fatto militarizzando il governo della Cirenaica. Dopo aver nominato un governatore militare per la regione, ha indicato un commissario militare a Bengasi, uno ad Agedabia (rimuovendo il sindaco civile), mentre un terzo governatore militare è stato assegnato a Kufra. Il presidente del Parlamento Agila non solo non si è opposto a questa militarizzazione in stile egiziano degli incarichi politici, ma ha chiesto che «le autorità civili da Derna a Bin Jawad rispondano alle autorità militari». E adesso il capo di Stato maggiore dell’esercito di Haftar, il generale Abdelaziz al Nathori, quello che formalmente insedia i vari governatori militari, ha detto apertamente che «l’esercito libico e l’esercito egiziano sono una sola cosa, abbiamo chiesto all’esercito egiziano di controllare le nostre frontiere di terra e di mare fino ai confini con il Sudan». Anche i confini di mare, dunque, quelli da cui potrebbero partire le petroliere caricate con il petrolio che legalmente solo il governo di Tripoli sarebbe autorizzato a vendere.
Il Sole 29.8.16
Il summit di Hangzhou
Le ambizioni cinesi per il G20 di settembre
di Rita Fatiguso
qui
Repubblica 29.8.16
Pechino
Gli amanti delle console per anni sono stati curati persino con l’elettroshock
Dopola vittoria di un premio da 10 milioni di dollari a un torneo adesso vengono celebrati
Via il tabù sui videogiochi ora la Cina applaude i campioni di “eSport”
Il giro d’affari complessivo è di 18 miliardi di dollari e la metà vengono dall’Asia, compresi i 4,5 dalla Cina
di Jaime D’Alessandro
HANNO INIZIATO a fare sul serio nel 2015 vincendo 61mila dollari. Ma nulla lasciava presagire il risultato di quest’anno: il titolo vinto a Seattle a The International, torneo dedicato al gioco online Dota 2 con in palio 20 milioni di dollari. Il primo premio? Nove milioni e 139 mila dollari ed è andato ai membri del team cinese Wings, cinque ragazzi professionisti dell’eSport. Non è la prima volta che una squadra cinese vince in eventi del genere. Non era mai accaduto però che in patria si guadagnasse oltre al rispetto del pubblico quello di testate del calibro del China Daily, della tv di stato Cctv e dell’agenzia Nuova Cina ( Xinhua). L’accoglienza ricevuta dal diciottenne Zhang Yiping e dai suoi compagni, quasi fossero atleti olimpici tornati a casa con una medaglia d’oro, è una novità. Perché la Cina è un Paese che tratta la “dipendenza” da Internet e da videogame con campi di rieducazione. Gli elettroshock sono stati banditi nel 2009 dal ministero della Sanità, giudicati “privi di fondamento scientifico”, dopo lo scandalo scoppiato nella provincia di Shandong. Tremila adolescenti vennero sottoposti a questo trattamento, pagato ben 800 dollari delle famiglie.
Con 721 milioni di persone che accedono al Web, in una società che chiede troppo da bambini e teenager in termini di risultati scolastici, forme eccessive di attaccamento al mondo dei giochi elettronici vengono combattute da sempre con metodi spiccioli. Il governo sostiene che il 10 per cento dei minori che navigano online abbiano un problema di dipendenza. Si parla di 24 milioni di ragazzi che a volte finiscono per tre o sei mesi in uno dei 250 centri come il Daxing Internet Addiction Treatment Centre di Pechino. Qui vengono sottoposti a una severità da caserma sotto lo sguardo di psichiatri dell’esercito popolare. E questo accade malgrado fin dal 2004 l’eSport sia stato riconosciuto ufficiamene e nel 2009 la Coca-Cola abbia scelto di promuovere le sue bibite usando i personaggi del gioco di ruolo di online World of Warcraft tanto è diffuso in Cina e parte della cultura di massa.
Che qualcosa stesse cambiando si era già capito nel febbraio del 2015. Sulle pagine del People’s Daily, sempre di proprietà dello Stato, era apparso un articolo nel quale si faceva distinzione fra l’eSport e dipendenza dai videogame. Anzi si scriveva: «L’e-Sport fa bene ai teenager quanto il calcio». Ora la conferma con il risalto dato alla vittoria del team Wings in Dota 2. È una delle “discipline” più popolari dopo League of Legends, punta di diamante di quel genere detto Multiplayer Online Battle Arena (Moba). Nato quasi per caso sette anni fa, è fatto di arene fantasy nelle quali si combatte gratuitamente in squadre di quattro o cinque. Il giro di affari complessivo è di 18 miliardi di dollari e la metà vengono dall’Asia, compresi i 4,5 dalla Cina. Solo League of Legends ha 90 milioni di giocatori al mese nel mondo e suoi match vengono guardati da 88 milioni di persone. Non si tratta più di semplici videogame, ma di canali d’intrattenimento di una specie nuova a metà fra gioco online, dirette, tornei, piccoli acquisti fatti dai giocatori che sommandosi divenendo miliardi.
Zhou Yang, Chu Zeyu, Zhang Ruida, Li Peng e il capitano dei Wings Zhang Yiping sono diventati ricchi in una sola notte intascando poco meno di due milioni di dollari a testa. Facendo sognare i loro coetanei, in un Paese dove il reddito pro capite nel 2015 è stato di 7900 dollari secondo la Banca Mondiale. Per farlo hanno battuto, contro i pronostici, gli americani Digital Chaos. Ma Yiping, che online si fa chiamare Y*, ha fatto intendere di volersi ritirare per riprendere gli studi. I suoi fan comprendono e approvano. «Nulla è meglio che scegliere di ritirarsi per tornare a scuola», ha scritto uno di loro sui social network. E un altro: «Il college è un must». L’eSport sarà anche stato sdoganato, ma in Cina continua a regnare il pragmatismo di sempre.
Corriere 29.8.16
Il bricolage genetico ci regalò la parola
di Sandro Modeo
Tra i massimi studiosi delle origini del linguaggio, Philip Lieberman riassume nella Specie imprevedibile (traduzione di Mirza Mehmedovic, Carocci, pp. 288, e 26) le ricerche di una vita. Inquadrando quelle origini in una cornice darwiniana, Lieberman le connota come uno degli «accrocchi» con cui il bricolage evolutivo arrangia strutture antiche per nuove funzioni: in questo caso, organi di deglutizione/respirazione in strumenti di emissione/articolazione della parola. Vediamo così ricostruite sia le svolte anatomiche (il tratto sopralaringeo a «canna d’organo»), sia quelle cerebrali (il legame tra i gangli basali, deputati anche al controllo motorio e al camminare, e la sintassi); cerniera tra i due livelli, geni come Foxp2, regolatore decisivo della cadenza motoria-comunicativa non solo negli uomini, ma anche in altri animali (vedi il canto degli uccelli). È un’ottica in cui il break del linguaggio (maturato tra Paleolitico medio e superiore come superamento dei gesti e della mimica facciale) viene ricondotto a una matrice materialistico-naturalistica, ridimensionando ogni interpretazione platonica o formalistica (Noam Chomsky in primis ) finora dominante.
Il Fatto 29.8.16
Giordano Bruno, la sua “lanterna della Raggione” non invecchia mai
Il dialogo come fondamento dell’etica, contro gli integralismi religiosi: un libro del filosofo Aldo Masullo
di Fabrizio D’Esposito
qui
La Stampa 29.8.16
Pronti alla morte... ma non troppo
Indecisioni e lentezze: le guerre del Risorgimento sono state condizionate dalla prudenza Ma si rivelano di straordinaria modernità per l’invadenza della propaganda e dell’ideologia
di Alessandro Barbero
Raccontare le guerre d’Indipendenza è come passeggiare nel centro d’una qualunque città d’Italia, incontrando a ogni passo nomi familiari: via Pastrengo, via Goito, via Palestro, via Montebello, via Solferino, via Bezzecca... Sono tutte battaglie vinte, e cinque o sei generazioni di italiani sono cresciute imparandone i nomi fin dall’infanzia. Si sapeva, naturalmente, che c’erano state anche battaglie perse, Custoza, Novara, di nuovo Custoza, Lissa, trascurate per buoni motivi dalle commissioni di toponomastica, ma rimaneva comunque l’idea di un momento epico della storia d’Italia. Il tutto, purtroppo, somministrato con un eccesso di retorica che per anni ha sedotto gli italiani e poi, a un certo punto, ha finito con l’annoiarli; da cui il successo recente di uno pseudo-revisionismo altrettanto grossolano, fatto di maledetti Savoia e controstorie dell’Unità d’Italia.
Napoleone dimenticato
Riviste oggi con l’occhio disincantato dello storico militare, le guerre del Risorgimento colpiscono per la straordinaria incompetenza con cui sono state combattute. Napoleone aveva insegnato che quando si invade un Paese nemico non bisogna attardarsi in manovre complicate, e spendere mesi ad assediare fortezze: l’unica cosa che conta è andare a cercare l’esercito nemico e distruggerlo, poi il Paese cadrà da solo. Ma Carlo Alberto, dopo essere entrato in Lombardia fra l’entusiasmo generale, non osa passare il Mincio e attaccare Radetzky fino a quando non avrà assediato e preso Peschiera, e ci mette un mese e mezzo, come se si fosse ancora nel XVIII secolo.
Napoleone aveva insegnato che non bisogna dividere l’esercito, e che l’arte della guerra consiste nel far marciare le truppe su strade diverse ma sempre collegate, così da poter riunire tutta la propria forza entro ventiquattr’ore: ma nel 1866 gli italiani stabilirono di entrare nel Veneto in due masse separate, Lamarmora sul Mincio e Cialdini sul Po, perché il re non era riuscito a decidere chi doveva essere il comandante in capo. Napoleone aveva insegnato che bisogna sempre sapere quello che si vuol fare, star fermi solo il tempo indispensabile per completare i preparativi, e poi muoversi e non fermarsi più; ma Carlo Alberto nel 1848, l’austriaco Giulay nel 1859, Cialdini nel 1866 rimangono inattivi per settimane davanti a un nemico più debole, attanagliati dalla paura di prendere un’iniziativa sbagliata, benché dalle capitali piovano i telegrammi che li esortano a muoversi a qualunque costo.
Figlio di Napoleone, l’Ottocento umanitario e progressista non capiva più la sua eredità cinica e brutale, la sua indifferenza alle vite umane pur di raggiungere lo scopo. Nelle battaglie napoleoniche era normale che un esercito perdesse in un giorno il 15, 20, perfino il 25% della sua forza, tra morti, feriti e prigionieri, perché si continuava a combattere con ostinazione bestiale fino a strappare una vittoria decisiva. Ma nella prima vera battaglia del Risorgimento, a Pastrengo, gli austriaci battuti persero il 5% delle forze impegnate e i piemontesi vincitori appena lo 0,7%: 15 morti e 90 feriti. Queste cifre irrisorie ritornano in quasi tutte le battaglie del ’48, e vogliono dire una cosa sola: che tanto i comandanti quanto le truppe erano molto, ma molto prudenti, alla prima difficoltà si fermavano, e non spingevano mai un’azione a fondo.
Atrocità inventate
Quando arrivano i francesi, nel 1859, le cose cambiano, perché Napoleone III vuol dimostrare al mondo di non essere inferiore allo zio, e quindi fa la guerra con un altro ritmo. Ma la sera della battaglia di Solferino, dove ha perduto fra il 10 e il 15% del suo esercito, Napoleone III rimane così sconvolto davanti al campo di battaglia coperto di morti e moribondi da decidere che ne ha abbastanza, e accettare la proposta d’armistizio di Francesco Giuseppe. Gli europei dell’Ottocento erano capaci di qualsiasi delitto, come dimostra la storia coloniale, ma sentivano con molta forza che «in questo secolo», almeno fra popoli civili, certe cose non si potevano più fare.
In compenso, le guerre d’Indipendenza sono di una modernità sbalorditiva per l’invadenza dell’ideologia e della propaganda. «Il fanatismo ha pervaso ogni età, ogni ceto, ogni sesso», scrive Radetzky stupefatto durante le Cinque Giornate di Milano. I casi di atrocità sono molto rari, ma la propaganda li moltiplica: ai soldati austriaci si fa credere che le donne italiane cavano gli occhi ai prigionieri; ai soldati piemontesi si racconta che gli austriaci sventrano le donne incinte.
Contadini e operai
I resoconti dei giornalisti e i bollettini dei governi gonfiano i fatti e scatenano entusiasmi ingiustificati: dopo la battaglia di Goito, in cui gli austriaci ebbero 68 morti, Carlo Cattaneo racconta disgustato che «a Milano il governo, vanissimo e ignorante, annunciò che il nemico era fuggito dirottamente, lasciando cinquemila morti». Ma quando, in esilio l’anno dopo a Parigi, Cattaneo sentì dire che in Italia la libertà e la patria interessavano solo qualche gentiluomo ozioso, mentre il popolo lazzarone a queste cose era indifferente, s’indignò. Lui aveva visto le strade di Milano, una Milano minuscola che andava dal castello Sforzesco a Porta Romana, intasate dai cadaveri dei soldati austriaci ammazzati, a fucilate e a coltellate, da quel popolo lazzarone.
L’Italia, allora come oggi, era un Paese complicato e diviso, dove convivevano il contadino diffidente e ostile a ogni cambiamento e l’operaio di città pronto a entusiasmarsi per Garibaldi, così che da una parte e dall’altra i propagandisti potevano dire, non senza ragione, «il popolo è con noi». È un dibattito che ci portiamo dietro da allora e che non si è ancora concluso.
Repubblica 29.8.16
“Barenboim m’insegnò che un grande artista può essere divertente”
Antonio Pappano ricorda il sodalizio col maestro argentino “Grazie a lui ho capito come conciliare la testa con il cuore”
intervista di Leonetta Bentivoglio
Esplorare l’idea di “maestro” è un’impresa avventurosa, che deve tener conto di sentimenti sfaccettati quali la disparità, l’invidia, l’emulazione, il rifiuto e l’innamoramento. C’è chi scappa dal maestro e chi gli è grato per la vita. Chi si sente arricchito dal conflitto, come Jung con Freud, e chi ha studiato col proprio papà per poi divenire mille volte più bravo di lui, come Mozart e Picasso. E anche chi di maestri non ne ha avuti affatto, come Van Gogh e Melville. Ma in musica l’autodidatta non esiste. Il linguaggio di base è necessario, magari da filtrare, negare o rivoluzionare: partire dal nulla in campo musicale è un’utopia. Tanto è vero che il maestro
per eccellenza è il direttore d’orchestra, il quale merita precisamente quest’appellativo. È lui il leader che sceglie l’andamento del pezzo e lo illustra ai musicisti per governarne l’assieme. Possiede un’impostazione generale e la distribuisce ai singoli per poi spalmarla nella totalità. Incarna la metafora del Führer, secondo il filosofo Adorno, il quale attribuì al ruolo del maestro il significato più antidemocratico possibile.
«Il maestro ha il dominio del suono e del peso, oltre a controllare l’architettura musicale e drammaturgica dell’opera», spiega l’inglese Antonio Pappano (il nome gli deriva da genitori campani, ma è cresciuto fra Londra e Stati Uniti). “Tony” — così lo chiamano tutti — ha appreso i segreti del suo lavoro da Daniel Barenboim, di cui è stato a lungo assistente, per poi trasformarsi in uno dei massimi direttori d’orchestra della nostra epoca.
Cosa significa la trasmissione del sapere in musica?
«Innanzitutto equivale al rigoroso rispetto della partitura, e a tale scopo devi conoscerla e interiorizzarla per spiegarla ai musicisti e ispirarli. Vanno sviluppati l’orecchio per il suono, l’equilibrio, la trasparenza e i passaggi di materiali fra le sezioni dell’orchestra. Devi insegnare a condividere l’esecuzione nel reciproco ascolto, a volte ammettendo che il collega è più importante di te. La musica prevede gerarchie. C’è un flusso, un’onda d’intensità mutevole, che passa da un musicista a un altro. È necessario che ci sia qualcuno capace di creare un contenimento e una cornice. Il direttore è questo».
Imparare da un maestro con più esperienza consiste anche nell’imitarlo?
«No. Se si guardano gli assistenti di Barenboim divenuti direttori d’orchestra, si vedranno, oltre a me, artisti diversi come Christian Thielemann, Simone Young, John Fiore, Omar Meir Wellber, Dan Ettinger e Philippe Jordan. Hanno tutti una loro personalità specifica. Non so se il mio gesto assomigli a quello di Daniel, ma il nostro processo di pensiero si sviluppa in maniera analoga. D’altra parte ho seguito Daniel per sei anni, e inevitabilmente qualcosa di lui mi è entrato dentro. Ma credo che fra noi esistano stacchi geografici, culturali e psicologici».
Ci parli delle vostre differenze.
«Sono un latino, quindi legato profondamente all’opera italiana, ma non soltanto. Non ho mai smesso di tentare di colmare le mie lacune, e da questo punto di vista è stato decisivo l’incontro con Daniel, il cui repertorio è sterminato. Comunque, sebbene nato in Argentina, Barenboim è un musicista ebreo con una solida e fondamentale cultura tedesca. Ogni maestro accumula informazioni e le sviluppa nel processo della propria vita, lottando con le sue influenze e il suo passato. Chiamandomi Pappano, da sempre mi viene chiesto di dirigere opere italiane. Avrei potuto fermarmi dentro questo territorio. Invece Barenboim mi ha trasmesso la curiosità di esplorare lingue e repertori diversi».
Come vi conosceste?
«Da giovane facevo una vita da zingaro come maestro sostituto in giro per l’Europa e spesso a Chicago», racconta Tony, il quale è così simpatico e bravo da convincere tutti, farsi amare da ogni orchestra e guadagnare affetto persino del pubblico sussiegoso dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, di cui è la guida musicale. Per non parlare degli esigentissimi inglesi, che lo adorano: Pappano si divide fra l’incarico sinfonico a Roma e quello operistico come direttore dell’Opera House Covent Garden di Londra. «Negli anni Ottanta», continua, «fui proposto come pianista per audizioni condotte da Barenboim, il quale era già un mito della direzione orchestrale. Doveva scegliere cantanti da ingaggiare nel festival wagneriano di Bayreuth. Io ho accompagnato al pianoforte un’aria per un soprano e Daniel disse: riguardo alla cantante non so se la prendo, ma quel pianista lo voglio di sicuro».
Vi metteste subito a lavorare insieme?
«Sì, in Germania e anche a Israele, dove facemmo il ciclo delle opere di Mozart e Da Ponte. Lavorai con lui a Bayreuth nel 1986, cominciando da Tristano e Isotta. Dal 1988 facemmo l’intero ciclo del Ring di Wagner: esaltante. Poi abbiamo collaborato a più riprese, a Parigi e altrove, sia per la musica sinfonica sia nell’opera lirica. La sua Tetralogia mi ha segnato molto: è un interprete d Wagner d’immenso respiro musicale e al tempo stesso è prioritario il suo interesse drammaturgico. Ha una lettura del teatro wagneriano che penetra con cura ineguagliabile nel rapporto tra parola e musica».
Si dice che Barenboim abbia un carattere difficilissimo. Conferma?
«Daniel sorregge il peso e la responsabilità della storia che si porta dietro. Normale ogni tanto perdere la pazienza. Persone come lui hanno il dovere di difendere la cultura nella quale sono cresciuti. Più si va avanti con l’età e più si è convinti di come devono essere le cose. Posso aggiungere che Daniel è una delle persone umanamente più generose che io abbia mai conosciuto, dotato di uno humour formidabile e di una memoria straordinaria sugli episodi del passato. È uno tra i migliori raccontatori di barzellette esistenti sulla faccia della terra».
Quale virtù pensa che le abbia insegnato meglio?
«L’equilibrio fra testa e cuore. Il dosaggio della passione. Non bisogna spargere a man bassa la passione sulla mistica, come se fosse un ragù generico. Mi ha anche fatto capire come confrontarmi con la monumentalità delle opere wagneriane. Lavorando sul dettaglio, il rischio è perdersi nella foresta vedendo solo gli alberi. Daniel insegna a dare un contesto ai particolari. In più mostra come piantare semi nel terreno dell’orchestra per poi raccogliere frutti. Quando si è direttori stabili si deve pensare non solo all’opera che si sta dirigendo in quel momento, ma all’intero universo di pensiero musicale che va comunicato al proprio gruppo».
6. Continua
Corriere 29.8.16
Italiani, libertini senza libertà
Il nostro sondaggio online: siamo più trasgressivi e infedeli e si alza la media dei partner, da 9 a 13
Ma siamo frenati da antichi pudori. La doppia faccia del Paese
di Roberta Scorranese
Rievocando la sua pre-adolescenza nel romanzo La scuola cattolica, Edoardo Albinati confessa che, in fatto di sesso, «la principale stimolazione ci veniva dalla televisione e dalle barzellette sporche, di cui...raramente coglievo il senso».
Si era a metà degli anni Sessanta, proprio quando Pasolini attraversava il Paese testimoniando, nel documentario Comizi d’amore , il corale balbettio imbarazzato che accompagnava le opinioni sulla sessualità. E la sensazione, oggi, riguardando quelle scene sfocate, coincide con quella colta da Albinati: la difficoltà di parlarne serenamente, l’urgenza di associare parole come masturbazione o omosessualità a qualcosa di comico, come se fosse un concetto pesante, da alleggerire con l’ironia. O a qualcosa di sporco, da reprimere con divieti, censure e rimozioni.
Nella nostra inchiesta Sesso e Amore (cardine dell’edizione 2016 de Il Tempo delle Donne , il 9-10-11 settembre alla Triennale di Milano) siamo partiti da qui. Da Pasolini e da quell’indagine rivoluzionaria, compiuta peraltro alla vigilia del ‘68, per capire quanto e che cosa oggi è cambiato. Abbiamo indagato il rapporto degli italiani con la prostituzione, con le «pause» della vita sessuale di coppia, con il coming out sull’omosessualità e decine di altri temi.
Qui aggiungiamo un tassello: i risultati della ricerca che abbiamo proposto tramite Corriere.it — e che da oggi sarà di nuovo accessibile sul sito. Domande semplici rivolte a chiunque, sulla frequenza con la quale si fa sesso, sul grado di soddisfazione, sul concetto di trasgressione. Sorpresa: rispetto ai risultati dell’ Indagine sulla sessualità compiuta nei mesi scorsi dal nostro Centro statistiche su un campione rappresentativo di mille italiani, le risposte date finora dai lettori online del Corriere (sono stati raccolti 13.032 questionari e di questi ne sono stati analizzati 7.437) virano molto di più su toni libertini.
Per esempio, la media dei partner dichiarati passa da 9 a 13, 10 per le donne e 15 per gli uomini; la maggioranza, se dovesse scegliere un’epoca in cui vivere, preferirebbe il Duemila con le sue libertà a differenza dell’indagine precedente, dove prevaleva l’Ottocento romantico; ci si spinge maggiormente sul crinale della trasgressione, ammettendo infedeltà più frequenti; è più alta la percentuale di «peso» assegnato al sesso nella vita e nella coppia.
Ma attenzione. La realtà che viviamo ogni giorno e che noi esploriamo con articoli, inchieste e approfondimenti, è molto più complessa e multiforme. È fatta, sì, di maggiore emancipazione e sicurezza sulle questioni sessuali, ma con pudori e paure che resistono. Per esempio, nelle scelte omosessuali: ancora pochissimi ragazzi si dichiarano perché hanno paura. Oppure: aumentano le bugie che raccontiamo al partner e anche a noi stessi nella vita di coppia; ancora oggi quasi 3 milioni di uomini pagano le prostitute per fare sesso (il dato, del 2014, è emerso da un convegno organizzato dal Gruppo Abele), ma senza nessun tipo di allegria cameratesca, anzi vivono nella vergogna, come ci raccontano gli specialisti interpellati. Ecco, il pudore: anche oggi, dopo anni di battaglie per i diritti e dopo l’ultimo traguardo raggiunto, quello delle unioni civili, la sensazione è che quel balbettio imbarazzato che Pasolini e Albinati intercettavano a metà degli anni Sessanta, non si sia completamente spento.
Anzi, per dirla tutta: la sensazione è che ne sia rimasto quel tanto che basta per non riuscire ad affrontare con la giusta sobrietà le questioni civili, sociali e politiche intorno al sesso; come se mancasse quella porzione di laicità necessaria per una discussione serena su temi come le nozze gay, la fecondazione eterologa, persino sulla condizione dei single — specie se parliamo di donne. Franco Del Corno, psicoterapeuta e direttore della collana di Psicologia clinica e psicoterapia della Raffaello Cortina, avanza un’ipotesi suggestiva: «L’età dell’estremismo, quella del ‘68, è stata un’occasione mancata, anche sul piano dei diritti civili: se fossimo riusciti a canalizzare quell’energia di rottura in una capacità di costruire qualcosa, anziché confinarla in una opposizione sempiterna e sterile, magari avremmo davvero fatto la rivoluzione».
Quella tra le lenzuola, che però, come osservano oggi molti studiosi, è rimasta incompleta. Paul Ginsborg, acutamente, ha fatto notare: «In nome della liberazione nascevano nuove forme di oppressione: la più rilevante fu l’obbligo alla libertà sessuale». L’imposizione del libertinismo da una parte e la (parallela) repressione dall’altra, necessaria perché non si avevano gli strumenti giusti per gestire la libertà. Rottura fine a se stessa, a cominciare dai movimenti. È infatti opinione di molti che il femminismo italiano non puntò tanto sull’uguaglianza dei diritti fra uomo e donna, ma sul cosiddetto separatismo .
Forse si spiegano così quelle apparenti schizofrenie che segneranno gli anni a venire: nel 1976, mentre per l’editore Savelli usciva Porci con le ali di Lidia Ravera e Marco Lombardo Radice (diario sessuale sboccato e senza freni di due adolescenti), la Corte di cassazione condannava Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci, ordinandone il divieto di proiezione e il conseguente rogo di tutte le copie. Schizofrenie che, per Del Corno, sopravvivono nelle abitudini sessuali e amorose di oggi.
«In fondo — afferma — quegli anni hanno plasmato il linguaggio che parliamo attualmente. Io lo vedo anche con i miei pazienti: in questioni che apparentemente sembrano risolte, come le preferenze sessuali o le trasgressioni, resiste una vergogna nascosta». Che forse è il frutto di quella mancata rivoluzione o, come afferma l’antropologo Franco La Cecla, autore di Lasciarsi (Elèuthera), nasce da un erotismo «poco diffuso e realmente radicato nella nostra vita, ma piuttosto vissuto come dovere». È come se quelle illusioni liberali si fossero cristallizzare in una serie di slogan e fossero rimaste tali, anche se ci sembra di averle assorbite, metabolizzate.
Si spiega così la costante che attraversa i risultati dei due sondaggi del Corriere , quello effettuato a campione in tutta Italia e quello lanciato sul sito: il «vorrei ma non posso». Cioè, il desiderio di una vita sessuale più attiva o il rimpianto di non avere avuto una educazione sessuale completa — l’inchiesta condotta da Antonella De Gregorio, infatti, sottolinea che, in Italia tutti i tentativi per introdurre la materia a scuola si sono rivelati inutili.
Da dove cominciare, allora, per liberarsi di queste ultime resistenze? Forse converrà restituire al sesso e all’amore quella dimensione molteplice e sfaccettata come ci insegna Amare , un po’ saggio e un po’ romanzo di Gilles Tiberghien, appena tradotto da Einaudi?
O forse la risposta, molto più semplice, viene proprio da uno degli ospiti del Tempo delle Donne 2016, il filosofo Alain de Botton, il quale, in una conversazione con Serena Danna, ha raccomandato di recuperare la normalità dell’amore, al di là di ogni velleità di durata, intensità, perfezione. Quelle sono illusioni perdute, le stesse additate da Pier Paolo Pasolini in tanti dei suoi sulfurei interventi.
Corriere 29.8.16
Sesso&Amore
di Luca Rousseau
L’usura sopravvive come caratteristica predominante nella società. Il circuito narcisistico «dell’usa e getta» che spinge l’essere umano ad utilizzare le risorse al massimo delle potenzialità, consumarle e abbandonarle. Nasce spontaneo pensare che anche gli itinerari del piacere siano tracciati con questa logica. Invece no. Gli italiani hanno fame sia d’amore, che di sesso. Una supremazia dell’amore che mostra quanto siano radicate le dimensioni inconsce riferite alla ricerca di una sintonia affettiva, all’essere desiderati e rispecchiati. L’unione sessuale all’interno della relazione d’amore è il «top», mentre il sesso occasionale ha forte attrattiva, ma non scala le classifiche. Seppure, come appare dai risultati del questionario online, permane una tensione verso un sesso svincolato dal senso di colpa e arricchito di desiderio, di creatività e di immaginazione. Rispetto alla sessualità siamo in una fase di cambiamento per due motivi. Il primo, come intuito dallo psicoanalista Wilhelm Reich, è il passaggio da una legge esteriore, che disciplina la sessualità (morale coattiva, leggi dello Stato, religione, ecc.), ad una legge interiore, che non significa libero arbitrio, ma comportarsi in base ad un’etica personale. Il secondo motivo è l’aumento di accessibilità al sesso. La difficoltà a maneggiare questo cambiamento attiva conflitti che polarizzano le persone in due schieramenti distinti di conservatori e libertini rappresentati dall’amore romantico e l’amore profano dell’indagine. D’altra parte è più agevole orientare i propri comportamenti osservando una legge esterna piuttosto che appellarsi ad una bussola interna. Cioè, definirsi marito e moglie sulla base di un sacramento è più facile che «sentirsi» marito e moglie. La curiosità verso l’aspetto carnale del sesso e l’alta percentuale di chi tradisce sono segnali rispetto alla ricerca e alla difficoltà nel trovare un metro di misura personale.