domenica 13 febbraio 2005

la famiglia e le violenze contro i minori

Brescia Oggi 13.2.05
Annunciato un convegno dell’Università Cattolica per sabato
Violenze ai danni dei minori. Attenzione puntata in famiglia
Lisa Cesco

Situazioni di sopraffazione e violenza sui minori, che tradiscono il senso di una relazione volta alla cura e alla comprensione dei bisogni: su un tema di attualità, che chiama a riflettere non solo insegnanti ma anche genitori e pubbliche istituzioni, Comune e Università Cattolica con il Centro studi sulla vita matrimoniale e familiare e l’annesso Gruppo di studio e ricerca sul maltrattamento dei minori, realizzato in partnership con l’assessorato comunale alla Pubblica Istruzione, propongono una giornata di approfondimento scientifico e culturale, sabato prossimo 19 febbraio nell’Aula magna della Cattolica in via Trieste, con inizio alle ore 9. «La relazione educativa tradita - Famiglia e violenza sui minori» sarà il titolo del seminario, che si articolerà su tre piste di interesse: la rottura dell’equilibrio familiare in caso di violenza, tema su cui discuteranno, fra gli altri, le psicoterapeute Maria Teresa Biancardi e Maura Anfossi; la rilevazione e l’interpretazione del dato e l’importanza della relazione educativa per la crescita della persona, restituita da due pedagogisti, Luigi Pati e Luisa Santelli; gli interventi a favore dei minori violati, con relazioni del criminologo Carlo Alberto Romano e della coordinatrice della Comunità alloggio per minori di Brescia, Emanuela La Fede.
«Intendiamo mantenere alta l’attenzione su un tema molto complesso, davanti a inchieste giudiziarie che hanno imposto di parlare senza pregiudizi delle violenze sui minori - dice l’assessore Carla Bisleri - È importante, infatti, tenere vivo l’impegno non solo nelle situazioni di emergenza, ma avviare una rinnovata cultura della responsabilità, che sappia rivolgersi alla cittadinanza per affrontare il problema con competenza e non solo con allarmismo».
La giornata di studi rappresenta un tassello di un più ampio lavoro, concretizzato in un percorso di formazione condotto con 180 insegnanti delle scuole dell’infanzia comunali sul tema "Competenze in relazione", oltre che in un ciclo di seminari sulla cultura educativa della famiglia e dell’infanzia.
«Muovendo dalle stime ufficiali, che indicano come circa il 90% delle violenze sui minori siano commesse nel nucleo famigliare, il seminario vuole rappresentare un affondo su questa realtà, per trovare possibili strategie per limitare un fenomeno di altissima gravità», spiega il prof. Luigi Pati, responsabile del Centro studi sulla vita matrimoniale e familiare della Cattolica.
A seguire, il 14 maggio prossimo, è già previsto un secondo seminario, puntato questa volta sulle violenze in un contesto extra-familiare.
Dopo gli episodi di sospetta pedofilia nelle scuole, peraltro, il Comune ha attivato una serie di servizi per bambini e genitori, come ha spiegato il direttore delle scuole materne comunali, Pietro Gardani: uno psicologo nelle scuole oggetto di indagine giudiziaria, come pure nelle elementari del territorio in cui sono confluiti gli alunni in uscita dalle materne, la presenza di un servizio di aiuto psico-sociale per i genitori, nella III e IX Circoscrizione del Comune di Brescia, un servizio di consulenza con specialisti dell’età evolutiva e una psicologa itinerante nelle scuole, per cogliere eventuali situazioni di disagio.

professori a rischio di patologie psichiatriche

L'Eco di Bergamo 13.2.05
Povero prof c'è da perdere la testa

E' vero – come ha avvertito Vittorio Lodolo D'Oria – che i nostri ragazzi hanno di fronte insegnanti a rischio di follia?
Sì. È tutto vero. Lodolo D'Oria è il responsabile scientifico dell'Area scuola e sanità della Fondazione Iard ed è medico del Collegio delle Asl di Milano e provincia per il riconoscimento dell'inabilità al lavoro per cause di salute. La sua ricerca «Quale rischio di patologia psichiatrica per la categoria professionale degli insegnanti?» ha suscitato un salutare pandemonio.
In sintesi si può affermare senza tema di smentite che tra ansia, disturbi dell'umore e della personalità, schizofrenia e psicosi, demenze, disturbi cognitivi, anoressia nervosa, abuso di sostanze e assimilati, a soffrirne sono in parecchi. Né tranquillizza sapere che le percentuali sono in costante aumento: dal 44,5 per cento del triennio '92-'94 si è passati al 56,9 per cento del 2001-'03. Nel linguaggio dei famosi conti della serva, vuol dire un insegnante sì e uno no. Anzi, qualcosa di più.
Da cosa deriva tutto ciò? Si potrebbe rispondere così: i docenti se n'escono pazzi non perché sono pazzi loro, ma perché è folle – in senso tecnico – il sistema in cui sono inseriti.
Qualche esempio da cui derivare conseguenze di metodo.
Da viale Trastevere (la sede del ministero della Pubblica istruzione) hanno continuato per anni a battere come forsennati sulla necessità della programmazione didattica. Per programmare famigerati «monoenni» (metà di un biennio. Ma non bastava dire «anni»?), semestri, mesi, giorni e mezze ore di compresenza i docenti hanno profuso immani risorse in tempo, energie nervose, soldi per babysitter, nel vano tentativo di dar significato univoco alle formule del burocratichese o della neolingua dei pedagogisti.
Tutto ciò assodato, il ministero non ha mai mostrato alcun ritegno – ad anno ormai inoltrato – a buttare all'aria le sudate carte della progettazione, come capita a chi sia colpito da convulsioni febbrili o da euforia da farmaci.
L'anno passato, lo sanno tutti, ha obbligato ad inserire nelle ore curriculari (ossia nell'orario solito) una quota assolutamente imprevista di spazi da dedicare all'educazione stradale. Obiettivo: il patentino agli studenti. E nessuno si è premurato di domandare, se non altro, da dove traessero gli insegnanti le competenze specifiche per la bisogna. Così anziane professoresse di lettere hanno tenuto vere e proprie orazioni sul valore civile del rispetto del segnale di stop; quelli di scienze hanno lungamente intrattenuto il pubblico sulle fratture craniche derivanti dal mancato uso del casco; e i fisici hanno riempito lavagne e lavagne per spiegare cosa sia la forza centrifuga e il principio di inerzia e l'accelerazione di gravidanza, come mi spiegò una fanciulla allarmatissima.
Ovviamente il ministero – che pure aveva sollecitato il ricorso alla gloriosa arte di arrangiarsi – aveva contestualmente stanziato per il progetto i necessari fondi. I quali, tuttavia, non potevano al momento venir erogati per sopraggiunte impreviste difficoltà.
Qualche anno prima, sempre ad anno inoltrato, era stato ingiunto agli insegnanti di storia il cui programma «arrivava» al 476 d.C. (fine dell'Impero Romano d'Occidente) di spingersi fino al 1300. Con le stesse ore di prima, ovviamente. In compenso senza testi, perché quelli acquistati a settembre prevedevano mille anni in meno. Come se un autista di Tir in viaggio tra Bergamo e Chivasso si sentisse intimare, in prossimità di Arluno, di arrivare all'ora prevista e senza pieni suppletivi non nella cintura torinese, ma a Toulon-Marseille.
Casi come questi, tuttavia, ossia interventi che mettono in luce non una inadeguatezza dei docenti, ma la totale irresponsabilità del ministero, sarebbero ancora il male minore.
Qualche elemento di gravità in più si constata in alcuni testi ormai leggendari, come la frase posta in epigrafe alla per altro mai attuata riforma De Mauro. Vi si sosteneva che il ministero prevedeva per i docenti un futuro di «alta e specifica professionalità». Una prospettiva niente male, se poi per i medesimi non si fossero previsti i salari caratteristici di una bassa e generica manovalanza.

deliri di massa
la maggioranza degli americani è creazionista...

Corriere della Sera 13.2.05
Secondo un sondaggio il 55% degli americani non crede alle idee evoluzioniste sulle origini biologiche dell’uomo
La destra religiosa assedia Darwin
«Siamo nati da un disegno intelligente»

Ricorsi giudiziari dei creazionisti perché la teoria entri nelle scuole
dal nostro inviato Massimo Gaggi


NEW YORK - In Georgia c’è voluto l’intervento dell’ex presidente Jimmy Carter per bloccare la proposta del soprintendente scolastico mirante a escludere dai programmi d’istruzione dello Stato le teorie darwiniane sull’evoluzione della razza umana: «Come cristiano e come accademico della Emory University provo imbarazzo davanti ai tentativi di Kathy Cox di censurare e distorcere l’educazione dei nostri figli». Lei ha ribadito le sue riserve («evoluzione è una parola fastidiosa che genera un gran numero di reazioni negative») ma ha fatto marcia indietro.
Quello della Georgia non è un caso isolato: dopo la conferma di Bush alla Casa Bianca le organizzazioni della destra religiosa sono tornate all’offensiva e oggi iniziative per escludere l’evoluzionismo dal curriculum scolastico sono state intraprese - a livello politico o con ricorsi alla magistratura - in Texas, Ohio, Missouri, Wisconsin, South Carolina, Mississippi. In Kansas a novembre una maggioranza del 60% degli elettori ha insediato alla guida dell’amministrazione scolastica dello Stato un gruppo di sostenitori del creazionismo, decisi a cambiare l’insegnamento sulle origini biologiche dell’uomo.
Intanto, mentre ferve lo scontro sui programmi, l’evoluzionismo sta già silenziosamente scivolando fuori dall’insegnamento quotidiano nelle scuole. Lo mette in luce anche una recente inchiesta del New York Times : pressati dai genitori (una minoranza ma molto determinati), dalle organizzazioni della destra cristiana, da molti dirigenti scolastici, negli Stati conservatori gli insegnanti tendono a saltare i capitoli della biologia dedicati all’evoluzionismo o li assegnano agli studenti come semplice lettura, senza stimolare alcuna discussione, alcun approfondimento. I politici lo sanno ma evitano interventi che potrebbero risultare poco popolari.
Oggi, infatti, la stampa scopre con un certo sconcerto che il 55% della popolazione statunitense (e il 67% degli elettori di Bush) non crede all’evoluzionismo (sondaggio Cbs) mentre, secondo un’indagine Gallup, un terzo dei cittadini considera il contenuto della Bibbia verità scientifica. Un abisso divide l’America dal resto del mondo industrializzato dove l'80% della popolazione accetta l’evoluzionismo che è pur sempre una teoria ma gode di un vastissimo credito nel mondo scientifico. L’anno scorso in Italia ci fu qualche problema coi programmi scolastici della Moratti, poi la crisi rientrò. «In Giappone siamo addirittura al 96%, ma anche la cattolica Polonia non scende sotto il 75%» dice Jon Miller, che alla Northwestern University studia l’atteggiamento delle opinioni pubbliche nei confronti della scienza. Del resto Giovanni Paolo II (e prima di lui Pio XII) ha sostenuto la possibilità di far coesistere teorie darwiniane e assunti della religione cattolica.
Le convinzioni di Bush, lo spazio da lui dato alla destra religiosa, hanno sicuramente a che fare con questo fenomeno, ma solo fino a un certo punto. In America Darwin ha sempre avuto vita difficile: diffuse in tutte le scuole senza incontrare particolari ostacoli all’inizio del secolo scorso, le sue teorie furono praticamente messe al bando in molti Stati negli anni ’20. Dagli anni ’50 il pendolo è tornato a oscillare nella direzione opposta e nel ’68 la Corte suprema dichiarò incostituzionale la messa al bando dell’evoluzionismo. Ma nei sondaggi gli americani si sono sempre divisi più o meno a metà tra creazionisti ed evoluzionisti. All’inizio degli anni ’80 i creazionisti (per i quali l’uomo è il prodotto di un intervento divino come quello descritto dalla Genesi) tornarono all’offensiva grazie alla proposta del presidente Reagan di diffondere nelle scuole anche questa teoria, oltre all’insegnamento dell’evoluzionismo. Ma una serie di sentenze di giudici statali e federali, culminata in una decisione della Corte suprema del 1987, sanzionò che il creazionismo, essendo basato su un assunto religioso, non può entrare nel programma scientifico delle scuole pubbliche americane senza violare il principio della separazione tra Stato e Chiesa.
Bush fin qui ha dato fiato alla destra religiosa più con le parole che con le azioni. Dopo la conferma alla Casa Bianca, ha rapidamente avviato le riforme promesse in campo economico (previdenza) e giudiziario (cause collettive contro le imprese), mentre su aborto e matrimoni gay si muove con molta cautela. «Ma è bastata la vittoria repubblicana a dare nuova energia ai creazionisti» sostiene il direttore del Centro nazionale per la scienza dell’educazione, Eugene Scott.
Più energici, ma anche molto più sottili e accurati nello scegliere i loro argomenti. Se il creazionismo resta fuori dal perimetro della scienza perché basato su argomenti religiosi, si cerca di aggirare l’ostacolo con la teoria del «disegno intelligente». Sostiene che alcuni fenomeni naturali - dal funzionamento delle cellule alla composizione dell’occhio umano - sono troppo complessi per poter trovare spiegazione nella teoria evoluzionista: l’unica possibilità è che a un certo punto del processo ci sia stato l’intervento di un’«entità intelligente». Così, confutando solo in parte le teorie darwiniane ed evitando di formulare ogni ipotesi sull’origine di questa «intelligenza», i sostenitori dell’«intelligent design» sperano di riuscire a trovare uno spazio nell’insegnamento scientifico delle scuole. Per i critici è solo un tentativo abbastanza furbo di confondere i giudici: lo hanno già archiviato con l’etichetta di «creazionismo light».
Ma i sostenitori della nuova teoria (diffusa attraverso il sito intelligentdesignnetwork.org e una pubblicistica sempre più fitta) qualche punto a loro vantaggio l’hanno segnato se la stampa «liberal», pur denunciando il tentativo di aggirare le sentenze della Corte suprema con un artificio, riconosce che va forse creato nelle scuole un luogo in cui - al di fuori dell’insegnamento strettamente scientifico - sia possibile discutere le critiche culturali e religiose all’evoluzionismo.
Non sarà un percorso breve né facile. Intanto in molte scuole è già battaglia. A Dover, in Pennsylvania, i dirigenti delle scuole locali hanno deciso di inserire il «disegno intelligente» nel programma scolastico. Il relativo documento è stato letto nelle classi dagli amministratori degli istituti: gli insegnanti si sono rifiutati. Nella contea di Cobb, in Georgia, i dirigenti hanno invece tentato di rafforzare l’insegnamento delle teorie darwiniane. Ma davanti alla reazione irata di molti genitori hanno fatto marcia indietro stampando degli sticker adesivi con messaggi del tipo «attenzione, maneggiare con cura: sono soltanto teorie» e appiccicandoli nelle pagine dei libri scolastici dedicati all’evoluzionismo. I giudici sono già intervenuti considerando illegale l’inserzione di questi adesivi; ora è pendente un controricorso dei tradizionalisti.
Battaglie che, più che con Bush, hanno a che fare con la grande varietà di formazioni religiose che popolano l’America. Spiega Luis Lugo, direttore del Pew Forum on Religion : «La logica di mercato si è imposta anche in questa sfera e spinge i vari gruppi a competere per la conquista dei fedeli usando strumenti come la politicizzazione del tema dell’evoluzionismo».

la questione degli embrioni
tre posizioni diverse all'Accademia dei Lincei

Corriere della Sera 13.2.05
ALL’ACCADEMIA
Redi: un dovere usare le staminali. La mozione guidata dallo storico Prodi: no ai laboratori nazisti
Embrioni congelati, la disputa dei tre partiti dei Lincei
I 130 membri divisi sulla ricerca Il decano Falsea: il sacrificio può essere compensato da conoscenze utili
Margherita De Bac

ROMA - Divide anche l’Accademia dei Lincei il futuro dei 30 mila embrioni congelati nei frigoriferi dei centri di fecondazione artificiale italiani. I 130 saggi che si sono riuniti a Palazzo Corsini nell’ultima assemblea, venerdì scorso, non sono riusciti a trovare un accordo. E sono emerse tre correnti. Quelli che, in sintonia col documento base proposto dalla commissione interna di bioetica, spingono per una ricerca libera e per avviare gli embrioni sovrannumerari verso i laboratori. Quelli che, pur non rifiutando la prospettiva, pretendono garanzie sul fatto che a diventare oggetti di studio siano solo i frutti del concepimento «già esistenti». Infine, i contrari ad ogni forma di intervento. Per dare un parere definitivo servirà una nuova convocazione. L’appuntamento coincide con la vigilia dei referendum.
Il documento proposto dagli 8 lincei della bioetica insiste sul principio «dell’autonomia della ricerca di base». Gli scienziati devono essere «gli unici possessori dei criteri necessari alla valutazione della verità e della qualità della ricerca col solo vincolo del rispetto dei diritti umani». L’Accademia si augura quindi che il Parlamento «approvi rapidamente leggi che consentano in condizioni severe, controllate e protette da abusi, la donazione di staminali embrionali (da parte delle coppie, ndr) per la ricerca di base e clinica».
Posizione molto equilibrata secondo il biologo molecolare Carlo Alberto Redi, assente alla plenaria: «Avrei voluto anzi maggior forza. Utilizzare le staminali dell’embrione è un dovere. Piantamola con l’accostamento tra concepito e persona, è una mostruosità giuridica. Non è vero che con la fecondazione inizia il nuovo individuo. Mi fa piacere che l’abbia riconosciuto sul Corriere anche Giuliano Amato. Il lavoro pubblicato su Nature nel 2000, prima firma il tedesco Wolfgang Mayer, dimostra che l’individuo si forma solo quando l’embrione ha 4 cellule, e questo avviene non prima del secondo giorno».
Si dissocia Giuseppe Zerbi. Il docente di scienza dei materiali al Politecnico di Milano, riassume il contenuto della mozione sottoscritta dallo storico Paolo Prodi, fratello di Romano, leader dell’opposizione, e poi dal fisico Vincenzo Balzani, il filosofo Enrico Berti, il matematico Alfio Quarteroni e il chimico Fernando Montanari: «Lasciare libertà significa perdere la capacità di interferire. E poi magari finiamo con i laboratori nazisti. Da quell’ammasso di poche cellule nasce un essere vivente, un’entità complessa». Sulla sorte dei sovrannumerari Zerbi sostiene che «fermo restando la contrarietà ad ucciderli ci rendiamo conto che nei frigoriferi ce ne sono circa 30 mila. Una legge potrebbe fissare condizioni severe perché siano donati ai laboratori solo quelli già esistenti».
Massimo rigore invece da parte dell’autorevole giurista Giorgio Oppo, che è per il no assoluto. Il problema non lo convince «a monte». In particolare, manca chiarezza su un punto cruciale: alla ricerca verrebbero avviati solo i sovrannumerari che già ci sono? Il timore è che, una volta dato il via libera alla sperimentazione su quelli ora disponibili perché congelati e non più adatti allo sviluppo, si finisca per accettare che ne vengano creati di nuovi sotto la spinta di eventuali scoperte. Il biologo Riccardo Arrigoni, famoso per le scoperte sulla vitamina C, accusa molti scienziati «di imbrogliare, non ci sono prove sull’efficacia delle staminali embrionali, il futuro risiede nelle cellule dell’adulto o nella riprogrammazione genica». Però apre agli esperimenti sulle minuscole entità che giacciono in frigo e «non solo valide neppure per l’impianto».
Controcorrente la visione naturalistica del giurista Angelo Falsea, decano dell’Accademia, 90 anni e più: «L’uomo non è diverso dagli altri animali. Per sopravvivere la specie pretende che molte potenzialità della vita siano sacrificate. Il sacrificio di embrioni verrebbe compensato a livello di conoscenze utili per la messa a punto di nuove cure».

sinistra
Liberazione cambia
e la questione toscana

Corriere della Sera 13.2.05
Il direttore di «Liberazione» spiega la svolta. Crespi: «Ecco la prova, siete conservatori»
Contrordine a sinistra, torna la terza pagina
Paolo Conti

Il primo a segnalare la novità, che poi è un deciso ritorno al passato, è stato ieri Il Giornale. L’articolo dedicato ieri a Liberazione, organo di Rifondazione comunista, e alla nuova veste grafica voluta dal neodirettore Piero Sansonetti (esordio fissato per martedì 22 febbraio), sottolineava con stupore il ritorno alla terza pagina culturale. Non un modo di dire, ma proprio quella inventata nel 1901 da Alberto Bergamini per Il Giornale d’Italia e che venne poi adottata da tutti i quotidiani italiani fino alla metà degli anni Ottanta quando cambiò collocazione e anche anima. Ora Liberazione tenta la strada del passato, quasi un paradosso per un quotidiano comunista. Angelo Crespi, docente di Storia del giornalismo italiano all’Università Cattolica, direttore de Il domenicale, è autore del libretto eloquentemente intitolato Contro la terza pagina, quella attuale, secondo lui troppo contaminata dalla cronaca più minuta e dall’audiovisivo (ecco cosa si legge: «Sotto mentite spoglie la sedicente cultura batte ancora i marciapiedi del giornalismo. Anzi, s'allarga, si fa seducente, s'imbelletta sempre pronta a fare proseliti, a mischiarsi ai nuovi generi, alla televisione, ai miti dell'effimero»). Dice però Crespi: «La sinistra, in questo momento, è in effetti la forza politica veramente conservatrice nel senso più deteriore del termine. Ma devo riconoscere che la proposta di Liberazione mi pare coraggiosa e per niente banale. Significa il ritorno a qualcosa di più serio delle attuali pagine culturali. Una scelta tradizionale che va verso una controtendenza sempre più avvertibile e chiara. L’infotainment sui quotidiani è stato una degenerazione degli anni Ottanta, ora è un fenomeno sostanzialmente sorpassato». Che cosa dovrebbe essere, oggi, una terza pagina? «Certo non il semplice luogo di segnalazione, con piccole schede, dei libri usciti: a quello provvedono le riviste e persino Internet o la tv. Né una lista di cronache culturali. Piuttosto, uno spazio di analisi critica».
E cosa ne dice l’interessato, cioè Piero Sansonetti, impegnato negli ultimi ritocchi al nuovo Liberazione (formato classico «grande», niente foto a colori, grande spazio ai commenti)? Dice il direttore: «Non penso che la terza pagina fosse un prodotto del giornalismo conservatore. Io sono cresciuto a l’Unità e ricordo una straordinaria terza pagina affollata dalle migliori intelligenze del dopoguerra, da Italo Calvino a Renato Guttuso, solo per citare i due primissimi nomi che mi affiorano nella memoria. Noi vogliamo esplicitamente invertire l’operazione di accorpamento della cultura allo spettacolo che cominciò negli anni Ottanta».
Per farne cosa, Sansonetti? «Un luogo di discussione, di creazione di idee, di proposta di nuove generazioni di intellettuali... Non è possibile che si continui a guardare a quelle legate sempre al ’68». Sansonetti aggiunge una battuta: «Ricordo che la fine della terza pagina a l’Unità fu voluta da Ferdinando Adornato, allora intellettuale comunista che stimavo molto. Chissà, c’era forse già qualcosa di berlusconiano, nel suo inconscio: questo collegare la cultura allo show...»

Liberazione 12.2.05
Toscana, la Gad esiste ma l'Ulivo non la vede
Movimenti e associazioni a San Quirico attorno a una domanda di unità e radicalità cui la coalizione del governatore uscente Martini rifiuta di dare risposte. Il candidato diserta l'assemblea
Checchino Antonini

Firenze. C'è una Gad della società civile, ma il centrosinistra sembra non vederla nemmeno. Eppure ieri sera si è materializzata alla periferia ovest di Firenze. In una delle 1.300 case del popolo di questa regione, luoghi dove l'unità della sinistra non è mai venuta meno. All'ordine del giorno la domanda lanciata da un appello firmato da centinaia di persone: perché in Toscana sembra impossibile che nasca la Grande Alleanza Democratica?
Quell'incapacità di intercettare la domanda di unità e radicalità è, in brutale sintesi, l'ormai famosa "anomalia toscana". Una querelle che riempie da settimane la stampa locale di dichiarazioni, indiscrezioni, smentite da quando Toscana democratica - così si chiama la coalizione ulivista di Claudio Martini - ha chiuso le porte in faccia a Rifondazione comunista, escludendola dall'accordo per le regionali di aprile. Casomai vi diamo un paio di assessorati e l'unità la facciamo dopo, si sono sentiti dire al Prc. Ma la chiusura non è piaciuta ai movimenti e alla ricchissima società civile - questa è la terra del primo social forum europeo, del trainstopping, dei girotondi e così via - che, domandandosi "Gad in Toscana: se non ora quando? ", ha dato vita ad un appello unitario promosso, tra gli altri, da Paolo Beni, presidente nazionale dell'Arci, docenti "girotondini" come Marcello Buiatti, Pancho Pardi e Gianpasquale Santomassimo, esponenti di movimento quali Lisa Clark, Tommaso Fattori e ancora gente di Arci, Aprile e Legambiente, più Fiom e Cgil-funzione pubblica che, insieme, fanno la maggioranza dei lavoratori sindacalizzati.
L'evento di S. Quirico doveva servire a far incontrare pubblicamente il governatore Martini con Rifondazione e i movimenti ma il presidente della Regione si è defilato per paura - ha detto - di essere travolto da una valanga di fischi che Rifondazione gli avrebbe riservato. «Macché fischi - spiega nella casa del popolo, Mario Ricci, segretario toscano del Prc - noi non abbiamo mai inteso la politica come uno stadio! Sarebbe stata un ulteriore occasione di confronto come quella del 29 novembre a S. Bartolo a Cintoia (altra casa del popolo fiorentina, ndr) dove Martini, applauditissimo, ha partecipato a un dibattito con Beni e Bertinotti sulle prospettive della sinistra».
Così la diserzione di Martini viene letta come lo strappo definitivo e Rifondazione è ormai pronta ad avviare il proprio percorso per la presentazione delle liste e la scelta del candidato presidente che, ovviamente, sarà un esponente della società civile. I giornali locali già danno per certo che l'anti-Martini sarà il segretario della Cgil Funzione Pubblica, Luca Ciabatti. «Non era semplice l'unità - continua Ricci - ma era possibile. Lo testimoniano le iniziative di movimento che, qui in Toscana si sono opposte alle politiche neoliberiste. Ora una campagna elettorale contrapposta rischia di trasmettere ulteriori elementi di divisione».
Si è detto, negli ultimi giorni, che Rifondazione avrebbe scoperto tardivamente la propria vocazione governista dopo 10 anni di opposizione dura ma le aperture a Martini datano almeno luglio del 2004 quando proprio lui fu l'ospite d'onore nella festa regionale di Liberazione a Marina di Massa e parlò al dibattito sulle regionali con Rinaldini, leader Fiom e Raffaella Bolini dell'Arci. Poi, a dicembre, il Prc s'è astenuto sul bilancio regionale volendo mandare un altro segnale forte per la risoluzione dell'"anomalia". Ma a Martini erano già arrivati i diktat dei sindaci di Firenze, Prato, Livorno, Pisa e Piombino dove Rifondazione è all'opposizione (in buona compagnia dei movimenti sociali) e che sarebbero stati scavalcati da un accordo "a monte". Al congresso regionale della Quercia, inoltre, i fassiniani avrebbero sfiorato il 90% e all'assise nazionale lo stesso D'Alema avrebbe dato carta bianca a Martini senza premere per un allineamento alla linea nazionale. I nodi che separano Rifondazione dal centrosinistra sono di natura programmatica: l'opposizione alla privatizzazione dell'acqua, il no all'inceneritore nella piana fiorentina già martoriata dall'inquinamento, la contrarietà a quel "corridoio tirrenico" che spaccherà in due la Maremma e le critiche alla gestione di trasporti, sanità e alla legge regionale sull'avviamento al lavoro. Nodi che scuotono anche Toscana democratica ma di cui non si è mai discusso pubblicamente. A bloccare a monte ogni possibilità di accordo sono i paradossi della legge elettorale regionale (non votata dal Prc) scritta su misura dell'Ulivo. Le nuove norme blindano la coalizione di maggioranza relativa (40 seggi su 65), per cui allargare al Prc significherebbe cedere seggi che comunque prenderebbero grazie al premio di maggioranza. I delusi di Martini che votassero Prc, in realtà, sottrarrebbero, entro certi limiti, seggi alle destre.
Un manifesto murale di Rifondazione ha messo nero su bianco che si tratta di una questione di poltrone diventando la pietra dello scandalo ma sia Martini che Filippeschi, segretario regionale Ds, avevano esplicitamente escluso, già al congresso di Tirrenia, di poter mettere in discussione l'«autosufficienza» della coalizione.
Così la mancata unità continua a restare «incomprensibile» alla società civile organizzata, quasi fosse «autismo politico» quello dell'Ulivo toscano. Così dice Vincenzo Striano, presidente regionale dell'Arci (più di 200mila iscritti) reclamando anche per l'esclusione dei movimenti dagli incontri programmatici. Un corposo documento di Cgil, Arci, Legambiente, Cnca e altri ancora sarebbe potuto essere una buona base di partenza ma non è stato neppure preso in considerazione dalle segreterie di Toscana democratica. Intanto, i promotori dell'evento a S. Quirico provano a raffreddare i toni: «Insistere per l'unità, qualificare i programmi senza che venga messa tra parentesi la società civile, aprire subito tavoli della Gad in ogni provincia, queste sono le nostre proposte», rilancia Beppe Brogi di Aprile e consigliere regionale Ds. «Non siamo sognatori - dice anche il leader Fiom, Mauro Faticanti - insistere lascia aperto il percorso verso il 2006 che deve coinvolgere, nella battaglia per cacciare Berlusconi, tutti quegli episodi di conflitto e resistenza che hanno visto protagonisti quartieri e fabbriche toscane e che i partiti non riescono a intercettare». Che il centro sinistra non sia «monolitico» a Pancho Pardi, sembra più una virtù che una iattura ma il professore, anima del Laboratorio per la democrazia, rimugina sulla «tendenza a non parlare di programmi», che poi è ciò che allontana la possibilità di quella «sintesi efficace» che inseguivano i promotori di un fatto politico molto importante come l'appello unitario. Ora cosa ne sarà di questa loro ricerca?

L'Unità 13.2.05
Martini: «Il nostro avversario è Antichi»
Il presidente della Regione: «Vedo che il candidato del Prc mi dà ragione per l’intesa nel 2006»

Vladimiro Frulletti

FIRENZE «L’avversario da battere è Antichi». La frase che Martini scandisce di fronte alla platea dei Comunisti italiani, riuniti a Firen
ze per l’assemblea programmatica con il loro presidente Armando Cossutta, potrebbe apparire ovvia, ma non lo è.
Chiudere le polemiche
Perché il presidente della Regione con quelle parole ha voluto mandare un messaggio chiaro ai partiti che lo sostengono. È l’invito a mettere un punto sulle polemiche a sinistra con il Prc e a concentrarsi sulla vera sfida: sconfiggere il centrodestra alle prossime regionali del 3 e 4 aprile. Ecco così che Martini dice di apprezzare le parole dette al Tirreno dal candidato di Rifondazione. Luca Ciabatti non solo ha descritto Martini come «ottimo presidente», ma ha anche rilanciato l’idea che l’incontro tra Prc e Toscana democratica possa esserci, dopo le regionali, entro il 2006. «È la proposta - spiega Martini - che avevo fatto io e su cui avevo avuto segnali positivi sia dai vertici nazionali sia da quelli regionali di Rifondazione già nello scorso autunno». Peccato che poi qualcuno, ricorda Martini, l’abbia definita provocatoria. E lo stesso Cossutta si rammarica del mancato accordo, ma sottolinea che il Prc «in Toscana ha sempre avuto un atteggiamento molto contrario, persino ostile» sia nei confronti della giunta regionale che delle giunte locali, come Firenze. Ma la professoressa Ornella De Zordo, a nome della lista “unaltracittà/unaltromondo”, si dice «delusa» da Martini e ritiene che la colpa per la mancata intesa sia di Toscana democratica e in particolare dei Ds. Tuttavia ribadisce (come aveva anticipato l’Unità) che non farà campagna elettorale per nessuno. «Ne resteremo fuori» dice. La polemica pare destinata a finire qui. Si passa ai contenuti. Il segretario della Cgil toscana Luciano Silvestri ai dirigenti del Pdci ricorda le situazioni di difficoltà del sistema produttivo. E anche il segretario dei Comunisti italiani, Nino Frosini, cerca, nella sua relazione di rimanere agganciato ai programmi. Tre i temi che Frosini sottopone a Martini. La lotta al precariato «che in Toscana sta assumendo proporzioni insostenibili»; nuovi limiti alla pratica del subappalto nei lavori decisi dalle pubbliche amministrazioni e un nuovo contratto di servizio con Trenitalia. «Questo che abbiamo adesso - dice Frosini - è finto».
I timori della sinistra Ds
A Martini dunque non dispiacerebbe che a sinistra i toni diventino più pacati e soprattutto più unitari. Tuttavia, a suo giudizio, è proprio il concetto di «unità» che sta dividendo Prc e Ulivo. Per Toscana democratica unità significa allargamento della coalizione. Invece per Rifondazione l’unità è vissuta soprattutto come competizione all’interno del centrosinistra. Un aspetto che sta preoccupando in particolare modo la sinistra Ds che sente il proprio bacino elettorale minacciato, appunto, dalla competizione di Rifondazione. In particolare i dirigenti dell’ex Correntone (dalle cui fila proviene Ciabatti) temono che la lista Uniti nell’Ulivo possa lasciar spazi vuoti alla propria sinistra. E visto che in politica, come in natura, i vuoti non esistono, quello spazio verrebbe ricoperto dal Prc.
Da qui la richiesta ai dirigenti Ds di mettere in lista anche esponenti di «sinistra». Cioè persone che hanno un legame con quel mondo che sta a cavallo fra Prc e Ds. Di questi timori la sinistra Ds informerà la prossima settimana anche Martini e concretamente chiederà che i suoi nomi non vengano cancellati con le primarie. A cominciare da quelli di Bruna Giovannini a Arezzo e di Alessia Petraglia a Firenze.
(...)

Barbara Spinelli, su La Stampa

La Stampa 13 Febbraio 2005
GLI EREDI DEI TOTALITARISMI
UN MACABRO MERCATO DEL PASSATO
di Barbara Spinelli


ORMAI si è creato un tale groviglio di memorie e di colpe, più o meno assunte dai nipoti italiani del comunismo e fascismo, che districarsi è difficile e trarre lezioni impervio. È un groviglio che occupa per intero la scena del nostro ricordare, che la riempie di un gran numero di colpevoli o responsabili in via di redenzione, e praticamente su quella scena non c'è più spazio per chi al momento giusto non sbagliò, trovò il modo solitario d'imboccare il sentiero della verità, rifiutò la menzogna delle grandi illusioni utopiche, della felicità imposta per decreto. È una scena invasa dagli ex, e il potere che questi esercitano è non solo vasto ma divorante. Più grande il crimine di cui essi son responsabili, più grandiosa sarà l'espiazione, e più spazio essi troveranno su stampa o tv.
I discendenti dei due totalitarismi si sono sforzati e si sforzano di trasformarsi, ma una parte del loro animo è come se restasse abbarbicata alla colpa originale: quasi fosse lì la loro segreta forza contrattuale, lì la fonte non già d'un dovere, ma d'un diritto: «Io sono all'origine di tanti e tanti morti, e tu quanti ne hai? Non abbiamo quindi tutti e due diritto a....». Spesso, per assecondare questo macabro mercanteggiamento di vittime, si ingigantisce il peso avuto dall'ex nemico totalitario. D'un tratto sembra che tutti gli intellettuali fossero comunisti, dopo il '45, e che tutti i soldati italiani alla fine della guerra fossero schierati con la Repubblica di Salò nella veste di «soldati combattenti», come suggerito dal partito di Fini. Non solo: sembra che tutti fossero adolescenti e non adulti responsabili (su questo giornale, lo storico De Luna ha parlato del «mantello assolutorio dell'adolescenza»). Un bel pezzo di storia italiana è consegnato a masnade di imberbi - i Ragazzi di Salò, della Resistenza - incapaci d'intendere e volere come minorenni di un'immensa Novi Ligure.
Ovvio che in questa Repubblica di Ragazzini viene cancellato il ricordo e soprattutto l'esempio degli uomini adulti, dunque imputabili, che vogliono rispondere del proprio operare ma anche del proprio ragionare. Questi non vengono neppure nominati, da chi si presenta al mercato delle memorie, e tuttavia c'erano, in Europa e da noi. C'erano, i pensatori antifascisti. C'era, nella guerra fredda, il Congresso per la ItalicLibertà della Cultura, nato nel '50 a Berlino su iniziativa di eccentrici come Koestler e Silone, Aron o Camus. C'erano, le riviste nate da quel Congresso: Tempo Presente di Silone e Chiaromonte in Italia, Preuves di François Bondy in Francia, Der Monat in Germania. Sono gli eredi di questi ultimi che oggi vengono dimenticati, forse perché non ci sono continuatori della loro arte di pensare e dibattere su questioni fondamentali con vera libertà. La censura li tacita una seconda volta, proprio nel momento in cui più avremmo bisogno, per pensare il mondo e le sue controversie, del loro modello.
Quando la memoria s'ingarbuglia non diventa per questo più intera, come negli auspici del presidente Ciampi. Diventa memoria selvaggia, al tempo stesso ridondante e mutila, fatta di innumerevoli frammenti strappati al loro contesto e gettati in faccia a chi era nemico ed è ora rivale nella compravendita dei ricordi: e soli protagonisti sono quelli che azzanna forte, perché già in passato sono stati azzannatori. È il privilegio sublime del criminale, che accumula delitti per poi mettere in mostra la maestà dell'ammenda. Gli eroi di Dostoevskij son fatti di questa pasta, e le nostre dispute sono una loro imitazione grottesca. In un saggio su Dostoevskij, Freud denuncia il trionfo del moralismo penitente sulla vera moralità: «Morale è chi già reagisce alla tentazione avvertita interiormente, e ad essa non cede. Colui che prima si macchia di colpa e poi, in preda al rimorso, pone a se stesso elevati obiettivi morali, può essere accusato di fare i propri comodi. Manca in lui l'elemento essenziale della moralità, la rinuncia, essendo la condotta di vita morale un interesse pratico dell'umanità. Questo tipo d'uomo richiama alla memoria i barbari delle migrazioni etniche, i quali uccidono e poi fanno ammenda per l'uccisione: dove l'ammenda diventa una pura e semplice tecnica volta a rendere possibile il delitto». (Dostoevskij e il Parricidio, 1927. Il corsivo è mio). L'espiazione purificatrice è mirabile: il Figliol Prodigo l'insegna. Ma chi non peccò ha inalterabile grandezza, non nella provvidenza divina forse, ma di certo in politica.
Questo manca, nelle zuffe odierne sulla memoria. Manca l'evocazione di una memoria intera, perché solo se si conosce il concatenarsi dei fatti (i nazionalismi del '14-'18 e i nazi-fascismi, la politica razziale e il comunismo, evocati da Ciampi a proposito delle fosse carsiche) si può capire come poté insorgere un crimine di pulizia razziale pari alle foibe, e si può evitarlo in futuro. Manca un rammemorare critico che si proponga, come in Freud, l'interesse pratico dell'umanità, e che serva non tanto per scrivere storia ma per farla: in qualità non di storici di professione ma di cittadini che edificano, ricordando e commemorando, presente e futuro.
Se si ha in mente l'interesse pratico del rammemorare o del chiedere perdono, non si fanno errori di semplificazione, come quelli visibili oggi. Di questi errori ne vorrei menzionare qui due.
Il primo consiste nel considerare che solo l'esito della guerra abbia determinato l'invalidità d'un progetto totalitario. La storia «è scritta dai vincitori», e a simile dato ineludibile anche se ingiusto noi ci adattiamo chiedendo ammenda: quest'atteggiamento è forte nei postfascisti, che hanno appena cominciato la critica del passato, restringendola per ora al fascismo e non estendendola agli anni del terrorismo nero. Ma è un atteggiamento che a volte affiora anche negli eredi del comunismo - non tanto nei politici ma negli intellettuali, sovente più lenti: per esempio, quando il filosofo Cacciari s'inalbera contro chi denuncia falce e martello: «Male è (per loro, ndr) tutto ciò che non s’accomoda nel campo del vincitore (...) Se falce e martello è come croce uncinata, e alle loro menti vincitrici evocano la stessa cosa...», dimenticando che i vincitori della guerra fredda non sono solo americani o capitalisti: sono i resistenti rappresentati oggi da chi (in Lituania, Ungheria) reclama la condanna d'un emblema che per mezza Europa significò morte e ideali intessuti di menzogne.
Questo lamento risentito dello sconfitto è il peggior modo di rammemorare, perché sembra che il ripensamento sia solo dovuto a una disfatta strategico-militare. Se l'ultima guerra fosse stata vinta e non avesse reclamato il «sangue dei vinti», i fascisti sarebbero magari tuttora fascisti. Se l'Urss avesse vinto, i comunisti sarebbero ancora comunisti. Una memoria di tal tipo non crea pace ma perpetue guerre civili: con un uso pratico nullo, se perfino gli ex terroristi accampano oggi il diritto del vinto - oltre che dell'adolescente - e dicono d'aver abbandonato la lotta solo perché sgominati da polizia e giudici.
Il secondo errore è legato alla questione falce e martello. Ancora un volta, si tende a staccare l'idea e il simbolo dal loro concretarsi, e questo per salvare non solo il concetto ma anche la sua specifica realizzazione nelle democrazie non sovietiche: falsificando non poco la storia, perché per decenni il comunismo italiano o francese puntò su una rivoluzione stile Urss, e non sulla democrazia dell'alternanza. Questa estrapolazione dell'idea in sé, tramutata in ideale immune da colpe, senza rapporto con la realtà, serve male la memoria rendendola rancorosa anziché condivisa.
Anche nell'antica indiana croce uncinata c'era un ideale: non umanistico - come giustamente sostiene Thomas Mann - ma di armonia cosmica, di abolizione dei terreni conflitti. Diversa era la congiunzione falce-martello, operai-contadini, ma anch'essa aveva il compito di redimere il mondo corrotto, finendo ogni conflitto. In questi simboli ci son dunque vizi d'origine non paragonabili, ma che conviene indagare con eguale rigore. Nelle idee stesse ci doveva essere qualcosa di marcio, se le cose scaturite da esse son tanto degenerate e se il loro simbolo risveglia incubi in uomini come il violoncellista Rostropovich. Neanche le idee sono assimilabili a Ragazzi: la realtà infetta anche loro, irrimediabilmente.
«L'idea era buona, solo si è mal realizzata». A mio parere le cose non stanno così: l'idea forse era insolente, smisurata, non pratica. L'idea del Bene si può scatenare, debordare gli argini, farsi intoccabile feticcio totalitario. Divenne tale fin da quando Saint-Just, propagandista del Terrore giacobino, disse davanti ai deputati, il 3 marzo 1794, nel momento in cui espropriava i possidenti: «La felicità è un'idea nuova in Europa!». Era già allora una felicità imposta con la lama della ghigliottina, nell'illusione di non contaminare l'idea con l'agire. E ancor oggi l'illusione riaffiora, in chi pensa di poter affastellare cadaveri e guerre in nome di una morale superiore della democrazia. Fare ammenda su fatti frammentari, e non criticare anche le idee (d'una nazione, d'un popolo, d'una razza, d'una classe eletti) corre facilmente il rischio di diventare «pura e semplice tecnica, volta a rendere possibile il delitto» anche nel futuro.

schizofrenia

Adnkronos Venerdì 11 Febbraio 2005, 19:32
Schizofrenia:
400 mila italiani malati, a Milano piano 'salva-giovani'


Milano, 11 feb. (Adnkronos Salute) - In cinque anni 120 giovani assistiti, maschi e femmine dai 17 ai 30 anni e con i primi sintomi di schizofrenia o a rischio di ammalarsi. Di questi, 74 sono ancora in cura. Mentre degli altri, il 98% di chi era sull'orlo della psicosi si è salvato: solo il 2% è passato in fase conclamata. Il 70% di chi ha terminato la terapia ha finito gli studi e i costi legati alle ricadute e ai ricoveri di chi aveva già avuto delle crisi si è ridotto del 90%. Questi i risultati preliminari del 'Programma 2000' promosso dall'ospedale Niguarda di Milano, il primo progetto italiano per l'intervento precoce contro la schizofrenia. La malattia, che rappresenta la forma più grave di psicosi, secondo le stime dell'Oms colpisce in tutto il mondo 45 milioni di persone, con 35 nuovi casi ogni 100 mila persone l'anno e costi sociali inferiori solo a quelli delle patologie cardiovascolari, ma superiori a quelli del cancro. In tutta Italia si calcolano 400 mila cittadini colpiti, con un numero di nuovi casi l'anno che in una città come Milano arriva a circa 200. Quanto alla Lombardia, delle 110 mila persone che ogni anno si rivolgono alle strutture psichiatriche, il 25% (circa 27.500) soffre di schizofrenia e 'assorbe' dal 70 al 90% dei fondi dedicati alla salute mentale. ''Più di un terzo del carico globale di malattia è prevenibile'', ha assicurato oggi a Milano il sottosegretario alla Salute, Antonio Guidi, intervenuto alla presentazione dei dati. Ma ''è una partita da giocare con tempestività, ai primi sintomi del disagio e con un'azione mirata e anti-stigma'', ha precisato il professor Angelo Cocchi, direttore del Dipartimento di Salute mentale di Niguarda. Secondo i dati lombardi, i maschi sono colpiti due volte in più delle femmine. Ma ''in base alla nostra esperienza - ha proseguito Cocchi - tra i due sessi non c'è alcuna differenza''. Le persone a rischio sono giovani ''che vanno aiutati ai primi campanelli d'allarme: umore depresso, insicurezza, ansia, perdita di energia, rallentamento, difficoltà di concentrazione e pensiero, isolamento, deliri e allucinazioni''. Ed ecco perché, insieme a famiglie, insegnanti, medici di base e pediatri di libera scelta, ''abbiamo costituito una rete di prevenzione secondaria in grado di segnalarci i casi sospetti. In quest'area di confine, infatti, possiamo ancora fare qualcosa per evitare la malattia e ridurre i costi diretti, ma anche quelli indiretti e intangibili, cioè la sofferenza di pazienti e famiglie''. L'equipe di Niguarda, presso il Centro psico-sociale di via Livigno, si attiva ''entro tre giorni dalla segnalazione - ha continuato l'esperto - con colloqui, psicoterapia, gruppi di controllo e problem solving, sostegno individuale e non, intervento sui familiari ed eventualmente farmaci''. Quest'anno ''abbiamo allestito anche una sala studio, con operatori che seguono i ragazzi''. A differenza dei servizi assistenziali standard, ''teniamo in carico i pazienti per cinque anni, invece che per tre, e li accogliamo in un ambiente in cui non entrano in contatto con casi estremi, così che non vedere come potrebbero diventare. E ancora. Facciamo prevenzione e non solo terapia, combattiamo lo stigma, infondiamo loro la speranza di poter guarire e non li isoliamo dal contesto sociale che li circonda''. E' ''un progetto unico in Italia - hanno ribadito i promotori - nato con una dimensione regionale, ma poi sviluppato come programma di rilievo nazionale, sostenuto dal ministero della Salute, oltre che dalla Regione Lombardia''. Una strategia partita nel 1999 dal Niguarda ''perché proprio il nostro ospedale - ha puntualizzato il direttore sanitario, Luca Munari - è la sede principale del Dipartimento regionale di Salute mentale''. Qui ''si respira un clima di grande ottimismo, il contesto ideale per aiutare questi malati'', ha ripreso Guidi, puntualizzando che ''proprio servizi come questo dimostrano che nel nostro Paese si può fare tantissimo anche per i pazienti psichiatrici più gravi'''. All'incontro sono intervenuti anche Antonio Mobilia, direttore generale dell'Asl Città di Milano; Arcadio Erlicher, primario del Dipartimento di Salute mentale del Niguarda; Eugenio Riva dellUrasam (Unione regionale associazioni per la salute mentale), e Lorenzo Petrovich, in rappresentanza della Regione Lombardia, sul cui territorio sono attivi 101 centri psico-sociali, 67 centri diurni (con 983 letti) e 56 reparti psichiatrici ospedalieri per ricoveri brevi (820 letti), per un totale di 4.334 operatori. (Opa/Adnkronos)

depressione e mobbing

Corriere della Sera 11.2.05
CRONACHE
Coinvolti un milione e mezzo di lavoratori: depressione e crisi di panico
«Troppe vittime». E il mobbing diventa reato
Disegno di legge in Senato: pene fino a 4 anni, sarà il datore di lavoro a dover dimostrare la propria innocenza
Margherita De Bac

ROMA - Non sono dei lavativi. Al contrario: persone attaccate al lavoro, talvolta ambiziose, con posizioni ragguardevoli. Funzionari di alto livello, dirigenti in carriera. Un bel giorno diventano bersaglio di angherie diaboliche, finalizzate ad emarginarli. Come se in azienda fosse scattata una congiura silenziosa. Perfino i colleghi, alla fine, sembrano guardarli con espressione derisoria. Si vedono costretti con un ordine di servizio a cambiare ufficio, traslocando da un luminoso ambiente con segretarie e frigobar ad uno sgabuzzino asfittico, ingombro di scrivanie. Anche le loro mansioni vengono mortificate. Da manager a passacarte, scalda-poltrona. E loro soffrono, si macerano dentro. Fino ad ammalarsi e ad aver bisogno di aiuto psicologico. Depressione, ansia, crisi di panico.

Mobbizzati. In Italia sono almeno 750 mila, il 4,2% dei dipendenti. Ma è una cifra sottostimata. Sarebbero un milione e mezzo. Per la prima volta il fenomeno è stato studiato dal punto di vista giuridico e scientifico in un dossier che verrà illustrato oggi in un convegno organizzato in Senato dal titolo «Mobbing oggi, dalla riflessione alla legge». Viene presentato il disegno di legge di iniziativa del senatore Luciano Magnalbò, An, avvocato, vicepresidente della Commissione Affari Costituzionali, che riunifica i numerosi testi bipartisan depositati in Parlamento.

Il mobbing assume la configurazione di reato. Chi lo attua rischia fino a 4 anni di carcere. Tra le novità, una serie di strumenti per la tutela delle vittime. E’ prevista, tra l’altro, l’inversione dell’onere probatorio (ma solo per quanto riguarda la tutela civilistica). Toccherà al datore di lavoro dimostrare di non aver voluto nuocere intenzionalmente. In caso di condanna, saranno annullati tutti gli atti che hanno messo all’angolo il malcapitato. L’articolo 8 chiarisce che le norme valgono anche per i dipendenti dei «partiti politici ed associazioni», gli unici ancora esposti a licenziamenti ingiustificati.

«Il quadro normativo attuale è insufficiente - dice Luciano Tamburro, giuslavorista, da tempo impegnato in questi processi -. Serviva una legge specifica perché siamo di fronte a un fenomeno dilagante. Le grandi aziende ricorrono a questo sistema per sfoltire il personale, specie dopo le fusioni societarie. Anziché licenziarli li convincono ad andarsene». In questo caso si parla di mobbing strategico, distinto da quello di «perversione», perpetrato per il gusto di veder soffrire. C’è chi sa resistere agli assalti ( to mob in inglese significa attaccare, accalcarsi attorno a qualcuno) e chi soccombe. In genere uomini, 50 anni, dirigenti di alto livello in ministeri, Asl e società private, con laute retribuzioni. «A soccombere sono i soggetti più motivati. Gente forte, solida, ma la loro dignità si sgretola sotto i colpi delle angherie - li descrive Francesco Bruno, criminologo -. Gli scansafatiche non si ammalano».